fototerapia n.1: "No TAV" foto di Stefano Snaidero


Indice

Pierpaolo AquilinoLa guerra
Aldo ArdettiLa terra profanata
Luca BaldiniFoglio di servizio n. 2.541
Marco BerrettiniVenerdì pesce
Stefano CarbiniRes Pubblica
(Er) Cavaliere neroInteriorità
Maria Chiara BiondiOscar
Luigi BrasiliC’era una volta
Stefano CardinaliUn inganno mediatico
Alessandra MR D’AgostinoAgnese
Federica De AngelisCaccia alle streghe
marcello de santisUn grano… una preghiera…
Bruno Di MarcoI’ll send an S.O.S to the world
Marco FerrariDis-Ordine
Fabio Brinchi GiustiIl cane
Antonio Marcio IorioNo Acerra, No Tav
King Of MisteryLo stato delle cose
Graziano LanzideiPrima foto
Francesca LulleriIncubo
Marisa MadoniniLa forza e la fortezza
Edoardo MicatiLe impronte
Faust Cornelius MobSiamo qua apposta
Matteo NinniMano calda
Mario OrlandiSanto subito
Daniela RindiInfelicità: complemento d’emozione
Annamaria TrevaleGente senza dio

 

 

La guerra
Pierpaolo Aquilino

In una foto ci possono essere molti significati, dettagli, particolari che il più delle volte sfuggono all’occhio umano, anche a quello più vigile.
Stavolta no, non ci si può fermare a un esame approssimativo. La foto è di quelle che fa riflettere, evoca temi tutt’altro che superficiali.
C’è la guerra.
Quando si vede una persona in tenuta antisommossa, seppure si tratti di un uomo che deve far rispettare l’ordine, non si può non pensare alla guerra, alla violenza. Quante volte il poliziotto allo stadio è armato di casco e scudo? Sarebbe una partita di calcio ma, spesso, è la guerra.
C’è l’idea di guerra, dunque, ma anche quella assai più nobile di pace.
Una donna impugna il crocefisso, immagine universale di pace, simbolo di chi nella fede trova la risposta ai mille problemi della vita.
Sta nell’antinomia guerra-pace, dunque, il significato preponderante della foto. Manca, però,il soggetto-oggetto principale, il vero motivo del contendere: da una parte i poliziotti, dall’altra la signora che nell’impugnare il crocefisso trova l’unica possibilità di difesa della propria terra. In mezzo c’è ma non si vede il treno.
Mezzo di locomozione che è incredibilmente connesso ai due temi principali della guerra e della pace.
Un treno può portare in guerra, trasportare materiale da guerra ma anche condurre ai preparativi per una guerra (pensiamo a Mussolini alla conferenza di Monaco nel 1938).
Un treno può portare anche la pace. E’ un treno di pace quello che ogni anno porta migliaia di persone a Lourdes così come fu un treno di pace quello che trasportò ad Assisi, città della pace per antonomasia, Papa Giovanni XXIII, primo Papa dalla Breccia di Porta Pia a lasciare Roma ma soprattutto il Pontefice della fratellanza dei popoli, delle aperture, della “carezza ai bambini” e dell’enciclica “Pacem in terris” la prima rivolta non ai soli credenti ma a tutti gli uomini di buona volontà.
Guerra, pace, treno termini distanti ma che rivivono come un unicum nelle proteste No-Tav degli abitanti della Val di Susa. Da una parte chi, anche con la guerra, vuole difendere la propria terra ma soprattutto la propria pace, dall’altra lo Stato, che attraverso il proprio apparato d’ordine cerca di realizzare i propositi (almeno teorici) di progresso e ammodernamento.
In mezzo….un treno, simbolo di pace ma anche di guerra.

 

 

La terra profanata
Aldo Ardetti

Si sentì come Giovanni nel deserto ma deserto non era: due eserciti opposti si fronteggiavano in maniera improvvisata e disordinata l’uno, in perfetto ordine - quasi a testuggine romana - l’altro.
Una cascata di urla entrava nel cervello come il boato di Gerico distrutta. Implorare non serviva: la sua voce era invisibile nell’apocalisse sonora. La sua presenza si materializzava per l’oggetto che accompagnava le sue rimostranze, quel Crocefisso che dal petto veniva alzato al cielo da un braccio stanco, ad aumentare il volume di una voce che sfinita soffocava tra le lacrime: se non avessero rispettato il suo corpo nonostante l’età, il Figlio di Dio avrebbe fatto riflettere gli uomini.
Chiamò in causa tutte le forze della Natura, tutti gli spiriti delle vittime della montagna; si appellò a tutte le religioni in un crescendo di implorazioni creando un miscuglio di Credo.
Nei valligiani e montanari gonfiava la furia; allora si avvicinò agli uomini fermi e ordinati, vestiti nello stesso modo, per cercare un dialogo e avere risposte alle sue domande. Nessuno esaudì la sua esigenza - pur roteando gli occhi verso di lei – quando, dalle retrovie, si fece largo e le si pose davanti quello che sembrava il più alto. Doveva essere il capo.
“Signora, la prego torni a casa. Questa non è una bella situazione per lei!”
“Qui si vuole profanare la montagna, ferire la terra. Non vogliamo che si deturpi il nostro territorio già avvelenato da chilometri di catrame.”
Al militare, che per l’apparente età poteva essere suo figlio, non era consentito fermarsi a conversare con i cittadini in una operazione del genere. Avrebbe voluto informare e convincere l’anziana donna dell’importanza di certe decisioni, dei pro e contro delle opere pubbliche - di quella grandiosa opera pubblica - ma, impegnato a mantenere l’ordine e dovendo mantenersi vigile per un eventuale ordine di intervento, volle terminare con una stringata ma sufficiente spiegazione:
"Anche i piccoli paesi sono stati raggiunti dall’elettricità, dal telefono e, molti, anche dal gas metano. Il problema è che vogliamo tutte le comodità ma non la tecnologia. Desideriamo una vita piacevole ma non accettiamo il progresso. Come è possibile? Anche la tecnologia deve essere trasportata.”

Si svegliò agitata tanto era verosimile lo sforzo, il dispendio di energie profuso nella REM.
“Allora è stato solo un sogno?” esclamò con un certo sollievo. Con movimenti lenti mise i piedi per terra. Si gettò addosso la vestaglia e, per svegliarsi completamente, prima di approntare la colazione accese la tivvù proprio nel momento in cui veniva trasmessa una edizione speciale del tiggì.
Quando apparve l’immagine rimase a bocca aperta: nel servizio giornalistico rivide quanto aveva vissuto nel sogno. In una inquadratura successiva si rivide davanti a quei militi: in una mano aveva un bastone, un rosario e il Crocifisso, nell’altra un fazzoletto per quelle lacrime che erano il segno della sconfitta. La terra sarebbe stata profanata, ferita, violata.

 

 

Foglio di servizio n. 2.541
Luca Baldini

Ma Eccellenza gliel'avremo detto chissà quante volte
Signora, non si può, Signora, non si può.
Però quella è sempre li, a provarci, a riprovarci.
Devo andare a Lourdes, devo andare a Lourdes.

Il referendum popolare l'aveva sancito e ormai era legge, erga omnes come amava dire il Premier, erga omnes e basta.
La TAV fa bene alla Nazione, serve e si può fare.
Finalmente!
C’erano stati un mucchio di ritardi sul programma dei lavori, buche, gallerie, valli, comunità, singoli, condomini.
Tutti comunque contro, per una montagna di pretesti: ecologici, ambientalisti, umanitari, culturali, acustici, politici e soprattutto per una manciata di appalti blindati, già dati a chi si doveva.
Fatto sta che alla fine hanno perso.
E fu proprio con quello che avevano sempre reclamato, il pronunciamento popolare, la democrazia dal basso.
Macchè!
Costò un botto, è vero, ma funzionò.
Ai favorevoli fu assicurato un carnet di cento viaggi frontiera - frontiera gratis.
Così il giorno del voto fu subito chiaro dopo i primi exit-poll: andava bene, anzi benissimo, si erano tutti votati al viaggio.
Per legge fu sancito l’inizio della grande opera e un emendamento, che si dice frutto di cooperazione bipartisan, stabilì che, come ristoro dei maggior costi sorti in virtù di tutta quell’ottusa opposizione, l’uso della nuova infrastruttura fosse per sempre inibito agli autori di tutti quei danni.
In poche parole: non l’hai voluta? Non la userai! Mai!
Li per li sorse un coro di ecchiccazzosenefrega!
Ma poi il sentirsi esclusi minò l’orgoglio e più o meno clandestinamente, per vedere, per sapere, per provare, qualcuno degli oppositori incominciava a salire sul predellino del velocissimo treno che tra Lione e Torino metteva neanche il tempo di un paio d’ore.
La cosa non poteva mica passare in cavalleria.
E così tutte le sante mattine dobbiamo venire a fare cordone intorno alla stazione per impedire di salire a chi votò contro.
E’ intollerabile!
esclamò sua Eccellenza,
sulle foto, sui giornali, pure nei concorsi di scrittori da strapazzo.
Non si devono avvicinare, e meno che mai quegli appecoronati dei fotografi.
Provvedete.
Si Eccellenza, sarà fatto.
Però guardi quella li non la sopportiamo più Eccellenza.
Tutte le sante mattine che dio ci manda quella viene a lacrimare con il crocefisso in mano e il moccio al naso.
Devo andare a Lourdes, devo andare a Lourdes
Signore non ce la facciamo più; o le diamo un carnet o la ammazziamo.

Cadde un silenzio spesso, opaco e lungo.
Sua Eccelenza sentenziò: Provvedete, la legge è legge.

 

 

Venerdì pesce
Marco Berrettini

Sono passati migliaia di anni e sono un po’ confuso, le lingue si intersecano creando bave umoristiche e neologismi isterici, ma troppi equivoci mi sembrano voluti.

