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X ha compreso in modo imponderabile e certo che può mutare gli
eventi. Non esistono necessità o conseguenze, lei, la mutatrice,
riesce ad alterare catene e biologie concluse creando ogni giorno sé.
Non che sia facile agire così. X di fatto non viene riconosciuta,
da nessuno. È come se la sua identità, le sue pure tracce,
affondassero e di lei conta, nuovo, soltanto l’inessenziale. I
contorni del mondo si sbriciolano e lei procede a piccoli passi. Lo
specchio è sporco ed accumula immagini. Ora X si guarda insistentemente.
E tra accumuli di ossa, ali e parvenze sostituibili può ricordare.
Ricordo N°1
È stanca questa ragazza che avevo previsto bella. In lunghi
guanti bianchi e neri. Ed ha un nome selvaggio e lontano. Irriconoscibile
lì, anche per lei. Vive dietro un vetro, né curvo né
tagliente, un vetro qualsiasi.
Cuce. Ogni giorno. Instancabile. Unisce filamenti e chili di stracci.
Vestiti. Lei che è nuda. Sotto lo sguardo feroce del mondo o
di chi soltanto è fuori.
La stanza le somiglia sempre più. Immenso corpo anch’essa.
Ripete gli errori e le incertezze della fanciulla cristallo. Tutto è
così immobile da sembrare perfetto, bello. In realtà la
vedo quella stanza. Enorme urlo trattenuto.
Immagino che fuori ci sia qualcuno innamorato di lei. E chissà
perché. Di quella nudità, offerta, scucita. Degli occhi
scuri e grandi, chiari per chi guarda, della bocca, del naso, del collo
e giù ancora, del seno, delle gambe, del sesso.
Non che le importi poi ancora, ed ancora, degli sguardi, di quello sguardo.
Da tempo si offre e tutto è sempre più uguale.
Uguale ciò che è da mostrare, uguale ciò che è
da dare. Di sé e di quella strana vita. Osservata da tutti con
perfetta delicatezza prepara la fuga. A lungo ha immaginato il tentativo,
la rispondenza esatta tra il suo nome e ciò che sarà fuori,
al vetro aperto, alla stanza sola. Respira piano congiunge le mani.
Non è una preghiera. Cerca di calmare ciò che sta per
lasciare.
Ora tutti la guardano. La guardo anch’io. Ed è una diversa
attenzione. Forse tutti, come nello scatto improvviso, capiamo. Lei
comincia a vestirsi. Lo fa piano, in silenzio. Infila tutto ciò
che è indispensabile ed anche altro. I vestiti. Gli infiniti
vestiti che lei ha fatto. Cucito in quei lunghi anni. Sono colori che
si accumulano.
Non vedo più la sua carne. Bianca. Rosa. Non vedo più
i seni, il sesso, la schiena. Tutto ciò che vedevo ora non c’è
più.
So che le manca ancora un gesto alla fanciulla zebra. La guardo. Ed
è la sospensione. Lo avrà quell’attimo, quello che
sarà la ripresa di sé?
Lo fa. Poiché lo esigiamo. Lo sveli dunque l’indecente
segreto,che ci ha trattenuto qui in fila per anni, mesi.
E lo fa. Si toglie i guanti. Cadono a terra. Proprio come deve accadere.
E in quell’attesa, in quel gesto ci perdiamo.
Le sue mani sono già oltre. Forte un implacabile, banale, rumore
di vetro. L’attenzione resta dentro.
Lei è fuori,già altro. Rumori, suoni la sfiorano. È
lontana, ora.
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