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Chiunque può contribuire al Progetto Rorschach.
I contributi ricevuti verranno pubblicati nella pagina "Fuori Quota" di ogni Macchia.
Puoi inviare il tuo contributo a info@anonimascrittori.it oppure inviarlo sul Forum di discussione.

Di seguito sono pubblicati i contributi inviati per la Macchia di Marzo.




Liberi come tanti Craxi sparsi per il mondo. Liberi come
petali nel vento sporchi di catrame e calpestati da
pneumatici bucati da un ramo caduto da un pino situato nel
giardino del nostro vicino il cui figlio è il nostro
migliore amico arrestato per favoreggiamento alle nove e 46
di un sabato mattina di Gennaio freddo che ricorda ghiaccio
e circoli di polo organizzati da Forza Italia. Riunioni
familiari con salatini dolci e cornetti alla crema serviti
da Lino Banfi. Musiche di Crivelli e note sparse sopra un
foglio viola. I piccoli fori ricevono querele e anime
immense si modificano il contorno di spinaci da Platinette,
mentre la Pivetti prega il Signore che l’orchestra della
Corrida non crei danni all’ascolto del suo programma. Lo
incontrai all’uscita del bar degli studenti di Roma tre,
pioveva grandine color nebbia. “Perché non entri?” gli
dissi. “Non posso entrare con l’ombrello aperto!” mi
rispose. Questa considerazione non è sbagliata, pensai nel
vento. Una confezione di pasta trafilata al bronzo mi
ricorda che le elezioni sono vicine. È in questo marasma
che il giovane anziano naviga senza remi e senza bussola e
senza permesso di soggiorno e senza casa e senza la minima
idea e senza senso. Il giovane anziano è pronto per il
duello con l’anziano giovane, non molto simile a lui.
Entrambi hanno acquistato almeno un numero de “Il
giornalino” all’età di sette anni ed ora espongono la
bandiera della Pace come segno di rivolta. Per protesta
fumano erba e si assumono pochissime responsabilità come il
protagonista di American Beauty. Entrambi odiano la
televisione ma quando capita ammirano il capitalismo creato
dalla pubblicità con i modermi tessarati al Fascismo (Luca
e Paolo, Claudio Bisio, Enrico Bertolino, Fabio Fazio) Il
sonnambulo doveva andare in bagno ma il gabinetto del
dottor Caligari era occupato, si recò quindi nella più
vicina sagrestia. In quel tempo si svolgeva la sagra
dell’ostia Antica, dove decine di curati con il
raffreddore, assolvevano dai peccati centinaia di bambini
che masticavano bruschette con olio molto saporito. Nel
clima di festa, la perpetua si esibiva nel numero magico
della sparizione del calice d’oro. Sei volte su undici,
l’esperimento non riusciva ma le mamme applaudivano lo
stesso, seguite dai figli, dalle nonne, dai padri, dai
nonni, dalle figlie e dai rimanenti ospiti paganti. Nella
gioiosa folla di preganti, anche donne sicule in lutto, la
più anziana tra loro recava una fascia rossa al braccio e
dirigeva le preghiere. In sagrestia intanto era esposto il
nuovo calendario con Madonna in dodici pose molto audaci,
la nota pop star era diventata l’idolo di don Carlo, un
prete che venerava le patatine fritte e la buona musica
anni 80. Questi aveva sempre votato DC , anche se con un
passato di brigatista nero. I suoi ex compagni terroristi
ora sono al vertice di una nota multinazionale che
controlla l’80 per cento (quindi l’800) del mercato di
campo dei fiori a Roma. In cima alla classifica ci sono i
gladioli seguiti da garofani, crisantemi e rose gialle. Tra
di loro era presente anche una spia orientale reduce del
Vietnam, un certo Gon. “Sai Gon?! Siamo ancora a Saigon!
Altre tre ore di viaggio e arriviamo all’albergo non
preoccuparti” gli disse la moglie per rincuorarlo. Lei era
un’hostess dell’Alitalia con la passione del modellismo e
del sadomaso. Si fece tre anni nel carcere di Poggio Reale
per aver stuprato un pony del circo Orfei. La famiglia di
circensi li sorprese in atteggiamenti equivoci nel camerino
del quadrupede, lei con in mano una Lido rossa, lui disteso
sul pavimento, sfinito. Maionese sparsa in terra, del
Domopak e pacchi di fazzolleti aperti sulla scrivania. Alla
vista di tale scena, il guardiano che aprì la porta del
camerino, rimase alquanto scioccato, cominciando così ad
ululare e telefonare ad amici e parenti per informarli che
la sera stessa a Porta a Porta ci sarebbe stato come ospite
il rappresentante del partito Umanista. I parenti,
insospettiti, avvertirono prontamente la polizia che giunse
nel luogo dell’accaduto in meno di quattro ore. Per sbaglio
arrestarono il pony che fu condannato a tre anni con due
sole condizioni: nessuna condizionale e nessun
condizionatore. Durante l’ora d’aria Silvestro (questo era
il nome dell’animale) era solito gettare oggetti vecchi dal
balcone del carcere. Una mattina colpì per sbaglio il
portiere della prigione. Nei suoi guantoni furono ritrovate
le chiavi del cancello ed i detenuti riuscirono a scappare
verso la libertà. Il giorno seguente era prevista
un’amnistia ma la donna straniera non si presentò in orario
accettabile e venne rimborsato il biglietto ai presenti,
accorsi da ogni parte del mondo, tranne che da Tor
Pignattara e Spinaceto per traffico insostenibile. Chi ne
approfittò fu un giovane e volenteroso bambino di colore
negro che, con acqua, sapone e stoffa, iniziò a pulire
vetri di automobili. Gli affari andarono così bene che il
suo padrone poté acquistare altri dodici schiavi ai quali
amputare dita o qualsiasi altra parte visibile all’occhio
nobile dei buoni di cuore razionale. “Cosa hai chiesto a
Babbo Natale, oh figliolo?” ed il pargolo cinese, ridendo
come una zanzara prima di iniettare veleno nella pelle di
un’ottantenne con le vene varicose, rispose: “Voglio Barby
cannibale, la casa d’appuntamenti di Barby, Ken travestito
ma la confezione con il pneumatico da bruciare ed il palo
della luce, Barby dolce Flebo, poi voglio Ken soldato in
Iraq, Ken carabiniere in missione in Irak ma la confezione
con la bara finta e la bandierina italiana, poi voglio Big
Jim terrorista in modo da poter dare la colpa a qualche
anarchico quando morirà Ken carabiniere, poi voglio 33
pacchetti di figurine Panini della serie “Ex terroristi
divenuti intellettuali” e l’ultimo libro di Angelo
Zabaglio”. Babbo Natale riuscì a portare al bambino ogni
cosa tranne il Big Jim terrorista (era esaurito in ogni
negozio del globo). In compenso gli portò il burattino di
Papa Luciano che però, in meno di un mese, si ruppe
gettandosi dalla finestra di un commissariato e l’uccisione
di Ken carabiniere rimase un mistero insoluto agli occhi
del bambino. Oggi quel fanciullo ha 46 anni, è sposato con
una donna molto intelligente, lavora come grafico
pubblicitario e nel tempo libero prega in latino, affinché
suo figlio termini con successo l’università e si trovi un
lavoro lontano dai suoi occhi verdi come una bottiglia di
birra nel mare limpido delle 6 del mattino di un’estate
senza nuvole, ma con numerosi gabbiani che, volendo,
possono spiccare il volo verso Sud, senza preoccupazione di
un ritardo ferroviario, di un incidente autostradale o di
un proiettile di qualche buon cacciatore cristiano
cattolico.

(ringrazio come sempre il dadaista Andrea
Coffami per la revisione, i consigli ed i massaggi ai
piedi)

 

Era la buca diciassette a proiettarsi dietro il sentiero serpeggiante, la luce arrivava alla spalle dei giocatori sudati in quel caldo ed interminabile pomeriggio ; i caddies appostati dietro la cunetta
in attesa del primo colpo di quel bizzarro trio . A dir il vero i portasacche avrebbero preferito veder i tre uomini protervi molto più volentieri davanti ad un giudice accusati dei loro peccati o magari in cella con qualche simpatico energumeno con un vizio evidente che trotterellare liberi sul percorso. La partita era la solita del giovedì erano i tre soci dell’impresa edile Luschi la più grande della città ed anche i fieri creatori di mostri in cemento che si stagliavano sulla costa.
Come nella vita anche nello sport non conoscevano regole e giocavano sempre tra di loro perché in quel club di provincia ,sebbene l’estrazione sociale degli inscritti fosse tutt’altro che nobile , meccanici, agricoltori , tappezzieri e baristi ,nessuno voleva sentirsi nella posizione di dover subire le loro spregiudicatezze golfistiche ed essere obbligato a ribellarsi inimicandoseli.
La partita era cominciata tra insulti e i ventri opulenti stretti tra i pantaloni rigati ondeggiavano
nei loro swing come la gelatina di ribes sui pasticcini della buvette ; inutile specificare che il livello sportivo era miserabile. Quel povero campo che si era visto calpestare da giocatori professionisti ed illustri “scarpe chiodate” ora pregava in silenzio che i caddies fossero attenti ed arginassero quelle ferite provocate dai pesanti sockets che strappavano zolle erbose scarnificando nel profondo il folto manto profumato.
Durante la partita gli argomenti erano poco edificanti ,” troie “ la parola più pronunciata e quelle voci prepotenti violavano l’ovatta di suoni della pineta circostante; i caddies per i tre giocatori non possedevano udito e li anticipavano sul percorso mestamente ma ,inseguendo le palline con traiettorie sbilenche tra le rive scoscese coperte di arbusti ed ortiche, si prendevano una sorta di rivincita obbligando quei corpi flaccidi ad assumere posizioni goffe e precarie per seguire i consigli ricevuti ed effettuare il colpo e mentre davano l’ultima indicazione di direzione intimamente speravano in un accidentale capitombolo che trovasse sul cammino qualche pietra acuminata , prendendo in ostaggio lembi di tessuto dei pantaloni.
Le regole di questo gioco si basano sulla lealta’ del giocatore e a fine buca la semplice domanda – Quanto hai fatto ? – implica che si dica la verita’ in chiave numerica.
I tre soci accendevano violente discussioni condite da bestemmie ed erano chiamati a testimoniare i tre caddies che venivano considerati pure senza vista e anche se erano stati testimoni di quel air-shot nel boschetto ,con lo sguardo venivano pilotati loro malgrado a tacitare la menzogna.
Dopo diciassette buche il bilancio era pesante, i tre soci in totale avevano perso un chilo,un etto e 46 grammi di balata ossia 22 palline tra out , laghetti, alberi dalle fronde avide ed eccezionalmente un colpo maldestro era finito sull’autostrada che passava accanto alla buca dodici ed aveva colpito di rimbalzo un camion telonato conficcandosi nella montagna di letame bovino trasportata.
I caddies si coprivano a vicenda durante gli spostamenti sul campo sempre vigili a non essere colpiti
dai tiri striscianti raso terra dei tre sfiaccati giocatori. La buca diciassette aveva visto i tre tiri di avvicinamento finire nella bocca spalancata del bunker di destra , avevano scommesso l’aperitivo
sul colpo al green e quei culoni a strisce pareva che ballassero il twist affondando le scarpe colorate nel suolo sabbioso per adressarsi alla bandiera : il primo si era imbrattato di fanghiglia e la pallina era rimasta dov’era a guardarlo impassibile, il secondo l’aveva colpita con forza spingendola in out oltre la siepe irrecuperabile ed il terzo, lasciando i caddies a bocca aperta ,era riuscito a scucchiaiarla scoprendo esterrefatto di averla mandata dietro la sua ingombrante sagoma dopo averla cercata invano con lo sguardo sul green. Il percorso si concludeva con un magnifico par tre accompagnato da fossati di acqua protetti da bambù. Una buca da giocare in scioltezza , un ferro 6 morbido per conquistare senza fatica il green in fondo alla discesa.
I caddies esausti trascinavano le sacche griffate contenenti ferri di un valore esagerato per la scarsezza dei loro proprietari , Tulip ,il caddy del piu’ vecchio dei soci ,aveva di nascosto fatto qualche prova all’ombra dei pini e avrebbe pagato oro per provare un tiro e sbalordire i tre giocatori
che ormai avevano solo in testa un agognato boccale di birra ed una doccia rigenerante negli spogliatoi brulicanti. Lì avrebbero millantato come ogni giovedì tiri da manuale residenti solo nella loro fantasia malata. – Scommettiamo che la metto in bandiera ? – Silenzio , sguardo muto degli altri due caddies sbiancati ad udire le parole . – Avete capito bene signori , scommettiamo sulla diciotto ?
I tre giocatori prima increduli , poi presi da un tremore che nascondeva un riso nervoso .
– Tulip stai scherzando , da quando hai queste velleita’ , spiegaci poi un morto di fame come te arrivato dal Senegal sul dorso di un cammello cosa avrebbe da mettere in palio che ci possa interessare ? -
- Non c’e’ piu’ religione amici , stì barboni non stanno al loro posto, appena hanno due euro in tasca si montano la testa.Dai passami il ferro 5 e levati di li’ che mi dai fastidio.-
Raggiunti gli altri due caddies , Tulip sorrise e seguì la traiettoria agganciata del giocatore che imprecando al cielo si perse il pluff della pallina nel fosso .

