Il ditino infuocato
Massimo Gennari
2500 battute

Ricordo il nonno che mi raccontava di quando stava nel “Carso” a scavar trincee. Per ore me ne stavo sulle sue ginocchia con la bocca aperta a sentire storie di guerra. Storie di pallottole che fischiavano e di baionette che brillavano alla prima luce dell’alba. Mi pareva di sentire le urla dei compagni colpiti. Ero lì con loro. E poi, com’è e come non è, si finiva sempre a parlar del rancio e del mangiare. Il nonno ha patito la fame e gli stenti come gran parte della sua generazione: “i ragazzi del ‘99”. A 18 anni ha fatto la guerra e a 40 è finito a costruir bombe per i tedeschi. Ha mangiato pastoni che manco i nostri animali da cortile si sognerebbero adesso. Patate e cavoli e se c’era, pane nero. Il nonno era un bravo raccontatore di storie e io ero e sono un discreto ascoltatore. Nasco in campagna e appartengo alla generazione di quelli che hanno perso il ‘68. Si son sorbiti i primi omogeneizzati, il latte dai triangoli di cartone e i biscotti dell’omino con la mazza. Ma anche la merenda con il pane e il vino e lo zucchero. E a proposito di pane sentite questa. Ricordo bene la prima volta che l’ho sentita. Si era a cena ed era estate. Una calda estate dei primi anni ‘60 e io dovevo avere 4 anni. Mangiavo; come si dice dalla mie parti; come un tribunale. Finivo in fretta il mio piatto e poi in “collo” al nonno a finire il suo. E li sopra mi raccontava la storia del ditino infuocato. “C’era una volta un bambino che si chiamava Massimino. Era sciatto e svogliato e non finiva mai il mangiare nel suo piatto. Scansava i semi dei pomodori e faceva i buchi nelle fette di salame; lasciava la pelle del pollo lesso e i nervetti della braciola. E poi l’intorno del piatto pareva un campo di battaglia. Molliche di pane e schizzi d’olio da tutte le parti. E allora Gesù bambino si metteva a piangere per tutto quel ben di Dio sprecato. E poi quando quel bambino è morto e si è presentato a San Pietro gli Angioli gli hanno acceso il ditino indice della mancina e l’hanno spedito sulla terra a cercare tutte le molliche e i nervetti e i grasselli e le pellicine che lasciava nei piatti che non finiva mai”. E io che facevo di no con la testa. E ancora pulisco i miei piatti come fossero gli ultimi. A costo di passar per cafone e campagnolo finisco tutto quello che ho nel piatto e raccolgo le molliche intorno. Che mi frega del galateo che impone di lasciar l’ultimo boccone della buona creanza. Spazzolo tutto come se il nonno fosse ancora a capotavola a raccontar la storia.