Li ho visti, domenica, molti di quei volti a casa mia.
Non avevano caschi, né pistole, qualche manganello forse era rimasto in cuore, ma piccole donne bionde stringevano gaie quei guanti neri.
Le ho sentite le tue preghiere insistenti oh …come ti chiami…Teresa?
Scusa, non so, sono proprio andato, un tempo ricordavo tutti i vostri nomi, ma ora l’universo si è rivoltato; sarà l’effetto serra o l’eccesso di solfiti nei prosciutti, sarà che su NGC4414, come la chiamate voi, non riesco più a farli ragionare, sarà che quel pezzo umano che mi porto dentro sta diventando il mio tallone, sarà.
Li ho guardati a lungo quei ragazzi con creste altissime e palline di metallo negli archi ciliari.
Lo so che non credono, ma conoscono il martirio.
Lo so che sto facendo confusione, ma secondo voi mi cambia tanto che sia Milano o Napoli o Avigliana?
Devo pensare a tutto e anche di più e sarà anche illogico, ma non ne posso più, sarà.
E ieri, giovedì, mi trovo ancora a dover badare anche alla signora.
Lei in tuta blu antisommossa avanza, transenna, vuole riempir la fossa, svuotare l’area, respingere i fratelli, gli ordini son quelli. Sono di quelli, sarà…
Anita si barrica in libreria e piange e strilla, i tram non passano, i mercanti calpestano carciofi.
Voci, dilemmi, sindaci furiosi.
La brava gente e il delinquente e quello che passa e non gliene frega niente e il fotografo e il cantore e l’inviata e il professore e la politica e la camorra e gli spacciatori e il buttafuori e chi piscia sui muri.
Cox18, Lampedusa, Pianura, Val di Susa.
Sono stanco, che ci pensi Allah a questa gente qua, che se ne occupi Giove, governo ladro e piove, Deimo e Fobo si danno da fare, a me lasciatemi stare.
Renenutet, a lavorare, Inti scaldali tutti che se ne vanno al mare e Usoo sceglierà chi dovrà annegare.
Pulviscolo umano, tanto io poi vi amo, ma per favore Teresa, è venerdì, volevo la pasta con le sarde ora portami via.
Ho chiesto un po’ di sgombro e qui c’è la polizia.

 

 

Res Publica
Stefano Carbini

Marco rabbrividì nell'aria fredda e umida: da troppo tempo stavano lì fermi, nascosti dagli alberi ai margini della radura. Avevano lasciato il campo all'alba e marciato in salita lungo uno stretto sentiero fino a giungere su quel tratto pianeggiante, disponendosi man mano su più file.
Dal villaggio oltre la distesa d'erba provenivano i rumori di una normale giornata di lavoro, con le grida dei bambini più piccoli già in strada a giocare.
Quando l'ordine di muoversi si diffuse lungo le fila passando di bocca in bocca, Marco sollevò lo scudo, grande, rettangolare e ricurvo, di legno pesante, quasi senza sforzo. Un raggio di sole intrufolatosi tra le nubi e poi tra i rami ne colpì la superficie e, per un attimo, le saette di bronzo risplendettero animandosi come folgori vere.
La prima fila si mosse; Marco strinse forte l'asta del giavellotto, la mascella contratta per la tensione, e la seguì. Poche interminabili ore e del villaggio barbaro sarebbero rimaste solo rovine, per la sicurezza della Repubblica e la gloria di Roma.

- Marco! Marcoooo! Ma che fai, dormi? Tira su quell'affare!
Marco si scosse e automaticamente tirò su il braccio sollevando lo scudo, grande, rettangolare e ricurvo, di plastica trasparente, fin davanti agli occhi, mentre il collega di fianco lo scrutava sospettoso.
Un ordine e il reparto di carabinieri in tenuta nera antisommossa si compattò, scudo contro scudo, schiacciandoli; dopodiché tutti insieme presero a spostarsi di lato e poi in avanti come un'onda di petrolio che sta per abbattersi, lenta e pesante, su una spiaggia incontaminata.
Il senso di già visto che lo aveva preso svanì e Marco reagì stringendo forte l'impugnatura dello sfollagente e guardandosi intorno nervoso, pronto a opporsi a qualsiasi minaccia.
Ma stavolta che minaccia poteva mai costituire quella folla lì davanti?
Dalla prima fila poteva vedere bene le persone radunate nella spianata. Saranno state sì e no un centinaio, quasi tutte anziane, raccolte nei paesini delle valli lì intorno e portate lassù a protestare; tre pullman in tutto.
C'erano curiosi, fotografi e giornalisti ad assistere alla singolare protesta di quella gente di montagna, anziana, spaventata e allo stesso tempo determinata.
La decisione del governo di chiudere i piccoli, antieconomici, cimiteri dei tanti paesini sparsi perlopiù là tra i monti li aveva fatti sentire defraudati di ciò che mai avrebbero creduto potesse essere loro tolto, tanto da spingerli in piazza.
Guardandoli, Marco si chiese se anche i suoi nonni fossero in piazza a piangere e protestare, però non riuscì a chiedersi cosa ci facesse lui lì. Lui che come suo padre, e via indietro nel tempo, fino a perdersi in un limpido déjà vu, tutti erano sempre stati braccio di qualcun altro.
Una voce perentoria gonfiò l'onda di catrame, la spinse in avanti e lasciò che si abbattesse sulla ghiaia del piazzale spargendosi tra la gente. Si alzarono grida acute e ci sarebbe stato un fuggi fuggi generale se l'età media fosse stata un'altra; invece la reazione fu diversa e inaspettata. Decine di anziani alzarono le braccia rinsecchite e poi le calarono, armate dei loro bastoni, sulle figure nere, prive di forza, ma cariche del disprezzo che solo i vecchi sanno esprimere.
Marco riuscì a parare i colpi di una vecchietta colma di rosari che gli ricordava sua nonna e non sapendo come reagire, ripiegò insieme a tutto il reparto.
Quella spianata assisteva di nuovo a una sconfitta e una vittoria, e forse, stavolta, veramente a difesa della res publica.

 

 

Interiorità
Er Cavaliere nero

Eccola...è lei....Mi tormenta anche la notte e quando meno te lo aspetti si affaccia ti manda un segnale, forte chiaro, che a malapena riesci a mantenere. Una contrazione mi avverte che è vicina. Provo a mettermi in maniera diversa ma non è la mia posizione naturale, allora mi rigiro nella posizione di prima. Mi sento meglio, lo sguardo si assottiglia, diventa 16:9 fino a farsi il puntino come quando si spegne la tv.ZZZZ ZZZZ Zzzzz. Ma, no cazzo, ancora lei, torna prepotente e più forte di prima producendo ancora una contrazione, ma è maggiore e provoca una certa tensione che una volta ancora riesco a controllare con concentrazione degna di un giocatore di scacchi. Basta. Devo riposare le mie povere ossa, domani sarà una giornata molto importante ed anche se l'età non è così verde, devo e voglio esserci. Speriamo solo che questa fastidiosa compagna mi lasci in pace per tutto il tempo della manifestazione. Sì, domani si sfilerà per non permettere la costruzione della TAV ed io voglio essere in prima fila per gridare con tutta la forza che ho...NO!! La nottata sfila via ed arriva prepotentemente il giorno. La giornata sembra buona, voglio mettermi un abbigliamento comodo e quel fantasioso foulard che mi regalò il mio povero Elvezio per Natale, era il 1995 e questa valle, per cui oggi io andrò a manifestare, era ricoperta di una bellissima coltre di neve mentre ci recavamo alla Santa Messa di mezzogiorno. Io e Elvezio siamo sempre stati molto devoti, non perdevamo mai la messa della domenica e se per vari motivi dovevamo rinunciarci, si pregava davanti ad un crocefisso che lo stesso Elvezio aveva costruito. Si, porterò con me anche quella croce. Ops, la mia compagna di sempre mi avvisa di esserci anche lei, non mi fido, provo a liberarmene ma nulla da fare, speriamo stia tranquilla in disparte. Arrivo presto al presidio, mi metto davanti al corteo, la gente si compatta di fronte allo spiegamento delle forze dell'ordine in atteggiamento anti sommossa in maniera educata e responsabile. Erano stati chiari gli organizzatori: “Gente, mi raccomando, evitiamo scontri, noi siamo persone per bene che vogliono esprimere il proprio dissenso”. Che emozione, forse è l'ultima cosa che farò per la mia valle e ne sono fiera, ci starebbe bene anche una lacrimuccia. Questo momento di debolezza mi fa abbassare la guardia e la mia infida compagna, tenta di organizzarsi anche lei, una contrazione violenta percuote il mio ventre e mi fa capire che ne ha abbastanza di camminate e urli contro il governo e i suoi ministri e mentre i carabinieri alzano gli scudi io mi arrendo a lei e tento un ultimo disperato tentativo di non far del male ai manifestanti...mi giro.....carico.....e nella valle echeggia una forte inconfondibile e portentosa ...scorreggia!!!!!! Click, passa un fotografo, immortala la scena ma non può fare a meno di commentare ”Mai sentita una protesta così”.

 

 

Oscar
Maria Chiara Biondi

“Anche questa sera mi tocca lavorare” pensò Oscar infilandosi la divisa da carabiniere.
Una frittata con le cipolle, un bicchiere di vino rosso che aveva macchiato tutta la tovaglia e via a fare il turno di notte sulla volante, otto sere al mese, per tutto l’anno.
“Ma proprio questo mestiere sottopagato dovevo fare? Troppi film ho visto da ragazzino, con i cattivi da una parte e i buoni che vincono sempre dall’altra. Dedicare la vita a salvare la gente, arrestare malviventi e proteggere il mondo con la mia bella divisa e la mia pistola lucida. E invece sono finito a girare sopra questa volante con un collega rimbecillito e la noia che mi divora. E questa sera la divisa si è pure unta di olio e la pistola è sempre piena di ruggine.”
Uscì di fretta dal portone dopo aver dato il solito bacio distratto alla moglie già in vestaglia e ciabatte e un buffetto sulla guancia a quella peste di Vincenzino, il figlio di 8 anni.
La pancia gli doleva, la frittata era pesante da digerire e aveva voglia di dormire.
Viveva in un paesino dell’Emilia Romagna, alle pendici degli appennini dove non succedeva mai niente. Tutto funzionava, pochi extracomunitari, tutti che pagavano le tasse. Scuole perfette, uffici efficienti, gente per bene e gran lavoratori.
Ma non quella sera………
Alle due di notte l’auto procedeva con un ritmo lento e rilassato, come una coppia di innamorati senza fretta di tornare a casa. Imboccò Vicolo della Pace, una stradina tranquilla non molto distante dal centro. Era il solito giro, quello che lui e Tonio facevano tutte le volte e che li riportava al punto di partenza. Sembrava quasi fossero su due binari. All’improvviso un uomo, con i vestiti strappati gli si materializzò davanti. Era coperto di sangue e zoppicava.
Frenarono immediatamente, mentre Tonio smontava per primo e tirava fuori la pistola. Oscar scese pochi istanti dopo, lasciando l’auto in mezzo alla strada. Si piazzarono dietro le due portiere, come nei film americani.
“Eccitante” ebbe quasi la forza di pensare Oscar, prima di accorgersi che era un imboscata.
Tre uomini con il passamontagna sul volto apparvero alle loro spalle, in silenzio, come dei gatti.
Tonio sparò un colpo in aria ma uno dei tre mascherati lo colpì forte in testa facendogli perdere i sensi. Oscar urlò il nome del compagno ma oramai era troppo tardi. Un proiettile gli attraversò il petto e gli si incastrò fra le costole, proprio all’altezza del cuore. Fu questione di un attimo. Sentì odore di bruciato, di carne abbrustolita, di morte. Vide suo figlio che dormiva, sua moglie nel loro letto caldo e un dolore più forte di quello del proiettile gli tolse l’aria e gli appannò la vista.
Poi più niente, tranne la morte che ti porta via e un rigagnolo di sangue che scorreva fra i ciottoli anneriti dalla notte.

