La musa della pazzia
C’è chi dice di non saper mentire o di non saper fare l’amore. Io non so scrivere. Con ciò non intendo che alle superiori
sbagliassi verbi e congiuntivi; ma se oggi, se ho da scrivere, non mi resta che appiccicare frasette sul web ascoltando
brani pop in overplay, forse non erano così disorientati come pensavo quei miei amici che a 12 anni leggevano Scott e a 20
Joyce. E che l’ultima prosa che mi sia passata sotto mano è un’opera del V sec., l’encomio ad Elena, certo non dimostra
che mi stia impegnando per acquisire quella coscienza letteraria che forse per troppo tempo ho trascurato: come posso sperare
mai di giocare con l’arte di Gorgia e ammonire ancora con lui che senza la memoria, l’esercizio quasi erotico della voce e
della coscienza, la parola diventa perdizione? Così confusi, un nostro linguaggio non resta che cercarlo nel cielo, un messaggio
originario da imitare e divulgare: nei disegni delle costellazioni un destino, per la terra, per la scienza. Ma l’attesa dei
moti astrali, tra fasi lunari e l’ascensione del pianeta fortunato è lunga e inumana: anche Ishtar fu una musa, è vero; nel
Gilgamesh è una dea delle paludi e delle cloache, che parla dalle stelle del cielo; ma è anche dea dell’amore, e non meno mendaci
dei discorsi d’amore sono i progetti incisi nella volta stellata dell’estate serena. Chi è infatti che non sa quanto lunghi siano
i tempi che distanziano il nostro sguardo dallo spazio infinito? O quanto ci si possa fidare delle parallassi, di equinozi
incoerenti e quasar, di Leda e l’uovo cosmico? Ecco allora che si lasciano le equazioni, e i telescopi paiono stupidi più dei
ciclopi: in cerca di un confine più stabile, lanima si affida allo sguardo nudo, ai duplici occhi: e se il cielo si è
squarciato, anche i piedi, anch’essi duplici, sembrano ritrovare terra, là dove ogni confine è proprietà, e non c’è spazio per
chi torna dal cielo. Senza casa e senza terra ci resta così solo una bordura, la più pura: la luna; e chi osa nascondere ora di
non essersi mai sentito quasi come Atteone il cacciatore, che vedendo la luna in un pozzo, finì per mutarsi nella cerva dilaniata
dai suoi segugi, sperando di scoprire in quell’acqua una natura vergine mera, e senz’amore? O, nel caso migliore, di non aver
smesso mai di giocare al cacciatore, per lanciare senza mira le proprie frecce, cieco, quasi vittima d’un nuovo gioco: la musa
della pazzia? Allora Vendetta! E’ l’ultima Musa: un perdono che non svuota il gioco della vita; scorre nell’arte: è futuro. |