- Ti rendi conto che sfrontatezza quel Tulip , aspetta che lo racconto al caddie-master e vedrai che
strigliata che si prende il cioccolatino , il prossimo giovedì vediamo se fiata ancora e poi te lo immagini a tenere in mano la mazza , che non riconosce ancora i nomi dei ferri. -
Seduto in terrazza ed affacciato sulla buca diciotto gli parve di scorgere una sagoma lontana che provava un swing sul tee di partenza e si chiese a quell’ora di sera chi potesse essere ancora sul campo dove l’oscurità era scesa nella sua invadenza ; sentì il rumore dell’impatto del ferro sulla palla ed il sibilo della sua corsa supero’ il vociare della club-house , strizzo’ gli occhi verso il green e vide nettamente lo stopparsi della pallina a pochi centimetri dalla buca ed in lontananza il frusciare di camminata in avvicinamento, fece solo in tempo a riconoscere i denti bianchi, quasi fosforescenti di Tulip e le movenze dinoccolate del suo corpo atletico piegato ad imbucare il putt e l’aneurisma all’aorta lo colpì senza pietà.



Si avvisano i lettori che questa storia contiene elementi violenti, pornografici e blasfemi. Se hai meno di 18 anni clicca EXIT e levati dal cazzo.

LOCATION: studio medico dott. Solli
ORE: 16:00 del 4 marzo 2004
Mi ha detto che le macchie di Roscharch sono una stronzata. Certo, tu me le mostri per “vedere” meglio dentro di me, ma quando ne ho parlato con lui mi ha raccontato una strana storia.
Ti va di parlarne?
Certo, sono qui per questo.
Lui racconta che Roscharch si era fatto di erba e assenzio e beveva il caffè con degli amici in un bar. Era il 1921. La base sporca della tazza aveva disegnato cerchi di caffè su un tovagliolo*. Lui li guardò a lungo e poi disse: “cazzo, ci vedo le olimpiadi!”.
Tu credi a questa storia o pensi che se la sia inventata?
Non so, ha molta fantasia, ma potrebbe essere vero, sa un sacco di cose.
Non è che magari lo ami troppo e quindi attribuisci un valore eccessivo a quello che dice?
Anche questo forse è vero. Sai, sono confusa anche sui suoi sentimenti nei miei confronti.
Cosa ti ha spinto a questa osservazione? E’ la prima volta che lo dici.
Ieri eravamo al telefono ed io ero giù. Avevamo discusso parecchio e stavo piangendo. Quando lui ha sentito i miei singhiozzi ha detto: “non chiedermi il perché, ma mi è venuta voglia di farmi una sega micidiale ”
Questo tizio è psicopatico. No, davvero, non scherzo. Dovresti cominciare seriamente a pensare che è un pericolo o può comunque diventarlo.
Ma torniamo alla macchia che ti ho dato: cosa ci hai visto? Hai avuto 3 giorni per pensarci.
Ci vedo una rosa, una rosa piegata in giù come se volesse raccogliere qualcosa o raggiungere l’acqua. Ma è fresca, non appassita, potrebbe essere piegata dal vento forte.
E l’hai mostrata a lui?
Sì…
Ti va di dirmi cosa ha detto?
Ci ha visto il mostro di Loch Ness che nuota in fondo al lago di notte come se una telecamera lo riprendesse dal basso.
Devi smettere di vederlo, credimi, per il tuo bene.

LOCATION: casa di Carla
ORE: 18:00 del 4 marzo 2004
Il mio analista dice che dovrei smettere di vederti.
Perché?
Dice che sei un po’ matto.
Ha detto questo? E tu cosa gli hai raccontato?
Beh, del mostro di Loch Ness…
E questo fa di me un matto? Gli avrai detto altro, sicuramente.
Beh non gli ho detto che parli nel sonno…
Parlo nel sonno? Davvero?
Certo, ieri litigavi, facevi a botte con qualcuno… Mi hai fatto un po’ paura. Hai detto: “erano anni che volevo riempire di botte Dio!” Ma forse avrò capito male...
Beh, sarebbe da farlo davvero…
A volte hai un modo di scherzare quasi fastidioso. Sei inquietante, lo sai?
Ieri ho visto un servizio sui bambini che hanno perso gli arti saltando sulle mine antiuomo in Afghanistan. Bambini senza una gamba, o senza braccia… Ed una bambina senza faccia... Non avevo mai visto una cosa del genere. Sembrava un teschio: niente naso, niente bocca né pelle…
E vogliamo parlare della lapidazione, della mutilazione genitale, delle guerre…?
E Dio che c’entra? Mica le ha messe lui le mine! Sono stati gli uomini, che Dio ha creato liberi. Liberi anche di fare il male. Si chiama libero arbitrio.
Libero arbitrio un cazzo.
E’ come mettere 10 bambini in una stanza con pezzi di vetro e coltelli: diamogli il libero arbitrio, lasciamoli soli per un po’ e vediamo se ne escono sani.
Quale genitore lo farebbe?
Questo ha fatto Dio: ha dato la libertà a chi non sapeva usarla e poi s’è girato dall’altra parte.
Devi ammettere che qualcosa non ha funzionato nei sui progetti.
Parli di cose troppo grandi per me, non sono capace di risponderti, dovresti parlarne con un sacerdote. E poi cosa c’entra tutto questo con noi due?
Non mi interessa parlare coi gregari, si fanno la legge a modo loro.
Io vorrei vedere il legislatore direttamente in faccia.

LOCATION: esterno palazzo
ORE: 19:00 del 4 marzo 2004
Drrr…drrr…
Chi è?!!
Toni’, Tonino, scendi!
In questo momento non posso, ho da fare!
Muoviti, è una cosa importante. Che stai facendo?
Ho il vibratore nel culo, mi stavo guardando un porno…
Sfilatelo da dietro, mettiti i pantaloni e scendi. E porta la pistola.
Click.
Che cazzo hai da dirmi di così importante da interrompermi “Kiss me baby”?
Mi devi prestare la pistola. Devo uccidere delle persone e poi devo uccidermi io e mi serve che ci sia anche tu.
E perché, che ti hanno fatto?
E’ Dio, sta facendo un casino. Devo riempirlo di botte.
Ho bisogno che ci sia anche tu, devi fermare San Pietro e tutti quelli che accorreranno per dividerci.
Devo fargli molto male.
E se ti presto la pistola e poi mi fai passare un guaio? Io ci lavoro con questa.
Dopo che avrò portato a termine la cosa, cambierà tutto. Ci sarà più giustizia, più equilibrio.
Tu non sarai più una guardia giurata, magari sarai uno skipper.
E glielo dici tu a Dio? Magari lo costringi a farmi diventare skipper. Mi piacerebbe tanto...

Lo so, non ti preoccupare, dammi il ferro e vedrai.
BANG!  In faccia a Tonino, che muore sul colpo.
Toni’, scusa, è l’unico modo.
Aspettami lì a terra che tra poco arrivo e andiamo dall’altra parte a fare quel servizio.


LOCATION: studio dottor Solli
ORE: 19:38 del 4 marzo 2004

Prego, si accomodi, il dottore c’è ancora, è dentro con una persona.
Bene, credevo di non trovarlo… Non urlare.
La prego non spari, non mi faccia del male.
Ssssht… Tu non farti sentire dal dottore: levati il camice bianco e le calze.
No, per favore, non mi faccia del male.
Questo lo hai già detto, levati anche il resto e poi rimettiti il camice bianco.
Cosa ha intenzione di farmi? La prego…
Mettiti a pecora, girati… ”L’infermiera a pecora”, una fantasia comune. Ecco… aahhh, ecco qui, fa male?
No… no… la prego faccia, ma non spari.
Ok BANG! BANG!…
Che sta succedendo Lisa?
BANG! BANG! BANG!
Aaahhhh no, che cosa fa? Ha ucciso il dottore…
BANG! BANG!
Aaaaaah… via, chiamate qualcuno!
BANG, BANG!
Dite ai poliziotti di mirare bene per ammazzarmi o faccio una strage!
Chiamate i tiratori scelti, le unità speciali dei film americani.
Uccidetemi, io non posso farlo, devo andare in paradisooo!
Ora devo pregare, così riesco a passare direttamente lassù, speriamo che non si accorgano di quello che ho combinato.
Padre nostro che sei... BANG! ne…cl…unghhhff…
BANG! BANG!
Agente! Non avvicinatevi! Agente, si accerti che sia morto.
Soggetto pericoloso a terra, avvicinarsi con cautela.
Capo, l’ho preso in fronte. E’ morto.

LOCATION: esterno strada
ORE:  19:52 del 4 marzo 2004

Sì, la notizia è tua, ma vieni subito se vuoi uscire con l’edizione di domattina.
Qui ci sono morti ovunque, la scena è impressionante. Ne ha uccisi 4 prima che lo colpisse un agente in borghese… Sì, probabilmente un malato di mente.
Aveva i pantaloni abbassati, Sì… anche un tentato stupro, si pensa.
Non ci sono ancora elementi, arrivano altre ambulanze, è un casino, portati il fotografo e magari un cameraman… Devo chiudere, arriva l’ispettore.
Cazzo, mi hanno ucciso! E questa sarebbe la morte? Mi sento uguale a prima. Guarda come mi hanno ridotto la faccia, mi fa quasi schifo avvicinarmi.
Che fico, nessuno mi tocca, devono farmi i rilievi… he he he e guarda chi arriva…
Grandissimo stronzo di merda! Non avevi detto che mi avresti ammazzato, coglione io che t’ho anche dato la pistola… mo’ ti spacco la faccia, stronzo!
No, no ahio… Tonino, smettila, era chiaro che dovevi morire anche tu. Altrimenti come venivi con me dall’altra parte, scusa?!!
Ti ammazzo un’altra volta…
E lasciami, ormai siamo morti, pensiamo piuttosto a come arrivare in paradiso. Dovrebbero venirci a prendere, no?
E io che cazzo vuoi che ne sappia?!! Chi si era mai preoccupato di informarsi?
Toni’, la smetti o no di tirare cazzotti? Fanno male, mi pare di essere ancora vivo!
E’ la mia volontà di farti male che senti, non il dolore vero. Perché ho voglia di scassarti il culo in 40000 pezzi!
Signori, seguitemi.
E questo mo’ chi è? Guarda com’è vestito, questo sicuro viene da lassù. Andiamo, Toni’, nun fa o’ scemo che vai a finire all’inferno.
Guarda, il tunnel con la luce in fondo come nei film.
Quella è un’attrazione per le anime dei turisti. Noi giriamo di qua, c’è l’ascensore.
Eccoci qui, attendete in quel salotto, grazie.

LOCATION: qualche parte tra il cielo e la terra
ORE: indefinite

Toni’, visto che pulizia qui dentro?
Ma che stai facendo? Rubi i posacenere? Ma fai schifo proprio, siamo qui per una cosa seria e ti vuoi far acchiappare per questa robetta?
Fatt’e cazzi tuoi!
Accomodatevi, prego.
Siamo in attesa delle altre anime coinvolte per “far luce” sui fatti. Voi siete i primi perché morti sul colpo, gli altri sono spirati dopo.
Ma qui tutti vestiti uguale? Non hanno freddo col lenzuolo addosso? Beh, sembra riscaldato bene…
Buonasera, signori. Sono la persona incaricata di conoscervi meglio. Come mai sembrate alquanto spaesati? Non vi aspettavate questa destinazione?
Senti, io avrei bisogno di parlare col capo, il direttore, o’ boss!
Qui siamo tutte anime, non esiste gerarchia.
E il fabbricante, il produttore... come lo chiamate? Dio... non si può incontrare?
Certo, sarà lieto di conoscervi al più presto. Intanto rilassatevi e contemplate il cielo.
Toni’, ma che significa? Non stiamo già in cielo? Questo mi pare che sta fatto…
Prego, Padre, queste sono le nuove persone che gradivano conoscerti.
Tu sei Dio?
Sì, per servirti.
Mannaggia o’ cazz’ taggio accidere!…
Fermati, che fai??? Padre…
Ma non lo sai che sta succedendo sulla terra?
Non lo vedi cosa hai creato? Stai sempre a pensare ai cazzi tuoi qui sopra con questi quattro drogati…
Lascialo, lascialo… finiscila!
Lo lasci…
Toni’ fatt’ e cazzi tuoi, dammi il posacenere che ti sei fottuto e mantieni a chistu scemo.
Aiutateci, fratelli accorrete… stanno massacrando di botte Dio con un posacenere!
Weh, ricordati che io voglio fare lo skipper!