 

 

C’era una volta
Luigi Brasili

C'era una volta un'anziana donna che s'incurvava lungo un pendio, il vento bagnato a frustarle la gonna.

Lenta arrancava salendo a tentoni, la sciarpa di lana annodata in un cappio, il cuore rigonfio d'antiche emozioni.

E in basso la valle, lontana e nebbiosa, spazzata da lampi che il cielo non vede, straziata dall'urla di gente furiosa.

Saliva a fatica la ripida strada, senza voltarsi, e nemmeno pensare, ché solo alla casa voleva tornare.

Un vento nemico le sferzava la carne, un vento ch'è nero, e nere le forme.

E in alto le case, lontane e nebbiose, spazzate da lampi che il cielo non vede, straziate dal gelo, da bestie furiose.

Cortina di fumo la vide cadere, rialzarsi e cadere, fin quando riprese decisa a passare.

Ma giunta alla meta, ricadde spezzata, trovò solo ombre, e macerie di bombe.

E pianse sgomenta nell'orrida luce, la bocca distorta in fantasmi di voce.

Rimase in silenzio, fin quando fu notte, lontana da tutto, col gelo nel petto.

S'alzò solo all'alba d'un sole impaurito, negli occhi la brace, nel pugno una croce.

C'era una volta, e forse c'è ancora, un'ombra di donna, e un vento di sangue a inzupparle la gonna.

 

 

Un inganno mediatico
Stefano Cardinali

   Voglio raccontarvi che cosa accadde realmente quel giorno perché le immagini spesso mistificano la realtà mostrandola parzialmente, come avviene in televisione e come è successo con quella foto che quasi tutti i giornali hanno pubblicato. Io c'ero e posso dirvi che quella donna è una iena! Voi l'avete vista ritratta in lacrime, una pia devota al Signore: non lasciatevi ingannare, quella femmina è una belva! Avete notato, oltre al crocefisso e al rosario, cosa stringe in mano? No, non il fazzoletto, intendo dire nell'altra mano. È un bastone quello che si intravede e ha la parte inferiore insanguinata. Lo so che nella foto quella parte non è inquadrata, è per questo che vi dico che le immagini strumentalizzano la verità mostrandone solo una parte. Io c'ero e so con assoluta certezza come, pochi istanti prima, quello che è lecito immaginare come il solido sostegno per un'anziana signora, fosse stato usato per procurare dolore. A me, il suo amante.
   Lei è Olga, la conosco da quaranta anni e fino a qualche istante prima eravamo in casa mia a fare sesso.
   Come ogni primo martedì del mese.
   All'inizio i nostri incontri erano molto più frequenti, anche dieci volte al mese poi, con l'età e con gli acciacchi, abbiamo diradato. Adesso ci vediamo una volta al mese. Il primo martedì, appunto.
   Quella vecchia è una macchina erotica sempre pronta a nuovi giochi con l'unico vezzo di non volersi spogliare mai, o meglio, solo il minimo indispensabile. Lo avreste creduto possibile? Lo dicevo io che le fotografie non raccontano la realtà! Semmai la fanno immaginare e solo di rado si intuisce la verità.
   Lo so, adesso penserete che il bastone sia servito ai nostri piaceri. Non come immaginate voi! Lei davvero lo usa come sostegno da quando si ruppe il femore perdendo l'equilibrio durante una delle nostre posizioni estreme. Passarono tre mesi tra operazione, gesso e rieducazione ed era pronta, come nuova. Beh, non proprio come nuova, diciamo che certe figure non avevano più l'elasticità di prima e altre avevano bisogno dell'ausilio di quel pezzo di legno. Erano proprio quelle movenze barcollanti a dare ai nostri amplessi la carica che ci mancava da tempo. Quel bastone è diventato insostituibile nella nostra attività sessuale, è per questo che non mi aspettavo che lo usasse contro di me quando le ho chiesto di mostrarmi le tette, perché saranno anche quaranta anni che trombiamo, ma lei, davanti a me, non si è mai spogliata. Avrò il diritto di chiederglielo dopo tanto tempo? E invece no, si è scagliata contro la mia testa con quel randello. Ho cercato di reagire ma la sua foga si è moltiplicata! Soltanto quando ho finto di perdere i sensi ha smesso di colpirmi. Con gli occhi socchiusi l'ho vista riabbassarsi la gonna cercando di darsi un contegno. L'ho sentita blaterare che ero un porco e che non meritavo di avere in casa certi simboli religiosi. Ha staccato il crocefisso dal muro, si è riempita le tasche con i miei santini e, trovato il rosario, è uscita. Barcollando mi sono rialzato e dalla finestra l'ho vista disperdersi tra la folla manifestante. Ora eccola lì, su quasi tutte le prime pagine delle testate nazionali, simbolo di una protesta pacifica maltrattata dalle forze dell'ordine.
   Non lasciatevi imbrogliare: il suo pianto non è dovuto ai gas o ai sensi di colpa per avermi bastonato. Io la conosco bene e quelle lacrime sono frutto della sua sinusite cronica. Un castigo minimo per avermi colpito a sangue. Proprio a me, il suo parroco.

 

 

Agnese
Alessandra MR D’Agostino

Il rumore adesso si è attutito. Quello nella testa dico.
Mentre lei è sempre lì, a far da scudo in qualche modo. Ad evitare che vengano avanti, i bastardi. A spiegar loro con il pianto che non si ferma e continua a scendere dagli occhi che qui siamo nati noi e qui loro non c’entrano niente, proprio niente cazzo, loro con le loro dannate divise scure da beccamorti e i loro arnesi lucidi e cattivi. E invece niente, Agnese non c’è verso che la ascoltino.
Levati, vecchia! Spostati o ne avrai anche tu!
Così lei gli dà le spalle, finalmente, purtroppo, in segno di sconfitta, mentre mi guarda. Agnese guarda me che il rumore nella testa, ora, mi si è attutito.
Agnese, ti difenderei io da quei bastardi! Se solo non avessi sempre questo fastidioso ronzio che si espande senza senso dalla fronte agli occhi alle orecchie alle mani alle gambe alla lingua facendola incespicare.
Agnese!, cerco di urlare con tutta la voce che non ho più.
Agnese!, provo ancora, più forte, cercando di alzare la mano che però non si alza.
Lei adesso mi guarda ancora più attentamente, come se davvero avesse potuto udire. Porta l’indice alle labbra, come per dirmi di tacere. Poi si sistema meglio la sciarpa attorno al collo e la cuffia di lana grigia e infiltrita.
Vattene, vecchia, e spostati!
Voi non c’entrate niente con qui dove noi siamo nati. Voi non c’entrate proprio niente.

 

 

Caccia alle streghe
Federica De Angelis

Era una notte senza luna. Il silenzio avvolgeva pesantemente ogni ramo, ogni pianta. Tutto sembrava riposare e immergersi nell’atmosfera liquida creata dall’umidità che si alzava dalle felci, dai ciclamini. D’un tratto il vento iniziò a soffiare impetuoso e a lamentarsi tra le fronde degli alberi secolari. Sibilava, s’insinuava, sfiorava le foglie in una danza sensuale e mortifera. Come risvegliati dal sonno pacato del bosco, i gufi e le civette iniziarono a lanciare il loro richiamo, alternandosi nel canto di un triste presagio. Un rintocco lontano annunciava la mezzanotte: l’ora delle streghe. Nella radura della valle, cinta dal bosco, iniziavano ad arrivare ombre silenziose. Spuntavano dai quattro punti cardinali come vermi da gallerie scavate nel ventre della terra. Religiosamente, eseguivano passi di un rito pagano. Marco, appostato sulla collina, non riusciva a distinguere se si trattasse di uomini, donne o entrambi. Abbracciò il suo fucile per farsi coraggio mentre un lampo di terrore gli attraversò gli occhi strabuzzati all’inverosimile nello sforzo di distinguere quelle sagome al buio. Un brivido gli percorse la schiena quando sentì una mano toccargli la spalla. In una frazione di secondo riuscì a rilasciare il respiro che si accorse stava trattenendo da quando era arrivato. Erano arrivati i rinforzi. Questa notte li avrebbero fermati, non ci sarebbe stato più spazio per l’incertezza e la Legge avrebbe trionfato. Si distese sulla pancia e si mise in posizione. Attraverso il mirino a infrarossi riusciva a distinguere nettamente i contorni delle figure che si avvicendavano al centro della radura. Erano davvero tanti. Tutti vestiti di scuro con mantelli e cappucci.
Irriconoscibili. Ognuno portava qualcosa, brandiva un bastone, una bandiera, altri portavano doni, fiaschi di vino, cibarie e ripetevano mantra incomprensibili a quella distanza. D’un tratto una luce squarciò il buio. Al centro della radura avevano acceso un fuoco, ad uno ad uno i partecipanti del sabba infernale si avvicinavano, e perpetravano il malefico rito: giunti davanti al fuoco posavano un ciocco di legno a terra; presto si formò un’alta catasta che l’assistente del Gran Cerimoniere utilizzava per alimentare il fuoco. Erano tanti non si riusciva a contarli. Dal mirino del suo fucile Marco ne fissava i volti, gli sguardi erano impassibili, tristi, tirati. Poi il Gran Cerimoniere diede inizio al Sabba. Scorrevano fiumi di vino e diedero inizio alle danze. Ballavano tutti, nella promiscuità dei fumi, dei corpi e del vino. Solo allora si scorsero delle piccole figure, anche alcuni bambini partecipavano ilari e ignari ai riti sacrificali. S’innalzavano grida pagane che bestemmiavano la Legge e apostrofavano i governanti, alcuni si percuotevano il petto, altri chiedevano l’aiuto soprannaturale. Così tutta la notte fino all’alba. Fino a quel giorno. Prima dell’alba Marco ricevette il segnale. Corsero giù nella radura a centinaia per cercare di disperdere i sacrileghi rivoltosi. L’ordine era chiaro: fare del male. Solo col sangue si sarebbe potuto lavare la blasfemità di quelle riunioni. Si narra che ogni notte per mesi, strani riti si fossero svolti fino all’alba nelle Valli del Piemonte. Qualcuno come Marco, che una di quelle notti c’era stato, dice che i partecipanti visti da vicino, fossero brava gente come lui, non fossero invasati ma amanti della terra e dei loro paesi, dei resistenti. Ma si sa che spesso ci piace pensare il bene per esorcizzare le nostre paure.

