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Il semaforo era rosso. Frenai. La macchina, come al solito, emise un inconfondibile stridio. Dovevo aspettare qualche minuto. Una attesa snervante quando stai per andare ad un appuntamento galante. Il climatizzatore funzionava a dovere. Gradi 23 all'interno della macchina. 3 gradi all'esterno. Ore 21.27. Mi divertivo a vedere il mondo esterno che congelava mentre io, dentro l'abitacolo, mi godevo il benessere che pagavo profumatamente, anche troppo, a rate. Guardai a destra e iniziai a leggere i manifesti che erano attaccati su una serie di pannelli ondulati in metallo che delimitavano quasi da sempre una zona eternamente in costruzione. Guardai alla mia sinistra e vidi spuntare da dietro l'edicola un extracomunitario, presumibilmente un indiano. Aveva con se l'attrezzatura tipica del lavatore di vetri. Il braccio sinistro teso per portare il secchio e nella mano destra il tergicristalli manuale. Stavo per decidere se avevo spicci a sufficienza per farmi lavare i vetri quando dal secchio, all'improvviso, uscirono fuori un paio di zampettine subito seguite dalla testa di un gattino. Un piccolo gattino che guardava proprio me, affacciandosi con la testa che pendeva leggermente sulla destra con un'aria impauritissima. L'indiano arrivò fino al finestrino. Mi sorrise e mostrò il contenuto del secchio inclinandolo leggermente, nel caso in cui fossi stato distratto. Bussò con la nocchia del dito indice al finestrino. Lo abbassai.

- Amico, ti interessa gattino? - chiese quasi implorandomi.

- E dove lo metto? - tirando fuori tutta la mia umanità e scrollando quelle spalle che non sapevano portare nemmeno il peso di una giacca sportiva.

- A casa - fece lui con una logica che trovai, in quel momento, disarmante. 

- A te non piacciono i gattini? - chiesi stupidamente continuando a gesticolare come uno zotico e puntando il dito indice verso di lui.

- Io domani parto. Vado via.

Un momento di silenzio. Dovevo andare da Carmen. Dovevo sbrigarmi. Il semaforo era verde. Potevo accelerare ed andarmene. Stavo per farlo. Lo giuro. E mentre il cervello stava trasmettendo al mio piede l'informazione di premere l'accelleratore e al mio braccio destro di mettere la prima marcia, l'indiano mise la mano libera sul finestrino. Se fossi partito avrei rischiato, probabilmente, di ferirlo. Stronzo si, ma non fino a questo punto.

-         Mi dici cosa vuoi? - feci sbuffando.

-         Vorrei soltanto lasciare gatto a brava persona - ed i suoi occhi confermarono questa sua volontà.

-         Io i gatti li odio - e cercai di fare la faccia più cattiva possibile.

Per quanto ero stato credibile lui sorrise. Guardò il gattino nel secchio rosso e accarezzandolo gli disse qualcosa nella sua lingua. Qualcosa di dolce e di delicato, almeno a sentire il suono di quelle parole. Voleva veramente lasciarlo a me. Perché pensava che l'avrei trattato bene. Era la classica situazione in cui subivo le scelte altrui. Volevo fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi. Volevo cercare di fermarlo. Magari avrei potuto scendere e dirgli a brutto muso di andare a rompere le palle da qualche altra parte o a qualcun'altro. Oppure avrei potuto aprire di scatto la portiera e buttargliela addosso. Procurargli una contusione forte alle ginocchia e prendermi il tempo per partire stirando tutte e cinque le marce. Oppure.oppure.oppure potevo alzare il finestrino facendo come tante vecchie signore incipriate e scuotere la mano in segno di diniego sdegnato, guardare avanti verso l'infinito con l'aria di chi ne sopporta il peso anche se davanti non c'è un beneamato (vero signore incipriate?) cazzo. Ricontrollai a destra i cartelli. Guardai il climatizzatore che segnava all'interno 23°C e all'esterno 2.5°C. Le ore 21.34.