(Come supporto al racconto l'autore ci ha inviato anche questa immagine: immagine01 )


 

Non ho una donna da un secolo, oramai. Al punto che mi si stanno atrofizzando…
i sensi.
Non ho MAI avuto fortuna con le donne. Eppure non si può dire che io non mi sia dato da fare. Ho sempre architettato con cura le mie strategie, i miei piani d’attacco. Io sono un tipo previdente, che pensa a tutto. Profumo, barba, profilattici, mutande maculate… Non mi manca mai nulla. Sono sempre armato per la battaglia…ma non ho mai sparato nemmeno una cartuccia. O meglio, se ho sparato, ho sempre sparato a vuoto.
Per delle circostanze specifiche di cui vi parlerò tra poco, ho coltivato con cura il mio vocabolario in campo sessuale. Un po’ grazie agli amici, che se non sanno qualcosa, ricorrono comunque a una buona dose d’inventiva, e un po’ grazie al dizionario medico di mio padre. So che stavate pensando anche a delle fonti più “specialistiche”: ebbene, di quelle ne faccio incetta da sempre. Ma in quei casi alle parole non ho mai badato troppo.
Fatto sta che da alcuni mesi ho scoperto di essere un buon praticante di onanismo. Se solo un anno fa me lo avesse detto qualcuno, io l’avrei preso a schiaffi, giuro!
Onanista a chi??? Te lo faccio vedere io chi è l’onanista! Su, dai, calati i calzoni, scemo! Vediamo chi è  il vero onanista  tra noi due!…
Insomma, credo abbiate capito che per me essere onanisti significava avercelo piccolo.
O nanista… E nel mio caso…beh, lasciamo stare, ché altrimenti mi deprimo ulteriormente.
Vi stavo dicendo appunto che, pur non avendo una donna da un’eternità, la mia erudizione erotica ultimamente si è affinata in modo sorprendente. Saprei dirvi almeno due o tre sinonimi per ogni termine “tecnico” di cui abbiate conoscenza. Sì, la penso anch’io come voi: a che vale sapere tutte queste cose se poi alla teoria non si unisce un bel tirocinio pratico??? Ok, siamo d’accordo: il mio è un talento sprecato.
Ma certe conoscenze possono evitarvi delle situazioni mooolto spiacevoli. Parola mia. Non c’è da scherzarci, ragazzi.
Ora, vi ho detto che non ho mai avuto fortuna con  le donne. Ma c’è stato un giorno in cui, forse per qualche straordinaria congiunzione astrale, chissà, o per l’avvicinarsi del periodo elettorale (in cui tutto ciò che sembra impensabile diventa possibile, come per opera di un intervento divino), la mia condizione luttuosa sembrò dover mutare le sue sembianze terrorifiche.
Vi parlo di una sera in cui, ispirato forse da un film di Tinto Brass di cui avevo scrupolosamente osservato la locandina passeggiando per strada, mi decisi a entrare in un locale, determinato a mettere in gioco tutto il mio sex appeal. Per incoraggiare la mia timida mascolinità, decisi di sbottonarmi i primi bottoni della camicia; osservai che dal torace faceva capolino un ciuffo di  pelacci crespi. Mi umettai i palmi delle mani con un po’ di saliva, e le passai su quel ciuffetto ispido, nel tentativo di addomesticarlo un poco.
Mi annusai. Dalle ascelle proveniva un odore acre di sudore. Beh, poco male, pensai: alluvionerò le donne con i miei feromoni! Ero davvero disperato.
Entrai nel locale come fossi stato Humphrey Bogart in Casablanca. Mi accostai a una colonna, e mi ci appoggiai, con tutta la disinvoltura che avevo a disposizione. Ben poca, a dire il vero. Palleggiavo tra le mani una sigaretta accesa destinata a consumarsi per autocombustione… L’avevo sottratta dal pacchetto di mio padre, furtivamente. Quella sigaretta avrebbe dovuto segnare il mio tempo massimo di conquista…
Sì, avete ragione: va bene l’ottimismo, ma una sigaretta forse era un po’ troppo poco per tentare l’impresa… E infatti alla fine avevo preso tutto il pacchetto.   
Avevo scelto un locale che fosse il più buio e fumoso possibile, per far passare inosservata la sporgenza più grande del mio corpo: un gigantesco brufolo che proprio quella sera era spuntato a dispetto sulla mia fronte lucida. Prima di uscire, avevo cercato di camuffarlo con il fondotinta di mia sorella, ma più tentavo di coprirlo, più il brufolo si arrossava finendo col dominare incontrastato sul mio volto basito. Lo lasciai vincere: pensai che quel residuo pubere avrebbe potuto attrarre qualche donna matura in cerca di giovani “stalloni”. Ma io non mi sentivo né giovane né tantomeno uno stallone... piuttosto, potevo somigliare a un porcospino.
Nel locale c’erano tantissime donne. Una più bella dell’altra. Lanciavo sguardi a tutte, con l’occhio truce da “uomo bello e impossibile”. Cercai di estrarre dalla memoria tutti i consigli di quel corso sulla seduzione che anni fa mia sorella aveva trovato in allegato a Riza Psicosomatica, e che casualmente mi era capitato di ascoltare cinque o sei volte, quando in casa non c’era nessuno.
Cosa diceva il tizio della cassetta? Dai, ricordati… Diceva che… 
Con desolazione notai che il pacchetto di sigarette si era quasi svuotato completamente.
La spalla appoggiata sulla colonna di finto marmo cominciava a dolermi. I peli sul torace si erano tutti intirizziti, e stavo attento a non avvicinarvi la sigaretta per paura che potessero incendiarsi.
Sentivo il brufolo pulsare sulla fronte… Lo immaginavo fiammeggiante come un faro che guida il sentiero dei naviganti nella notte.
Maledissi Tinto Brass e tutte le sue locandine lussuriose.
Una… due… Tre sigarette in tutto.  La speranza era quasi del tutto morta.
Lanciai l’ultimo implorante sguardo a una donna seduta al bancone. La fissavo come un cane bastonato. Se non aveva funzionato la tattica del macho - pensai- forse quella della supplica poteva muovere l’animo soccorrevole di qualche donna. Candy Candy, dove sei? Stavo cercando la mia crocerossina…
Dovevo aver sfoderato uno sguardo talmente disperato che quella donna cominciò a fissarmi. Riassunsi la postura bogartiana e riaccesi la sigaretta, ingoiando pure un po’ di fumo… cosa che mi fece tossire per un quarto d’ora circa. Stavo quasi per morire soffocato nel tentativo di non tossire convulsamente e di mantenere quel tono dignitoso che con tanta fatica stavo cercando di ostentare quando finalmente la donna si alzò e si diresse verso di me. Gridai al miracolo. Si avvicinò, senza dire nulla. Prese la mia sigaretta, fece un tiro, e lentamente fece uscire il fumo dalle sue labbra carnose.
Ci mancava pure il fumo passivo! – borbottai tra me e me mentre sempre più inutilmente cercavo di trattenermi dal tossire. Tentai comunque di ricompormi. Deglutii, e le sorrisi come un ebete.  
“Io mi chiamo Chantal” disse lei. “ E tu?”
“Io…io…mi chiamo Tinto”
Giuro che non lo dissi per mentire! E’ che mi sembrava di non ricordare più niente, nemmeno il mio nome. L’unica cosa che mi riusciva di ricordare era la locandina del film di Tinto Brass, che ora avevo ripreso a osannare con tutto l’entusiasmo di cui è capace un povero uomo miracolato.
“Senti, Tinto: a me non va di stare a tergiversare. Mi piaci. E vorrei trascorrere la notte con te.”
In quel momento, riacquistai tutta la fede che col tempo mi sembrava di aver smarrito…
Esiste!... Sì, Dio esiste!” esultai dentro di me.
Ci dirigemmo in auto verso casa sua. Guidava lei. Io le ero seduto di fianco, mentre tentavo di annusarmi l’alito. Sul cruscotto c’era un foglio con un disegno…
“Ti piace? L’ho disegnato io” disse Chantal.
Io feci cenno di sì, mentre cercavo di rinverdire quei tenui ricordi scolastici di storia dell’arte… Chiedo solo  un nome, pietà! un nome di un pittore, di uno scultore, di un qualcheduno che possa venirmi in soccorso per poter intrattenere una conversazione!…
Ma io avevo in mente tutt’altro, in quel momento… E l’unico ricordo che stava riemergendo prepotente dai miei anni di scuola era una parola latina…
Com’era?... Ah, sì: l’ “ARS AMANDI”! A questo ricordo si aggiungeva quello delle riviste che io e il Beppi ci passavamo sottobanco… Va beh, ci siamo capiti.