 

 

Un grano… una preghiera…
marcello de santis

   Ci si è trovata per caso, in mezzo a quel casino.
   E adesso non gli resta che una fuga precipitosa per quanto glie lo consenta il passo appesantito dalla sua persona, resa grossa da un carico d’anni e d’affanni.    E un fazzoletto agli occhi bagnato di lacrime.
   I vestiti che ha indosso sono le sole cose che gli restano. La casa, laggiù è stata presa d’assalto e occupata da due bande rivali di giovinastri della peggiore specie che dimostrano con la violenza contro non si sa cosa; per cause che lei non sa.
   All’incursione dei balordi è uscita fuori, dopo essere stata strattonata e gettata a terra, mentre quelli se le suonavano con pugni calci e spranghe; e bombe molotof tra le mani.
   Due le hanno anche scagliate e subito un principio d’incendio si è levato ed ha attaccato immediatamente tutte le misere cose dell’unica stanza. Poi non ha visto più niente per il fumo per il caos e per la confusione e le invettive che si sputavano addosso quei facinorosi.
   Ha potuto strappare alla parete solo una croce di legno, con un cristo in vario che piange lacrime di sangue.
   Come le sue.
   Quella croce che ha pregato nei momenti difficili e che, lei lo sa, l’ha sempre protetta, lei sola dopo la morte del marito e dell’unica figlia, che se ne andata ancora giovane, da malattie e difficoltà esistenziali; che non sono state poche.
   Alle spalle la insegue a passi brevi e cadenzati una testuggine di forze dell’ordine che incalzano chiunque e qualunque cosa si trovino di-nanzi ad ostacolare la loro avanzata, con gli scudi a ripararsi da eventuali controffensive fatte di sassi e altro.
   L’aria è cupa sotto un cielo di piombo, e le divise da guerriglia dei carabinieri non contribuiscono certo a rasserenare l’aria.
   I militi non ce l’hanno con lei, che s’è trovata per caso là, ma tentano di respingere quella massa impazzita che da qualche ora sta massacrando tutto ciò che si trova intorno.
   La povera donna ha cercato in ogni modo di portarsi fuori dalla mischia ma si è subito resa conto che la cosa si mostrava difficile, trovandosi la strada sbarrata da ogni parte; dietro i soldati che incalzano metodicamente e decisi a non fare passi indietro, davanti la marmaglia di manifestanti che lancia pietre a più non posso ora retrocedendo ora avanzando davanti allo schieramento della truppa schierata in formazione d’attacco.

   Fa freddo, un freddo cane; e il bianco copricapo di lana che le copre la testa e scende fin sopra le orecchie non è sufficiente a difenderla dal freddo pungente che taglia il viso; che ha arrossato e ghiacciato persino qualche lacrima che non ha potuto trattenere.

   Indosso la povera donna è ben coperta; una sciarpa le avvolge il collo e le copre la schiena; ma qui è altro il freddo che la ferisce; è il freddo della paura che spinge i passi chiodati chiudendole ogni via per uscire dalla inaspettata follia che l’ha sorpresa mentre davanti ai fornelli preparava la polenta per il pranzo e la cena di oggi e di domani.
   Ha lasciato - dentro il calderone - il matterello col quale girava la farina gialla per non farla aggrumare nell’acqua.
   E nell’inferno che si è scatenato dentro quelle quattro mura annerite dal fumo e dalla grama vita, ha avuto solo il tempo di staccare il crocifisso che adesso si tiene davanti a scacciare quella specie collettiva di satana redivivo, e la corona del rosario di perline bianche, che non ricorda più - nei fremiti di terrore che ha negli occhi e nel cuore - quante volte ha snocciolato: un grano una preghiera, un grano una preghiera...

 

 

I’ll send an S.O.S to the world
Bruno Di Marco

Con gli occhi cisposi ciabatto per casa. Erano le tre, stanotte, serata alcolica, di quelle di una volta. Cattivo sapore in bocca e cattivo umore. Mi sento prigioniero della mia testa. Evadere, come? Accendo il pc, un giro su FB magari aiuta. Che fa il mondo? Post vari, tentativi di umorismo abortiti, grida di dolore, appelli sessuomaniaci travestiti da intellettualismi ritorti, …
   ”…I’ll send an S.O.S to the world,
   I’ll send an S.O.S to the world …”

E questa?
Strana foto con invito/provocazione:”cos’è?”
dunque, immagine di una serie di macchie di luce oblunghe tante, quasi una texture... come quegli strani giochi di luce che i raggi di sole, filtrando attraverso la serranda, facevano sulle tende in camera di mia madre. Li guardavo incantato, nascosto sotto il letto, mia madre mi chiamava: “andiamo da zia”. Non ci volevo andare, mi offriva sempre l'orzata e guai a rifiutarla, la zia si offendeva. Venivo costretto a trangugiare quella roba bianca e viscida nel suo piccolo giardino, seduto tra vasi su cui, con una poltiglia bianca, erano incollati conchiglie di varie forme - chissà dove li trovava – e cercavo di distrarmi fissando le ginocchia sbucciate di quel bambino di cinque anni che ero.
E quest’altra foto?
Allora … questa è Mariapierina, una vecchietta molto pia. Quando ha visto tutta quella gente incamminarsi tutti insieme, ha pensato che fosse una processione, magari un po’ strana. Meglio chiedere all’Adalgisa, la vicina, che è una che ha studiato, sa leggere e scrivere. E quella, la vicina le ha detto che si, era una processione, anche se diversa, ma oggigiorno i giovani che si avvicinano alla religione inventano nuovi modi per stare insieme e professare la fede, una volta li ha visti suonare la chitarra in chiesa. Lei adora stare insieme ai giovani anche se non sempre li capisce. E le due amiche, con un crocefisso in mano ognuna, hanno cominciato a camminare insieme a quella gente. La Mariapierina, intanto guardava intorno a sé rapita e chiedeva all’Adalgisa. Questa elaborava le impressioni comunicate dall’amica e forniva la risposta.
- “NO TAV c’è scritto sui cartelli!” chiede Mariapierina. Per l’Adalgisa deve essere qualche iscrizione tipo INRI, che non si ricorda bene che vuol dire, ma era sicuramente religiosa, prova ad indovinare
- “Forse … forse … Nuovo … Ordine … Talare ... Avanti Vescovo!”
- “E che vuol dire?”
- “Non lo so! Ma quando non si capisce basta la fede”
- “Ah, giusto!”
La folla festante si incontra con un altro gruppo tutto vestito di nero con scudi e manganelli che avanza in direzione opposta.
- “E questi chi sono?” ha chiesto Mariapierina,
- “Vediamo – ha detto l’Adalgisa, alzando un po’ gli occhiali per mettere meglio a fuoco - ma si, questi in nero sono i flagellanti”
- “Flagellanti?”
- “Ma si, quelli che si picchiano da soli per dimostrare il loro amore per il Signore”
- “Ma sei sicura? Mi pare che questi invece stanno prendendo a bastonate gli altri”
- “Ma non capisci proprie niente. Lo fanno per aiutarli a pentirsi, ad esorcizzare i loro peccati. Quelli in nero sono troppo buoni, invece di purificarsi loro, preferiscono purificare gli altri!
Che generosità d’animo!”
E Mariapierina è commossa, gli atti di bontà disinteressata le hanno sempre fatto versare lacrime e anche stavolta non si smentisce.
Intanto mi è passato il cattivo umore.
   “… I hope that someone gets my,
   I hope that someone gets my,
   I hope that someone gets my,
   message in a bottle, yeah...”

 

 

D i s – O r d i n e
Marco Ferrari

   Uscito dalla palestra, s’intrattenne nel bar della caserma a fare due chiacchiere con i colleghi.
“Cosa sapete voi del casino che ci sta a San Michele?”
“Io so che c’è una mezza rivolta e che hanno mandato all’ospedale una dozzina di celerini.”
“Ieri sera in TV hanno fatto vedere che preparavano delle barricate legando i cassonetti tra di loro con delle catene e stendendo del filo spinato per forare le gomme dei mezzi.”
“Ma che fai, guardi i programmi di quei comunisti di merda? Il comandante ripete sempre che dobbiamo tenere il cervello sgombro dalle intossicazioni dei giornali e delle televisioni. Per fare il nostro mestiere si deve agire senza troppi grilli per la testa.”
“Va be’, pure io mi sono visto l’intervista a due tipi, uno col passamontagna e uno col casco, già esperti di guerriglia da stadio, che lanciavano dei proclami minacciosi.”
“Sì, ma qual è il problema? Non ho capito con chi ce l’hanno?”
“Non si capiva bene. Pensa che ‘sti infami mettevano in testa al gruppo donne vecchi e bambini!”
“Chi si mescola ai delinquenti, come fa a sperare che noi facciamo delle distinzioni? Quando si parte non possiamo guardare in faccia a nessuno.”

   La nipote della vicina s’era ammalata e i medici avevano dato la colpa all’acqua. Ogni famiglia in paese aveva un caro al cimitero, passato da un calvario simile. I rubinetti vomitavano liquidi grigi e marrognoli, le radici degli alberi e degli ortaggi attingevano da falde inquinate, il bestiame ruminava la morte strappandola a morsi dal terreno.
   Suo figlio se n’era andato a Roma a fare il militare e non era più tornato: aveva fatto la firma, s’era fatto una famiglia e a casa si faceva vedere solo alle feste comandate. Da quando era morto il suo Mario, nonna Giulia s’era rifugiata nel misticismo. Una vita cadenzata da gesti semplici, tra la messa delle sette a quella delle diciotto.
   Anziché bonificare il territorio dopo decenni di inquinamento, il progetto di costruire un nuovo mostro a duemila passi dalla piazza, aveva scosso tutto il paese. Gli stessi dottori in giacca e cravatta che già avevano certificato che le falde erano sane e che i decessi di pecore, persone e bufale rientravano statisticamente nella media regionale e gli stessi corrotti amministratori invocavano all’unisono la necessità dell’opera.
   Giulia ne parlò con il suo Dio e decisero insieme che quella cosa non andava fatta. L’ultimo suo sogno era che uno dei nipoti sarebbe tornato a vivere in paese, magari cogliendo l’occasione dell’eredità della casa. Nessuno sarebbe andato a vivere in un posto avvelenato e neanche lei avrebbe desiderato fargli patire una simile condanna. Avrebbe lottato.

