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Di seguito sono pubblicati i contributi inviati per la Macchia di Febbraio.

Vita, vita oltre la vita, morte. Tutte trovate dei creatori e non perdeteci
sonno è la verità quella che
andrete a leggere . L’avventura terrestre e’ un banco prova
, devono testare la profondità dello spirito e dell’intelletto
, valutare i sentimenti , spronarci a liberare la ns. creatività
, sottoporci ad ogni tipo di logorio mentale per stabilire se passiamo
una sorta di collaudo , esaminando ogni reazione non idonea .
La famiglia , le origini non esistono rappresentano solo una palestra
che spazia nel tempo, noi siamo campioni mai uguali, risultato dell’evoluzione
della ns. specie ma deriviamo tutti da lì , dal laboratorio .
E’ la ns. culla artificiale ,ci da’ la luce e poi sono le
macchine che ci accudiscono e ci fanno crescere , non ci si può
lamentare rispetto al collaudo e’ una vacanza, parola che mi suscita
piacere solo al pensiero ma non e’ più necessaria.
Ognuno acquisisce la sua inclinazione dal risultato del collaudo, sceglie
il suo habitat dove le sue pulsioni cerebrali lo spingono e le unità
abitative virtuali rispecchiano esattamente i ns. desideri.
Le macchine ci monitorano e prevedono in anticipo ciò che ci
potrebbe intaccare , abbiamo la libertà assoluta di pensiero
esente da vincoli e preconcetti .
Devo ammettere che i creatori sono stati formidabili , alcune invenzioni
che hanno utilizzato per creare lo sfondo del mondo del collaudo provano
la loro genialità. Donne , potere e denaro una miscela micidiale
per mettere allo scoperto i ns. istinti biechi e di conseguenza isolarli
.
Pensate le donne, per tutta la vita abbiamo combattuto per conquistarle
e possederle ovviamente di
rimando ci hanno scatenato passioni malsane , odi sfrenati e dolori
non rimarginabili ebbene non esistono , solo un’idea dei creatori.
Non potevano essere speculari all’aspetto dato agli uomini e dunque
hanno scelto di utilizzare una differenza minima ma sostanziale , già
l’aspetto maschile era abbastanza discutibile , con quelle protuberanze
e quelle rotondità molli ,l’invenzione donna ne ha tratto
modello per essere credibile . Riprendendo un po’ le forme di
Attinia la ns. nursery artificiale consistente in una cavità
con avvolgente morbidezza di polpa , tentacoli muscolari e filamenti
pelosi così l’universo femminile e’ stato concepito
ed inserito nel programma .
Noi siamo composti da materia e sprigioniamo energia come una pila gratificando
i creatori , ci crogioliamo nei ns. liberi pensieri insieme o in solitario,
spaziamo senza limiti e rappresentiamo l’essenza. Viviamo in perfetta
simbiosi con le macchine e siamo in armonia con l’ambiente che
ci circonda , le macchine senza di noi non esisterebbero mancano di
anima e fantasia ma eseguono alla perfezione gli ordini ed il ns. dipendere
da loro e’ talmente razionale che non ci crea in realtà
nessuna dipendenza.
Vi chiederete il ns. aspetto, lo avete a mente vi assicuro , variano
le volute ma la forma è quella della massa cerebrale così
ben celata nella fase del collaudo , fatta lavorare a basso regime ed
offuscata da miriadi di effetti a catena che ne sollecitavano il pieno
funzionamento. I creatori attendono di ottenere un essere che esca quasi
perfetto ed indenne dai trabocchetti studiati ad arte ma non ci sono
ancora riusciti ed attendono pazienti.
CONSIGLI UTILI PER MANEGGIARE INSALATE DI RISO E LIBRI DI
CUCINA (i peli pubici contengono vitamina E carboidrati)_in regalo una
consumazione gratuita all’Heaven di Latina.
Ricordo ancora la premiazione, vinse il premio come miglior regia!
“Ringrazio Dio, la mia famiglia, mia moglie, mia figlia, la mia
amante, il mio paese, tutti quelli che mi conoscono, tutti quelli che
mi hanno sopportato e supportato durante la lavorazione”. È
originale il Signore. Il cielo è blu, il fiore è verde,
la penna scrive rosso ed altre cazzate indiscutibili e contraddittorie.
Due enormi cappelle distinte e sistine a confronto e stranamente il
bianco ha il pisello più grosso del negro! Una fiXa censurata
e niente male tra le calze nere. Ma sarebbe fin troppo banale proviamo
a scavare per trovare il petrolio argentato. Tra carcasse di vita deceduta
e cumuli di preservativi usati con sperma secco e neonati immaginari.
L’ultimo superstite aveva 33 anni (anche Moana Pozzi morì
a quell’età, mi pare anche il Cristo, ma non ne sono sicuro,
non sono mai sicuro di quello che è ritenuto certo nei libri
di storia, soprattutto quelli non scolastici). Aveva appena ultimato
la colonna sonora per un film di Kusturica, la lavorazione del lungometraggio
durò sette anni dieci mesi dodici giorni sei ore otto minuti
e quattro secondi. Come primo il regista assaporava sempre bucatini
con aglio pistacchi verza broccoli panna e un pizzico di musica alla
Daniele Sepe. Sul set aleggiava un’aria di misterioso mistero
soprattutto dopo l’uccisione di un corvo durante una riunione
tra bande di sciacalli. Cosa successe? Cosa accadde? Cosa avvenne? Come
avvenne? Cosa dire? Cosa fare? Cosa mangiare? Come mangiare? Come intrattenere
il lettore? Come farlo contento? Come agitarlo? Come annoiarlo? Come
masturbarlo? Come scoparselo? Come costringerlo? Come abbandonarlo?
Quali parole utilizzare? Quali termini usare per non avvicinarlo? Si
potrebbero ripetere delle domande e dei gerundi! Ho trovato. Non avendo
un cazzo da fare, non lavorando in banca, non volendo lavorare, non
potendo e non volendo viaggiare, non amando ciò che non amo,
non essendo accomodante, non essendo un trituratore di erba, non navigando
nell’oro, non bevendo alcolici al tamarindo, non sorseggiando
canarini (come bollire… come acqua… come limone, bollire,
come… fuoco), non potendo e non volendo tutte queste luccicanze
kubritiche, ho il tempo necessario per battere lettere parole e frasi
con logiche sotterrate in attici privi di camini. Avete mai notato che
nell’ultimo periodo le cassiere romane dei sexy shop, hanno una
piccola bava nel lato sinistro della bocca? Fateci caso la prossima
volta che acquisterete “Famiglia cristiana”. Alcuni professori
universitari (fra tutti il russo Andrej Alpabb) hanno persino scritto
saggi a riguardo. È la conferma di come gli antichi Romani si
divertivano con poco, magari vedendo sbranare proletari nei centri commerciali.
Una nuova scoperta scientifica ci dice invece che i ragazzi con molte
ambizioni e con molte sicurezze acquistano cibi negli Smartcenter. È
vero credetemi, l’ho letto su Focus (fuori moda vero?). mi piacerebbe
immaginare i volti ma non ho molta fantasia! Mi piacerebbe immaginare
i volti ma non ho molta! mi piacerebbe immaginare i volti ma non ho!
Mi piacerebbe immaginare i volti ma non! Mi piacerebbe immaginare i
volti ma! Mi piacerebbe immaginare i volti! Mi piacerebbe immaginare
i! Mi piacerebbe immaginare! Mi piacerebbe! Mi! ! !iM !ebberecaip iM
_c’era un errore ma non facciamoci caso. (chi lo trova può
dirlo, ai primi dieci in regalo una consumazione gratuita in un pub
di Latina, è vero!) Ritorniamo con l’occhio di vetro al
disegno astratto. Girare il foglio in diagonale. No! Lasciare il foglio
esattamente com’è ma… spostare la scrivania, la tastiera
ed il corpo (altrimenti è troppo comodo ed io odio le comodità,
soprattutto se utili). Ora è tutto molto più migliore!
Ribadendo il fatto che la psicologia attraverso psicofarmaci è
dannosa come una patatina fritta del Mac Donald, sale nella mente del
cervello egocentrico ed ammuffito che mi ritrovo, un ricordo nobile
come un cane con la cotta. Ricordate le vecchie sale giochi degli anni
ottanta? Mi fa molto piacere. Ma non pensateci troppo perché
non è di questo che voglio parlare. Non ci siamo, non ci siamo…
cazzo! Mi ero dimenticato di dirvi una cosa importante come il formaggio
sopra la pasta al ragù freddo (non sarete dei vegetariani con
il vizio del fumo vero?) dicevo, per leggere questo “racconto”
che essendo universale è come merda fumante alla Salò
di Pasolini, occorre inserire un Cd con sola musica, fate voi, una musica
unza unza gitana o un bel Jazz o un Morricone che acquista sinfonie
da giovani compositori. Fate voi insomma. Anche Ambra Angiolini potrebbe
essere utile, poi: accendere il televisore con dell’alcool ed
un fiammifero, poi: acquistare un libro di Vertov, strappare le pagine
e gettarle nel cesso (una sorta di Nazismo moderno), poi: recarsi in
un ristorante giapponese ed urlare: “Sporchi musi gialli, morirete
Vietcong!”, poi: recarsi nella più vicina edicola e chiedere
l’ultimo numero di “Chiamami” e telefonare alla signora
Giovanna Frattali ansimando come il nero di Terminator due prima che
distrugge l’ufficio con i computers, poi: farsi una sega o un
ditalino al telefono, poi: venire alla riunione della sinistra giovanile
per sentirsi sempre e comunque di sinistra ma soprattutto giovani(li).
Direi che può bastare per ora, come vedete non è tanto
difficile perdere minuti preziosi della nostra bellissima e splendente
vita riciclata. E vissero tutti felici e contenti.
(Ringrazio Andrea Coffami per i preziosi consigli inutili
come le sue giornate)

Ormai nei sogni non mi insegue più nessuno.
Da bambino c’erano sempre morti viventi, vampiri e creature deformi
che cercavano di prendermi, poi con gli anni sono arrivati dei tipi
loschi e armati, sempre a corrermi dietro, e questi erano molto più
pericolosi dei mostri e degli zombie. A volte inciampavo, cadevo, ma
prima di svegliarmi ne ammazzavo sempre qualcuno o almeno mi mettevo
in salvo e chiudevo il sogno con una bella figura. Ma ormai da qualche
anno nei sogni non mi insegue più nessuno.