Pino…no...Poncho…nemmeno…Peppe…Sì, forse era Peppe! Mmmmhhh, no, mi sa  di no… PEDRO!!! Ecco come si chiamava: Pedro!!! PEDRO PICASSO!”
Così mi rassicurai, illudendomi che finalmente avrei potuto sostenere qualsiasi conversazione di arte…  Si sa, l’intellettuale esercita sempre un certo fascino. Sette anni di liceo dovevano pur servire a qualcosa!
Mentre io mi arrovellavo le meningi in cerca di reminiscenze sedimentate come le ere geologiche, Chantal aveva iniziato a parlarmi del suo disegno.
“ Quello l’ho dipinto tre settimane fa. Ho voluto rappresentare la forma e  la sostanza delle cose.
Illustrare l’apparenza e l’inganno, perché ciò che sembra in un modo spesso si rivela solo la superficie visibile delle cose. Troppo spesso ci soffermiamo alla prima impressione, senza indagare oltre la forma manifesta della realtà”
Ecco, ti pareva: avevo rimorchiato un trans! Mi sembrava troppo bello per essere vero! Accidenti a me, all’idea bislacca che avevo avuto quella sera, a Tinto Brass, ai suoi culi, a Pedro Picasso e compagnia bella!
Intanto Chantal aveva fermato l’auto. La guardai “un po’ più giù”, cercando di notare se ci fosse qualche indizio capace di rivelarmi la “forma manifesta della realtà”…
Macché uomo e uomo! Gente, a me quella sembrava una donna in tutti i sensi! E se fosse stato un uomo, beh, poteva voler dire solo due cose: o che era trascorso troppo tempo dalla mia ultima volta ( e Dio sapeva quanto ciò fosse vero!) oppure doveva trattarsi di un classico esemplare di
“ o nanista”, perché altrimenti la “faccenda” non si spiegava.
Salimmo a casa sua. L’ansia stava crescendo a dismisura, al punto che dovetti andarmene in bagno.
“E’ lì in fondo a sinistra”, mi disse Chantal, che intanto aveva messo della musica di sottofondo.
“Adesso calmati…ODDIO!... ODDIO, NON CI POSSO CREDERE!... Suvvia, calmati, che altrimenti rischi di fare cilecca… E chissà quando ti ricapita una situazione simile!”
Feci di tutto per calmarmi un po’.
“Piuttosto, pensa a quello che devi fare… Allora, l’alito: com’è? Puzza?”
Dio, una vera fogna! Roba da non credere! Mi guardai intorno in cerca del dentifricio. Me ne misi un po’ sul dito indice, e strofinai energicamente: denti, lingua, palato, tonsille, faringe, laringe, epiglottide… Per poco non vomitai.
“ E ora: le ascelle?” Per quelle c’era davvero ben  poco da fare.
“Va beh, l’uomo ha da puzzà!” , mi dissi.
E i profilattici??? Merda! Dov’erano?  li avevo presi oppure erano rimasti dentro il marsupio dell’uomo tigre???
ah, eccoli qui! Tutti presenti all’appello: extrasensibili, lubrificati., iperresistenti, ritardanti per lui stimolanti per lei, piacere intenso, colorati, verde smeraldo, rosso carminio, nero…no, quello nero no, perché snellisce… che si illuminano al buoi, zebrati,  a pois, lana fuori cotone sulla pelle, gusto fragola, gusto arancio, tuttifrutti, tropicale, gusto lungo…
Ah, no, quelle erano le Brooklin…
“Tinto, va tutto bene?”
“Sì, eccomi…arrivo”
Stavo sudando come un’idrovora!
Nonostante le mie più rosee speranze, Chantal era ancora vestita. Mi avvicinai verso di lei, gongolando come un idiota e sfoderando un sorriso da vero imbecille. Dovevo fare davvero pena.
Avvicinandomi a lei inevitabilmente mi cadde l’occhio sulla, o meglio, nella scollatura…
Tette piccole ma sincere, mi dissi con fare da intenditore.
Non so come, ma da un momento all’altro mi ritrovai steso e ammanettato alla spalliera del letto. Chantal mi guardava come una gatta, seduta sopra di me. Mi guardava, senza fare nulla. Ridacchiai nervosamente.
Cosa aveva in mente?
Le braccia cominciavano a formicolarmi. Tutt’a un tratto mi venne in mente quel film dove lui viene legato e seviziato da una donna… Sì, bravi, proprio quello: Misery non deve morire. Cominciai a temere di essere capitato nelle mani di una pazza. Mi rassicurai soltanto quando lei, sensualmente, cominciò a baciarmi il torace… Sì, mi baciò anche il fantomatico ciuffetto di pelacci crespi che ben conoscete… Però, non si punse. Credo.
Lentamente, continuando a baciarmi, scese sempre più giù, fino ad arrivare sotto l’ombelico.
“Oh, quando lo dico al Beppi creperà d’invidia!!” pensai soddisfatto tra me e me.
Mentre continuavo a ringalluzzirmi, Chantal si bloccò e mi sussurrò:
“Cosa vorresti che ti facessi ora?”
Oh, Beppi, Beppi, mi chiede cosa vorrei che mi facesse? Ma tutto, baby, tutto!
Questo fu quello che pensai.
“Beh…insomma…fa tu” fu quello che invece più codardamente le dissi.
“Dai, non esser timido: dimmi ciò che desideri, e io esaudirò i tuoi sogni…”
W ALADINO, W LE LAMPADE E W I GENI! – pensai esultante.
Ma non volevo azzardare troppo. Con un po’ di indecisione, balbettai:
“se… se ti va…mi piacerebbe che…che…”
Eddai, parla scemo!
“Che…mi piacerebbe che…che mi baceresti…Ah, no, scusa: volevo dire baciassi!”
Ci mancava pure la grammatica, cazzo! Lei era un’artista, era una che sicuramente conosceva Pedro Picasso, e io che combinavo? Mi mettevo pure a sbagliare i verbi?!?
Ma Chantal sembrò non preoccuparsene. L’unica cosa che fece fu di insistere con quella domanda:
“Sii più esplicito, dai: a cosa stai pensando ora?”
Ero un po’ confuso. Insomma, cosa voleva? Una parola più ardita, forse? Sì sì, era quello che voleva! Ah, avevo davanti a me una vera linfatica…No, non linfatica…linf…linfocita? No, nemmeno… Ah, sì, ecco cos’era: una linfomane!...
“Io starei pensando a un bocch…”
Mi fulminò con lo sguardo.
“No, non volevo dire quello. Scusami, Chantal, scusami!...”
Non ci stavo capendo più nulla.
“Tinto, continua: cosa stavi dicendo? che ti piacerebbe cosa?”
Ma cosa diavolo voleva sentirsi dire, insomma??? Più chiaro di come ero stato non potevo essere… O no? Improvvisamente mi illuminai! Lei era un’artista, no? Sicuramente stava cercando un uomo colto, dalla terminologia ricercata… Mica le solite corbellerie! Ah, che donna sublime era! Si eccitava con i termine eruditi, forbiti… E io ne conoscevo uno, un tempo… Un termine latino, uno dei pochi che avevo imparato da ragazzo. Quale occasione migliore di quella per sfoggiare la mia cultura umanitaria? …cioè, volevo dire, umanistica?
“ Mi piacerebbe una…fellatio!”
Bravo, bravo, ti meriti un bacio ragazzo: te lo sei ricordato! Lo vedi? Dimmi, lo vedi che tu sei sempre stato portato per le lingue straniere, eh? Erano i professori che non hanno mai saputo comprenderti!
Avrei potuto continuare così per ore, autocongratulandomi e compiacendomi per quell’ impareggiabile vocabolario che avevo saputo sfoggiare fino a quel momento.
 “E se io ti chiedessi di fare altrettanto con me, eh? Cosa dovrei chiederti di farmi?”
Deglutii... Avevo capito a cosa si riferiva. Non sono mica scemo. Solo che non sapevo come si dicesse… Quando a una donna si fa un…una … insomma, quando le si bacia lì…come si dice???
Il vuoto assoluto. Ero in preda al panico.
Chantal intanto insisteva:
“Allora, cosa dovrei chiederti, io?”
Vieni in mio soccorso, Beppi, ti prego! Il Beppi era, per certi versi, l’ “intellettuale” del gruppo: chi meglio di lui avrebbe saputo suggerirmi la “parolina magica”?
Niente. Ancora il vuoto assoluto.
Mi sembrava che Chantal si stesse innervosendo.
“E allora, non sai dirmelo?”
“No…è che io…io…Guarda, ce l’ho sulla punta della lingua, giuro!”
EUREKA! Ecco come si dice!
“Slinguazzo!” le dissi trionfante.
A Chantal si iniettarono gli occhi di sangue.
 “COSA HAI DETTO??? RIPETILO, SE HAI IL CORAGGIO!!!”
“Niente, io non volevo dire quello…è che… è che…”
“Lo sai cosa siete voi uomini, eh? LO SAI? SIETE DEI FALLOCRATI! ECCO COSA SIETE!”
“Fachè?” balbettai.
Ma lei non mi considerò. Comunque non doveva essere un complimento…
“SIETE DEI LURIDI MASCHILISTI CHE PENSANO CHE IL MONDO RUOTI INTORNO A LORO! DEI DEMENTI CHE CREDONO CHE LE DONNE ESISTANO SOLO PER SODDISFARE I LORO VIZI!”
Ero paralizzato, dal terrore, dalle manette e dal fatto che mentre parlava Chantal mi strizzava i “gioielli di famiglia”, e più si arrabbiava più me li strizzava. Per poco non mi fece diventare un soprano…
Con le lacrime agli occhi cominciai a implorarla:
“Ti prego, Chantal, ti prego!”
“TI PREGO COSA, EH? MA TI VEDI??? DOV’E’ FINITA ORA LA TUA SPAVALDERIA?”
Ma quale spavalderia??? Proprio io, la cui audacia più grande si è sempre risolta nel bagno di casa! Dio mio, mi sembrava di trovarmi in un incubo.
Chantal intanto se n’era andata in un’altra stanza. Ritornò con un paio di forbici in mano.

Quando mi risvegliai, mi ritrovai steso su una panchina del parco, con la gente che passeggiava e che continuava a guardarmi divertita.
Ma cosa cazzo avete da ridere??? pensai irritato.
Mi sentivo tutto intorpidito. Non era come nei film, in cui uno si risveglia e non si ricorda più cosa gli sia successo. No. Io mi ricordavo tutto. E ringraziavo il cielo di essere ancora vivo. Solo, non riuscivo a capire come ci fossi finito, lì, in quel parco. Pensai che dovevo essere svenuto.
Oddio, le forbici!!! Terrorizzato, indirizzai lo sguardo verso il basso.
COSA???
Non ci potevo credere!
(finale “democratico”: scegliete voi come far terminare il racconto. Suggerirei di impiegare il forum del sito www.anonimascrittori.it  per inviare i vostri finali)

(Ringrazio Fabietto per avermi suggerito alcuni miglioramenti e tutti i miei amici uomini per avermi fornito degli ottimi pretesti di ispirazione: che Dio vi benedica!)

 

<<”Come ti puzza il culo!!!!”  disse la vacca al mulo: “Sarà la tua puzza di cacca!!!!”  rispose il mulo alla vacca…Oh me misero…me tapino…quanto è grossa la mia sequoia…trallallero trallallà…figaro qua…figaro là…>>.

È così che conobbi Strego.

All’interno del parco “Mussolini” barcollava da un albero all’altro intonando frasi senza senso con una sigaretta in bocca, una bottiglia in una mano e il pisello nell’altra. Cercava di pisciare nella direzione giusta, ma era talmente sbronzo che riusciva solo a centrarsi le scarpe.

In quella torrida serata di luglio non avevo proprio nulla da fare: i miei amici musicisti non suonavano, il portafoglio era semivuoto, e quanto alle donne…beh, lasciamo perdere…

La mia storia con Dorotea era finita da tre settimane. Per sempre.

Nessun’altra donna. Nessun altro uomo. Semplicemente l’amore che una mattina si sveglia e delira così, senza una ragione. L’amore che non dura. L’amore che muore perché non è eterno.

Eppure lei, il mio Angelo dai lunghi capelli rossi, io l’avevo amata davvero…

Trascorsi le prime settimane ad ubriacarmi tutte le sere. A vomitare. Ad ascoltare vecchie canzoni di Nick Drake. A rileggere le sue lettere.  A rivedere le nostre foto. A piangere. A masturbarmi…

La classica routine di un uomo abbandonato.

Dopo 20 giorni decisi di uscire. Eravamo io ed un insano desiderio di morte. Una coppia perfetta!!

Ero lucido. E la lucidità della mia mente mi permise di elaborare tra i miei pensieri una tristissima e quanto mai contorta danza di numeri.

Erano 4 ore che non mi tiravo una sega. 8 che non parlavo con nessuno. 16 che non dormivo. 20 che non bevevo alcool. Quasi 48 che non toccavo cibo. Quasi 100 che non guidavo. Quasi 150 che non lavoravo. Quasi 500 che non parlavo con Dorotea. Quasi 600 che non la vedevo. Quasi 700 che non sorridevo. Quasi 800 che non tenevo una donna tra le braccia…

Sì…800 ore non sono poi molte, sono più o meno 34 giorni. Come dimenticare quel momento? Immagini che si ripetevano nella mente centinaia di volte al giorno, come un film che si conosce a memoria.

  Avevamo appena finito di fare l’amore, quella notte. Poi lei raccolse le ginocchia al mento. Sembrava una bambina in cerca di protezione. Di tenerezza…

L’abbracciai con la dolcezza di sempre, la dolcezza che in quei momenti spesso mi dimostrava lei per prima…ma appena sfiorai la sua pelle, mi accorsi immediatamente che c’era qualcosa che non andava.

<<Cos’hai?>> le chiesi.

Non mi rispose.

La osservavo sotto la sola luce di una candela…Dio, quant’era bella con quello sguardo triste!

Era magnificamente bella!

Accarezzai il suo viso, e con una ciocca dei suoi capelli le asciugai gli occhi imbevuti di pianto. Tenevo le mani tra i suoi capelli e con la mia fronte toccavo la sua. Vedevo le lacrime nascere dai suoi occhi e morire tra le labbra. E’ lì che la baciavo...

Baciavo le sue lacrime e non dimenticherò mai quel sapore così amaro. Era veleno!

800 ore prima…

Quel “film” ormai mi tormentava da 34 giorni. In ogni istante della giornata. Dall’alba al tramonto.

Stavo male. E in quei casi si cerca sempre un pretesto per stare peggio.

Le probabilità che un bolide grande quanto il Texas si schiantasse contro la mia città causando l’estinzione umana in pochi mesi erano praticamente nulle. Dovevo accontentarmi di molto meno. O semplicemente dovevo essere meno egoista. Così aspirai ad una fine più “individuale”.

Speravo in un brutto incontro: un teppista, una banda di nazi armati di catene, un balordo con la pistola, un qualsiasi rappresentante della feccia umana, felice di massacrarmi di botte e di farmi sputare sangue…

Era l’01:35 circa… ancora un po’ troppo presto per quel tipo d’incontri.

Accesi il televisore per uno “zapping”.

Immagini altamente culturali: pornocasalinga vista davanti, il kamasutra in videocassetta alla “fantastica” offerta di 73.00 €, Selen vista da dietro, Maurizia Paradiso che consigliava “Mandingo” per delle erezioni mai viste, il culo di Selen (primo piano), poppe astronomiche (roba da far vomitare anche il masturbatore più incallito!), sesso, sesso, sesso e ancora sesso… Continuai a giocare con il telecomando fino a quando qualcosa di veramente interessante non catturò la mia attenzione.