   Si presentò al raduno sulla strada provinciale brandendo la sua arma più potente: il crocifisso. C’era schierato veramente tutto il paese, persino i morti. In prima fila le donne e i bambini tenevano alte le fotografie dei loro parenti finiti dalla diossina e dagli altri veleni.
   Giulia si avvicinò allo schieramento dei tutori dell’ordine. Cercò tra quell’accozzaglia compatta di scudi, caschi, scarponi e ginocchiere, gli occhi di questi ragazzi per raccontargli la sua storia. Ma quegli occhi erano fissi, come quelli di una bambola.
“Mio figlio sta a Roma, è un carabiniere come voi, è un maresciallo. Si chiama…”
   Le sue parole furono interrotte dall’ordine di attaccare. L’ondata di violenza la sfiorò solamente, protetta dal Salvatore come per miracolo. Restò ferma, lì con le sue lacrime e il suo sogno perduto.

 

 

Il cane
Fabio Brinchi Giusti

“Wow! Wow!”…ma perché abbaio e scondizolo…in questa circostanza non mi sembra proprio il caso, però io non so far altro. Gli uomini pensano che è un gesto di gioia, ma che gioia e gioia io voglio compatire la mia padrona che sta piangendo, sembra così triste e addolorata, con quel crocifisso e quel rosario fra le mani…che il Signore la consoli…e bravo cane che sono! Tiro in ballo Dio quando dovrei consolarla io…darle un po’ di gioia e di serenità, ma come faccio? Come faccio? Le sto saltellando intorno (Wow! Wow!) e lei non mi vede nemmeno, quei carabinieri ridono di me…mi indicano come fossi un pagliaccio, ma insomma un po’ di rispetto? A questa donna gli avete mandato il figlio all’ospedale con le ossa rotte, grazie ai vostri manganelli del cavolo…e quello stronzo adesso che sta facendo? Ci fotografa? Ah bravo! Dai fotografa una povera donna disperata – che è rimasta bloccata quassù dove era venuta a chiedere notizie del figlio per poi scoprire che l’hanno portato in città e ora lotta fra la vita e la morte – dai fotografa questa donna in lacrime e il suo cane che le saltella intorno, poi impacchetta tutto e mandaci a Canale 5…oh Dio! Adesso che c’entra Canale 5? Non mi devo distrarre! Ho una missione…devo far sorridere la mia padrona…coraggio! Non piangere! Quel comunista di tuo figlio c’ha la testa dura…e sennò come faceva a credere ancora a Marx anche se il Muro è caduto da vent’anni? Si ma lei non mi sente! Certe volte mi scordo che a me Dio la parola non m’è l’ha data! Lei non mi sente…lei sente solo Wow! Wow!, più che un rispettabile cane sembro una rana che gracchia, e pensare che fino all’altro ieri al setter del vicino gli dicevo che era un bene che la parola c’è l’avevano solo gli uomini: “La parola porta solo guai e pasticci. Gli uomini hanno la parola e guarda quello che hanno combinato! Pensa se erano rimasti zitti, se erano rimasti come le scimmie. Non sarebbe stato meglio? Niente riscaldamento globale, niente razzismo, niente guerre”. A quel punto il setter replicava: “Si, ma se gli uomini non avevano imparato a parlare ed erano rimasti ai tempi delle scimmie tu, invece di avere la pappa pronta tutte le mattine, dovevi andare nei boschi a correre dietro alle lepri!” Quel setter! Il solito materialista! Pensa solo alle crocchette, ma non lo sente il telegiornale quando se ne sta accucciato sotto la poltrona? Il mondo va a rotoli e quello…Mi mangerei la coda! Devo consolare la mia padrona! Wow! Ancora…ancora con questo maledetto gracchiare da rana. Ora si che la parola mi sarebbe stata utile, giuro che non farò più polemiche con quel setter, mamma mia! Adesso piange più forte! Devo fare qualcosa…provo a leccarle le gambe…oh Dio! Che vene varicose! Ma che non m’ero mai accorto che non avevo Manuela Arcuri come padrona…va beh, basta pensare alle vene devo consolarla! E adesso che sta facendo? Mi lancia un pezzo di prosciutto? Ma no…che cavolo! No! Non ho fame (però niente male ‘sto prosciutto!) Bella figura che sto facendo…e adesso che succede? Sta arrivando un poliziotto (ok è un carabiniere…sono tutti uguali)…dice che c’è un autobus che puo’ portare qualcuno a valle…anche la padrona è nella lista…e a me perché non mi fanno salire? Ahio! Quello mi ha appena tirato un calcio…”Via cagnaccio!”…meno male che la padrona mi difende: “Lasciatelo stare povero cane…l’hanno abbandonato…è da questa mattina che mi segue…c’è qualcuno che lo può tenere?” “Certo. Ci penso io” risponde una ragazza che mi lega al guinzaglio e mi porta via.

 

 

No Acerra, No Tav
Antonio Marcio Iorio

Dovrebbero venderle negli ipermercati della Coop. Tra la grappa Nardini e le mele fuji, con tanto di stoppino e fiammiferi. Pronte per l’uso, senza etichette tipo: “Attenzione, liquido infiammabile”, perché per bruciarne cento di questi cani di Tonfa con i caschi blu e gli scudi di plexiglas, ce ne vorrebbero a decine. Forse migliaia. “CARAMBA”, ripeto tra me e me, “CARAMBA, vi muovete solo in branco, come dei randagi del salario”. E allora aspiro rapida l’ultima boccata. Poi getto di scatto la sigaretta a terra e la schiaccio col piede. Come schiaccerei loro e le loro anime: che brucino pure all’inceneritore Fibe di Acerra. “Altro che Torino-Lione, altro che Rocksoil! Tutti carbonizzati dovete morire”, farfuglio. Mentre il fumo espira nevrotico dalle mie labbra, accendo la miccia e lancio la bottiglia. La fiamma che divora la stoffa volteggia nell’aria, segue una curva e lascia una scia nerastra nel cielo grigio della Val di Susa. Ho ventisette anni, guadagno seicento euro al mese e non ho voglia di guardare la Gelmini su Youtube.
Cinque secondi al massimo, inseguiti dalle urla dei Caramba che anticipano di pochi attimi il fragore dello schianto. Rumore di vetri rotti in un silenzio che domina ogni cristallo di neve. Vedo la vampata, sorrido, accendo un altro stoppino e grido: “NO ALLA TAV”.
Quello sono io, non ho niente da perdere, SONO un uomo in rivolta.
Mentre piego il braccio per scaraventare il mio secondo omaggio incendiario, m’accorgo che una vecchia con il volto fasciato in un foulard nero corre verso il muro sub-umano dei mercenari in divisa. Tiene uno strano crocefisso di legno nella mano sinistra e la corona di un Rosario nella destra. Ho come l’impressione che al posto della testa del Cristo in miniatura, ci sia una sorta di pulsante di plastica rossa. La vecchia ulula arcane malie alle nuvole in un dialetto sconosciuto. E allora mi paralizzo, anche se i caramba avanzano.
“Levati nonna”, urlo.
“Via, Via”, comandano i giannizzeri della Repubblica.
La donna sembra in tranche, vaneggia, piange, volteggia. Si blocca di colpo, con le spalle rivolte verso le Scorze dell’Ordine e strilla: “Fermi, fermi tutti”. Ma avverto solo il rumore degli anfibi che affondano nella neve e le grida degli altri manifestanti che scappano come uno stormo di quaglie allo sparo di un bracconiere. “Fermi, vengo in nome di Papa Joseph…”.
Continuo a non comprendere le sue suppliche, soprattutto ora che i Caramba sbraitano come Celti ai comandi di Vercingetorige.
“Lui, il successore di Pietro mi manda qui per dirvi che non si farà, che la Tav non…”. La sua voce stridula è travolta da un tuono e poi un fulmine e la pioggia scrosciante cade dal cielo senza preavviso. La miccia della molotov si spegne, quasi miagolando. Ormai è inutile, è tutto inutile. Ed allora inizio a scappare anch’io. Mi volto subito, d’istinto, per assicurarmi che la vecchia sia ancora lì. Potrebbe finire come una cacca di cane sotto gli anfibi dei Madama che marciano indemoniati verso di me. Mentre si condensano spirali di fiato ad ogni respiro, la vedo. Con una mano si strofina l’occhio inumidito dalle lacrime e con l’altra spinge il pulsante al posto della testa del Cristo. BOOOOOM. Le mie pupille quasi bruciano al contatto con quel groviglio di fiamme che si sprigiona repentino. Un muro d’aria mi scaraventa in avanti. Il sangue, il gelo, un conato di vomito. Il buio. E io che penso prima di svenire: “Ecoballe infarcite di sbirri, ecco cosa ci vuole in Italia. Altro che Tav”.

(ogni riferimento a cose e persone, è sicuramente casuale)
Note: tonfa è il materiale dei manganelli che la Polizia di Stato utilizzò a Genova. Fanno molto male.
Fibe, è la società che ha iniziato a costruire il forno crematorio della Campania Felix, l’inceneritore di Acerra
Rocksoil, è la madre di tutti i trafori.

 

 

Lo stato delle cose
King Of Mistery

Mi accorsi di quello che stava succedendo soltanto quando svoltai l'angolo.
Un'amica che era con me trattenne un grido. Io rimasi interdetta per qualche attimo.
Eravamo in una delle strade principali della città.
In lontananza, quasi alla fine della strada, una folla di giovani, dall'età incerta tra i sedici e i trent'anni, cercava di avanzare contro una folta schiera di carabinieri in tenuta antisommossa. Le loro divise erano come un'immensa bocca nera pronta a divorare il bocconcino umano che avevano davanti. Si udivano, soffocati, i rumori delle pietre e di altri proiettili improvvisati sugli scudi, i quali lentamente avanzavano, impercettibilmente.
Ai lati della strada nuvole di fumo si levavano, echi di battaglie e scontri non ancora spenti. Alcuni fuochi stavano iniziando a divampare. Tutt'attorno, desolato e impressionante, il silenzio.
Sapevo di che si trattava. Gli slogan urlati e le scritte negli striscioni parlavano chiaro. Era una causa che condividevo; una causa per la quale, a dire il vero, avevo già combattuto, nel mio piccolo, qualche tempo prima.
Ma qui il conflitto si faceva decisamente più esteso. E la piega degli eventi suggeriva anche come sarebbe andata a finire. Ma non c'erano tante alternative. La situazione era precipitata da molto tempo e tutti i rimedi adottati non avevano portato a niente. L'unica soluzione era stata la più estrema, la più coraggiosa, la più terribile: quella che forse avrebbe portato a maggiori risultati, o alla definitiva condanna dei manifestanti. Ci si giocava il tutto per tutto.
E io, stando così le cose, non potevo certo rimanere dov'ero, con le mani in mano. Guardai i manifestanti. Diedi borsa e quaderni alla mia amica e feci qualche passo verso di loro.
Quando vide cosa avevo in mente di fare, la mia amica scattò indietro, con paura, e si allontanò.
Non mi pentii un istante della mia decisione. Noi combattevamo per una causa giusta e davanti avevamo dei nemici. Nemici che dovevamo contrastare, se non sconfiggere.

