Alberto Dalla Libera

Halleluja Motel

di sferzate del tuo disprezzo, amore mio, dammene di più.
Fai scendere frustate di opinioni giù per la mia schiena,dammene ancora
Sei tu che ho aspettato di incontrare tutta la vita
Sei tu che ho cercato così a lungo
Jeff Buckley/ Mojo Pin

Ero affacciato alle finestre del motel al terzo piano. Di solito mi rifugiavo in quel posto quando la mia esistenza da povero illuso sprofondava in tinte oscure. Il tardo pomeriggio di ottobre mi ha sempre affascinato molto. Al di là dei vetri il vento emetteva il suo grido altalenante in vista del cambiamento, della naturale trasformazione delle cose che la nuova stagione portava con sé in quei giorni. Il buio calava sopra le teste sempre più velocemente, le insegne dei negozi giù in strada si accendevano mentre quella del motel, piazzata appena fuori la finestra della mia stanza, giocava con le pareti della camera, a tratti di luce blu. L'intermittenza e la luminosità variabile rendevano visibile ai miei sensi lo scorrere del tempo, scandendo i secondi di quel pomeriggio solitario, passato silenziosamente come tanti altri. Pensieri cupi abitavano la mia mente in quel periodo, la torturavano, incapaci di rispondere a se stessi, chi ero, cosa facevo? Portavo con me sempre il mio vecchio giradischi Marantz, il piccolo amplificatore, le casse in legno e qualche disco. In realtà potevo portarne soltanto due o tre, uno per ogni stato d'animo. La puntina era ferma alla fine del Lato A di un 33 giri degli Style Council già da una buona mezz'ora. Decisi di cambiare musica. La scelta non era molto vasta, avevo impiegato non più di dieci secondi a decidermi estraendo dalla custodia di carta un disco di Leonard Cohen. Ascoltavo. Ero appiccicato con il naso contro il vetro di una finestra sporca di un motel qualunque. Pensavo senza capire, non decidevo nulla, su niente. Il mio respiro appannava il vetro che piano tornava trasparente. Così doveva essere anche la vita pensavo. Quando si offusca si può sperare che torni limpida il prima possibile. "Hallelujah" cantava malinconicamente Cohen. Il buio accompagnava la musica nel suo lento cammino di note che si avviava alla conclusione mentre in me cresceva un dolore legato al passato. Non riuscivo bene ad identificarlo ma c'era e si faceva sentire. La puntina aveva terminato il suo percorso sulla strada di vinile ma non avevo intenzione di cambiare il lato del disco. Avevo imparato a non esagerare con la malinconia. Così un minuto dopo ero già di sotto, fuori dal motel, al riparo dalla pioggia che da poco aveva cominciato a scendere con violenza sulla città. Non avevo un ombrello, non li potevo sopportare, si rompono sempre. Le automobili in strada scorrevano lente e appannate mentre le persone dentro, da fuori, sembravano ombre senza volto, senza storia. In un certo senso mi sentivo straniero in quella città che tanti anni prima mi aveva accolto donandomi speranze delle quali non mi rimaneva nulla. La pioggia continuava a cadere, incessante, riempiendo le pozzanghere, rumoreggiando sui tetti e bagnando tutto, compreso il mio osservare. Non avrebbe smesso presto. Decisi così di alzare la mia giacca di pelle fin sopra la testa per ripararmi e andare. Avevo già attraversato metà della strada che separava il motel dal marciapiede opposto dove si trovava un locale quando, improvvisamente, una frenata mi distolse dalla meta. In un attimo mi ero voltato in direzione dello stridere delle gomme ma non avevo fatto in tempo a vedere niente. Subito il buio ed il silenzio erano le uniche cose che potevo riconoscere. Ritornai alla realtà, avevo riaperto gli occhi ma ero a terra, completamente immerso nell'acqua che si era depositata sull'asfalto. Sulla mia destra un faro di un'auto poco distante non mi permetteva di vedere oltre mentre dal lato opposto potevo scorgere una fila di vetture sotto la pioggia con i motori accesi. Qualcuno scese dall'auto che mi aveva investito. Era un uomo di mezza età, un tipo con dei baffi molto lunghi, grasso e gentile. Mi chiedeva se era tutto a posto, mi diceva che non mi aveva visto attraversare la strada e che non aveva colpa. Avevo soltanto qualche graffio addosso, mi era andata bene. L'uomo sembrava preoccupato e mi aveva aiutato a rimettermi in piedi. << Tutto bene amico ?