Dicono che smettere di sognare cadute e fughe è segno di sicurezza
acquisita, di coscienza delle proprie capacità. Mah, sarà…
Però mi diverto poco adesso.
Cazzo, mi sento un’energia che mi metterei in viaggio per l’Afghanistan
a cercare Bin Laden…
…e ce sta bisogno e arrivà fino all’Affaganistà
? Vai da mia zia, o vicino ‘e casa è uguale a Bill Adèn!
Come sempre, d’inverno, anche quella notte faceva freddo: in
una casa senza riscaldamenti e con gli infissi vecchi di 40 anni è
normale che ci si geli.
C’era voluta circa un’ora per prendere sonno, saltando da
una stazione radio all’altra, finché la voce di un sacerdote,
forse di Radio Maria, era riuscita a farmi dormire.
D’improvviso arriva l’alba ed io correvo affannato, il freddo
che mi entrava nel giaccone.
Per la prima volta nella mia vita stavo inseguendo qualcuno. Io stavo
cercando di prendere Bin Laden.
Mi svegliai scalciando tra le lenzuola di flanella e mi accorsi che
stavo ripetendo da solo la frase che aveva detto la sera prima il mio
amico Gennaro: “vai da mia zia, o vicino ‘e casa è
uguale a Bill Adèn!”
Non capivo se ero sorpreso dal mio primo inseguimento in un sogno o
dal valore eccessivo che stavo dando ad una stupida frase.
Mi prese la fissazione di vedere quella persona.
Mi venne in mente di impostare la cosa per divertirmi con qualche amico,
vivermi il tutto come se dovessi organizzare un grosso scherzo. Ma io
sapevo, nel profondo del mio culo, che quel tizio poteva davvero essere
Bin Laden rifugiatosi a Napoli.
Quale posto più sicuro?
La zia di Gennaro era una simpatica cicciona sempre ai fornelli: in
quella famiglia si alzavano da tavola a pranzo parlando di quello che
avrebbero mangiato per cena.
Mi bastò godere per una sera dei suoi piatti sparando ogni 20
minuti un complimento per riuscire a farle pronunciare il cognome della
signora che viveva accanto.
Saltò fuori da un discorso sui lavori di ristrutturazione nel
condominio. La signora “Scoppetta” (presunta mamma Laden)
era una di quelle che si opponeva, una avara, “tirata assai”,
…ma ‘a morte nun ce pensa? Preferisce a stà n’da
stu palazzo ca pare mbombardat’ r’e tedeschi?!!
In www.paginebianche.it inserii il cognome Scoppetta e tirai fuori il
numero di telefono.
Questa signora Scoppetta avrà avuto 60-65 anni e a volte mi aveva
salutato sulle scale del palazzo della zia di Gennaro dove andavamo
spesso a scroccare dolci e sigarette alla buonanima dello zio.
Non mi risultava che avesse figli, ma tutti dicevano che quest’uomo
viveva con lei ed era suo figlio.
Il giorno dopo si presenta questa scena: casa di Gennaro, io, lui
e il fratello Angioletto sul divano-letto, telefono alla mano e sguardi
incerti.
Faccio il numero con indifferenza ma dentro mi ripetevo la parte da
recitare:
tuuuuuuuuu…chiama, tuuuuuuuuu….
” pront’ ” …
pronto, casa Laden? Ci sta Bin?
Nun aggio capit’ a chi vulite?
Bin, Bin Laden!
(rivolta al figlio, lontana dalla cornetta): Peppi’ nun se capisce
che vonno, forse vonno a te?
Mammà attacca, dici ca nun sto a casa.
Madonna Peppi’ ma pecchè fai accussì? Tieni 50 anni
e non ti sei fatto un amico, vedi chi è, no?!!
Click.
Avevano attaccato.
Siamo rimasti a ridere per 20 minuti. Gennaro e il fratello continuavano
a pensare che stavo prendendo in giro una povera vecchia, ma io mi insospettivo
sempre di più.
Qualcosa nel tono del figlio non mi aveva convinto.
Occorreva vederlo da vicino: avevo bisogno di un pretesto per presentarmi
alla porta ed entrare..
Il mattino successivo attesi che la signora Scoppetta uscisse per il
suo giro al mercato del pesce, salii le scale come se nulla al mondo
fosse più importante di quello che stavo facendo.
Forse mi avrebbe preso per un tossico che chiede soldi o per un testimone
di Geova… Avrebbe aperto? L’improvvisazione è sempre
stata la mia sfida.
Busso una volta, due, tre, un rumore di chiave dietro la porta: si apre.
Buongiorno, sono un amico di Gennaro, il figlio della signora Cascone,
ieri sera ho dimenticato gli occhiali da sole a casa della signora e
siccome mi servono aveva detto che se usciva li lasciava qui da voi…
A me nun hanno lasciat’ nient’…aspettate ca guardo
ngopp’a tavola.
Cazzo è uguale, solo qualche chilo in più e senza barba.
Nient’ nun ce sta nient’!
Vabbuò grazie magari passo mo’ che la signora torna…scusate
capo ma ve l’hanno mai detto che siete tale e quale a Bin Laden?
Senza barba però…
No, nun ‘o saccio mo’ nun me ricordo…
Aveva abbassato lo sguardo, l’imbarazzo e l’emozione lo
avevano capovolto, era visibile.
Un pessimo attore ed un bugiardo peggiore.
Glielo avevano detto eccome, perché negarlo?
…trasite, accomodatevi, ve faccio ‘o cafè.
Entro?…Entro!
La casa era ferma agli anni 50. Alla sinistra c’era una grossa
foto in bianco e nero della buonanima del marito della signora con intorno
ceri e lumini accesi.
Era anche lui un caduto degli anni 90, grande fumatore-carcinoma polmonare-Diana
light-la morte silenziosa.
Era umido in casa e non vedevo neanche lì stufe o strumenti di
riscaldamento.
Un grosso millepiedi scivolò da fermo dietro un infisso come
se il mio sguardo lo avesse toccato e messo in fuga.
Il caffè era già sul fornello, stava riscaldando del caffè
già fatto…
Quindi dicevate che arrasumiglio a quel terroristo?
Uh anema ‘e dio, capo, site tale e quale! Senz’offesa eh,
chillo poi Bin Laden è nu piezzo d’omme, mica uno a tipo
Lino Banfi…
Guaglio’ la cosa è molto più seria di quello
che stai pensando.
Aggio fatto una grande cazzata nella vita mia e mo’ mi caco sotto
anche se suona il telefono.
Sedette su una sedia che scricchiolò di antico.
L’unica volta che mi è passato per la capa di andare
con una puttana è stata 4-5 anni fa.
Ho preso la macchina e sono andato verso il villaggio Coppola, è
pieno di negre, certe statue ca fanno paura, nella zona dove sta pieno
di ville dei ‘mericani.
Neanche ne ho avvicinato nessuna che mi entra uno nella macchina mentre
stavo fermo a un semaforo.
Biondo e con gli occhi chiari, arrassumigliava a “ il gladiatore
” ma teneva un giubbino giallo.
Pensavo ca se vuleva fottere a machina invece ha detto che era un agente-nun
saccio ‘e che-parlava male italiano e mi ha portato alla base
della Nato, teneva nu rivorver nel giubbino.
Io ho pensato che aveva preso a uno per un altro e nun aggio ditto niente.
Mi hanno fatto entrare in una stanza a tipo interrogatorio dei telefilm
di Starche e Ach e mi hanno fatto la proposta.
Ah mannaggia a me ca nun me so’ muzzecato ‘a lengua quanno
dicette sì!!!!
Mi davano una barca di soldi se facevo la controfigura a uno, dovevo
solo farmi crescere una barba e imparare a memoria delle frasi in una
lingua che non si capiva un cazzo.
Ma neanche dovevo parlare benissimo tanto io muovevo solo la bocca,
il sonoro ce lo mettevano loro.
Dissi sì, era una cosa facile, mi diedero tanti soldi, troppi,
dovevo capire ca m’o mettevano n’gulo!
Mi portarono a Roccaraso, ma non c’era la neve, faceva solo freddo.
Era una truppa di persone come per fare un film, ci diedero pure i panini
e la bottiglietta di birra.
Sotto a una montagna montarono un tendone e fecero tipo sala trucco,
mi vestirono e girarono un 7-8 filmini dove io camminavo, parlavo, sorridevo
con altri 3-4 sconsolati comm’a me vestiti come sceicchi pure
loro.
Uno di questi che stava nel filmino affianco a me aveva fatto 8 anni
all’Italsider con la buonanima di mio padre e se n’era andato
perché talmente del caldo vicino agli altoforni gli era scoppiato
l’accendino nel taschino in petto della camicia.
Erano pensionati e disoccupati comm’a me!
Ci pagano subito, in contanti, manco la seccatura di andare in banca,
tutte 50000 lire in una borsa di plastica, arrivederci e grazie.
Credevo di aver fatto l’affare…tu hai visto che hanno combinato?
Che burdell è succieso? L’aereo dint’e palazz, tutti
chilli muorti e i filmini miei per televisione…gesù, gesù,
gesù nun tengo il coraggio più di uscire…anche senza
la barba!
Mi stava raccontando qualcosa di assurdo, che dovevo fare? Mettermi
a ridere? Credergli?
Erano due le cose: o era pazzo o era vero!
Finsi di guardare l’orologio che non ho mai portato al polso in
vita mia e mi alzai in piedi. Lui si allontanò verso una grossa
cassettiera, un pezzo da antiquariato, un brivido mi salì dal
culo alla nuca quando si girò e mi si avvicinò:
Guagliò, queste sono più o meno “300000 lire di
euro”, comprati quello che vuoi, è il mio grazie per avermi
fatto sfogare una volta.
Adesso raccontalo pure a chi cazzo vuoi tu, tanto nessuno ti prenderà
sul serio. Anzi, con la faccia da drogato che tieni ti arrestano pure.
Mo’ vattenne e nun te fa vedè mai cchiù.
Uscii dal palazzo e non ricordo di aver fatto le scale, misi la mano
nel taschino dei pantaloni e trovai i soldi, mi incamminai verso la
pasticceria che sta sul corso.