Nelle ore seguenti fu tutto un susseguirsi di cori, grida, attacchi, avvicinamenti, indietreggiamenti. Ogni tanto qualcuno rimaneva solo e veniva colpito. Subito era inghiottito dalle fauci della bocca nera. Ma continuavamo a lottare.
Intanto ci eravamo spostati. Avevamo guadagnato un'arteria principale della città. Era nostra.
Ci trovavamo in un centro abitato. Tutt'attorno passanti immobili che ci guardavano sdegnati, automobilisti indifferenti e gente che si affacciava alle finestre con aria divertita.
Una scena mi colpì, e mi strinse il cuore.
Un ragazzo era stato circondato dai carabinieri e portato via. Una donna piangeva ai lati della strada. Supplicava – non capivo bene le parole, perché strozzate dai pianti – di lasciarlo stare, di non trattarlo così, che non c'era bisogno di tanto odio.
Una morsa amara mi avvelenò il petto, e rimasi immobile sulla strada mentre i nostri continuavano i loro assalti.
Lo scontro continuò, ma io non me ne accorsi perché invasa da mille pensieri.
Poi mi riscossi.
Avevamo faticato tanto, avevamo lottato tanto per cosa? Per arrenderci alla fine? Per lasciarla vinta agli altri? C'eravamo dentro fino in fondo. E dovevamo giocarci il tutto per tutto.
Allontanai quella visione dalla mente e ripresi a combattere. I carabinieri avanzavano. Ma noi continuavamo, insistevamo, e non ci davamo per vinti. Nonostante molti venissero inghiottiti dalla bocca nera.
Dovevamo cambiare lo stato delle cose.

 

 

Prima foto
Graziano Lanzidei

Il giornale riporta sia le dichiarazioni dei carabinieri che quelle dei manifestanti. Più di mezza pagina dedicata alla notizia, corredata da immagini, per dare un quadro completo del corteo. Spicca quella di un'anziana signora, il crocifisso in una mano e un fazzoletto nell'altra, che cerca di togliere il prima possibile le lacrime dal volto. Poi due pezzi a raccontare le diverse versioni del fatto. L'articolo d'apertura, a quattro colonne, ha un titolo a caratteri cubitali. “Donna colpita da un sasso dei manifestanti”. A sostenerlo il portavoce della caserma 'A. Ridolfi', il tenente Angelo Cartaglione, originario del Sud ma nelle valli ormai da 20 anni. E' un tipo pacifico, sempre impeccabile con quei capelli tirati indietro dal gel e il portamento elegante, con e senza divisa. Lo conosco perché viene al bar ogni domenica, accompagnato dal figlio, a prendere i pasticcini per la famiglia. Nel leggere le dichiarazioni mi sembra di sentirlo scandire le parole, in un italiano senza inflessioni. Nell'articolo sottostante c'è l'intervista al leader del comitato, Yuri Campanaro, che smentisce le forze dell'ordine. Ha trentasei anni, porta i capelli lunghi fino alle spalle e ancora fa avanti e indietro con l'università, a Torino, grazie ai soldi del padre architetto. Sostiene che sia stata una manganellata degli agenti a far piangere la donna. “Mettono a tacere chi dissente con la forza, senza rispetto per i più deboli” e più o meno ripete il concetto per tutto l'articolo. In paese non si fa che parlare d'altro, ma nessuno crede né agli uni né agli altri. Qui al bar, tra un campari e vino, una sambuca e una grappa, c'è chi giura che la versione in realtà sia un'altra ancora. “Sei matto” dicono quasi tutti a mastro Toni, l'ultimo artigiano rimasto in paese che ripara qualsiasi elettrodomestico, quando prova a dire la sua. “Matto è chi si va a fidare di quelli lì” continua a gridare lui al suo dirimpettaio, tra un tresette col morto e uno scopone scientifico. All'improvviso si ferma, s'alza in piedi e inizia ad arringare sia i compagni di gioco che i curiosi che si sono assiepati lì intorno. “Ma almeno lo sapete chi è quella della foto?”. Tutti si limitano a scuotere la testa. “Non sarà nemmeno di queste parti” prova a rispondere uno. Mastro Toni allora sbatte una di quelle sue mani giganti sul tavolo e bestemmia. “Quella è Costanza Marson, la vedova di Paravenni, non vi ricordate nemmeno lui?”. E tutti dicono: “E come facciamo a dimenticarci il Generale?”. Lì fuori, al tavolino, sembrava ancora di sentirlo spiegare i segreti e le strategie di ogni guerra. “La vedevi passeggiare la domenica, dopo la messa, per il corso, abbracciata al marito. Una volta morto il povero Generale, s'è barricata in casa. Mi capita di scambiare due parole quando vado a ripararle la lavatrice o il televisore”. Tutti allora si sistemano sulla sedia, per ascoltare meglio mastro Toni. “E' fissata con la religione. Dice di parlare con Gesù. Le appare per affidarle dei messaggi da diffondere. L'altro giorno, alla manifestazione contro la TAV, s'era voluta mettere alla testa del corteo. Diceva che il crocifisso avrebbe protetto tutti, avrebbe portato questa valle a vincere la sua battaglia. 'Me l'ha detto Lui' ripeteva in continuazione e indicava la croce. Poi, quando s'è resa conto che nessuno le dava retta e, anzi, c'era più di qualcuno che la prendeva in giro, è scoppiata in lacrime e s'è allontanata. Da allora non l'ha vista più nessuno. Nemmeno io”.

 

 

Incubo
Francesca Lulleri

Bosnia, in un imprecisato giorno d'inverno.
“Nonna, perchè parli da sola ? Chi è quella persona sui pezzi di legno?”
A questa domanda così innocente del nipotino appena alzato, la povera vecchietta decise di smettere di pregare per accudire il lascito di suo figlio, morto da appena tre mesi mentre difendeva il suo piccolo paese da chissà quali invasori.
“Vieni qui” disse con la voce tremante mentre ripensava con nostalgia a quel suo figlio che ormai non c'era più ma che riviveva negli occhi del nipotino. Ripensando alla sua giovinezza ricordò con angoscia i momenti in cui l'aveva partorito e la felicità subito dopo, e all'amore che ancora ardeva per lui dentro il suo vecchio cuore.
“Un giorno, la nonna ti porterà via da qui...se il signore lo vorrà.”
“Chi è il signore nonna? Ci porta via da qui?”
La vecchia donna abbracciò con dolcezza materna il bambino, innocente vittima di eventi ingiusti e arrivò ad una dolorosa conclusione. Accarezzò la fronte del bambino e lo baciò ripetutamente...poi andò a prendere una grossa patata dalla cucina e si accinse a sbucciarla per poterla bollire.
“Quando torna papà ?” Disse il bambino mentre giocava con il gatto ormai magrissimo.
“Papà non tornerà più...”
“Ah...” continuò il bambino innocentemente, mentre continuava a giocherellare col piccolo animale. “ e perchè? Non ci vuole più bene?”
La vecchia mise la patata dentro la pentola colma d'acqua. Non rispose. In cuor suo sperò che il bambino non facesse altre domande.
Si affacciò alla finestra.
La neve aveva inghiottito tutto. Il piccolo viale che andava verso la chiesa ormai non si vedeva più. Le case di fianco, semidistrutte dalla guerra in corso sembravano ora mute bare di vetro. Qualche cane passava ancora di li' ma di certo, o sarebbe morto di fame e freddo o qualcuno se ne sarebbe nutrito. Tutto era cambiato in così poco tempo. La guerra aveva modificato tutto dal profondo.
Aveva modificato gli animi, i cuori, i vecchi i bambini, il cielo, i campi, le città...
Nulla era più come era. Ad un tratto vide un ragazzo...nero nell'immensità della neve. Uscì di casa.
Quando lo raggiunse notò che piangeva. Non riuscirono a comunicare a parole, parlavano due lingue diverse. La vecchia gli prese la mano.
“Vieni” cercò di dire anche a gesti, ma il giovane si discostò violentemente, non voleva farsi vedere debole. La vecchia notò che in mano aveva un foto...sorrise.
Se ne andò ma lasciò la porta aperta. Dopo poco tempo, quando ormai la patata era pronta il giovane si avvicinò all'uscio...la donna gli porse una porzione di patata. In giovane la mangiò con gusto e ringraziò. Cercò di parlare ma purtroppo non riuscirono a capirsi se non con sguardi e sorrisi. Ad un tratto il giovane disse “Italian” e lì lei capì che le sue preghiere erano state esaudite.
“Tesoro, è lui il signore che ti porterà via”
Il giovane sorrise. Tese la mano al bambino. La vecchia pianse . Il giovane cercò di comunicarle che poteva venire anche lei...ma lei decise di rimanere lì con suo figlio. Il giovane aspettò il giorno prima di riuscire all'aperto con il bambino. Arrivarono due grosse macchine nere.
“Hey, Cristian, ci hai fatto prendere uno spavento, pensavamo fossi disperso...chi è quel bambino?”
Cristian sorrise.
“L'ho trovato in mezzo alla neve, piangeva...portiamolo al sicuro”
“Era solo?”
Cristian esitò.
“Si'...”
Salirono sulla prima automobile. La vecchia li osservò mentre portavano in salvo il bambino.
Il suo viso fù solcato dalle lacrime. Andò verso il crocifisso. Ringraziò.