Tutto quello che feci fu scuotere la testa, fare un vago cenno d'assenso (il più convinto che mi uscii in quell'istante) che assomigliava molto ad un mugolio e dirgli di fare il giro. Ero completamente in balia di quegli eventi che avrei voluto cambiare. Lui aprì lo sportello alla mia destra e posò con delicatezza, sul sedile, il secchio con il gattino. Salutò velocemente me o lui o tutt'e due, quasi stesse trattenendo a fatica le lacrime e non volesse concedere a quell'addio straziante più di un secondo, e richiuse lo sportello. Guardai il gattino, quel simpatico gattino bianco con piccole ed irregolari macchie colorate rosse, nere e grigie. Uno di quei classici bastardini, come simpaticamente sappiamo apostrofarli noi umani continuamente fissati con le razze. Riguardai fuori e l'indiano era sparito. Volatilizzato. Di quei 6 minuti paradossali era rimasto, come ricordo, quel gattino e quel secchio. Null'altro. Guardai il semaforo. Rosso. Accesi la radio. La musica iniziò a risuonare potentemente nell'abitacolo e il gattino iniziava ad abituarsi al caldo stirandosi per quanto possibile all'interno del secchio. Regolai il volume. La canzone trasmessa era uno di quei classici successi estivi, dal tono brasiliano, che aveva fatto ballare tutti i giovani nelle discoteche della penisola. Dopo un primo istante di repulsione per quella canzone così "commerciali" non ci feci nemmeno più caso. Ero troppo concentrato a vedere quel gatto che dormiva pacifico e sereno, nonostante la musica facesse cagare. Il semaforo scattò sul verde e la macchina alle mie spalle, di cui non mi ero minimamente accorto, iniziò a suonare il clacson nervosamente. Inserii la prima ed accellerai. Il telefonino squillò. Presi l'auricolare e risposi.

-         Pronto? Carmen?

-         Quando arrivi - ed il tono non era dei più promettenti

-         Tra un quarto d'ora sono davanti casa tua - cercando di far vedere che ero in affanno

-         Lo sai che sei già in ritardo?

Guardai l'orologio. Le 21.47. Due minuti di ritardo. Esagerata.

-         Scusami. Ho con me una sorpresa - sorridendo cercai di incuriosirla

-         Sbrigati - probabilmente la curiosità non era il suo forte.

 

7 anni dopo.

 

Il gattino, ormai, era diventato un gattone. 10 chili di gattone in salute che pascolava per casa alternando il sonno al cibo ed il cibo al sonno. Da gatto con cui giocare era diventato il classico gatto da compagnia. Si addormentava sdraiato sulle mie gambe mentre guardavo la televisione oppure iniziava a seguirmi in ogni parte della casa come se avesse avuto, felino che, in teoria, avrebbe dovuto essere autonomo ed indipendente, bisogno di compagnia. Per questa sua costante presenza al mio fianco ormai era diventato, e l'avevo deciso democraticamente solo io, il mio confidente preferito. Un confidente discreto che, ogni tanto, aveva la capacità di farmi capire la noia che provava ad avere un padrone sfigato e logorroico come me soltanto con un'occhiata ed uno sbadiglio. L'argomento preferito dei miei monologhi? Carmen. La stessa Carmen che, dopo 7 anni (3 di fidanzamento e 4 di convivenza), se n'era andata sbattendo la porta e portandosi dietro tutto tranne quel gatto enorme che, a dir la sincerità, aveva smesso di amare da quando non inseguiva più il gomitolo di lana che lei aveva acquistato (parole sue) «con tanto amore» . Carmen che se n'era andata lasciando dietro di se un cuore infranto e tante, tantissime parolacce che avevano come incontrastato protagonista me e «quel cazzo di gatto che ti sei preso» e che ancora risuonavano nella mia mente. Ogni tanto la simbiosi con il gatto era tanta che mi permettevo anche di fargli qualche domanda. «Secondo te ritornerà?» oppure «E' un bene che se ne sia andata?» o ancora «Pensi che ci metterò tanto a trovarne un'altra?». In genere, però, i miei discorsi lunghissimi, senza pause programmate o interruzioni casuali. Ero un "fiume in piena" per usare un'immagine poetica. Lui, silente e paziente, sempre lì con la testa che sottolineava i passaggi più importanti del mio discorso inclinandosi, magicamente, sulla destra.