Ecco, questi sono i fatti, ho cercato di essere sintetico come mi hai
chiesto.
Ti prego di cancellare subito questa mail dopo averla letta e, se ci
riesci, ridici sopra almeno tu, perché io non riesco più
a scherzarci.
Ti allego delle foto che avevo fatto prima del “faccia a faccia”
fuori dalla casa della signora Scoppetta.
A presto
(Come supporto al racconto l'autore ci ha inviato anche due foto:
foto01
- foto02)

Sono sempre io, Clara la barbona. Stamattina i ragazzi della frutteria
hanno scaricato cassette di vario tipo lì ai cassonetti. Alcune
sono di plastica, altre di legno. Utili per me in entrambi i casi. Quelle
di plastica le vendo a Carmelo e con le altre faccio legna per riscaldarmi.
Ero intenta ad impilarne due quando ho visto arrivare Beppilessio e
Gina. Così mi sono fermata per gustarmi la solita scena che scatena
il loro passaggio. Tutti quelli che erano nel parcheggio si sono voltati
a guardarli. Non credevano ai loro occhi, ammiccavano tra loro e ridacchiavano.
Dopo sono iniziate le battute idiote ed i fischi. Beppilessio come sempre
non ha degnato di uno sguardo nessuno. Continuava a camminare verso
di me col suo solito sacchetto di plastica in mano. Gina, tranquilla,
si dondolava al suo fianco.
Il fatto è che Gina è un’oca gigantesca che lo segue
ovunque e gli ubbidisce come se fosse un cane. Una volta gliel’ho
chiesto come avesse fatto ad addomesticarla così bene e lui ha
risposto brusco: ce l’ho fin da piccola. Ed ha cambiato discorso.
Conrad Lorenz ha trascorso anni a studiare la fase dell’imprinting
delle oche ed ecco che un poveraccio neanche tutto di cervello lo afferma
tranquillo come status quo.
All’inizio pensavo che anche lui fosse un barbone. Era malvestito,
malrasato, sporco e con la faccia cotta dal sole. Beppilessio invece
una casa ce l’ha. Viene alla “concimaia” come lui
chiama questo posto, per far legna e perché gli piace gironzolare
con la sua oca. A volte i proprietari della frutteria e della pescheria
gli fanno fare qualche lavoretto, tipo scaricare la merce o pulire il
pesce. E mentre lui lavora, Gina razzola nel prato di fronte. Lo aspetta.
Non so perché Beppilessio si chiami così, certo è
un uomo particolare, ma con me è sempre gentile. E’ calvo,
salvo che per una corona di ricci incolti, sale e pepe, che gli circonda
la nuca e le orecchie. Ha il naso grosso, carnoso e ricoperto da capillari
violacei, gli occhi sono piccoli e curiosi, sempre in movimento. Dato
che gli mancano diversi denti e si esprime quasi esclusivamente in dialetto
non si capisce molto di quel che dice e per di più il timbro
della sua voce è acuto e sgradevole. Vive da solo e si accudisce
da sé, i fratelli sono sposati, i genitori sono morti e nessuno
lo cerca più. Ma ha Gina. Ora è a pochi metri da me, nota
le cassette di legno e mi dice qualcosa che non capisco, io lo guardo
interdetta allora lui ne lancia tre nella mia direzione e rompe le fascette
delle altre facendo leva sui talloni. Ammonticchia i pezzi di legno
in un’unica pila, poi si asciuga il sudore con la manica del maglione
tutto buchi e inizia a parlare. Non lo capisco ma ascolto ugualmente.
Devono essere ricordi amari quelli che gli gorgogliano nella gola perché
ha un’espressione triste. Ogni tanto si zittisce e invoca il mio
sguardo, io annuisco e lui continua la sua litania. Si sta sfogando.
Siamo così uniti in questo scambio di dolore che quasi non ci
accorgiamo di Ada. E’ una donna di mezza età che fa la
governante presso una famiglia che abita lì vicino. Ada è
timida. Si ferma poco distante da noi e posa sull’erba un cartone
di latte a lunga conservazione, due bicchieri di plastica e una busta
piena di pane raffermo. “E’ per l’oca” dice.
Poi si gira e se ne va.

E’ una luna lacera e spettrale… Una luna liquida.
…sembra pioverci addosso.
Lui mi diceva
Ti è mai capitato di sentirti sola?
E io
Ci sono giorni in cui raduno i dolori,
per affollare quel vuoto.
…
Che donna ridicola dovevo sembrargli!
Eppure anch’io avevo conosciuto i suoi sguardi-sequestri. Per
depistarli, guardavo altrove. Quando invece avrei voluto rifugiarmi
nel loro riflesso funambolo.
L’ultimo giorno mi disse che non mi avrebbe mai lasciata. Andò
via. Non mi lasciò mai.
Ho visto avvizzire la luna. Le stelle tumefarsi.
Era un artista. Dipingeva. Conservo ancora i suoi ritratti… Non
mi riusciva mai di capire cosa significassero. Lui rideva. Diceva che
per capire bisognava rinnegarsi.
Intendeva dire che l’Arte, per essere compresa, bisognava che
a guardarla non fosse l’uomo, ma la sua anima. Io nemmeno ci credevo
all’anima. Io credevo solo ai suoi occhi.
Dei suoi dipinti, uno più di tutti non riuscivo a comprendere.
Tuttavia, quando lui non era in casa, stavo lì, immobile, per
ore, a fissare quel quadro.
C’erano…non so…delle foglie, forse... Un buco nero,
e un buco bianco più grande.
Pur non sapendo cosa fosse, e se qualcosa poi fosse davvero, quello
era il quadro che amavo di più.
Ricordo ancora che il giorno in cui lo dipinse io, in realtà,
gli avevo chiesto un suo autoritratto.
Ma in quel dipinto non c’era il suo volto...
…nemmeno i suoi occhi.
E mi offesi. Perché non fui in grado di guardare.
…
L’ultimo giorno, trovai un foglio, vicino a quel dipinto. Riconobbi
la sua minuscola scrittura …
Dalla mia mente
germogliano alghe brulicanti. Sono pensieri annodati, traguardi tramortiti,
sogni incespicanti.
Sono i dolori che ho saputo tessere attraverso l’incompiutezza.
Tra i sogni che genero, alcuni li vedo rassegnarsi. Come in quei giorni
in cui sembra che la precarietà venga a violare l’archivio
delle cose che amo.
E allora quelle tremano, bisbigliano, s’inteneriscono.
I sogni acerbi, capita addirittura che si costringano…fino ad
accartocciarsi.
Come fossero foglie fragorose.
Tuttavia ho anche desideri densi, abili a rendersi divergenti.
Sono quelli i desideri con cui ho farcito la speranza.
C’è poi l’ossatura forte, il midollo sottile che
sostiene quell’ impalcatura mistica di cui ancora
non ho compreso i contorni… alcuni la chiamano addirittura “Anima”…Quella
che tu neghi. Quella con cui ti guardo.
Sopra di essi, uno squarcio annacquato lacera la realtà, rendendola
fasulla. Contiene un principio ermetico, il gioco solitario di un bambino,
un enigma irrisolto e risoluto che, impertinente, ci ripropone la misura
avversa della nostra dissolvenza.
Amore mio, perdonami se a tutto questo io non ho saputo sopravvivere.
Sono trascorsi dieci anni dalla sua morte. Seppi solo dopo di quella
macchia scura al suo cervello…
L’ultimo giorno mi disse che non mi avrebbe mai lasciata. Andò
via. Non mi lasciò mai.

La valle della luna era placida, la sera era calata con quel classico
velo di umidità che staziona a meno di un metro da terra e lambisce
il fogliame delle piante rendendole col fresco rigogliose. La valle
della luna era lì, da sempre, e anche quella notte diede vita
ad un piccolo germoglio, la delicata sommità di una di quelle
piante selvatiche prive dell’umana attenzione, una di quelle piante
che nascono e muoiono senza nome nell’uniformità delle
verdi immagini di campagna.
Da qualche giorno la radice aveva sospinto il germoglio verso l’alto
e quella sera, facendo breccia sul terreno, aprì uno spiraglio
per la visione del cielo e delle stelle. La gemma sottile si raddrizzò
nel giro di poche ore e rimase gracile nella sua nuova posizione, minima
al cospetto dell’infinito.
Al calare del buio le stelle si rivelarono sempre più luminose
e gradualmente ricoprirono il cielo partendo da oriente. Tutte le piante
della valle brillarono della luminosità naturale della luna che
evidenziava le goccioline adagiate sulle foglie, di tanto in tanto qualcuna
cadeva anche sul piccolo germoglio sconquassandolo come se, sopra di
esso, fosse caduto un macigno.
La stasi, la pace in movimento delle piante è un elemento della
natura incompreso o forse ignorato dall’uomo che non conosce lo
spazio, l’uomo-documentario che necessita delle telecamere, velocizza
le immagini della sua curiosità per ammirare la storia delle
piante che crescono, fioriscono e muoiono nel silenzio, ma quell’uomo
non comprende la sua presenza, la sua essenza nello spazio e quella
dei vegetali che nella quiete assistono alla dispersione della loro
purezza.
Quella sera la valle della luna era così, in movimento nella
statica ammirazione del cosmo. Gli alberi, gli arbusti, e le erbe tutte,
accomunati dal loro parto avvenuto nel grembo della terra, restavano
protesi verso il cielo per volteggiare e festeggiare la vitalità
del loro essere creature spaziali nonostante le radici terrene.
Il germoglio era nato grazie all’umidità rilasciata in
profondità dalla carcassa di un cane sepolto qualche mese prima
da un padre in lacrime col suo bambino. Un padre arreso alla morte del
suo cane che cercò di spiegare lui il significato di una vita
senza senso. La terra smossa dalla pala aveva portato in profondità
il seme e tanto aveva dovuto faticare il germoglio per riuscire ad arrivare
a farsi accarezzare dall’aria della notte, nell’attesa che
anche il sole lo ammaliasse con rispetto.
Sotto di se, il grosso corpo del cane pastore infondeva alle radici
la vitalità per realizzare il sogno di quel piccolo germoglio
che attendeva solo di crescere. L’atmosfera della valle restò
immutata per tutto l’arco della notte ed il germoglio si tirò
ancora più su, fino a che il gambo sottile non raggiunse l’altezza
del seme di un’oliva cascata dal vecchio ulivo che lo sovrastava.