>> disse nel suo strano accento. <<Credo di si>> risposi un po' stordito. Nel frattempo dalla macchina, che in realtà era un taxi, doveva essere scesa un'altra persona. Avevo sentito il rumore di uno sportello. Non smetteva di piovere mentre la colonna di auto che si era formata dietro al taxi sembrava impazzita. Mi ero voltato per guardare gli automobilisti impegnati ad imprecare contro di noi quando mi accorsi che i miei occhi erano finiti in quelli del passeggero del taxi. Era una donna, bruna, magra ed elegante , anche lei completamente bagnata dalla testa ai piedi. Credo di aver impiegato qualche secondo per riconoscerla ma quell'istante è sembrato eterno. In quel momento, in quella frazione di secondo, tutto si era fermato, di colpo. La pioggia non cadeva più, le automobili in fila non suonavano, non si muovevano, tutto era sospeso, in attesa, bloccato. Anche l'insegna del motel era ferma, aveva perso la sua intermittenza mentre anche il mio cuore si era arrestato insieme al respiro. Era lei. Si, non c'erano dubbi, non poteva essere che lei. Quegli occhi, quei capelli, quel viso sereno e malinconico che avevo ormai perso da una vita. Era lei non un sogno. Molte volte, con il passare degli anni avevo creduto che fosse stata soltanto una visione ricorrente nei miei sogni, tanto era stato breve e disperato il nostro stare insieme. <<Tenga il resto>> disse al tassista porgendogli del denaro. Le auto tornavano a scorrere ed io mi ero spostato sul marciapiede. Lei era davanti a me. Mi toccavo un fianco fingendo di sentire dolore per mascherare l'imbarazzo. <<Come stai>> - mi chiese toccandomi un braccio - <<vuoi che ti accompagni in ospedale ?>> Non avevo il coraggio di guardarla. <<No ti prego, non ne ho bisogno>> risposi voltandomi verso la strada. Era strano rivederla dopo tanti anni. Non eravamo più quei ragazzi di una volta. <<Andiamo a ripararci in quel Caffè, che ne dici? >> disse chiudendo il suo lungo cappotto. Tremando risposi che andava bene. Entrando il proprietario ci aveva squadrati senza neanche salutarci. Avevamo ordinato due tisane. Quel tipo di bevanda a me non piaceva molto ma mi aveva fatto piacere una volta, mille anni prima, dividerne uno con lei una sera d'inverno. Ci guardavamo in silenzio, nessuno dei due aveva il coraggio di parlare e quando nello stesso momento avevamo deciso di farlo, ci eravamo dovuti fermare per non parlare l'uno sopra l'altra. Ridevamo e subito tornavamo ad essere seri. Non volevamo sapere niente delle nostre vite o forse volevamo sapere tutto. Avevamo avuto una vita, altrove. Gli anni non l'avevano cambiata più di tanto mentre io dimostravo appieno la mia età. <<Cosa fai adesso>> - mi chiese guardando il fondo della tazza ormai vuota - <<ti sei sposato, hai dei figli?>> Guardavo le sue mani. << No, niente di tutto questo>> - dissi - <<non ho fatto altro che aspettare te, non me ne sono più liberato, per questo è meglio se sto solo>>. Cercava delle risposte, continuava a guardarmi negli occhi. Ero di cristallo, fragile. <<Ti avevo promesso che sarei tornata, lo so, ma lui faceva ancora parte della mia vita quando ci siamo conosciuti e…>>. Cercavo di fermarla e lei nell'indecisione, con le lacrime che la braccavano, smise di parlare. <<Non giustificarti>> dissi <<ti prego>>. Potresti invece dirmi una cosa?>> Si era calmata visibilmente mente cercava le mie mani. <<Cosa ?>> mi domandò con ansia. <<Dovresti dirmi "addio">> dissi con un tono diverso, risoluto << non me lo hai detto mai, è una vita che aspetto!>>. Mi guardava incredula. Il tempo sembrava scorrere velocissimo ora. Avevo la sensazione di poter osservare la scena da una diversa angolazione, dall'alto. Non ero più seduto al tavolo con lei davanti alla nostra imbevibile tisana, non ero più imprigionato nel mio corpo invecchiato dagli anni passati a ricordare, ad aspettare. Ero libero. Potevo riavere indietro la mia vita finalmente. Lei me l'aveva portata via con sé in quel suo viaggio e non me l'aveva restituita. "Hallelujah" cantava Leonard Cohen, mentre lasciavo me stesso davanti ai suoi occhi tristi e sinceri come non erano stati nell'arrivederci di tanti anni prima. Lontano da lei, dai suoi dubbi, dai nostri baci, dai nostri libri scambiati per gioco, dai pochi dischi ascoltati insieme, dall'unico film visto e criticato per ore o forse mai, dalla mia chitarra elettrica che lei amava tanto e che ho venduto per quattro soldi, dai suoi capelli bugiardi, da quell'addio che ora non significa più niente. Lontano dall'unico "ti amo" che non ci siamo detti mai. "Hallelujah".

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