MTV: Chris Cornell dei Soundgarden stava cantando a squarciagola “Jesus Christ pose”; sembrava un moderno Messia avvelenato con il mondo, con tutto e con tutti. Proprio come me.

Nell’ordine su una grande croce si alternavano un fantoccio woodoo, una bella ragazza dagli occhi bendati e lo scheletro di una mezza specie di “Terminator”. Un concentrato di suoni condito da immagini subliminali e provocatorie. Un efficace strumento di tortura per cardinali fascisti e borghesi benpensanti. A quel punto spensi il televisore: ero pronto per la mia impresa.

Uscii di casa a piedi. Direzione: il parco “Mussolini”.

Erano anni che non lo vedevo di notte, forse dai tempi dell’Arcadia. Quando “chiudevamo” quel  locale, le serate finivano quasi sempre ai giardini di fronte, davanti ad una bottiglia di vino, ad una canna, ad una chitarra o ad un jambè…e se poi c’era Foffo nelle vicinanze, allora si andava a casa di qualcuno a cucinare il suo bel guanciale che teneva costantemente custodito in macchina…. e se fuori c’erano 33°, beh questo era solo un dettaglio.

Iniziai a girovagare per il parco ricordando i vecchi tempi: l’Arcadia, Foffo, il Vicolo Cieco, i Senzabenza, i goal di Robby Baggio ai mondiali del ’94, i Traffic Jam, il “Demone Blu”, le Teste di Legno, il Miro’s Pub, Caterina e il suo violino, la “Pantera” del ‘90, il Marsigliese, Nicoletti, San Masseo e tutto il resto. Dorotea. Tutto il resto. Dorotea. Tutto…

I giardini erano quasi deserti. Qualche extracomunitario ubriaco forse, ma nessuno corrispondeva al soggetto che stavo cercando. Deluso, mi sedetti su una panchina ed accesi la trentaseiesima sigaretta della giornata.

È a quel punto che incontrai quell’uomo.

Dopo aver finito di pisciarsi sulle  scarpe, mi venne incontro chiedendo una sigaretta.

“Ma come? Non vedi che ne hai una accesa in bocca???” avrei dovuto dirgli.

Non lo feci. Anzi gli diedi tutto il pacchetto.

<<Tieni!>> gli dissi: <<ne sono rimaste solo 4, ma puoi tenerle…credo di aver fumato abbastanza per oggi…>>. Le prese soddisfatto.

Il lampione più vicino era ad una ventina di metri. La sua luce mi permise di riconoscere un uomo di 45-50 anni, di corporatura robusta ma non molto alto, dai capelli grigi di media lunghezza e la barba incolta.

<<Posso sedermi qui?>> mi chiese umilmente: <<Perdonami….ma non ce la faccio proprio ad arrivare all’altra panchina…>>. Rimasi colpito dalla sua gentilezza. Insomma: era pur sempre un “barbone” o una cosa del genere. Avevo già avuto incontri di quel tipo e ormai avevo capito che quella vita, la loro vita, non poteva permettersi la gentilezza. Era un lusso troppo grande.

 Quell’uomo non si reggeva in piedi. Lo aiutai a sedersi su quella panchina.

Puzzava da fare schifo: una ripugnante miscela di vomito, alcool, piscio, sudore, merda…

<<Ti ringrazio…Posso sapere il tuo nome?>> mi disse.

<<Micky…>> gli risposi.

<<Sei un guerriero, Micky! si vede dai tuoi occhi…sei vero…proprio come Attila…>>.

Attila…che cazzo centrava Attila?!?!

Capii immediatamente che avevo a che fare con un povero pazzo.

Un pazzo innocuo: i suoi occhi esprimevano tutto tranne la violenza o l’odio…

Non era proprio quello che stavo cercando, non era come incontrare “Gianluchino”, Leo lo zingaro, il Negro o gli altri delinquenti che in quel periodo bazzicavano la mia città, ma forse l’incontro con un vagabondo sarebbe stato altrettanto violento per la mia anima.

Forse mi avrebbe fatto ugualmente male.

Decisi di parlare con lui: <<Tu invece, come ti chiami?>>.

<<Puoi chiamarmi Strego…>> mi rispose.

Strego (e chissà qual era il suo vero nome) doveva avere sicuramente qualche rotella fuori posto…molto probabilmente un acido gli aveva spappolato parte del cervello durante la fase lisergica degli anni ’70, quando era leader dei METEORA, gruppo progressive rimasto conosciuto soltanto nella scena musicale bolognese. A quanto pare quel nome non gli portò molta fortuna…

In realtà la nostra conversazione non durò molto. Mi disse che il giorno seguente avrebbe fatto qualcosa di “veramente strepitoso” e che se ne avevo voglia me ne avrebbe parlato la sera stessa al bar della stazione, magari davanti a qualche birra… Mi disse che negli ultimi mesi viveva tra Latina e Latina Scalo e che in primavera aveva fatto la comparsa per un documentario sul medioevo che stavano girando a Sermoneta.

<<Dovevi vedermi…>> mi disse: <<ero bellissimo, col mio arco e le mie frecce. Ero un arciere!>>.

Alla fine di quella frase il vino gli risalì tutto in una volta e cominciò a vomitarsi addosso.

Quando finì lo aiutai a coricarsi sulla panchina. Dopo pochi minuti si addormentò piangendo.

Nel sonno ripeteva continuamente una specie di mantra: “avrei ricoperto il tuo corpo con petali di rose…avrei ricoperto il tuo corpo con petali di rose…avrei ricoperto il tuo corpo con petali di rose… “.

Decisi di tornare a casa.

Dormii ininterrottamente per 13 ore, disertando il lavoro ancora una volta. Sicuramente cercarono di contattarmi un’infinità di volte, ma il mio cellulare era disperso da tempo immemorabile, e  quanto al telefono di casa, era stato distrutto durante una mia fase di isterismo alcolico.

Forse mi avevano già licenziato…

Feci colazione alle 6.30 del pomeriggio con una spremuta di arancia, una vodka gelata, una brioche, ed una vodka gelata. Qualche ora dopo mangiai uno squallido piatto di pasta in bianco. Infine decisi di andare alla stazione a trovare Strego. Prelevai 100 € dal Bancomat: se qualche giorno prima il mio conto era vicino allo zero, adesso stava veramente franando.

“Vai, Strego!” pensai dentro di me: “stasera offro io…”.

Dopo una settimana risalii a bordo della mia Alfa 33 grigio ardesia del ’91. “Una vera macchina da coatto!!!” mi diceva sempre Foffo, anche quando era quasi nuova…Io l’ho sempre adorata.

Arrivai alla stazione poco prima di mezzanotte e al bar ordinai la terza vodka della giornata.

Chiesi informazioni al ragazzo che serviva dietro al bancone.

<<Ma chi, Strego?! Certo che lo conosco!!>> mi disse: <<Spesso trascorre le notti qui alla stazione, in sala d’attesa…ma non credo che si farà vedere per un bel po’…ho appena saputo che oggi l’ha combinata davvero bella! Del resto si vedeva che quello era proprio scemo…>>.

Il cameriere mi raccontò “quella cosa strepitosa” di cui la sera prima Strego fece solo un vago accenno. Per me Strego non era più un pazzo. Era un poeta, forse l’unico che abbia mai incontato…

Chiesi al cameriere una bottiglia di Martini Bianco, bella fredda. Risalii in macchina e cominciai a correre senza meta con una mano al volante e l’altra al Martini. Poi mi diressi a Roma. Sulla Pontina sfiorai diverse volte i 190 km orari. Poco prima dell’EUR la bottiglia era finita…

Girai per il quartiere delle puttane: alcune erano africane, molte dell’est…non so perché ero arrivato lì, non avevo mai pagato per scopare e non avevo alcuna intenzione di farlo quella sera.

Una ragazza mi costrinse a fermarmi. <<Ehi, bello! Ti va di stare un po’ con Irina?>>.

Avrà avuto 20 anni, forse meno… era bellissima, dal corpo esile e i capelli lunghi e neri. Indossava  una microgonna di pelle nera, dalla quale si intravedeva un perizoma rosso, gli stivali alti fino al ginocchio dello stesso colore ed una magliettina aderente corta fino all’ombellico…

La feci salire in macchina. <<Devi pagarmi subito.>> mi disse: <<sono 60 €…>>.

Glieli diedi e le chiesi dove dovevo andare. <<Non possiamo allontanarci troppo, altrimenti “lui” s’incazza e mi fa  storie…>>. Mi fece fermare ad una traversa di via dell’Umanesimo.

<<Ecco. Puoi parcheggiare qui…>>.

“Qui” era tra un bidone della spazzatura ed una campana per la raccolta differenziata.

Cominciò a spogliarsi mettendo in mostra i suoi seni, piccoli ma ben fatti.

L’abbracciai e tentai di baciarla come fino a poco tempo prima facevo con un’altra.

<<….e no bello!!  Questo non lo puoi proprio fare…E’ la prima volta con una di noi, vero? Guarda: si fa così…>>.

Mi sbottonò la camicia e poi i pantaloni. Iniziò ad accarezzarmi il torace e a leccarmi. Poi scese sempre più giù: cominciò a manipolarlo con le mani e con la lingua. Me lo prese in bocca…

Rimasi inerme. 

 <<C’è qualche problema?>> mi chiese.

<<Credo proprio di sì…>> le risposi con un infinito imbarazzo. <<Scusami…non so neppure io perché ti ho fatto salire in macchina…>>.

<<Ok, magari sarà per un’altra volta, d’accordo?>>.

Aprì lo sportello e se ne andò via, lasciandomi così: vicino ad un bidone della spazzatura, con 60 € in meno ed un cazzo morto in mezzo alle gambe. Mi sembrava di nuotare in un oceano di merda…

Continuai a girare per le vie di Roma finchè la macchina mi lasciò a piedi, senza benzina.

Era quasi l’alba. Entrai in un bar. Il primo che trovai aperto. Ordinai una vodka gelata. Doppia.

Avevo due strade di fronte a me.

Berla tutta in un sorso e poi ordinarne un’altra e dopo un’altra ancora…

Oppure lasciare il bicchiere lì intatto. Pagare ed andarmene…

EPILOGO

La mattina precedente, Strego si era alzato da quella panchina. Dopo due ore di elemosina riuscì a comprarsi due cartoni di Tavernello. Nel primo pomeriggio li aveva già finiti.

Successivamente andò in un nascondiglio che conosceva solo lui. Indossò un costume medievale, quel costume che forse in un modo o nell’altro era riuscito a far sparire dal set, a Sermoneta, qualche mese prima. Con sé teneva pure l’arco. Gli mancavano solo le frecce. Vagò per il centro della città così, vestito da arciere medievale e con un elmo in testa.

Fuori il termometro toccava i 37°.

Si fermò a Piazza del popolo, di fronte alla torre dell’orologio. A pochi metri dalla fontana iniziò a far scoccare l’arco contro il quadrante dell’orologio. Senza frecce. Tendeva l’arco e lasciava la presa. Non fece in tempo a lanciare la nona delle sue frecce immaginarie che in lontananza già si sentiva il suono di una sirena.

Due portantini scesero dall’ambulanza e gli misero la camicia di forza, un terzo gli fece un’iniezione. Strego non oppose alcun tipo di resistenza.

Da allora in città non lo vide più nessuno.



Dedicato a tutti quelli che sono ancora fermi di fronte a “quel” bicchiere.