Una scia bassa di luce si rivelò dall’orizzonte e, al calare
della luna, il germoglio si fermò, mentre i primi bagliori iniziarono
a irradiare la sommità del vecchio ulivo. Il germoglio di colpo
smise anche di sognare e percepì la forza del gambo che riprese
a salire, sebbene in lui qualcosa iniziò a mancare. Sentì
che la sua vita di essere spaziale non sarebbe continuata come quella
del vecchio e grande ulivo che ammirava dal basso, comprese che tutto
nella valle della luna sarebbe continuato senza che lui avesse veramente
potuto arrivare in alto, all’estremità della pianta di
cui faceva parte. Il germoglio si sentì mancare la linfa che,
per far crescere il gambo, non poteva più giungere alla sua sommità
e così iniziò a chinarsi perdendo il risalto del suo verde
chiaro, illuminato da una fase di luce crescente, e in quegli istanti
percepì il freddo di una nuova alba umida.
La valle della luna restò immobile fino ad una secca ventata
che striò le sue curve e arrivò fino al germoglio che
si staccò di netto dal gambo e andò a posarsi ai piedi
del vecchio ulivo. Al di sotto di esso, a qualche metro di profondità,
fra le sue possenti radici, giacevano i resti del cadavere di un uomo
morto ammazzato tanti anni prima. La vecchia pianta aveva tratto da
quell’essere, nato fuori dalla terra e ricoperto dalla terra alla
sua morte, le forze che alimentarono la sua crescita e ripulì
con i vermi le sue impurità, cancellando le tracce di qualsiasi
segno di oscenità.
Morire ammazzati nella grandezza delle cose è un aspetto insignificante
per la natura che tramite quella cessazione di vita aveva forgiato una
nuova creatura, un nuovo inizio per il suo disegno ignoto, per il progetto
di prosecuzione infinita che parte dalla terra per arrivare chissà
dove.
L’uomo sotterrato nella valle della luna non fu protetto dall’idea
di quell’atmosfera celeste poiché non era in lui la visione
del suo essere creatura infinita dello spazio, la concezione trascendente
che avrebbe potuto distoglierlo dalle oscurità nocive delle sue
ossessioni. Quell’uomo, quel nome smarrito sottoterra, non poté
bramare mai quel desiderio di infinito che aveva elevato il germoglio,
nella fatica di un sogno non suo, con la speranza che, al passaggio
della carezza solare, il suo arbusto sopravvivesse al ritorno del buio
nella valle della luna.

L’uomo col cappotto blu camminava lento non curandosi della confusione
che lo circondava. Il cappello era inclinato da un lato, lo sguardo
obliquo lo puntellava, distante fermo. Si avvicino a un immenso portone
impudicamente trasparente, lo sguardo vi penetrava per decine di metri
attraverso i vetri invisibili, e senza quella sottile freddezza lo si
poteva dire accogliente. Dentro il tempo non c’era, i gesti fluidi
descrivevano esatte parabole, il caos restava fuori inconsapevole alieno.
Alcibiade Z. s’avvicino alla soglia e senza sforzo rifluì
nell’immenso atrio, conosceva bene le regole della penetrazione,
e il suo corpo obbedì docile all’insegnamento.
Distante troneggiante il custode alzò lo sguardo ancora distratto,
quasi non vide la figura entrante, e non l’avrebbe certamente
vista, se un riflesso incongruente non fosse scivolato via dalla tesa
traslucida. Si rivolse all’estraneo e lo calamitò a se.
Alcibiade Z. non pensò, erano anni che lo faceva, ogni pensiero
aveva raggiunto il suo nirvana, niente più Karma neuronale, estrasse
l’arma ed eliminò il custode, che silenziosamente scivolò
forse morto forse assente dietro il frontone del tempio. Agesilao B.,
così si chiamava il custode, quella mattina si era svegliato
contento, aveva passato una magnifica notte tra gli arti snelli e forti
di una ragazza di cui non aveva voluto sapere il nome incontrata nel
Night End, il locale semovente che percorreva per tutta la notte il
cuore della metropoli. Il lavoro alla Compagnia era piuttosto comodo,
determinare chi poteva entrare e chi no era assolutamente semplice,
a un iniziato lo status era sempre manifesto, e poi non era necessario
dire dei No che pesavano e che potevano sembrare scortesi, bastava deviare
i non ammessi verso gli ingressi che conducevano nei labirinti laterali.
Li si perdevano senza arrivare a nessuna meta se non alla soddisfazione
di aver compiuto un percorso che certamente sarà stato formativo
e costruttivo. Agesilao B. si preparò con la calma che sapeva
di sapienza antica, indossò l’uniforme, che era però
unica, perché alla Compagnia stava a cuore l’individuo
con la sua complessità e la sua irriducibile unicità,
impeccabile uscì di casa. Il tragitto era breve non occorreva
affannarsi, e così dolcemente scivolò sul suo piccolo
podio al piano zero della città torre della Compagnia. Di quella
mattina ricordò solo il riflesso sghembo di un cappello e una
calda mano che afferrandolo da dentro lo tirò tutto all’interno
di sé.
Alcibiade Z. si diresse verso l’ingresso alla sinistra del trono-tomba
del custode, scelse le scale, anche se più pericolose, l’immobilità
geometrica dell’ascensore lo intimoriva ancora un po’, pensiero
sciocco debole di carne, ma era ancora presto e lento salì.
Al terzo piano fu attratto in un largo spazio disseminato di dipendenti
della Compagnia impegnati in ritmici esercizi di autoflaggellazione,
non sembravano patirne e non si interessavano a lui, lo sapeva, conosceva
molto dell’oscuro meccanismo della città, poco meno che
ombra percorse tutto il corridoio centrale della sala fino alla porta-confine.
Entrò, la segretaria plantigrada consolidò la sua posizione
collocando il telefono tra lei e la porta, l’entrante era un intruso,
lo capì subito, e fu l’ultima cosa che capì. Si
chiamava Adelaide B. era giovane, e fu fortunata, poté rimanere
giovane molto a lungo, non solo perché il suo nuovo chirurgo
le aveva confezionato un set artorganico di sicura qualità, bensì
perché la morte la colse in un minuscolo attimo cristallizandola
in quel magnifico abitocorpo regalatole solo il giorno prima dal suo
ragazzo numero 3. Il suo regale seno che si ergeva ardito a puntare
le stelle avrebbe fatto la gioia dei futuri archeologi organici.
Alcibiade Z. proseguì oltre, una seconda porta lo attendeva,
e dietro di lei lo sguardo tondo del funzionario responsabile del terzo
piano, lo spazzino della Compagnia. La porta era uno schermo non penetrabile
dallo sguardo, la prima di quell’edificio, così fu costretto
ad aprirla senza sapere quale faccia o quale nuca avrebbe colliso con
la sua presenza, non esitò e la faccia di Antinoo C. esplose
accogliendo con la bocca spalancata il suo non previsto infausto fato.
Già perché il prossimo mese avrebbe scalato in un sol
balzo 9 degli 81 piani della città torre, attestandosi così
al livello della distribuzione, non il più prestigioso certo
ma sicuramente il più ricco di opportunità per i pachidermi
come lui che sanno muoversi negli spazi angusti del trading.
Richiuse la porta, il sangue questa volta decorava con toni troppo vivaci
le pareti dell’ufficio, qualcuno, ma chi?, avrebbe potuto notarlo,
ed era ancora presto per dare nell’occhio. Salì allora
verso i piani alti dell’edificio, dopo altri 3 piani fatti a piedi,
realizzò che il suo corpo sudato avrebbe dato troppo nell’occhio
e si decise a usare l’ascensore. L’attesa non fu lunga anche
se il sistema memnofisiognomico stentò a riconoscerlo e fece
trascorrere 3 interminabili secondi di immobilità prima di acconsentire
al suo ingresso. Alcibiade Z. era stato un dipendente della Compagnia,
e forse lo era ancora perché da certe dipendenze non si può
mai evadere, fu accusato di comportamento incongruo rispetto alla linea
della Compagnia e quindi relegato nelle ali periferiche della città
torre, non fu una vera punizione ma una semplice ricollocazione, lo
stipendio aumentava le gratificazioni pure, non era in linea con la
filosofia della Compagnia la punizione come sistema di rieducazione;
dalla Compagnia poi se ne andò e ora era ritornato.
Salì fino al livello 27, la porta dell’ascensore si aprì
su una grande sala non dissimile per dimensione e forma da quella del
livello 3, pervasa anch’essa da una brulicante attività
e da brusii e lamenti, che presto ricollegò al messaggio visivo,
ovunque team di lavoro di 3 o 9 elementi che furiosamente si dedicavano
a copulazioni con i più vari assortimenti.
Vi passò attraverso, sublimandosi nei vapori che pervadevano
la sala, e arrivò alla porta della direzione, dietro la quale
il direttore, Generale?, s’affannava in una strenua battaglia
con i 27 membri(?) del suo staff di segreteria. Quando lo colpì
sembrò quasi contento, in quanto direttore e in quanto generale
infatti non poteva aspirare a cariche più alte e la soddisfazione
di 27 tra segretarie e segretari richiedeva un impegno tale che avrebbe
sicuramente compromesso il suo cuore nuovo, che pure era un modello
di prima scelta espiantato 3 settimane prima da un volenteroso decatleta.
Così anche Agamennone C. si immolò sulla strada ascendente
di Alcibiade Z.
Da quel momento vista l’insolita facilità della sua avanzata
decise di proseguire fermandosi ad ogni piano anche perché oltre
il livello 27 non c’erano più certezze, la struttura e
la composizione dei piani superiori erano per lui un assoluto mistero.
