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Lo chiamavamo proprio così,
da ragazzini: il soffio del Diavolo. era un gioco di quelli che escono
fuori spontaneamente. iniziano come una cazzata e poi si sedimentano
sul fondo del tuo modo di essere: tuo e dei tuoi amici.
Era semplice. poteva succederti in qualunque momento. uno del gruppo
ti arrivava alle spalle, ti appoggiava la mano destra chiusa a pugno
dietro la schiena e ci soffiava dentro. l’alito caldo che sentivi
tra le scapole era il soffio del Diavolo.
Da quel momento eri in ballo e ti toccava ballare: eri segnato. dovevi
“combinarne una”, dicevamo noi. combinarne una cattiva,
s’intende. eri pervaso dal Male e dovevi comportarti di conseguenza.
dopo averne combinata una potevi finalmente passare l’alito del
maligno a un altro compagno.
Ancora ricordo la prima volta che toccò a me. eravamo appena
all’inizio di tutta la faccenda, avevamo iniziato a giocarci verso
la fine dell’estate e l’avevo sempre scampata. ma quel giorno
Graziano, durante la ricreazione aveva aspettato che entrassi nel bagno
dei maschi e m’era venuto dietro. aveva aperto la porta e m’aveva
passato il soffio del Diavolo mentre pisciavo leggendo le scritte sulle
piastrelle. “è tuo” mi aveva sussurrato dietro la
nuca.
Eravamo in quinta elementare. passai una mattinata d’inferno.
cercavo di pensare al modo più sbrigativo di combinarne una,
e ogni volta che mi veniva in mente qualcosa mi sentivo gli occhi di
qualcuno puntati addosso: come se fosse in grado di leggermi dentro.
Mi liberai del soffio del Diavolo già il giorno seguente. quando
ce l’avevi addosso ti sentivi una specie di frenesia, dovevi fare
qualcosa. quel giorno stesso, tornando dalla partita di pallone contro
i ragazzini di un altro quartiere, sudato e sporco di terra, lasciai
cadere il pallone che andò a infilarsi sotto una macchina. il
cuore mi batteva a tremila, gli amici dietro sapevano e mi reggevano
il gioco: “dai, muoviti, e piglia ‘sta palla!”, mi
infilai carponi sotto la macchina per raggiungere il pallone e posizionai
quattro chiodi appoggiandoli con la punta verso il copertone e incastrandoli
con la capocchia sull’asfalto. due davanti e due di dietro. una
trappola infallibile: appena si fosse mossa la macchina, e in qualunque
direzione fosse partita, i chiodi sarebbero penetrati nella gomma.
Tornai verso i miei amici con il pallone in mano e un sorriso idiota
in faccia mentre mi aspettavo da un momento all’altro di sentirmi
chiamare da qualcuno che mi aveva sgamato. quella notte non dormii.
La mattina dopo in classe chiesi alla maestra se potevo alzarmi per
restituire una penna a Graziano. mentre gliela davo mi appoggiai sulle
spalle di Carlo che gli era seduto davanti, gli soffiai tra le scapole
e dissi: “è tuo.”
Non mi ricordo quello che fece Carlo per passare il soffio del Diavolo
quella volta: non mi riguardava più. ne combinammo parecchie
comunque: danneggiamenti, scritte sui muri, rubammo giornaletti porno
ai giornalai e qualsiasi cosa nei supermercati, a volte, se eravamo
di vena buona il soffio del Diavolo ci toccava un paio di volte nell’arco
di una giornata.
A volte ci impegnavamo un po’ di più con la fantasia e
con il rischio. una volta uno di noi, oramai eravamo un gruppetto di
sei o sette fissi, anche ragazze, rubò le mutandine della sorella
dalla cesta della biancheria sporca. le annusammo tutti in religioso
silenzio e poi le bruciammo. e a proposito di religione, quando eravamo
già in terza media, una ragazza andò a confessarsi e confidò
al sacerdote di essere stata molestata da un anziano signore che vedevamo
tutte le domeniche a messa. lo sguardo del prete quando uscì
dal confessionale non lo scorderò finché campo: un misto
di rabbia e impotenza. la domenica successiva fece un’omelia impressionante
sulla perversione di certa gente e guardava fisso la prima fila dove
era seduto quel tizio.
Ogni volta dopo averne combinata una la socializzavamo: era obbligatorio
riferire tutti i particolari e ottenere l’approvazione degli altri
di avere svolto il compito a dovere. il tutto durò fino al primo
liceo.
Avevamo coinvolto nel gioco un ragazzo che non era proprio, come si
diceva, “tanto sveglio”. lo prendevamo in giro perché
ogni volta che toccava a lui non sapeva che pesci pigliare. lo spaventavamo
a morte. poi alla fine lo consigliavamo noi e gli facevamo fare cose
cretine tipo rubare la cancelleria alla Standa o sgonfiare le gomme
alle macchine per strada. poi gli ridevamo dietro minacciandolo di cacciarlo
dal gruppo se non avesse iniziato a comportarsi da uomo.
Il giorno che la smettemmo col soffio del Diavolo si presentò
con un giornale in mano. lo stronzo aveva lanciato un sasso di due chili
e mezzo da un cavalcavia della statale: il ragazzo che guidava era rimasto
illeso e fortunatamente aveva litigato con la ragazza che era voluta
rimanere a casa. aveva centrato in pieno il sedile del passeggero. “avete
visto,” ci aveva detto sbandierando il giornale, “adesso
sarete contenti.”
Da quel momento ho rimosso l’intera faccenda: dico sul serio:
siamo stati col culo stretto per qualche settimana, ma le indagini della
polizia non approdarono a niente e nessuno è mai venuto a sapere
nulla dei nostri passatempi. non ci ho pensato più fino all’altro
giorno: una settimana fa per essere precisi: c’era quella trasmissione:
con quella giornalista che va in giro per le carceri a intervistare
serial killer e pervertiti vari. ero lì che cambiavo canale quando
un primo piano mi ha inchiodato su quella rete: era uno dei nostri.
la storia l’avevo sentita ma non mi ero mai reso conto che si
trattasse di uno che conoscevo.
Per farla breve: il tizio si era introdotto in una scuola elementare
con una pistola e aveva giustiziato a sangue freddo due ragazzini, colpevoli
secondo lui di tormentare il figlio, e il maestro che non era stato
abbastanza attento nel sorvegliare la classe. ma la frase, quella che
mi è rimbalzata tra le pareti del cranio per tutta la notte,
l’ha detta a mezza bocca mentre la giornalista si accomiatava:
un po’ s’è sentita nel microfono e un po’ l’ho
intuita dal labiale: però sono sicuro che ha detto. “avevo
il soffio del Diavolo, non potevo farne a meno.”
Ho spento il televisore e sono andato subito a letto, sotto le coperte
tremavo come se avessi la febbre, mia moglie mi ha fatto prendere un’aspirina:
sapevo che non c’entrava niente ma l’ho presa lo stesso.
era tutto il passato che mi tornava in mente.
Stamattina ero nel mio studio. aspettavo che arrivassero dei clienti
e stavo sistemando dei lucidi sul proiettore quando ho sentito un alito
caldo tra le scapole e una voce sussurrarmi all’orecchio: “è
tuo!”
L’ufficio era deserto.
Con i clienti mi sono sbrigato in fretta.
Sono ancora qui.
Aspetto.
Qualcosa mi verrà in mente.
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