 

E un attimo dopo fu a terra, privo di forze, seduto sul cumulo che aveva smosso per seppellire per sempre una sciagura del suo passato. Il viso non era cupo, non guardava verso in basso, non mostrava segni di tormento o prostrazione, ma anzi, il viso di Arturo Bachis era disteso, sereno.
Intorno a lui infuriava l’impietosa buriana, fitte raffiche di pioggia e vento che lo martellavano senza che lui facesse niente per ripararsi. L’aria fresca fischiava selvaggiamente al passaggio fra i due colli della valle della luna e lui restava lì immobile ad osservare il paesaggio travolto dalla burrasca nella notte.
Arturo Bachis non pensava più alle azioni che aveva appena compiuto, non pensava al fatto che era diventato un assassino, da quel momento e per sempre. Guardava la valle della luna e pensava che i giorni in cui era andato lì con la sua adorata Maria Adele.
Si ricordò di quelle lunghe giornate di primavera con il pranzetto al sacco preparato da lei. Pensò alla mattinata felice passata a raccogliere asparagi facendo a gara per chi ne avesse raccolti di più e poi, mentre lei stendeva la tovaglia sull’erba, lui molto accaldato si era buttato in mare, come per compiere chissà quale gesto eroico.
Quel giorno la valle della luna era bellissima e lui aveva pensato che vista dal basso, dal bagnasciuga, era ancora meglio poiché laggiù, a dieci minuti di cammino da dove avevano lasciato la macchina, tutto il resto del mondo sembrava lontano e poco importante.
Quella notte aveva messo per sempre fine alle sue inquietudini, o almeno così pensava.
Da quella notte aveva cominciato a non dormire più in quel letto che era diventato più freddo della morte.
Per sempre. Per sempre lei se n’era andata via. E nonostante il suo gesto non sarebbe servito a farla rivivere lui si sentiva soddisfatto. Pensava che quel bastardo che l’aveva uccisa non l’avrebbe mai potuta raggiungere, neanche nella morte. Pensava a lei come a qualcosa di puro nonostante tutte le volte che lei lo aveva tradito con quel bastardo figlio d’un cane.
Ma ora era morto, anche lui, per sempre morto. Come tutte le immagini di questa storia, come la sensazione che Arturo era costretto a sentire dentro di sé, dentro a quel suo corpo stanco, dentro al suo cuore ingannato e privato della possibilità di concedere un perdono.
Poco distante da lui il vento piegava due tulipani neri, li guardò e si chiese se quando fosse morto l’uno anche l’altro si sarebbe lasciato seccare. Si chiese se erano legati da qualche tipo di rapporto, quei due tulipani selvatici neri, e se l’uno fosse riuscito a reggere al pensiero della perdita dell’altro, oppure sarebbe rimasto in vita proprio come accadeva a lui. In vita senza vita.
Continuò ad osservare quei tulipani per un po’ e pensò che era terribile dover pensare certe cose, poi girò lo sguardo e sorrise nell’istante in cui ripensò che aveva appena ammazzato un uomo.
Si alzò di scatto e mosse quattro rapidi passi verso i due tulipani, si inginocchiò e ne strappò uno di netto. Lo fece così, con un gesto fulmineo del braccio, ma si accorse subito di aver commesso qualcosa di irreparabile, qualcosa che profanava uno dei luoghi a cui teneva di più, uno dei luoghi a cui era più legato per il ricordo della sua Maria Adele.
Guardò il tulipano fra le sue mani, si chiese perché lo aveva fatto, sembrava più dispiaciuto per quel fiore che per l’uomo che aveva appena seppellito.
Si convinse che l’aveva fatto affinché qualcuno o qualcosa potesse condividere il suo dolore, l’aveva fatto con cattiveria per poter osservare l’altro tulipano e scoprire se anche la sua anima si sarebbe lasciata andare in un succube abbandono oppure avrebbe reagito alla vita nonostante il dolore di una tale privazione.
L’anima del tulipano nero.
Con questo pensiero Arturo Bachis si strinse il fiore al petto e ricevette in dono le immagini della sua vita con Maria Adele che presto si trasformarono nell’incubo della continua presenza di quel bastardo figlio di troia che due volte aveva provato a portargliela via. E la seconda volta c’era riuscito.
Gli tornarono in mente i litigi con lei e le sere in cui non era tornata a casa per stare con il bastardo in putrefazione, Ramon Lo Jacolo, così si chiamava quel maledetto spagnolo. In quelle notti si tormentava pensando a dove fosse andata ma rigettava l’idea su cosa stesse facendo, a quello non voleva pensare mentre si ranicchiava nel letto sperando di sentire la porta aprirsi e chiudere fuori per sempre ogni forma di negazione dell’amore nei suoi confronti.
Pensava a quanto era bello ballare con lei e quanto gli pesava la triste dannazione per non essersi accorto di un insegnante di ballo viscido e infame come quello. Ma ballare con Maria Adele era divino, e forse irripetibile, e lui voleva ripensarla in quei momenti, quando volteggiava leggera e impregnava la sala da ballo con l’essenza del suo profumo muschiato.
Ma subito tornò a sprofondare nel dolore e si ricordò della crisi che durò un bel po’, dei suoi interrogatori che peggioravano le cose e della confessione sotto la scalinata di Santa Chiara quando lei piangeva e non voleva staccarsi dal suo petto irrigidito al suono delle sue parole. Richiamò alla mente la voglia di piangere che aveva sempre impedito davanti agli occhi di lei per paura di essere giudicato troppo debole.
Per un istante pensò che se lei fosse stata viva l’avrebbe voluta abbracciare, stringere la faccia fra i suoi seni e lasciarsi andare in un pianto caldo e liberatorio. Non voleva più pensare di essere troppo debole o severo o qualunque cosa che non permettesse loro di vivere con serenità. Voleva essere se stesso e pensare che uno sbaglio non è mai la fine di tutto, anche se ormai la fine di tutto aveva cancellato la possibilità di qualunque sbaglio.
Poi si ricordò della decisione di lei di troncare con quel figlio di puttana, delle telefonate nel cuore della notte, di lei che urlava alla cornetta che era tutto finito, che aveva fatto un grosso errore mentre Arturo si sentiva incapace di reagire un po’ per un senso di risentimento nei confronti della donna e un po’ perché lo impauriva il confronto con quel fottuto ballerino che aveva sedotto sua moglie.
Non aveva mai avuto coraggio nella sua vita ma l’aveva trovato dopo quello che lui le aveva fatto, dopo quello che aveva fatto portandola via per sempre non solo a lui ma a tutto il mondo, a tutta la bellezza che c’è su questa terra.
Richiamò alla mente le immagini di quella sera, lei non era rientrata. Per qualche ora rimase ad angosciarsi alla finestra mentre fuori pioveva a dirotto, pensava ad una nuova serie di incontri segreti, poi verso le undici arrivò una telefonata dei carabinieri che lo avvisavano di recarsi all’ospedale Marino per degli accertamenti. Non volle pensare subito a qualche disgrazia ma quando arrivò lo informarono subito che Maria Adele Costa era stata investita da un’auto ed era deceduta poco dopo il suo arrivo al pronto soccorso.
Lui mantenne un po’ di forza per vedere la salma, poi gli venne improvvisamente a mancare quando chiese maggiori informazioni sull’accaduto. Gli dissero che era tutto ancora da dimostrare, il caso era aperto, ma si sospettava l’omicidio premeditato. Dopo aver investito la donna l’auto dell’investitore si era bloccata di colpo un centinaio di metri più avanti, era come se in un primo momento non si fosse voluto fermare a soccorrerla, come se fosse stato un fatto accidentale. Lo stesso investitore era però corso indietro e inginocchiatosi sulla vittima urlava e supplicava perdono.
Dissero che ammise di averla investita ma volevano essere sicuri di trovarsi davanti all’uomo giusto e non ad uno squilibrato qualunque. Non potevano ancora divulgare le sue generalità.
Gli dissero che era un insegnante di ballo spagnolo.
I suoi occhi si illuminarono e fu in quel momento che capì di essere perduto per sempre. In balia di inarrestabili eventi che in là nel tempo sarebbero dovuti avvenire.
Il processo si era concluso con l’arresto per omicidio del bastardo rotto in culo di un ballerino, ma questo non lo fece stare meglio affatto.
Due anni, due lunghi anni che pesarono ad Arturo Bachis come se anche lui fosse stato incarcerato. Due anni per pensare a cosa fare e, nella follia, decretare una sentenza di morte. Due anni per rivedere la faccia di quella merda di uomo e strangolarlo nel sottoscala buio del quartiere Castello dove viveva e forse dove andava la sua Maria Adele nelle notti in cui, con la solitudine del suo cuore, lui invocava una pietà ed un perdono che non era lui a dover invocare.
Avrebbe voluto vedere quella casa ma non ne ebbe il tempo, o forse il coraggio. Con il corpo nel bagagliaio si era diretto nel cuore della notte verso la valle della luna. Guidava col volto coperto di lacrime, la musica spenta. Solo il rumore dei copertoni nell’asfalto bagnato ed un senso di vuoto allo stomaco.
Dopo una estenuante camminata col morto in spalla, e sotto una pioggia che aumentava di intensità, aveva scavato una profonda fossa nella terra e vi aveva deposto per sempre l’unico uomo che aveva odiato nella sua vita e con lui pensò di gettare via tutta la sua angoscia per questa storia, tutta la voglia di ammazzarlo ancora e ancora e ancora.
Si guardò intorno un’altra volta, si alzò in piedi e fece un giro a trecentosessanta gradi. Aveva ancora il tulipano in mano. Le gocce colavano e colavano da ogni punto del suo corpo. Osservò la parte alta della valle e decise di avviarsi alla macchina. Passando sulla terra smossa per la sepoltura lasciò cadere il fiore.
Sorrise amaramente.
Decise che non sarebbe mai più tornato alla valle della luna.




- Voglio pisciare!
- Vuoi pisciarmi in bocca?
- Dopo averti scopata ho sempre voglia di pisciare!

Abbondano le pisciate nella sua vita pornografica. E’ quasi sempre buio quando sale il desiderio di buttare fuori,colare,pisciare,inondare,bagnarsi,segnarsi.
O anche: é nella casa- bara. Hanno finito di scopare.(-si finisce di scopare?-)
Lui ora si lava /cosa è più ridicolo di questo lavarsi dopo essersi presi?/.Lava il suo cazzo. Gli accarezza la schiena. Ha voglia di sodomizzarlo. Ha voglia che quell’acqua bianca diventi il suo piscio. Ha voglia di bere quel piscio.
Perché avverto che la ragazza-orina è indecente,assolutamente pornografica?
Sospendo i giudizi / in Bataille- che amo- l’orina o piscio è sempre presente. Colano i liquidi dai buchi. Dalle fessure del mondo. E’ non poter trattenere ancora per un solo attimo in più l’indecenza. E’ prostrarsi al limite.
La piccola pisciatrice/ del resto lei che investe secoli,dipana rughe,non può non essere piccola/ voglio che abbia capelli neri,occhi gialli,pelle bianca. E poi è magra, al limite della dispersione della sua attività.
Pisciare è privato ma ha un odore assolutamente pubblico. Ai benpensanti dà fastidio. Piace ai cani.
Quando ha preso/capelli neri ed occhi gialli/ l’abitudine a pisciare?il desiderio irrefrenabile?
Questo segno, questa putredine macchia la segue ovunque: macchine,alberghi,letti,pavimenti. Sorta di allagamento perenne. Galleggiano oggetti,sedili,dure coperte.
A tratti mentre intreccia i capelli sfiora con lo sguardo il suo amante. Sa che lui ama la sua orina. Forse soltanto questa. Gialla scolatura. Lo guarda. Porta le mani alla bocca. Sente l’odore lo sente- sente lui.
E’ come tutti gli altri .Cazzo duro.