Tale mistero però si rivelò allo stesso tempo meno oscuro
e più incomprensibile di quanto credeva, i piani successivi al
27 erano tutti popolati da esseri umani in tutto convenzionali, che
si differenziavano dai dipendenti dei piani inferiori oltre che per
le loro specifiche individualità dalla caratteristica di porre
tra loro e l’atto che li avrebbe eliminati un fiume pressoché
inesauribile di parole che tendevano a circondare significati che apparivano
sempre solidi a prossimi al loro definitivo compimento ma che poi attraverso
varchi imponderabili svanivano in nuovi rivoli di parole fin troppo
connesse. Dopo un primo moto di sconcerto, che lo indusse a qualche
pericolosa esitazione, Alcibiade Z. tornò a concentrarsi sulla
prassi della sua missione, e cominciò ad eliminare senza indugio
tutti quegli esseri così convenzionali e pur così sfuggenti
i cui nomi in bella evidenza sulle porte degli uffici erano tutti preceduti
da tre enigmatiche lettere, che nascondevano chissà quale oscuro
significato “A V V”. Dopo svariate ore di incessante attività
e la semina di 6.561 cadaveri, alcuni ancora parlanti, arrivò
infine al livello 81 della torre castello, la sua meta?. Le stanze dell’ultimo
piano erano in tutto diverse da quelle dei piani inferiori, e non c’era
nessuno dei sempreparlanti né di altri tipi di umani. Tutte le
stanze che erano assolutamente vuote, non un idea né un moto
turbava la quiete della cima della torre castello, Alcibiade Z. cercò
ovunque tracce di pensiero sia fresco che già pensato, ma non
trovò nulla se non un ineffabile calma attesa. In fondo all’ultima
stanza sul lato ovest della torre una porta attendeva ancora di essere
aperta, in alto lampeggiava la scritta “EXIT 1”, Alcibiade
Z. si avvicinò, incerto se rivolgere contro sé l’arma
che altrimenti appariva inutile, ma non lo fece e la adagiò in
terra con la cura che si ha verso gli oggetti che ci hanno accompagnato
nelle svolte decisive della nostra vita, quindi aprì la porta
e uscì.
Mentre cadeva risucchiato da quel vento inverso che sospinge i precipitanti
e il cappello restio alla caduta si innalzava lontano dalla sua testa
si rivide bambino in Grecia a sognarsi non più solo e con quel
nuovo pensiero ronzante in testa il cranio si frantumò sull’asfalto.
Persistente come un alone intorno alla testa fumante quel ricordo restò
ancora un po’ lì in cima al cappotto blu e mentre un alito
questa volta orizzontale di vento s’apprestava in fine disperderlo
il cappello recalcitrante s’adagiò obliquo su quella fronte
ora sghemba a contenere e custodire ancora una volta il pensiero e il
sogno di Alcibiade Z.

Lo stadio era munito di numerose zolle, unite tra loro con colla vinilica,
pioggia e farina. L’arbitro (un pensatore dotato di libero arbitrio
e fischietto) decretò la vittoria per sei reti a due. Naturalmente
la tifoseria dei pescatori reagì, lanciando verso la tifoseria
avversaria, uova marce, ricotte gialle e broccoli in umido.
La polizia, che pur essendo totalmente d'accordo con la protesta, assolutamente
non avrebbe mai potuto far passare una simile reazione, la polizia si
diceva, caricò i pescatori verso l'argine destro del canale sospingendoli
inesorabilmente verso l'acqua.
Il suddetto canale, accogliente e umido, aspettava tranquillo il suo
fato.
Il canale venne cambiato dal padre del signor Evaristo Loffredi, un
ex piduista con l’hobby delle lobby. Con l’avvento di tangentopoli
Evaristo si vide costretto a fuggire in Scandinavia, dove trovò
lavoro come guardasigilli di un portaborse, nel rinomato Hotel a quattro
stelle “Un due tre”.
"Stella!" ribadì concettuosamente papà Cataldo
dopo aver finalmente spento la televisione ormai in fiamme da tempo.
Telescopiò quindi vagolando a caso sulla volta celeste finché
non si imbatté in un paio di pianeti infracollegati da piume
sgargianti e presumibilmente delittuose.
Il signor Cataldo rimase confuso e non dormì per sei notti, in
compenso si addormentava di giorno per poi svegliarsi alle otto di sera
con un grande mal di testa sopra il comodino. I due dinamici amici,
approfittarono dell’insonnia e divennero cabarettisti ambulanti
nelle metropolitane di Parigi. Non riuscirono a guadagnare sufficiente
denaro per vivere, anche perché la metro di notte è chiusa,
soprattutto in Francia.
Sotto a tutto invece soggiaceva non un solo metro, ma di più:
metri e metri di inenarrabili barzellette sconce, chilometri di satiri
politici e carabinieri allo sbando senza più storielle ma solo
martiri, sangue e lacrime amare.
"A mare!" urlò subito Achab avvistando la decrepita
balena bianca DCnove al largo di Ustica.
Nessuna risposta. Militari. Stato. Giornalista. Portobello. Depistaggio.
Ostaggi televisivi. Minacce. Tensione. Radar. Indagini. Risposte. Domande.
Dubbi. Spot. Pensare. quiz. Pensare. spot. Pensare. Dimenticare. Spot.
Dimenticare. Spot. Consigli per gli acquisti. Pubblicità. Ritorniamo
tra poco.
La deflagrazione fu improvvisa. Improvvisamente il cielo sembrò
abbattersi sulla piazza gremita. Subito dopo il silenzio: irreale, denso
e liquido quasi: i pochi sopravvissuti ricominciarono a respirare dopo
una frazione di secondo di apnea assoluta. E tra le nuvole di polvere
e fumo che avvolgevano tutti iniziarono a udirsi i gemiti.
Era la Rinascita: neonati con sciarpe rosse e pugni alzati, avanzavano
fieri e con testa alta, verso il Parlamento. Con non poca fatica i rivoltosi
riuscirono ad entrare, occupando i corridoi del Palazzo ormai sporchi
di latte, plasmon e biberon rotti.
“Il Palazzo del Parlamento Presidenziale di Paperopoli è
stato silenziosamente, subdolamente, segretamente, sardonicamente sicuramente
occupato da un accozzaglia informe di terroristi bigotti e reazionari
che tentano di minare alla base l’ordinamento del nostro felice
Paese...” queste e altre furono le parole del capo della Banda
Bassotti per l’occasione.
La Banda, nel tempo libero, si esercitava per il grande concerto di
fine anno al Vaticano. Tra i cantanti: Tiziano Ferro, Manuela Arcuri
e Vincenzo Zaccheo nel ruolo di rappresentante dei benpensanti conservatori
rivoluzionari proletari nobili liberi schiavi.
All’unisono irreggimentati cani sciolti dei parà deviati,
all’ordine “niente prigionieri tolleranza zero”, iniziarono
la carneficina.
L’arbitro. Morto. Evaristo Loffredi. Morto. Papà Cataldo.
Morto. I cabarettisti. Morti. Il capitano Achab. Morto. La balena bianca.
Morta. I neonati della Rinascita. Morti. Il Presidente. Morto. Il Papa.
Morto. La Banda Bassotti. Morta. Tiziano Ferro. Morto. Manuela Arcuri.
Morta. Vincenzo Zaccheo. Morto. Zabaglio. NO?! Lanzidei. PURE?! Pure.
Zabaglio e Lanzidei. Morti.
Appena
entrati al Cicerone 18 si è respirato quasi immediatamente “aria
di San Valentino”.
Aria fritta. Un’atmosfera che detesto: preferisco pensare che oggi sia
Venerdi 13, il che dovrebbe portare male. Tanto male.
Sì…preferisco pensare ad una sfiga allucinante profetizzata dalla kabala
napoletana, piuttosto che all’amore eterno cantato dai santi.
Sono le 22:17. Siamo qui da quasi 2 ore e il vino comincia a far sentire
il suo effetto. E’ finito da poco, ora bisogna salire di gradazione.
Sono un esperto in queste cose e a quanto pare anche lei, la ragazza
che siede al mio stesso tavolo, non è da meno. <<Una grappa: ecco
cosa ci vuole!>> mi dice con la sicurezza di chi di sbronze nella
vita se n’è prese parecchie.
Arrivano due bicchierini quasi pieni, e arriva
anche la parte più divertente. Come quella volta al ristorante cinese,
quando ormai completamente ubriachi per aver bevuto una bottiglia di
Corvo bianco e 12 grappe (6 di liso e 6 di losa),
ci siamo guadagnati, conoscendomi direi con poca fatica, lo sguardo
disgustato di tutti i presenti, e in alcuni casi anche la loro fuga.
Ma chiedere alla mia memoria cosa ci siamo detti quella sera in quel
tavolo sarebbe troppo arduo…
In ogni caso, questa volta voglio andare oltre: accanto al nostro tavolo
c’è una coppia che, si vede, sta contando i secondi per festeggiare
il loro San Valentino (il primo, probabilmente) sprizzando
gioia da tutti i pori.
24-25 anni lui, 20 lei. Non fumatori. Ben vestiti. Facce pulite. Facce
da compagnucci della parrocchia, probabili assidui mangiatori di ostie
e devoti di Padre Pio. Stanno mangiando due insalate di fronte ad un
misero quartino ancora quasi pieno e ad una bottiglia d’acqua ormai
quasi vuota. Poveracci!!
A vederli non riesco a non pensare al vecchio Nicoletti, il mio professore
di paleontologia.
Benchè quella materia mi sia sempre stata sul culo, per me Nicoletti
era una specie di Mahatma.
Era uno che nella sua stanza teneva il poster del “Che” accanto a quello
dei “Blues Brothers”.
Ai suoi esami esordiva sempre con domande del tipo: “Credi in dio? Dammi
una prova dell’esistenza del TUO dio…” oppure: “Parlami della teoria
antidiluviana”.
Ma non c’era cattiveria. Anzi. Quando faceva queste domande, era divertente
(ovviamente non per gli esaminati) osservare nei suoi occhi la stessa
ingenua eccitazione di un ragazzino che vede per la prima volta le tette
di una coniglietta di Playboy. Ma era ancora più divertente vedere come
i ragazzi che dovevano sostenere l’esame, pochi minuti prima si disfacevano
di collanine, medagliette, madonnine, croci, crocefissi o qualsiasi
altro simbolo cattolico o pseudocattolico la cui presenza poteva compromettere
il buon esito dell’esame.
Perché mi vengono in mente tutte queste cose? Il motivo ce l’ho proprio
davanti. Eccoli lì. Lui e lei. Tipici esempi di “fossili viventi”. Una
delle lezioni più strane e più curiose di Nicoletti.
