Lizardfreek

Luce Grigia

Aprì gli occhi. Grigia luce del cielo fuori della finestra. Già le otto e trenta. Cupo senso di vuoto su di lei. Una nota stonata. Si girò nel letto, nel tentativo di escludere la deprimente luminosità che strisciava nella stanza. Senza grandi risultati. Quella mattina non aveva nessuna voglia di alzarsi, ma in ufficio la aspettavano per le nove, nove e un quarto al massimo. Come tutti i giorni, d'altra parte. Ma quella mattina non aveva nessuna voglia di alzarsi.
Otto e trentasei: doveva scattare. Per arrivare all'anonimo edificio in cui avrebbe passato le prossime otto ore avrebbe impiegato circa venti minuti, calcolando l'attesa alla banchina. Fortunatamente la linea 14 era ben fornita e raramente doveva aspettare più di cinque minuti. Lo sapeva bene: già da quattro anni percorreva quel tragitto. Otto e trentanove, certo non sarebbe arrivata in orario, ma con un po' d'impegno sarebbe arrivata entro quel margine di tolleranza che erano le nove e un quarto. Ok, era ora di alzarsi. Si girò nuovamente per guardare fuori della finestra. Grigio. Il cielo grigio. Uno di quei colori che, quando a indossarli è il mondo stesso, non riesci più neanche a immaginare che qualcuno possa essersi abbandonato a una risata, o anche solo a un sorriso. Uno di quei colori sotto la cui luce tutto appare terribilmente pesante e soffocante.
Nella sua lotta contro il cielo, si tirò su le coperte fino a coprire la faccia. Finalmente un po' di sollievo. Le ore! Che ore sono? Alzò un lembo del suo buio scudo per sbirciare la sveglia alla destra del letto: otto e quarantasette. Irrimediabilmente in ritardo. Si sarebbe dovuta sciroppare la sfuriata del direttore di reparto. Sgradevole, certo, ma non sarebbe stata la prima volta. Cercò di aggrapparsi disperata all'unico pensiero che, da due anni e tre mesi a quella parte, le faceva ritrovare il coraggio di affrontare la vita nei momenti di maggiore sconforto: alle sei sarebbe uscita da quello squallido ufficio e sarebbe arrivata a casa in tempo per preparare una cena veloce per due. Verso le otto e trenta sarebbe arrivato lui, come tutti i martedì e mercoledì. Lui era impiegato al centro direzionale di una grossa compagnia telefonica. Il martedì e il mercoledì finiva di lavorare alle otto e cenava da lei. Tutti gli altri giorni della settimana, terminando lui di lavorare alle diciassette e trenta, era lei a recarsi da lui. E spesso rimaneva anche a dormire.
Avrebbe dovuto solo prendere un respiro profondo, contare fino a tre e saltare giù dal letto. Avrebbe raggiunto di corsa la fermata del tram e sarebbe arrivata per le… che ore erano, ormai? Otto e cinquantanove. Nove e venti. No, a essere realistici, nove e mezza. Un quarto d'ora in ritardo rispetto a quel "quarto d'ora accademico" entro cui, norma non scritta, veniva chiuso un occhio sulla puntualità. Avrebbe timbrato il cartellino sotto agli occhi indagatori e giudicanti dell'addetta all'ingresso e si sarebbe fiondata al suo posto. Verso le dieci e mezza il direttore, avendo controllato le presenze, la avrebbe fatta chiamare nel suo ufficio e le avrebbe fatto presente il suo ritardo. Si sarebbe dovuta sorbire una ventina di minuti di umiliazioni al limite dell'insulto, senza possibilità di controbattere, ma poi, in linea di massima, sarebbe stata rimandata al suo lavoro, mortificata, ma con solo un appunto segnato sul computer e la cosa non avrebbe dovuto incidere sul suo stipendio a fine mese. Sì, magari le avrebbero detratto un'ora di lavoro, ma niente di più. Sarebbe stata incollata allo schermo del PC fino alla pausa pranzo, durante la quale avrebbe dovuto sfilare con deliberata noncuranza sotto agli