 

 

La forza e la fortezza
Marisa Madonini

Nelle mani la speranza di non accettare passivamente lo status quo e la mercificazione dell’umano e delle creature tutte. Nelle mani e nella mente, nella parte più sacra e intoccabile dell’uomo la speranza contra spem che non esista solo il roboante, impietoso, sopruso furbesco e vittorioso. Un urlo di giustizia si leva: i profeti fin dall’antiche Scritture lo lanciavano dal deserto o dalla roccia (…visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato, il germoglio che ti sei coltivato… Salmo 79) per ‘vedere’ e ‘udire’ la vera essenza della creazione e la ‘cosa buona’ dell’inizio che tutti noi cerchiamo nei nostri esodi e diaspore. Tensione di giustizia, di più, d’amore (spietato e doloroso che ferisce e recide per far crescere e dar forma) nel nostro cammino ignoto ma fedele scegliendo di credere oramai che oltre la realtà immediata si sveli una latente possibilità di riscatto. C’è chi sa fare un piccolo gesto, chi sa fondare una grande rete d’aiuti umanitari, chi lotta per la pace e paga di persona, chi scopre un vaccino, chi fa la spesa al vicino, chi scrive un libro epocale rivelando verità scomodissime, chi dirige un’orchestra dai suoni perfetti con mani amorose come quelle sul corpo degli amanti. Il nostro essere non riposa se non nei momenti di riconciliazione con l’essenza del mondo senza reprimerlo o avvelenarlo avvelenandoci. E se la donna continua a gemere nelle doglie del parto e del travaglio che lo precede nella creazione, così la donna, asciugata ogni lacrima, guarderà sorridente il bambino, la nascita, la rinascita, il ritorno della verità che pareva sublimazione e utopia. Compiangersi e lamentarsi non valgono: ha valore il lievito nella pasta, il seme sotterrato che pare morire d’inverno e patisce il gelo, di fronte alla sterilità apparente del suolo. Una fede tra ragione e follia come inspirazione ed espirazione del medesimo respiro.

 

 

Le impronte
Edoardo Micati

Milano, redazione di un importante quotidiano nazionale.
- Direttore, è giunta una e-mail con allegato fotografico, è di Edoardo, il nostro corrispondente in Puglia.
- Fai vedere.
- Una foto molto eloquente, mette a fuoco una scena dei nostri tempi, ma potrebbe riportarci con la mente a guerrieri con scudi di epoche lontane.
- C’è pure un servizio, bravo Edoardo. - Con altri colleghi ci troviamo a Scarfagnano, paese poco distante da Gallipoli. Un anonimo informatore ci aveva avvertiti che in mattinata sarebbe accaduto un qualcosa di particolare, da non perdere, nel campo Rom che ospita sei famiglie, in tutto 36 persone. Verso le dieci, senza alcun preavviso, si sono presentati dei funzionari prefettizi, accompagnati da numerosi carabinieri, in assetto anti sommossa, per il prelievo delle impronte digitali. I rom non stavano opponendosi all’ordinanza, ma nel momento in cui il sindaco del paese ha preteso di fare l’esame del DNA, adducendo che fra i 21 minorenni, tanti in un gruppo di 36 persone, alcuni di essi potevano essere stati tolti alle famiglie d’origine, è avvenuta una vera e propria insurrezione. Alle pietre lanciate dai ragazzini, in risposta, un carabiniere ha scagliato una bomba lacrimogena, subito imitato dai suoi compagni d'armi. Nella vasta spianata, avvolta da una spessa nuvola di fumo, a tratti si vedevano le camionette che passavano fra le misere roulottes, con i carabinieri a dare manganellate, alla cieca.
Ovviamente, chi disponeva di una macchina fotografica o telecamera ha documentato l’avvenimento. Non avendo a portata di mano il mio attrezzo ho fatto appena in tempo a scattare una foto col cellulare. E sono stato fortunato perché ai colleghi è stato sequestrato l’equipaggiamento. Solo uno scatto ho potuto fare, uno scatto che raffigura questa povera vecchia donna pressata da una schiera di uomini con scudi e casco nero.
La poveretta reggeva con la mano sinistra un crocefisso di legno, fra le dita stringeva un rosario. Piangeva, cercando di asciugare le lacrime con una pezzuola bianca. Son riuscito a parlarle. E’ originaria del distretto di Suceava in Romania. Rom di etnia polacca, cattolica, si era salvata dai tedeschi accolta da una famiglia rumena, mentre i genitori venivano trasferiti nel campo di Belec in Polonia, dove finirono nelle camere a gas. Grazie all’intervento del vescovo, avvertito dal parroco del paese, che ha minacciato il prefetto di far intervenire le alte sfere religiose di Roma, i rom non sono stati trasferiti. Ho intervistato il comandante dei vigili urbani Capone il quale mi ha raccontato che: - Dopodomani il gruppo avrebbe dovuto lasciare Scarfagnano per trasferirsi in Romania. La loro presenza in Italia è diventata insopportabile, dovunque vengono scacciati, anche se non hanno nulla da recriminare verso i cittadini di Scarfagnano. Devo riferire, per onestà professionale, che i ventuno bambini appartengono effettivamente ai gruppi familiari, questa è gente prolifica, si sa. - Ho avvicinato infine il vescovo al quale ho mostrato la foto con la povera donna. Con enfasi ha detto: - Le impronte, per tutti noi, le ha già lasciate Gesù Cristo sulla croce, questa povera gente va lasciata in pace, non s’erano accorti che stavano mettendo in croce la santa donna?

- Si pubblica in prima pagina, così com’è. Mi raccomando, la foto deve risaltare, come se volesse uscir fuori dalla pagina. E poi…sì, in rilevo le parole del vescovo: Le impronte, per tutti noi, le ha già lasciate Gesù Cristo sulla croce!

 

 

Siamo qua apposta
Faust Cornelius Mob

Eccola che ricomincia, è la quarta volta che cercano di calmarla e come la mollano ricomincia a urlare. Ha la voce che pare il suono di una campana, solo che non sfuma, va avanti a oltranza con un volume da spappolarti la testa. Grida e ci sventola davanti quella sua croce enorme. E ci credo che a uno prudono le mani, e che una manganellata ci scapperebbe anche, ma già me li vedo i titoli dei giornali di domani : “ Macelleria Val di Susa – feroce pestaggio ai danni di un’anziana manifestante “.
Ma và a cagare, và.
Ma dico, si può andare avanti così? Quattro invasati che ci vomitano addosso i peggiori insulti e ci trattano come se avessimo la lebbra. E che cazzo, per caso l’abbiamo voluta noi ‘sta benedetta TAV ? Non è che magari noi siamo qui svegli dalla mattina presto perché voi possiate fare la vostra manifestazione e noi possiamo portare a casa lo stipendio? Ma no! A noi piace dormire poco, stare qua a gelarci il naso senza nemmeno i vostri thermos di caffè con voi che ponderate ad alta voce sui mestieri delle nostre mamme.
Anzi, guardate, se non ci lasciano menare voi quando torniamo a casa due calci nel culo li diamo alle nostre mogli.
Ma andatevene a fare in culo, và, che ho pure votato dalla parte vostra! E provate a leggervi Pasolini, se ancora va di moda!

 

 

Mano calda
Matteo Ninni

Io ero arrivato sopra in valle qualche giorno prima con una macchinata di compagni, così da rifornirsi di Pastis.
La vecchia invece uscì di casa il giorno delle cariche, troppo in fretta per ricordarsi i guanti. Scese dal sentiero del crinale cambiando mano al crocifisso e al bastone da passeggio ogni cinquanta passi e pensò che dio l'aveva fatta con due mani proprio per questo, per averne almeno una sempre calda. Scendeva accennando preghiere senza scopo, come quelli che fischiettano mentre cucinano o sistemano il letto o aprono il negozio. Pregava senza pensare e poi bestemmiava con più lucidità, perché era il suo modo di dialogare con dio, come si fa con la gente che si conosce bene, un sorriso e un vaffanculo preventivo, senza sapere come andrà a finire, la giornata o la stagione o la vita intera.
Alla vecchia le avevamo detto: prudenza. Eravamo saliti alla sua capanna di rami e fieno e alle baite in quota la mattina prima per informare del presidio permanente.
Prudenza vecchia perché quelli uccidono. Qualcuno le aveva portato le foto dei giornali con la testa bucata di Carlo Giuliani circondato dagli anfibi neri. Gliele avevano appoggiate sul tavolaccio di pietra, scostando i semi masticati delle bacche selvatiche. Udimmo commenti sconnessi e preghiere. Ci portò a vedere uno scaffale di legno invaso da candele, pentolini e rotoli di scotch.
Arrivò al presidio mentre le donne stavano svegliando i bambini. Le tende da campo assorbivano la luce rossa dei falò, simulando l'alba svilita dalla nebbia.
Mi versai del tè caldo e le andai incontro. Dalla tasca estrasse un rotolo di scotch e mi fece capire che avrebbe voluto infilarselo per il braccio, fino alla spalla. Non capii e glielo rimisi in tasca. La vecchia si voltò bestemmiando e prese a incamminarsi verso il cordone di militari che prendeva posizione con accenti meridionali.
Poi successe che dopo le prime piccole cariche io ebbi paura e me ne tornai ai fuochi. Lanciavo, da dietro, sassi e cassette di legno.
Vedevo i manganelli piovere a scrosci improvvisi sulle teste e le braccia. C'erano urla isteriche e sindaci che chiedevano calma. La vecchia se ne stava in mezzo, in un punto di non contatto. Presentava a tutti Gesù Cristo, arretrando di un passo, come se presentasse un amico, poi dando le spalle ai carabinieri si asciugava gli occhi. Non so se era paura la sua, forse solo il freddo umido che provava a sfondarle i bulbi. Pregava, bestemmiava e si asciugava il viso mentre due differenti interpretazioni del mondo interloquivano. Aveva rabbia montanara espressa dalle rughe della fronte e un atteggiamento estraneo allo scontro in atto. Che cazzo ci fa la vecchia qui in mezzo, lo dissero in tanti, da una parte e dall'altra.
Io la osservavo tra i corpi imbacuccati. Avessi avuto in mano il suo bastone o il crocifisso l'avrei usato come mazza. Forse anche il suo scotch, l'avrei lanciato addosso a quel muro di caschi e scudi. O forse no. Ma ripensandoci ora rifletto sull'estetica dello scontro. Mi vengono in mente alcune illustrazioni di guerre lontane che riportano immagini di soldati armati solo di vessillo o bandiera. O quegli altri con il tamburo.
Carlo Giuliani è morto con un rotolo di scotch su per il braccio.
La vecchia prega e bestemmia con un crocifisso in mano. L’altra mano è sempre calda e occhi sono stretti dalle lacrime.
Io vivo in fondo alla pianura e lì nessuno discende i crinali.