Fossili viventi. Organismi dotati di un tasso di evoluzione talmente
basso da rimanere invariati per milioni di anni. Veri e propri sopravvissuti
di epoche infinitamente lontane che si trascinano la loro arcaicità
ritagliandosi un angolino in zone dove non esiste competizione. Proprio
come quei due. Che competizione possono trovare nel mondo in cui essi
vivono? Ma forse mi sbaglio. Forse l’orologio che quel coglione tiene
al polso è segno di competizione.
Cazzo, quanto luccica!! Ma che è d’oro?!?!
E’ il momento di sconvolgere questi fossili.
Me ne esco così, con la prima schifezza che mi viene in mente.
<<Sai che differenza c’è tra Coprofagia e Coprofilia?>>.
<<No…>> mi risponde la mia complice.
<<Sempre di merda si tratta!>> continuo con un timbro di
voce molto impostato, come se stessi sfoggiando la mia conoscenza, come
se stessi parlando di una brillante scoperta scientifica o stessi elogiando
l’opera di un sottovalutato compositore classico.
<<Mozart era un coprofago, si sa! Come è anche rinomato che Hitler
era un coprofilo!!!>>.
<<…e la differenza qual è?>> mi chiede lei.
Vorrei tanto andare nel dettaglio, così solo per infastidire quella
disgustosa coppietta, per avere il piacere di apparire come una persona
volgare quando so di non esserlo, o come uno stronzo. E in effetti un
po’ stronzo lo sono. Un po’ tanto! In fondo che male mi hanno
fatto quei due?
Sono innamorati, o almeno credono di esserlo… e allora? Sono forse invidioso?
Ma no….dunque: sì, sono uno stronzo!
E chi se ne frega!!! È così bello essere stronzi…sto quasi per gridare
ai 4 venti che Mozart mangiava la cacca, mentre Hitler la usava per
eccitarsi ancora di più, magari seviziando o violentando una minorenne
(perché non tutti lo sanno, ma insomma: anche questa è
storia del nazismo…). Ma qualcosa mi blocca, lasciando incuriositi
e delusi gli occhi della mia complice.
E’ la vista di un bambino che mi ferma appena in tempo. Un bambino di
6-7 anni, seduto con i genitori non così vicino al nostro tavolo, ma
nemmeno così lontano da non sentire la mia brillante conversazione.
Stronzo sì…e me ne vanto. Ma non fino a questo punto…
Peccato, però! Chissà che faccia avrebbero fatto quei due poveri idioti…
La serata prende una strana piega. La tipa comincia a parlare in modo
logorroico. Dice di amare Kurt Cobein alla follia, di odiare Courtney
Love. <<Quella troia!!!>> mi dice: <<Non era passata
nemmeno una settimana dal suicidio del marito e lei già scopava con
il chitarrista dei R.E.M.ma ti rendi conto??!
che troia!!!>>.
E’ già ubriaca…lo spero tanto per lei. Anch’io sono stato innamorato
di Neneh Cherry, però avevo 16 anni… e che cazzo!!!! Sentirla parlare
mi fa cascare le braccia, mi annoia da morire, mi fa pena…
Poi parla di me. Dice di provare un infinito rispetto. Adora
i miei pregi, odia i miei difetti. I tuoi tanti difetti, sottolinea.
<<Io odio i tuoi difetti. E basta…>>. Le rispondo.
<<Ah…ma allora sei proprio uno stronzo!!!>>.
La cameriera si avvicina al tavolo della coppietta. La ferma. <<Quando
è il momento di pagare, paga il “signore”…>>
le dice facendo notare con il suo tono che i miei atteggiamenti
sono tutt’altro che signorili. Ride. Così, per curiosità, mi faccio
un conto approssimativo di quello che abbiamo mangiato e bevuto: un
abbondante antipasto in due, una patata per me, un tomino per lei, due
bottiglie di Nero d’Avola, 4 grappe. Fino adesso…
…in tasca ho appena 30 €, riuscirò a malapena a pagare la mia parte!
<<Sei uno stronzo!>> ripete.
<<Lo so…>> le rispondo spirandole in faccia il fumo della
mia Chesterfild.
Lei fa la stessa cosa. I nostri occhi cominciano a lacrimare. Mi sorride.
E’ veramente carina stasera. I suoi occhi mi ricordano quelli delle
donne mediorentali, che ne so…egiziane, turche, libanesi… ma non posso
farle questo complimento: non ho alcuna intenzione di farla sentire
importante. Piuttosto la distruggo.
Si accorge che la sto osservando, chissà…forse anche con un po’ di desiderio.
<<Cosa guardi?…>> mi chiede.
<<Hai fatto qualcosa ai capelli?>>.
<<Ah…te ne sei accorto? Li ho tagliati un po’.
Ci sto bene, vero?>>.
<<Mmm…ti fanno la faccia tonda!>>. Non è assolutamente vero,
ma a me piacciono le donne magre, scheletriche e quasi morte. E lei
lo sa… quindi continuo spietato: <<Sì…così c’hai il viso più cicciotto…ma
non la prendere come un’offesa, credimi!>> cito Nino Manfredi
nella parte di un contadino ciociaro in un vecchio film della Wertmuller,
anche se non c’incastra nulla: <<La donna vestita adda esse
come ‘na fronda e nuda adda esse rotonna!!!>>.
E’ incredibile!!!! Continua a ridere… io la prendo per il culo e lei
ride…
Poi cerca di spostare la conversazione dove vuole lei.
<<Hei…ma noi due dovevamo iniziare a scrivere un libro insieme,
non ricordi?>>.
“Un libro?!?! Ma cosa sta dicendo???” penso dentro di me. Cerco di fare
mente locale e i ricordi ritornano alla sera del ristorante cinese.
La serata non era finita lì: evidentemente quel vino e tutte quelle
grappe cinesi non ci erano bastate. Così eravamo andati al Deathflower.
Lei aveva ordinato uno dei suoi puzzolentissimi Souther Confort, io
il mio classico Jack Daniel, ma inutile aggiungere che ai primi sorsi
la terribile e tanto temuta “fase down” arrivò per tutti e due. Spietata.
Ci addormentammo per quasi un’ora nella sua macchina, parcheggiata proprio
accanto alla villa del “Federale”. L’uno nelle braccia dell’altra. Faceva
un freddo boia quella notte…
Tra un conato di vomito ed un altro c’era stato quello che tra me e
me avevo definito “unincidentedipercorsocheèmegliodimenticarepertuttiedue”.
<<Che serata romantica!>> mi aveva detto quasi subito dopo
quello che era successo: <<Peccato che non siamo due tossici.
Un buco ci sarebbe stato bene questa sera!>>.
Ho sempre apprezzato la sua malsana ironia. Quella sera la sua battuta
mi aveva invitato a nozze.
<<Beh…possiamo sempre rimediare>> le risposi: <<a
partire da domani potremmo vederci qui tutte le sere, farci una pera,
portarci un diario ed appuntarci tutti i nostri deliri. Dopodichè potremmo
ricavarci un romanzo. NOI, I RAGAZZI DELLA PISCINA FINESTRA. Me lo sento:
sarà un best seller!>>.
Dunque, a quello si stava riferendo. A quella battuta di merda…
<<Ma che vuoi scrivere?>> le dico: <<Non mi ricordo
tutte le stronzate che ci siamo detti quella sera, ma di certo quella
del “best seller” doveva batterle tutte…>>. Forse la sua è soltanto
una scusa per parlare dell’ ”incidentedipercorsoavvenutolaseradelcinese”.
Spero proprio di no!!!
La prende un po’ alla larga. <<Sai…in realtà io mi ero accorta
di te, già molto tempo prima di conoscerti. Sono già trascorsi 7 anni…ci
pensi?>>.
Parla seriamente. Cerco di seguirla attentamente, ma la cosa non mi
convince affatto.
<<Ti trovavo in quasi tutti i locali che frequentavo. Alcune volte
stavi con i tuoi amici. Spesso e volentieri da solo…ed era in quei momenti
che mi colpivi di più: sono sempre rimasta affascinata dalla tua solitudine!!>>.
Sta toccando un brutto tasto.
Sorella Solitudine. Madonna Malinconia. Lady Tristezza.
Amanti, spose e regine che ho sempre custodito gelosamente nei meandri
più reconditi del mio essere. Chi è questa intrusa?
<<Delle volte te ne stavi con lo sguardo fisso in un punto per
un tempo interminabile. 10 minuti, un quarto d’ora…ma non guardavi mai
le persone. Ti soffermavi sul bordo del tuo bicchiere, sul posacenere,
su un poster o sulla cassa di una batteria, se c’era qualcuno che suonava…>>.
<<Evidentemente li trovavo più interessanti…>>.
<<Lo fai anche adesso…>>.
<<Se capita sì…e allora?>> le chiedo infastidito.
<<Niente…non te la prendere!! Stavo solo notando un tuo atteggiamento.
Non era di certo una condanna…anzi te l’ho detto: mi piace l’espressione
del tuo viso…in quei momenti hai gli occhi del lupo solitario…>>.
I lupi solitari. Questa sta diventando una serata “paleontologica”.
Nicoletti c’aveva perso un’intera lezione sul comportamento dei lupi.
Saranno trascorsi già 10 anni. Forse di più…
Eppure me la ricordo benissimo. Per me era stata quasi una lezione di
vita…
<<All’interno della specie, dev’esserci sempre qualcuno al
di fuori delle regole. Altrimenti la specie è fottuta!!!>>.
E’ così che aveva iniziato quella lezione. Poi aveva fatto l’esempio
dei lupi, tipici esempi di “animali sociali”. “All’interno del branco
le regole sono rigidissime. Il capo è uno e uno soltanto. Ubbidiscigli
e non ti mancherà mai la tua dose di carne…se qualcosa non ti sta bene,
affronta il capo branco: se vincerai allora sei il più forte e il nuovo
capo sarai tu…”.
Descrisse i duelli fra lupi come episodi spesso cruenti, ma mai mortali.
Quando il lupo più debole si accorge di essere inferiore al rivale cessa
di combattere e gli porge la gola indifesa. L’avversario capisce che
la sua superiorità è stata riconosciuta
e ogni ulteriore lotta diventa inutile.
…e poi ci sono i lupi solitari, quelli che non mostreranno la propria
gola di fronte a nessuno. Possono essere forti o deboli, in ogni caso
la loro vita è sicuramente più breve e meno sicura di quella che si
vive nel branco. Ma la loro importanza è notevole: un domani la situazione
può comunque cambiare e per salvarsi dall’estinzione, la specie potrebbe
contare solo sul comportamento dei lupi solitari, perché in quel momento
la vita del branco è la meno adatta per la sua salvaguardia.