occhi sghignazzanti delle sue colleghe. Chissà perché in questo tipo di posti di lavoro tutti sembrano godere degli errori degli altri, trovare estremamente divertente l'osservare qualcuno che viene ripreso dalle alte sfere. Chissà perché non si formava quello spirito di corpo che tanto avrebbe aiutato ognuna di loro ad affrontare il clima opprimente che vi si respirava. Una nota stonata. Dopodiché solo altre quattro ore, tenendo conto della pausa caffè a metà pomeriggio e sarebbe stata libera. Libera! Tempo di fare un po' di spesa e rilassarsi un momento e avrebbe potuto abbandonarsi in lui, nel suo grande amore. Quell'uomo era comparso tre anni prima, durante una cena a casa di una vecchia amica di liceo. Lei lo aveva subito trovato interessante e simpatico e, come per magia, si erano trovati a parlare a lungo, soli, chini sulla balaustra di quel balcone al quarto piano. Illuminati unicamente dalla fioca luminosità della città e dalla brace delle sigarette. Dopo quella sera si erano frequentati per un breve periodo in una sorta di imbarazzato corteggiamento. Il loro primo bacio era stato sul divano di lei, in sala, nella penombra di un film in videocassetta, dopo alcuni mesi dal loro primo incontro; quando lui era riuscito a trovare il coraggio di superare l'impacciata gentilezza che caratterizzava il suo rapportarsi a lei. Gentilezza impacciata al punto di apparire, talvolta, come totale disinteresse; cosa che tante insicurezze e malinconie aveva fatto vivere a lei. Era stato meraviglioso! Si ricordava quel bacio come se fosse stato cinque minuti prima, ma non sapeva assolutamente come le loro bocche fossero arrivate a incontrarsi. Non erano passati cinque minuti, però: già da tre anni il loro frequentarsi aveva preso la forma di una vera e propria relazione.
Nove e sette minuti. Non sarebbe mai arrivata entro un'ora decente, forse avrebbe fatto meglio a chiamare in ufficio per dire che si sentiva male, di non aspettarla. Si voltò a guardare il telefono poggiato sul tavolo, illuminato dalla grigia luce del cielo, quasi volesse che fosse lui a strisciare fino da lei. Sì, avrebbe chiamato in ufficio e avrebbe parlato con la segreteria. Avrebbe mentito sulla sua salute a una voce anonima dall'altra parte della cornetta e il gioco era fatto. Poi si sarebbe trattato solo di farsi fare un certificato medico da presentare l'indomani, ma quello era il minimo: il suo dottore li rilasciava senza neanche estrarre lo stetoscopio. Solo lo sforzo di raggiungere il telefono… No. Chi aveva voglia di stare a indorarsi quella vocina all'altro capo del telefono? Che si fottesse il direttore. E se voleva licenziarla che facesse pure, tanto, in fondo non gliene fregava niente. Sarebbe rimasta a letto, questo era deciso, e non avrebbe chiamato nessuno. Aveva addosso una strana sensazione, una specie di malinconica oppressione quasi soffocante. C'era una nota stonata in quel cielo, quella mattina, qualcosa di terribilmente vivido e concreto. Aveva davvero importanza il giudizio del direttore? Era davvero imperdibile quel lavoro? La verità era che non gliene fregava niente. La sua anima era dello stesso colore del cielo e, proprio come il cielo, era talmente distante dal mondo da cogliere immediata la disorientante irrilevanza del quotidiano. Rimase lì, stesa, immobile, a guardare il soffitto della sua stanza con disinteresse. Dopo chissà quanto tempo - le pallide ombre degli oggetti avevano notevolmente cambiato orientamento - scostò le coperte e si tirò a sedere sul bordo del letto. Lo sguardo le cadde sulla sveglia sul comodino: le dieci e ventotto. Che strano stato d'animo. Quella mattina si era svegliata così, si era