 

 

Santo subito
Mario Orlandi

Ci si erano trovati per caso. Erano appena usciti dalla bottega equa e solidale e – svoltato l’angolo – avevano trovato Piazza Santa Maria Goretti stracolma di gente.
“…riscoprire i valori della terra e del territorio…” urla la donna dal palco, mentre la folla esplode in un lungo applauso.
Ivan – che la politica la segue solo di riflesso, tramite i commenti di Daniela – si guarda intorno, stordito dall’entusiasmo delle persone che tengono alte le bandiere e si sbracciano verso il palco.
“Hai visto che abbiamo fatto bene a venire?” fa Daniela, prendendolo sotto braccio. Lui si divincola, per raggrupparsi i capelli in una coda. Lei abbozza un broncio, anche se timido.
“Se c’è tuo padre lo sai che gli da fastidio vedermi con i capelli sciolti, no?” e le stampa un bacio sulla guancia.
Daniela sorride e lo prende per mano. Si avvicinano al palco, facendosi largo tra le persone.
“Ma perché tutte quelle croci sul palco?” chiede Ivan, “non è una manifestazione del Partito Democratico?”
“Non si chiamano più così, sciocco,” lo riprende Daniela con occhi di sopportazione, “adesso sono i Democratici Fedeli.”
“…perché tutti gli uomini sono uguali,“ riprende la voce dal palco, “davanti al Signore. Tutti siamo figli di Dio...”
All'improvviso, sulla destra del corteo, subito dopo l'aiuola alberata, a ridosso della recinzione della casa occupata – quella che una volta si chiamava Casa Pound e che invece oggi viene chiamata Regno di Dio –, viene innalzato uno striscione. “Tutti figli di Dio tranne il Grande Satana”. Firmato Rif. Ap..
Ivan cerca di capire cosa succede, Daniela ha il volto serio e continua a ripetere: “Papà” mentre fruga con lo sguardo tra la folla.
Iniziano gli schiamazzi, le urla, i cori di scherno. Provengono dai militanti di Rifondazione Apostolica che avanzano verso il palco minacciosi. Il servizio d'ordine dei Democratici Fedeli cerca di frapporsi, ma l'onda d'urto è troppo potente. Daniela rimane immobile. La signora anziana che arringava la folla dal palco, dopo qualche minuto di silenzio, riprende il comizio.
“Non abbiamo paura dei falsi discepoli del Signore. Il mondo che stiamo costruendo è di ogni figlio di Cristo. Nessun episodio di razzismo e di intolleranza...”
Intanto i manifestanti continuano a schiacciarsi sotto il palco, mentre quelli di Rifondazione Apostolica avanzano. Lo scoppio dei petardi è soffocato dai lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine. Daniela e Ivan riescono a infilarsi in una stradina laterale prima di essere accerchiati.

Piazza San Pietro non è mai stata così piena. Ivan suda dietro la bancarella mentre vende le ultime t-shirt alla gente che si accalca davanti al suo tavolino di plastica. “Te l’avevo detto che ne avrei dovute far stampare di più,” sussurra a Daniela che fa la spola tra lo stand con l’acqua e le file di pellegrini in coda per la cerimonia di proclamazione del Santo.
“Zitto tu,” ribatte lei, “che non credevi nemmeno che avremmo vinto le elezioni, io l’avevo sentito subito dall’energia che c’era in piazza quel giorno che i tempi sarebbero cambiati.”
Un boato la interrompe. Il pontefice fa il suo ingresso in piazza. La folla ondeggia. Si fanno avanti le autorità – il segretario dei Democratici Fedeli, nuovo capo del governo italiano, e il Presidente della Repubblica – e si chinano a baciare l’anello. Inizia la cerimonia. Mentre papa Benedetto XVI nomina santo Ernesto Che Guevara Ivan indossa l’ultima maglietta rimastagli con l’effige del Santo col basco circondata da un’aureola gialla rossa e verde.

 

 

Infelicità: complemento d’emozione
Daniela Rindi

Si chiamava Natale, perché era nato il giorno di Natale, era un ex ferroviere, ma iniziò come “Frenatore”. Ai tempi, in cima ad ogni vagone c’era un piccolo scompartimento di pochi metri quadrati, all’interno un volano che, quando la motrice frenava al segnale del macchinista, ogni frenatore doveva girare a mano per rallentare il proprio vagone. Non ha mai fatto carriera perché antifascista vero. Un giorno, mentre stava tornando a casa alla fine di un turno, fu fermato da una squadra. Fu interrogato e fortunatamente rimandato a casa, ma fu lui a frenare il treno nella galleria tra la stazione di Rio Maggiore e La Spezia, per permettere lo scarico dei sacchi di farina. Lo sapevano tutti. Quando andò in pensione non interruppe la sua attività al sindacato, continuò a procurare tessere, a presenziare a riunioni e si mise pure a fare il calzolaio, per aiutare un amico. Sua moglie si chiamava Maria, entrambi nonni di innumerevoli nipoti, a loro volta figli di numerosi figli, però soli, chiusi nella loro vecchiaia quasi centenaria. Sono sempre stati poveri, una modesta casa in curva con un piccolo balconcino affacciato sulla ferrovia, a Pegazzano. Il treno era una presenza che, col suo suono rassicurante, accompagnava le loro giornate, un passaggio ritmato e inesorabile... tutum tutum tutum tutum. Carne una volta al mese, per il resto molta minestra di patate. La stufa era sempre spenta, la legna costava troppo, allora Maria la sera sferruzzava maglioni e sciarpe uno dietro l’altro. Il tempo si muoveva lento, come i loro corpi anziani. Ogni mattina lui andava a passeggiare lungo la ferrovia… Ricordava quando con i suoi compagni di scuola veniva lì a giocare agli indiani, si sdraiavano poggiando le orecchie sui binari, per sentire le vibrazioni dell’arrivo del treno. Il treno rappresentava i cow-boy, i sassi erano le frecce degli indiani. Ad un certo punto Maria s’ammalò, non si sa bene di cosa, all’epoca uno stava male e basta… Il male era all’intestino, fu operata, le inserirono un ano artificiale, che servì solo a rendere la vita un inferno ad entrambi. Doveva fare tutto lui, la spesa, gestire la casa, accudirla, cambiare il catetere, svuotare il sacchetto delle feci. Senza mezzi, senza medicine, ogni notte addormentarsi diventava sempre più difficile e insopportabile. Neanche lui dormiva più, non sopportava la propria impotenza. Tentò di comunicarlo ai figli, di chiedere aiuto… Una vita passata uno accanto all’altro è sufficiente a rendere inaccettabile una fine sbagliata, a farti soffrire al punto di sfiorare la follia. Quella notte questo doveva essere il sentimento che guidò la sua mano, impugnato un martello, a colpirla così forte sulla fronte. Per ben tre volte il sangue gli schizzò sulla faccia. Andò poi in cucina, si asciugò il viso, prese dal cassetto un coltello, tornò in camera e si sdraiò a letto affianco a lei. Le prese una mano, se la strinse al petto e con l’altra fece correre la lama lungo il collo.
Così li trovarono il mattino dopo, in un letto di sangue, mano nella mano…a novant’anni.
Non erano morti, però, questo il paradosso, questa la tragedia. Le sue mani erano troppo fragili per infierire colpi mortali.
Lui fu rinchiuso nel carcere psichiatrico a Montelupo Fiorentino, poi successivamente trasferito all’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Questo gesto d’amore folle li separò per sempre, lei non lo perdonò mai. Morì per un raffreddore a 91 anni.

 

 

Gente senza Dio
Annamaria Trevale

Madre di tutti, la montagna, ma più spesso matrigna.
Avara di cibo e di lavoro, generosa dispensatrice solo di fatiche, di pericoli e di tragedie.
Non c’era famiglia, in quelle borgate di case strette una all’altra in piccoli gruppi lungo le valli, che non contasse fra i propri legami una persona scomparsa a causa della montagna.
Angelina conservava memoria di un’infanzia vissuta prima che le nuove strade, le ferrovie e i capannoni delle fabbriche riempissero i fondovalle, attirando verso il basso la gente della montagna con la promessa di lavori e vite migliori.
Erano rimaste molte case vuote, nelle frazioni lassù in alto, solo in parte riprese più tardi da qualche raro villeggiante estivo, perché questa era una montagna davvero sfortunata, neanche troppo buona per il turismo, come diceva sempre quel suo nipote che aveva studiato e che dopo le ultime elezioni era diventato sindaco del paese.
Ma ora che nelle case c’erano l’acqua, la luce, il gas e le persone avevano tutte un lavoro dignitoso, non si viveva così tanto male, lì sulla montagna, pensava Angelina che poteva ricordarsi ancora bene di quando la notte si doveva andare a dormire col braciere nel letto per sopportare il contatto con le lenzuola ghiacciate, e tenersi addosso i mutandoni di lana lunghi fino alle caviglie sotto alle gonne, altrimenti le gambe diventavano blu, per non parlare di quando si aveva sempre fame, ma c’erano solo patate per calmare il brontolio dello stomaco…
Però, proprio quando tutti avrebbero potuto restarsene tranquilli, erano arrivate quelle grosse macchine a scavare, e avevano aperto quell’enorme cantiere: tanta gente, un viavai di operai.
E tutti protestavano.
Il nipote sindaco aveva spiegato ad Angelina che volevano bucare la montagna per far passare un treno velocissimo, e che questa nuova ferrovia avrebbe rovinato tutto quanto intorno.
Il parroco li aveva chiamati gente senza Dio, invitando tutti gli abitanti del paese a protestare, perché era certo che Gesù Cristo non approvasse quello sfregio della natura.
Angelina era una buona cristiana e pensò che avessero entrambi ragione, perciò s’incamminò con gli altri lungo la strada che conduceva al cantiere stringendo fra le mani incallite il Crocifisso che teneva appeso sopra il suo letto.
Un gruppo compatto di uomini vestiti di scuro, protetti da elmi e scudi come guerrieri, se ne stava schierato davanti ai cancelli, oltre i quali stazionavano soltanto quegli enormi macchinari che impaurivano le anziane donne del paese.
Nessuno ad assistere alla protesta: i manifestanti gridavano frasi ritmate e agitavano striscioni, ma loro restavano fermi, impassibili dietro i loro scudi, come se tutto quel clamore non li riguardasse affatto, finché il gruppo dei manifestanti, disorientato dalla mancanza di un contraddittorio, iniziò ad indietreggiare e a riprendere lentamente la via del ritorno.
Angelina rimase per un momento immobile in mezzo alla strada, chiedendosi perché mai Gesù non intervenisse in qualche modo nella faccenda. Si staccò dalle altre donne, raggiunse gli uomini scuri e percorse il loro schieramento brandendo ben alto fra le mani il suo Crocefisso, ma non accadde nulla: sotto il cielo plumbeo, nel freddo pungente della valle, gli uomini sembravano non vederla, o fingevano d’ignorarla.
Il parroco aveva ragione, quella era gente senza Dio.
Ma Dio, dov’era?
Asciugandosi gli occhi col fazzoletto, Angelina volse loro le spalle e riprese stancamente il suo cammino per tornare a casa.