Mi ero innamorato di quelle creature…
Questa ragazza non è stupida.
È vero: sono un lupo solitario che se ne fotte delle regole.
Sopporto la fame e il freddo.
Offro il mio seme alle femmine sole, lupe affamate come me…
Ma di tutto voglio parlare tranne che di questo, stasera. Tronco la
conversazione nel modo più duro possibile. <<Andiamo al Death…mi
sono rotto di stare qui!!>> senza nemmeno chiederle un’opinione,
mi alzo e mi dirigo alla cassa. Mi segue. In macchina non ci diciamo
nemmeno una parola. Meglio così. Arrivati al Deathflower, faccio
di tutto per farle capire che ormai la sua compagnia non è più gradita.
Mi capisce al volo: non fa altro che saltare da un tavolo ad un altro,
salutando amici e conoscenti. Passano 10 minuti e si presenta con un tipo.
<<Sto andando a casa…ma non ti disturbare: mi accompagna un mio
amico>>.
Ecco cosa stava facendo. Stava cercando un passaggio.
<<Ok…fa’ come vuoi…io rimango qui>>, le dico.
Se ne va. Sicuramente c’è rimasta male: sono stato io ad invitarla stasera…
Me ne fotto… Finalmente posso rientrare nella mia parte!
Sono ubriaco. Ho voglia di bere ancora. Ho voglia di rimanere solo…
Mi siedo in un tavolino e chiamo Nadia, la ragazza dietro al bancone.
<<Il solito “Zio Jack”?>> mi chiede gentile come sempre.
<<Il solito “Zio Jack”!>> le rispondo.
Arriva il mio burbon e con un sorriso ringrazio Nadia per la sua generosissima
porzione. Ancora una volta rimango rapito dalla bellezza della sua lunghissima chioma.
Comincio a sorseggiare il mio bicchiere dando un’occhiata furtiva alla
fauna del locale.
Bha!!! Qualche jeans strappato, qualche tatuaggio, qualche piercing…forse
cambia il look, ma anche qui non mancano i “fossili viventi”.
L’alcool ha aperto la mia mente. Ad ogni individuo riesco ad associare
il nome di un fossile.
La moretta secca come un chiodo, seduta sotto il poster dei Senzabenza.
= Lingula: brachiopode dotato di tentacoli ciliati, sopravvissuto all’Ordoviciano.
450 milioni di anni fa.
Il ciccione che sta giocando a “Trivial”. = Limulus
poliphemus: artropode simile ai Trilobiti, rimasto invariato dal Triassico
superiore. 225 milioni di anni fa.
La bionda con la borsa di tartaruga che sta correndo urgentemente verso
il cesso. = Sphenodon punctatum: rincocefalo, rettile così denominato
per la particolare forma a becco del muso, comparso per la prima volta
nel Titonico. 150 milioni di anni fa.
Nomi impronunciabili e periodi geologici continuano a balenarmi in mente
in questa che sembra una spietata
gara tassonomica.
Poi arriva una voce amica. <<Ahò…ma che ce stai a fa’ qua cò ‘sti occhi da invasato?>>.
Finalmente uno della mia stirpe. È un mio amico musicista.
<<Chi? …cosa? …dove?…ah…ciao!!!…>>. Lo saluto con poche
parole sparse e con la bocca ultraimpastata di alcool. Guardo
l’orologio: forse non parlavo da un’ora, un’ora e mezza.
Il mio amico cerca di impostare una conversazione. Dice di essere reduce
da una serata di merda: <<Il posto faceva schifo, la gente peggio
e il proprietario del locale c’ha dato meno di quello che avevamo pattuito…tu
cosa hai fatto?>>.
<<Io?? Non ricordo… ah…ecco…ho contato i fossili…>>.
<<I fossili???…ho capito: stai fuso come na’ campana! Lasciala
qui la macchina. La riprendiamo domani. T’accompagno io a casa
‘che se te pijano le guardie come a minimo te tolgono 300 punti…>>.
Mi prende sotto braccio e mi dirige verso la sua macchina.
<<Hai visto?>> mi dice: <<Che vuoi di più? Fuori ci
sta pure la luna piena!!!>>.
Comincio ad ululare come un idiota. Lo faccio ridere: <<Sì…sì…ulula!
ulula!>>, poi spara la sua solita battuta: <<Tanto gira
e rigira sempre soli in branda se ritorna!!!…>>.
<<Sempre soli…>> gli rispondo.
Dedico questo racconto alla memoria di “Jack” Pallini.

La cosa più brutta che possa capitare è vivere in una
casa dove c’è gente che litiga e si prende a botte dalla
mattina alla sera. Dato che questo accade (quasi) in ogni casa, possiamo
concludere che la cosa più brutta è vivere in una casa
insieme ad altre persone. L’unica soluzione che resta è
vivere da soli. Ma soli, ahinoi, ci si annoia. E manco poco. E la noia
è tale che ci si mette a parlare da soli, per l’appunto,
prendendo atto ogni giorno che i soldi non bastano mai. Ma questa non
è certo una novità. Per guadagnare, infatti, bisogna lavorare
(pare facile…) ed è proprio questo il guaio, perché
il lavoro non c’è. O quanto meno non per tutti. Avere un
lavoro, poi, serve solo a tirare a campare alla meno peggio, senza potersi
togliere chissà quali soddisfazioni. Ma l’uomo non vive
di solo pane: vuole anche prosciutto, formaggio ed altro ancora. Per
risolvere il pastrocchio, oltre a lavorare, si può sempre provare
a rubare, ma anche questa soluzione non è tanto semplice, ché
il furto in grande stile è un’arte vera e propria. Ma non
tutti nasciamo artisti, in questa valle di lacrime, e dunque una cosa
è certa: chi non lavora, non mangia; e chi non mangia non scopa,
ché non ha la forza necessaria per dare a una donna ciò
che può soddisfarla fino in fondo. E il brutto è che non
finisce qui: se un uomo non scopa, poi non lavora, ché non ha
energia, ma solo un grande nervosismo che lo porta a commettere una
montagna di puttanate, come lasciarsi tentare dall’alcool, dalle
droghe, dal vizio del gioco, da false promesse di miracolosi quanto
inattendibili arricchimenti. Riassumendo, per campare come Dio comanda
bisogna lavorare… mangiare… scopare… lavorare…
mangiare… scopare e via di questo passo all’infinito: volenti
o nolenti, il mondo funziona così. Tutto sta ad avere un lavoro,
insomma. Il guaio è che lavoro per tutti non potrà esserci
mai: siamo troppi, male organizzati, poco specializzati e soprattutto
governati a cazzo di cane (o forse non governati affatto) da potenti
politicanti troppo preoccupati a pararsi il culo per potersi permettere
il lusso di badare ai casini di un mondo che va lentamente a farsi fottere.
Da questa disorganizzazione generale discendono le mille disgrazie degli
uomini che, se non hanno uno straccio di lavoro, non mettono nulla sotto
i denti. E dunque non scopano. E dopo qualche mese di vagabondaggio
finiscono per incazzarsi come cento belve messe insieme, scegliendo
di andare a rubacchiare qualcosa – o addirittura di organizzare
una rapina coi fiocchi – pur d’arraffare un bel malloppo
di bigliettoni. Senza di essi, infatti, non si mangia. E dunque si patisce
la fame. Ed è un’esperienza che non si dimentica, perché
da affamati tutto cambia e pare sempre più brutto. Perfino il
sole sembra non avere più luce. Questo stato d’animo, che
rende acuti i sensi ma strapazza il cervello, produce uno strano effetto:
può rendere delinquenti, ma anche artisti. Non a caso, la psicologia
degli artisti è molto simile a quella dei criminali: entrambi
sono pronti a qualsiasi cosa, pur di fare quel che gli pare e piace.
Ma il guaio è che mentre l’artista diventa bello, ché
coltiva fiori nel giardino dell’Arte, il delinquente diventa brutto,
ché conduce, a volte suo malgrado, una vita di merda. Sarà
un caso, ma da qualche tempo stiamo diventando tutti più brutti.

Cristo santo! Ma cosa può essere? Una macchia, no non ci credo,
deve essere un’opera d’arte, d’arte moderna, se vogliamo,
quella che tutti sanno cosè ma nessuno capisce, ma è arte arte
quella cosa lì che mi vogliono far credere sia una macchia. Macchia
sui vesti, macchia di umidità, macchia di caffè bollente sulla
tovaglia nuova, macchia di vino, macchia di bosco... No, mica c’entra
qualcosa la macchia di bosco, ma se avessi lo smacchiatore giusto potrei
smacchiare anche quella, bosco e sottobosco compreso. Ma ritorniamo nel tema:
macchia di febbraio. Svolgimento... Un momento che ci penso. Ecco fatto,
ci ho pensato abbastanza e adesso svolgerò, ma prima voglio fare una,
due o anche quattro o cinque precisazioni. E per precisione, bisogna dire
precisamente che la macchia di febbraio la sto guardando alle ore 3,59 a.m.
del giorno 4 aprile dell’anno 2004, tanto per essere precisi, ma dal
momento che fino a questo momento (sembrano sgraziati momento e momento tanto
vicini vicini?) nessuno mi ha fatto ancora vedere, e sono le ore eccetera
eccetera, la macchia di aprile e tanto per ribadirlo ma non per polemizzare,
e non so nemmeno con chi dovrei farla la polemica e perché dovrei
farla, anche se polemizzare fa tanto chic certe volte all’occasione
giusta, nessuno mi ha fatto vedere neanche la macchia di marzo, vi parlerò
della macchia di febbraio. Tantopiù che il mio analista è in
ferie e non posso manco dirlo a lui di mostrarmi un’altra macchia che
mi ispira pensieri profondi, poesie, racconti immorali, o forse volevo dire
immortali, e così via. Potrei anche parlarvi delle macchie sui muri
di casa mia, ma voi pensate che i miei muri interessino a qualcuno? Io dico
di no. E certo non vi parlerò delle macchie sui miei vestiti, altrimenti
direte che sono uno sporcaccione, che non si lava mai, che sbrodola quando
mangia, e lo so come vanno queste cose, così eviterò di parlavi
di macchie che non siano la macchia di febbraio. Del resto il regolamento
parla chiaro, se non mi credete leggetelo con attenzione: ogni mese ti facciamo
vedere una macchia e tu ci scodelli qualcosa di buono da leggere, e poi magari
scopro che l’erede di Manzoni sono proprio io, senza offesa signor
Alessandro. Ma ve ne siete accorti che ho fatto tutto un fiato, neanche un
capoverso, però i punti e le virgole ce li ho messi tutti. Quindi,
dicevo, che, regolamento alla mano, bisogna guardare la macchia, e poi lasciarsi
andare. Ogni mese una macchia diversa, cinque scrittori pilota e gli altri
che seguono, ma giacché ho sottomano solo la macchia di febbraio,
perché quella di marzo eccetera eccetera (salvo il fatto che quella
di marzo potrebbe anche esserci e io non sono stato capace di vederla), e
non conosco neanche il conducente, vi parlerò della macchia di febbraio.