Nonostante questo addio e questi miei continui sfoghi lei era diventata, per me, una droga. E come ogni buon tossicodipendente deve assumere la sua dose giornaliera io dovevo sentirla tutti i giorni, sapere cosa faceva e sapere, soprattutto, se e quando sarebbe tornata. Ero convinto. Sarebbe tornata perché uno come me non riusciva a trovarlo tanto facilmente. Già immaginavo la scena. Qualche volta avevo anche reso partecipe Jimmy di questo mio sogno ad occhi aperti:

Seduto sul divano ed intento a leggere un buon libro. Suona il campanello. Mi alzo annoiato e vado ad aprire. E' lei. Con le valigie. Con tutte e 7 le valigie, piene zeppe, che aveva portato via. Io le sorrido e lei, mollati i due enormi fardelli che ha in mano, corre ad abbracciarmi. Ci baciavamo. Portiamo le valigie dentro e le posiamo in maniera frettolosa lungo il corridoio. Corriamo in camera da letto e facciamo l'amore tutta la sera.

Un sogno che, inevitabilmente, sapevo doveva infrangersi contro il duro muro della realtà. Ed un giorno, difatti, si infranse ed i tantissimi cocci rimasti a terra non riuscii a levarli per parecchi mesi:

Era tarda estate. La sera mi piaceva prendere un po' di fresco sul balcone. Il gatto riposava ai miei piedi. Avevo il cellulare sul tavolino a fianco alla sdraio su cui mi stavo rilassando. Un attacco mi soffocò la gola. Dovevo sentirla. Composi il numero. L'attesa sembrava non terminare mai.

-         Pronto?

-         Carmen?

-         Che vuoi?

-         Volevo sentirti.sapere come stavi.

-         Perché non mi lasci stare?

-         Come.

-         Senti.io adesso sono fuori con amici e amiche, stavo cercando di passare una serata piacevole, senza stress.e la tua telefonata non è in linea con quanto avevo in mente.

-         Sei proprio una stronza, non pensavo di poterti rovinare i progetti con una telefonata.

-         SEI UNO STRONZO TU! - e ci fu qualche secondo di silenzio. Subito dopo le voci vicino a lei ripresero a ridacchiare

-         Non strillare. - cercai di calmarla, volevo attaccare, non avrei mai voluto compromettere così tanto la nostra lenta agonia - Ho sbagliato a telefonarti. Facciamo come se non sia successo nulla.

-         E NO CARO MIO.adesso andiamo avanti.mi hai fatto fare una figura di merda.colossale, bastardo - e quest'ultimo periodo lo disse con la classica voce sibilante che prometteva vendetta - vuoi sapere la verità? CI TIENI TANTO A SAPERE TUTTA LA VERITA'? Io ho un altro.

-         C..Mmmm..A..- non riuscivo ad andare oltre la prima lettera di tutte le parole che mi venivano in mente. Riattaccai. Distrutto lasciai cadere le braccia a terra e mi fermai preoccupato ad ascoltare il cuore nel petto che rimbalzava impazzito. Un infarto dopo aver parlato al cellulare con la ragazza. Già leggevo i possibili titoli di giornale. Guardai il gatto. Con le lacrime che colmavano tutta la parte inferiore dei miei occhi in attesa di sgorgare fuori a mo' di fontana.

-         Come ha potuto.sta con un altro.capisci, Jimmy..STA CON UN ALTRO! - Con la mano destra cercai di sostenere il peso della testa che sembrava scoppiarmi.Mi grattavo continuamente gli occhi con il pollice e l'indice cercando di togliere le lacrime prima che prendessero a correre sulle guance. Jimmy mi guardò, avvilito. Emise un sospiro. Aprì la bocca.

-         E svegliati, cazzo! Sono 7 anni che tartassi i residui dei miei coglioni con questa Carmen. Come fai a perdere tempo appresso ad una donna del genere? EH! Guarda che non ce l'ha solo lei. Esci un po' fuori da questa abitudine.guardati intorno.conosci gente.distraiti.FAI QUALUNQUE CAZZO DI COSA! NON.VOGLIO.PIU'.SENTIRE.UN.SOLO.LAMENTO! - e, girandosi dall'altra parte, si sfogò tra se e se - che due palle questi umani del cazzo, almeno l'indiano manco lo capivo.