Ed eccola finalmente la macchia di marzo. Adesso tutto sta diventando chiaro, finisce il mese e per magica magia appare la macchietta del precedente mese. Sapete come lo scopro? Facile, vado a vedere se cè la mia macchia di febbraio spedita ad aprile e infatti cè, infondo infondo, ultima arrivata, ma cè. Ha fatto appena in tempo! Allora mi viene subito l’idea: scrivere subito subito un’altra macchia, così stavolta mi metto lassù in cima e subito all’inizio tutti leggono il mio nome. Quasi quasi mi monto la testa, a scrivere macchie sulle macchie dei pazzi, e poi chissà, potrei avere un avvenire, specializzandomi a scrivere macchie, non è poi tanto difficile con un po’ di allenamento, e se proprio non mi viene in mente niente, posso anche lasciare cadere una macchia vera di inchiostro vero sul foglio di carta bianca o anche colorata, da una delle mie quattordici vere penne stilografiche, e voilà, il gioco è fatto, macchia per macchia, una macchia la faccio sempre. Ma porca puttana, per un giorno che non accendo il computer, e come apro la pagina, ecco che appare la lista dei soliti noti, ed anche stavolta mi sono perso il primo posto. I primi saranno gli ultimi, va bene, è una frase che consola molto, ma consola solo, poi sei libero di masturbarti come vuoi, e se poi continuo a dire porca puttana, e menomale che non ho detto puttana Eva, QUELLO mi castiga, e non mi invita a venire avanti, anche se occupo l’ultimo posto, e anzi vi dirò di pi e di meglio, mi spedisce dritto dritto nell’inferno, dove, dopotutto non dovrei trovarmi nemmeno troppo male, ma se si può avere qualcosa di più adeguato, perché pensarci su a riflettere, si prende e si ringrazia. Tante grazie, in prima fila, si vede sempre il tanga della ballerina! Ma perché perdersi d’animo, se mi sbrigo, può anche darsi che finisco proprio sotto la Debora, che scrive racconti romantici tipo Pisciare. Favola N. 3 Voglio pisciare! Vuoi pisciarmi in bocca? Dopo averti scopata ho sempre voglia di pisciare!, e roba così, che a dire la verità a me piace un sacco. Cara mia, forse mi sono già innamorato di te. Ergo, stare sotto la Debora non sarebbe nemmeno un brutto posto dove stare, anzi, direi, che potrebbe essere un bel posto. E da qui si capisce, che l’ultimo libro a cui sto lavorando si intitola Cacciatore di luoghi, che non è il solito posto, tipo Agli Antichi Sapori (cucina casereccia surgelata), Nuovo Cinema Odeon (aria climatizzata), Bar Dei Quattro Amici (sala per fumatori), Lido Tiziana (maestro di ballo latinoamericano in sede), Zoo di Pallapesante (animali esotici e sconti per comitive), Albergo Tre Nanetti (cinquestelle servizio in camera e cameriera a ore). E dopo aver capito questo, passiamo alla macchia di marzo, che soggettivamente pone una miriade di problemi, primo fra tutti che la macchia di febbraio l’avrei conclusa con un Chi se la sente, mi risponda pure. Adesso non ricordo su cosa dovevano rispondermi e quell’avrei forse è sbagliato, però ci sta bene. Comunque, se casomai a qualcuno fosse venuto in mente di rispondere, come faccio a saperlo, che ci metta almeno la ricevuta di ritorno, così richiama la mia attenzione che è universalmente noto che le raccomandate R.R., quando arrivano col postino, preoccupano il ricevente, solitamente portando, nell’ordine, le seguenti liete novelle: abbiamo il piacere di comunicarle che la sua domanda di pensione è stata respinta; la informiamo che non ha pagato la tassa di cui al codice C56X per l’anno 1979 pari a Euro 2,00 più diritti di mora pari a Euro 100.000,00, a cui vanno aggiunti i diritti di segreteria, di cancelleria, le spese di spedizione, le spese legali e le spese varie pari a Euro 300.000, per un totale che potrà leggere sul bollettino postale già precompilato (tanto per farle un piacere), e potrà versare l’intero importo nel più vicino ufficio postale in un’unica comodissima rata; ci dispiace comunicarle che il suo ricorso prodotto in data 6 luglio 1999 è stato respinto, come risulta dal provvedimento della Direzione Centrale allegato i copia alla presente, ma ci teniamo a informarla che contro il provvedimento che rigetta il ricorso, potrà produrre ricorso rivolgendosi direttamente alla sede periferica del nostro Istituto sita in Milano (e l’indirizzo e il C.A.P. te li cerchi da solo, e sappi pure che non abbiamo tempo per rispondere alle tue telefonate, che se hai ben notato, sulla lettera il numero di telefono nemmeno ce lo abbiamo messo). Ma ritorniamo alle nostre macchie e ai miei problemi soggettivi, e continuando nel tema dell’eventuale risposta, posso anche aggiungere, che prima o poi, ma credo che lo farò poi, mi stampo tutti gli interventi del progetto e piano piano, ma veramente piano e lentamente, uno alla volta li leggerò, ma non per il gusto di leggerli, ma nella speranza che qualcuno abbia dato risposta a quanto chiedevo, anche se al momento non ricordo la domanda. Faccio una promessa, che non manterrò, se alla macchia di aprile sono ancora qui, e ho il tempo, la forza, la speranza e la carità di scrivere il mio pezzo, farò un pezzo bellissimo (soggettivamente), un vero e proprio racconto, con tutti i crismi e le regole e i capoversi di un racconto vero. Il naso mi cresce di attimo in attimo, ma intanto io prometto, poi chi se ne frega. Secondo problema soggettivo, è che nella macchia di febbraio è saltata una è accentata, ma meglio una è accentata saltata, che una è accentata senza accento, che sarebbe errore blu scolastico, e non errore blu cobalto o errore blu oltremare chiaro, e cè un cè senza l’apostrofo, errore di battuta, refuso, in gergo, orrore pei puristi. Ma mica sono sicuro che siano solo queste le sviste, anche se sul mio originale sembra tutto a posto. Ma andiamo avanti con i tre problemi soggettivi, ed ecco apparire all’orizzonte lo spettro di gennaio: si fosse per caso offeso che la mia partenza è avvenuta a febbraio, che cazzo ci sto a fare a iniziare l’anno, mi potrebbe dire, ma potrei anche rispondergli, chi cazzo ti ci ha messo a quel posto, e se voglio decidere che l’anno inizia, per esempio a novembre, o se l’anno voglio farlo durare undici mesi, ti darebbe fastidio? Certo che ti darebbe fastidio, e adesso smettila di piangere che poi mi nevichi, devi pure capire che mi faccio tante cose, e non sono mica obbligato a farmi tutti i mesi. Quindi, risolto il problema dei problemi soggettivi, passiamo un po’ a parlare della macchia di marzo, che se è un mese pazzo come si dice, è il mese giusto per produrre macchie colorate. Esce il sole e tiri fuori l’ombrello, che a essere imparziali, anche l’ombrello potrebbe essere una macchia da sfruttare a pieno titolo. Ma ecco incalzare la macchia variopinta marzolina e sembra un fiore cannibale, come dice sempre il mio parroco che il diavolo è sempre pi bello di come lo descrivono, perciò ti prende in giro e alla fine ti inghiotte. Ma a me non mi frega, se è un fiore vegetariano me lo pappo cucinato, altrimenti lo spedisco dritto dritto allo zoo delle scimmie gay, e poi povere chiappe, sono cazzi suoi anche se la scimmia è più sexy quando è vestita. Allora, d’accordo, facciamo che la macchia di marzo, è un fiore cannibale, ma tanto per giocare, e alla fine del gioco io finisco in bellezza, anche se qualcuno mi mander affanculo. Ma ho tutto da perdere e nulla da guadagnare. Barbara, aspettami, so già che ti amo.




Muschioso rappreso sbrullato rancoroso rancido malessere blando. Bip. Parole immote aggrovigliate percotendo elusive sviando annebulate e flaccide esitabonde tremolanti castrazioni sperdendo sibilando fibrillanti roride intorpidite dipanando orlate ronzanti sussulti frusciando quasi folate di venticiattolone sfollanti cumuli lanuginosi di nubi farfuglianti nel chiarore livido sfumante tra la penombra azzurrata degradazioni di luci untose sbrilluccicanti rischiarano oscillazioni labili filiformi e volubili incerate trepidanti ma in fondo chete scemanti nei vicolacei circoletti a raggiera vagando mollicci melliflui sussulti. Blop. Blando malessere rancido rancoroso sbrullato rappreso muschioso. Miciattolando fioche folli fiammelle nell’aere illividito addensandosi cupe pendule. Ops.

 

NO.
Questa volta non mi prostituirò.
Eviterò che il bisogno d’accoglienza mi stordisca, tradendomi. Troppe volte ho voluto esser compresa. A costo che il senso di me si smarrisse, oppure si assentasse.
E mi domando dove fossi. Io. Allora. Quando.
Dov’ero quando rincorrevo la compiacenza? Dovere di PIACERE.
Dov’ero quando disperdevo sorrisi vuoti? Dovere di STAR BENE.
Dov’ero quando tacevo, pur increspandosi il cuore? Dovere di FINGERSI.
Dov’ero quando avrei voluto scegliere? Dovere di NON SENTIRSI.
Dov’ero quando raccoglievo le briciole dei sentimenti? Dovere di RESPINGERSI.
Dov’ero? Io. Allora. Quando. Dovevo.
Ho sempre sentito un mormorio dentro. Sempre.
Era la mia disubbidienza.
Prima mormorava. Ora la sento URLARE.
DOVE SONO? DOVE SONO? DOVE SONO?
Nascondendomi, mi sono persa.
Non mi trovo più.


SOUNDTRACK. OVERTURE.

Esistono momenti (secondi, giorni, anni) in cui si percepisce una sensazione strana. Una sensazione interiore ed intima di vuoto: qualcosa che non funziona nella propria esistenza.
Senti la necessità di ascoltare un suono che sia in sintonia con il tuo stato d'animo, una musica martellante, forse un rumore. Quella vibrazione che riesce a raccontare i tuoi incubi e che riesce a disegnare i tuoi pensieri più intimi.
I nervi sono tesi e così anche l'animo. Apri gli occhi ed inizi la giornata con quella tensione che per un istante percepisti un millisecondo prima che cominciasse il nuovo millennio.
Un inizio, una fine:
"...
Sento il telefono suonare. Devo rispondere?
E' una faccenda seria, come un cancro terminale
E sta giungendo la fase finale
Comincia a crescere ed io comincio a fantasticare.
..."

ISPETTORE PALOMA . UN FINALE.

<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
Era stato sempre un elemento a suo favore, pensava. D'altra parte il crescente nervosismo dell'emerito Prof.Cherokee Abdullah Silkh non dipendeva solamente dalla situazione in cui si era cacciato. Oltre la sua arguzia (ah! come gli piaceva definirsi arguta ed usare quel termine mentre parlava) inevitabilmente la sua carta vincente era stata sempre il suo aspetto fisico.
Carmen Paloma era definita da tutti una donnuccia flaccida, fisicamente irritante e decisamente sovrappeso, ma portava con sè uno sguardo, quello sguardo!, inquisitore, pungente e camaleontico. Uno sguardo che, semplicemente, insinuava. Gli uomini non potevano resitergli quando decideva di farsene uno ed i criminali entravano in un tunnel di nervosismo nevrotico che li poneva in inevitabile soggezione.
Forse il mondo l'avrebbe trattata da donna insignificante se non fosse stato per quello sguardo che insinuava: offensivo ed imbarazzante.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
L'ispettore Paloma sentendo per la decima volta la frase urlata in tono di sfida, si mosse verso la fonte di quel rumore.
Evitava sempre di chiamare, nominare, scrivere (salvo che negli atti ufficiali che doveva compilare al Dipartimento di Polizia) o anche accusare, una persona per nome e cognome: per lei era "il soggetto".
Riteneva che comportandosi in tal modo distruggeva qualsiasi filo di contatto, per quanto fiebile fosse, che per pura casualità potesse sorgere tra lei ed il perseguito. Oltretutto, non poteva nascondere a se stessa che di fatto adorava utilizzare nei suoi discorsi una terminologia astratta e asessuata, cosa che la riusciva a far sentire superiore anche a Dio, anzi al "Soggetto che starebbe lì su".
Aspetto fisico, sguardo ed uso dei termini astratti: una combinazione devastante. Imbarazzante per chi ne era oggetto...per la vittima. <<Meglio della macchina della verità!! anzi no, meglio della tortura!!>> sghignazzava sempre tra sè, sopratutto quando era a lavoro.
<<Agente arresti il soggetto prevenuto e lo traduca in carcere. Arguto!!!>> ordinò.
<<...e butti via argutamente la chiave>> mormorò, sicura, nella sua testa.

PROCURA DELLA REPUBBLICA
RAPPORTO DELL'ISPETTORE C. PALOMA
AL PUBBLICO MINISTERO PROCEDENTE
Criminale: Prof.Cherokee Abdullah Silkh
Giudizio: colpevole
Prove: 1) Avvocato Stanislao Kesser Da Silva trovato morto;
2) Atteggiamento nervoso e non conciliante del fermato.
Provvedimento
Arresto e traduzione presso la più vicina casa circondariale dello Stato; sentenza di colpevolezza; processo per direttissima da celebrarsi quando possibile; condanna da determinarsi in quella sede a cura del Pubblico Ministero procedente.
ISPETTORE
Carmen Paloma

NOBEL.

