Le mani sono le posate del re
Alessandro De Santis
1587 battute

L’odore di cucinato continuava il suo serio e paziente lavoro, quando arrivò il pane. Trovò la porta socchiusa dal gatto, che era andato a buttare l’immondizia col suo sacchetto sulle spalle perfette. La prima fetta entrò di taglio con la crosta dura, come il piede di un intruso frapposto nella porta. Poi arrivarono anche le altre; tre coppie presero l’ascensore ma sbagliarono il piano; altre fette salirono dalle scale, inerpicandosi sui gradoni a scatti, strisciando sulla mollica soffice. L’ultima fetta entrò accodandosi al gatto che leccava lascivo le prime briciole nel corridoio.
   Ci sono fette di pane più melancoliche della luna: fette di pane che assorbono gli sguardi, la noia e le promesse, che distorcono gli arcobaleni e le pozzanghere. Bottoni biondi e galleggianti, si librano negli spazi vuoti fra le ombre. Fette di pane, più lievitate del lievito stesso; troppo lievitate perché la famiglia le possa concepire, la sorvolano confusa, sospese alle nuvole dei vapori addensati della cucina.
   Emanano un senso di impensata ragione, un pozzo che scarrella veloce verso l’alto, un invito vibrante ed imperioso, un’ascesi gravitazionale. Ruotano sballottate nel gorgo di molliche, di intingoli, di spezie spolverate.
   Già, è crudele separare le fette le une dalle altre; è così che la famiglia se la prende con il pane. Le ricorda i giochi dei bambini: bottoni, monete, dischi volanti e pedine multiuso. In collegio, a volte, si giocava a dama con minuscole fette di pane tostato, trattenendo le briciole sulla pancia nei vestiti.