svegliata incapace di dare un senso alle cose. C'era una nota stonata, da qualche parte. Squillò il telefono. Lei lo guardò senza coinvolgimento per qualche istante, poi si alzò. Ma non andò a rispondere, si diresse, al ritmo della suoneria, verso la cucina. Addosso aveva solo una T-shirt di cotone, forse faceva freddo, ma la cosa non le importava granché. Con metodica calma svitò la caffettiera e la pulì. Lenta la riempì d'acqua, fino alla valvola, e dosò il caffè. Cinque cucchiaini. Finalmente il telefono tacque e la casa sprofondò nuovamente in un rassicurante silenzio. Chiuse la caffettiera e la strinse con uno straccio. La posò sul fornello e accese il gas. Rimase lì, in piedi, a guardarla, abbracciata a se stessa, grata di avere qualcosa con cui occupare il suo inutile tempo: attendere la fuoriuscita del caffè. Non pensava a nulla. Attendeva, semplicemente. Un lento sfrigolio. Poi un gorgoglìo. Spense il fuoco e fece terminare la fuoriuscita del caffè. Poi prese una tazzina e se lo versò. Due cucchiaini di zucchero. Mescolò senza fretta. Avrebbe dovuto trovare anche la voglia e il tempo per andare a fare la spesa e preparare la cena. Lui sarebbe arrivato verso le otto e mezza e forse la sua presenza sarebbe riuscita a scacciare via quello strano senso di nulla che la stava soffocando con traditrice dolcezza. Cercò di immaginarselo mentre entrava in casa, stanco dalla giornata di lavoro. Avrebbe posato la sua ventiquattrore a terra, vicino al portaombrelli, si sarebbe tolto il soprabito e l'avrebbe abbracciata con quell'affetto timido e frettoloso che lo contraddistingueva. Poi avrebbe cominciato a parlare della sua giornata di lavoro, come se tra le braccia di lei, davanti alle sue labbra, si sentisse in pericolo, come sull'orlo di un precipizio. Allora avrebbero cenato e lui avrebbe sfoderato la videocassetta che aveva noleggiato quel giorno tornando dal lavoro. Avrebbe potuto concludere quella strana giornata abbandonandosi sul corpo di lui, su quel divano su cui, tre anni prima, il cuore le aveva battuto con una forza che mai aveva dimostrato di possedere, e, cercando sicurezza in quel rituale, avrebbe potuto, magari, anche chiudere gli occhi e addormentarsi. Una nota stonata. Ecco cos'era fuori posto quella mattina. Non era il Sole, no, e non era neanche il colore del cielo. Non era un sogno, ormai dimenticato, che poteva aver fatto quella notte, o l'orologio che correva troppo rispetto ai suoi pensieri. Non c'entravano niente il suo direttore o il noioso lavoro che svolgeva. La risposta era molto più semplice, anche se agghiacciante: non lo amava più. Quella mattina si era svegliata e si era resa conto di non amarlo più. Avrebbe voluto continuare a cercare la sicurezza di quel dolce sentimento, ma sapeva di non poterla trovare. Non lo amava più, e non c'era niente da fare. Non c'era un motivo particolare o un desiderio da inseguire: semplicemente, non lo amava più. Non che lui si fosse fatto odiare o che lei stesse pensando a qualcun altro. Era tutto molto, troppo banale. Sorseggiò il caffè insapore e fastidioso e si avvicinò alla finestra. Alzò lo sguardo verso il cielo grigio e lo portò sul pallido sole che si affacciava in trasparenza da dietro nubi prive di forma o confini. Una strana luce. Una luce che rende meno potenti le ombre e denuda la vera natura delle cose. Tutto è vivido e concreto, niente più spazio per le illusioni.
C'era una nota stonata nell'immobilità di quel cielo, e lei non amava più il suo uomo.
C'era una strana luce quella mattina, avrebbe potuto lei amare ancora, dopo aver fatto riposare la propria anima nel suo riflesso?

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