In verità potrei parlarvi anche della macchia di gennaio, che mi piace
anche di più, ma non so se il progetto vale anche per le macchie retroattive,
e già parlare della macchia di febbraio nel mese di aprile, mi sembra
un po’ azzardato, ma visto che ho incominciato debbo anche finire,
altrimenti che incominciavo a fare. Dunque, la macchia di febbraio, e qui
entriamo nel vivo della questione, mi ispira... Mi ispira, punto. E qui potrei
anche finire, ma voi direste questo è un furbacchione, non ha fatto
manco un capoverso che a momenti ci strozziamo, ci ha fatto credere che la
macchia di febbraio è un’opera d’arte e non una semplice
macchia leggicervello, una classica, bella incantevole figurina Rorschach
a uso e consumo degli psichiatri che vogliono entrarti dentro, dentro il
cervello naturalmente, e nemmeno ci parla un po’ della macchia di febbraio.
Ve ne parlerò, è il mio dovere, ma prima voglio dire un’altra
cosetta, che è questa. Forse è per il fatto della psichiatria
che il progetto viene da Anonimi Scrittori, sarebbe un po’ come gli
anonimi alcolisti, che si riuniscono, si dicono i fatti loro, ma si vergognano
così tanto a essere alcolisti, che vogliono restare anonimi anche
quando si conoscono da anni, e spesso dopo le riunioni, due o tre vanno fuori
dalla sede a bere insieme qualcosa per dimenticare meglio i loro problemi.
Suppergiù potrebbe essere la medesima cosa, suppergiù, non
proprio uguale, e se proprio volete sapere la mia sulla macchia di febbraio,
vi dirò, punto primo che mi sembra ben fatta, proprio una bella macchia,
e questo dimostra che le macchie non sempre fanno schifo, punto secondo che
mi ispira un’infinità di cose che se non avessi paura che tempo
ventiquattrore spunta fuori la macchia di marzo e anche quella di aprile,
ve le direi una per una. Ma un paio ve le dico spicciativamente, che è
come dire che la mente si spiccia. Mamma mia che tirata per dire che la macchia
di febbraio ancora non capisco cosè. Ma perché bisogna sempre
capire tutto, ragiona, pensa a quello che fai, mi dicevano da piccolo, e
per fare ho fatto, ma non so se ho anche ragionato abbastanza. Però
quella di febbraio proprio una bella macchia. Una fichetta in maschera, ecco
potrebbe essere proprio così, notate l’accostamento con carnevale,
ma spiegatemi perché solo a febbraio ogni scherzo vale. Ci piace essere
musoni, ma in fondo alla cosa, c sempre un’altra cosa misteriosa. Sembra
una caverna. Ma non sempre le caverne nascondono sorprese. Ma poi cè
quell’ala spezzata, e vola via, e non è certo un pelo che se
ne và. Un pelo sarebbe niente, ma vallo a raccontare a quelli del
piano di sopra, che amano il soldo e la solidità, quindi qualsiasi
cosa loro l’attaccano al muro della cassaforte e stendono intorno la
rete di protezione gelosi pure di loro stessi, che non ce la fai a campare
solo con lo stipendio d’impiegato, e allora cerchi di impiegarti diversamente.
Scrivendo per esempio, è un impiego utile del tuo tempo, ma quelli
dei piani alti dicono di no, loro dicono che bisogna produrre, lavorare,
rendersi utili per la comunità, e sembra proprio di vivere in una
società per azioni, quelle buone le compiono gli altri, quelle schifose
le hai commesse tutte tu, suddito, cittadino, incoerente, voltagabbana, inutile,
perverso, perditempo, traditore, imbecille perché voti sempre il partito
sbagliato, e poi alla fine si scopre che vorresti anche scrivere e dire la
tua proprio sulla macchia di febbraio. Ma io dico, datemi la macchia di aprile
e vi solleverò il mondo. Come, direte voi. Proprio come adesso, come
con la macchia di febbraio, che certo non me ne lavo le mani, anzi a quelli
del piano di sopra, che tarpano le ali e nascondo le mogli per mostrare le
amiche, glielo dico a muso duro, anche se sto sotto: nella macchia di febbraio
ci vedo quello che mi pare, e se voglio mi ci vado pure a divertire. Poi
i misteri che scopro, nel buco, tra le ali, nel bosco e sottobosco, ve li
dirò ad agosto. Intanto tenetevi questa, e pensate sempre: può
una semplice macchia essere un’opera d’arte? Chi se la sente,
mi risponda pure.

“ C’è fiato e uomo nell’aria stasera: tra le case
bianche, sopra cui s’addormenta la luce s’avverte un artificio
d’Amore.
Respiro profondo: sensazione di cuore in silenzio, sensazione d’eterno.
Intravedo ombre di uomini che s’attardano pigre: forme scure, senz’ombra
di fronte alle soglie argentate.
Non ricordo da quando soggiaccio a questa specie di sogno: fiamme rapaci
s’accendono in mezzo alle urla di bambini morenti.
Bombe che cadono, macerie che fumano e là, sulla rocca, quell’uomo,
metà mostro di plastica, metà inguainato in corazza ed elmetto,
che alza ben alto un bambino, rosa tenero di carni di donna, per buttarlo
nel vuoto.
Mi sveglio sempre sudata: l’orrore di una realtà percepita di
morte totale, di guerra, di annullamento seriale.
Allora mi alzo.
Clitemnestra, che dorme con me, continua i suoi sogni di certezza e assoluto.
Lei è bella e già donna.
Io sono ancora un insulso virgulto alla casa.
Polideute, il gemello di Castore, ieri ha intagliato nel legno per me una
bambola magra.
I fratelli ogni tanto si voltano a guardarmi in mezzo alle loro quotidiane
prove di guerra: dei due, però, solo Poli ha per me gesti d’affetto.
Castore, invece, mi sfugge. Intravedo, a volte, il suo sguardo lubrico da
dietro una colonna di crema. Mi scosto a lasciarlo passare.
La nostra è una casa solitaria. Poche le ancelle, meno ancora i servi.
L’intrico metodico dei gesti non basta a smorzare gli intrecci degli
inferni privati.
Soltanto sul tetto, la sera, svegliata dai sogni di battaglie incendiate
mi sento rivivere.
Stamane, però, al galoppo su un destriero focato è arrivato
quell’uomo.
Mia madre l’ha accolto a guisa di Messalina rinata. Dietro Clitemnestra,
le ancelle e poi io.
Ha lanciato le briglie ad un Castore assai allibito.
I capelli lunghissimi, legati intrecciati, han sbattuto più volte
sul suo dorso nudo e squadrato.
Non ha guardato nessuno.
Fissò su di me unicamente occhi d’aquila nera: un cacciatore
di taglie.
Un guerriero, dal nome famoso. Grande uccisore di mostri, un Buffalo Bill
d’indiscusso valore. Il suo nome non fu pronunciato, tant’era
la fama di questo Clark Gable di roccia.
Solo al banchetto lo venni a sapere: TESEO.
Prima di scendere a mensa, con sguardo di nebbia, Poli arrivò alle
mie stanze: “Imbrattati il viso. Metti un vestito da serva. Raccogli
i capelli e buttaci cenere sopra. Non mi piace come ti guarda quell’uomo
e come nostra madre guarda lui!”.
Ubbidii senza capire: nulla si spiega, del resto, a una bimba.
Alla tavola grande mi fermai nell’angolo oscuro, lontana dal fuoco
delle torce, che da sempre temevo.
Mangiai in silenzio, cercando di confondermi insieme allo sfondo di canne.
Sentii le parole corrusche di sale che Teseo pronunciò: “ E’
inutile che voi la mettiate nell’angolo oscuro. E’ lei stessa
la torcia, il solo vederla scalda il cuore di qualsiasi uomo mortale!”.
Raggelai dal di dentro.
LA FIAMMA ERO IO!
ERA MIA LA NATURA DEL FUOCO!
Ero io la guerra rapinosa, il caldo che uccide.
Fuggii in mezzo al palazzo, cercando la grande fontana per spegnere subito
tutto l’ardore del rogo del sangue.
Gridando m’immersi.
Lo straniero fu lì in un soffio, guardandomi dall’alto: immagine
tremolante, fantasma nell’acqua.
Sorrise e mi strappò all’abbraccio gelato, portandomi all’altezza
dei suoi occhi d’inchiostro,. Con una carezza gentile mi scostò
i capelli bagnati, ma di nuovo oro fuso, dagli occhi: “Ah! Elena bella,
non scappare da te. Sei davvero l’incendio per il cuore di qualunque
vivente. Ardi dentro. Bruci ed accechi gli occhi degl’altri. Nessun’
uomo potrebbe mai scansarsi dal calore che emani, nera Afrodite, occhi di
mare, capelli ambrati di seta, profilo francese!”.
Fu Poli a strapparmi da lui, cullandomi piano e portandomi, poi, nel mio
letto.
Asciugata, mi stesi a dormire.
Il pericolo, però, rimaneva.
Dovevo, in qualunque modo, evitare d’esser fiamma che uccide. LA TORCIA
DI FUOCO.
Ecco!. Adesso sul tetto il caldo scirocco m’avvolge.
D’esser bella nulla m’importa.
Voglio solo che la vita sia mia.
Né premio, né mezzo per nessun coraggioso che pensi, solo perché
o più ricco, o più forte di altri, di poter dominare la fiamma.”.
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