<<Ormai la mia scelta l'ho fatta>>
Non poteva fare a meno di sorridere a quell'affermazione. Come poteva, lui, considerare che fosse realmente possibile pronunciare una frase di quella portata?
Da giovane, anzi da giovanissimo gli avevano dato il nobel per la fisica. Il giorno della premiazione era stato introdotto ai presenti come il "Profeta della nuova fisica".
Ancora ventitreenne, sulla base di precisi calcoli e percorsi logici inequivoci aveva trovato la conferma scientificamente provata dell'esistenza di universi paralleli. Ora, la teoria, elaborata da Hugh Everett III e successivamente ripresa e ampliata da Bryce De Witt, non era più un'audace costruzione del mondo quantico.
Tuttavia il nobel gli era stato consegnato anche per un'altro motivo. Con la sua teoria veniva destrutturato definitivamente il principio di causa-effetto. Questo poteva essere ristretto all'attività di accadimenti concreti riferentisi ai mondi newtoniani, tale principio però saltava completamente nel momento in cui si affrontava la natura sul piano subatomico e su quello universale cosmologico.
Le fluttuazioni quantiche, confermavano i suoi studi, si pongono come un rumore di fondo che disturba il lavoro del nostro cervello. Le azioni dei neuroni a livello celebrale non sono determinate nè da noi stessi nè da qualcos'altro, esse semplicemente non sono deteriminate: non c'è causa-effetto, ma solo casualità.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg escludendo la possibilità di calcolare contemporaneamente posizione e velocità di una particella ha come conseguenza che il neurone, allo stato naturale, non ha oggettivamente nè posizione nè velocità. Esso può mettersi in moto o no, quello che la mente fa è cercare di determinare un evento (il moto) e non un'altro (il non moto).
Non esiste allora nessuna scelta. L'evento si verifica se noi lo osserviamo e ciò in quanto noi diveniamo parte dell'universo a cui appartiene quella casualità. Quell'istante è quello in cui si formano le infinite casualità e quindi gli infiniti universi.
Grazie per il Nobel!!!!!
<<Ha ancora senso parlare di scelte che determinano la propria vita? La vita di chi?>>
Non c'è presente, nè passato e nè futuro, essi esistono in un tutto inseparabile.

DISPERAZIONE.

<<Sto malissimo!!!>>
Non poteva urlare...non ne aveva la forza; non poteva muoversi...non ne aveva la forza; non poteva ragionare e razionalizzare...non ne aveva la forza.
Avrebbe voluto fermare il suo cervello, quel maledetto coso non la smetteva di bombardarlo di stimoli elettrici. In questi momenti si sentiva una cavia in balia della sua stessa mente che andava completamente alla deriva...almeno avesse potuto sapere quale...
Quel nero...quello spaventoso nero cresceva.
<<BASTARDA!!!>>
Arrivava senza avvertire, rimaneva quanto voleva e poi da un momento all'altro spariva, senza lasciare traccia e per fortuna, fino ad oggi, senza fare vittime.
<<Bastarda!! almeno avvertimi quando decidi di colpire!!>>
Era anche questo che lo mandava ai matti: non potersi preparare, non potersi organizzare per tempo. Avrebbe potuto non fissare appuntamenti con i clienti, cancellare quelli già presi; poteva non andare in tribunale e farsi sostituire. Ma così, di punto in bianco, si sentiva incatenato. Dalla realtà esterna che lo costringeva ad agire, a prendere delle decisione, a fare delle scelte; dal suo intimo che gli impediva il controllo del più insignificante neurone, quasi si attivassero senza una causa.
Certo che la sua fama di imbattibile e spietato avvocato non poco lo metteva in imbarazzo quando, solo, si guardava allo specchio e vedeva il nulla. Il vuoto.
Era imbarazzante sopratutto ora che difendeva due fra le personalità più odiate al mondo, i due potenti che per decenni avevano governato a suon di guerre preventive.
Lui, l'avvocato Stanislao Kesser Da Silva, anche questa volta era stato troppo bravo. Ormai era sicuro, come lo erano tutti, che i giudici del Tribunale Penale Internazionale gli avrebbero dato ragione e avrebbero mandato assolti i suoi assistiti.
Ma ora era stanco, vuoto e solo.
Ore 11:38 PM.
Lo studio è vuoto.
L'avvocato Stanislao Kesser Da Silva esce chiudendosi la porta alle spalle. Guarda con difficoltà le scale che dovrà scendere.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare a quelle scale!!>> si chiese.
Occhi rossi, lacrime.
Buio e silenzio.
Un passo, un'altro passo.
Nero, passi, silenzio, silenzio, silenzio...

SCELTE.

Per Cherokee Abdullah Silkh la ricerca scientifica aveva una sua ragion d'essere solo se i suoi obiettivi venivano costantemente relazionati alla realtà politica e sociale: non aveva senso pensare universi paralleli senza pensare simultaneamente a realtà politiche e sociali parallelle.
Tracciare queste relazioni biunivoche era divenuta ben presto una necessità e pertanto, un giorno, decise che come portava avanti i suoi studi per rivoluzionare il mondo scientifico, così doveva agire per rivoluzionare il mondo sociale. Una scelta che lo aveva avvicinato agli ambienti eversivi (o di lotta rivoluzionaria, dipende dai punti di vista) fino a divenire un dirigente d'azione della Comunità Dormiente.
In ogni caso, pensava, a qualunque universo lui, o meglio il suo Io-osservatore, appartenesse doveva tener fede agli accordi presi con la Comunità.
Quel lurido infame doveva scomparire da questa terra e doveva essere la mano di Cherokee Abdullah Silkh a portare a termine l'operazione: qualunque cosa fosse successa, qualsiasi ispettore di polizia lo avesse ricercato, chiunque non si fosse fermato davanti alla fama di cui godeva l'emerito Prof. Cherokee Abdullah Silkh.
<<Se quegli imbecilli conservatori che mi hanno dato il nobel sapessero che sono un dirigente d'azione, un sicario, della Comunità chissà come ci rimarrebbero. Come spiegargli che mi sono stancato da tempo di fare solo ricerca scientifica; che mi sono chiesto quale aiuto ho dato agli esclusi con la mia teoria ed i miei studi>>.
La scelta ormai era stata fatta. L'universo in cui viveva, aveva deciso, era l'unico vivibile, l'unico osservabile.
"La Scelta", una volta osservata, aveva istantaneamente cancellato ogni ansia ed ogni incubo.
Era lì nel buio in attesa che qualcosa si muovesse, che l'obiettivo, il bastardo, uscisse dalla porta del suo fottuto studio. Sapeva che aveva di fronte un uomo senza scrupoli, freddo, vigile e senza esitazioni. Lui invece era stato sempre un emotivo, solo "La Scelta" lo aveva trasformato. La imponente consapevolezza di quell'atto di autodeterminazione era stata come una rinascita, sapeva che la realtà è caso, che il mondo è tale in quanto in tal modo viene osservato. Si era convinto che quello in cui viveva era l'unico mondo possibile. Niente universi paralleli, niente salti spazio temporali, niente singolarità casuali da attraversare.
Le infinite combinazioni di ogni singolo universo, consideravano sempre un elevato numero di persone sfruttate e allora inutile pensare al resto: combattiamo ora e subito!
Cigolii.
Buio e silenzio.
Un passo, un'altro passo.
Nero.
Passi, silenzio, silenzio, silenzio...

ISPETTORE PALOMA . UN ALTRO FINALE.

<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
Era stato sempre un elemento a suo favore, pensava. D'altra parte il crescente nervosismo dell'emerito Prof.Cherokee Abdullah Silkh non dipendeva solamente dalla situazione in cui si era cacciato. Oltre la sua arguzia (ah! come gli piaceva definirsi arguta ed usare quel termine mentre parlava) inevitabilmente la sua carta vincente era stata sempre il suo aspetto fisico.
Carmen Paloma era definita da tutti una donnuccia flaccida, fisicamente irritante e decisamente sovrappeso, ma portava con sè uno sguardo, quello sguardo!, inquisitore, pungente e camaleontico. Uno sguardo che, semplicemente, insinuava. Gli uomini non potevano resitergli quando decideva di farsene uno ed i criminali entravano in un tunnel di nervosismo nevrotico che li poneva in inevitabile soggezione.
Forse il mondo l'avrebbe trattata da donna insignificante se non fosse stato per quello sguardo che insinuava: offensivo ed imbarazzante.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
L'ispettore Paloma sentendo per la decima volta la frase urlata in tono di sfida, si mosse verso la fonte di quel rumore.
Evitava sempre di chiamare, nominare, scrivere (salvo che negli atti ufficiali che doveva compilare al Dipartimento di Polizia) o anche accusare, una persona per nome e cognome: per lei era "il soggetto".
Riteneva che comportandosi in tal modo distruggeva qualsiasi filo di contatto, per quanto fiebile fosse, che per pura casualità potesse sorgere tra lei ed il perseguito. Oltretutto, non poteva nascondere a se stessa che di fatto adorava utilizzare nei suoi discorsi una terminologia astratta e asessuata, cosa che la riusciva a far sentire superiore anche a Dio, anzi al "Soggetto che starebbe lì su".
Aspetto fisico, sguardo ed uso dei termini astratti: una combinazione devastante. Imbarazzante per chi ne era oggetto...per la vittima. <<Meglio della macchina della verità!! anzi no, meglio della tortura!!>> sghignazzava sempre tra sè, sopratutto quando era a lavoro.
Ore 5:27 AM.
Questa volta però era in difficoltà.
E' vero il soggetto-avvocato era sparito da ore. L'ultimo soggetto che lo aveva visto era stato il collaboratore che se ne era tornato a casa verso le 10:00 PM e lo aveva lasciato solo a studio . Diceva che spesso l'avvocato rimaneva a meditare per un po' da solo, ma quella notte si era persa ogni traccia.
E' vero, avevano fermato un soggetto a 100 metri dallo studio, che era stato identificato come quella specie di genio un po' indiano, un po'arabo ed un po' nativo americano che veniva chiamato Profeta della nuova fisica!
<<Agente, lo lasci andare..ne ho abbastanza di sentire argutamente quella voce così sgradevole!>>

SOUNDTRACK, CHIUSURA.

Sai che non esiste un rimedio, devi resitere.
Il mondo dei tuoi pensieri è colorato di blu e nero. Questa sensazione non è tristezza è la tensione che senti per l'impotenza e l'impossibilità di controllare il tuo destino, di scegliere la tua esistenza.
Desideri cercare un senso, però per trovarlo non basta avere un obiettivo perchè è necessario conoscere la strada per raggiungerlo e devi avere la forza per percorrerlo quel sentiero.
Il tempo trascorre, continui a cercare una musica che sia in sintonia con il tuo stato d'animo. I tuoi pensieri sono ancora blu e neri. Incontri personaggi che non puoi evitare, che devi affrontare. Vorresti fuggire anche se tu sai che la polizia karmica non ti può prendere perchè desidera solo metterti paura...e tu hai paura:
"...
Questo è quello che otterrai
quando avrai a che fare con noi.
Per un minuto mi perdo in me stesso.
..."
Sei a casa, sei sotto le coperte e finalmente puoi chiudere gli occhi.
Varchi la soglia della tua mente, un'altro mondo, un'altro universo. I pensieri corrono, i suoni si accavallano, suoni come pennelli: rosso, verde, bianco, azzurro, viola, marrone...Di più, di più, ce ne sono sempre di più.
Calma, tranquillizzati. Ora riposa, perchè non sai in quale universo ti sveglierai domani.


Fa freddo, un vento gelido spazza il piazzale e fa volare le cartacce. Infilo il piumone, indosso il cappello e ti metto il guinzaglio. Usciamo. E’ il solito giro, tutto il perimetro del parcheggio del centro commerciale che data l’ora è vuoto, quindi ti posso lasciar libera di annusare e correre dove vuoi. Sei allegra, tu ami queste temperature, sai che poi il caldo di casa ti aspetta. Trotterelli al tuo fianco, ogni tanto ti allontani per perlustrare le aiuole sparse qua e là nell’asfalto, ma mi tieni sempre d’occhio. Non preoccuparti, lo sai che sono io che come al solito mi adeguo ai tuoi ritmi, ti aspetto, ti seguo, è il nostro tempo. Ti osservo mentre esamini un ciuffo d’erba e mi accorgo che non mi sono ancora assuefatta alla tua bellezza.
Quando ti ho adottata eri ricoperta di croste nere, avevi le orecchie purulente, il pelo ormai a chiazze e non conoscevi il mondo. Avevi sopportato per anni un dolore talmente grande che ho pensato fosse giunta l’ora di ripagarti, per quel che potevo, di tutto l’amore che ti era mancato. Eri un esserino che riusciva a malapena a camminare, tutto era nuovo per te, anche calpestare l’erba e godere del sole. Ma la tua bellezza e l’innata affettuosità ti hanno salvata. Ti ho amata da subito. Ora sei una cagna felice. Ma se fossi stata brutta e scontrosa? Ti guardo e penso a Caia, la principessa di paglia. Caia è un ammasso di pelo tra il rossiccio e il biondastro, ispido e sporco, due occhi acuti e un tartufo rosa. Qualche volta è passata davanti alla porta del negozio in cui lavoro. Poiché amo i cani ho provato a chiamarla ma mi ha guardata ed ha attraversato subito la strada. Caia dagli occhi gialli,brutta, infangata e solitaria, perché mi hai colpito? E sento una voce che mi risponde <<perché ti rivedi in lei.>> Soffro di transfert nei confronti dei cani abbandonati e scontrosi. A volte mi sento così anch’io.
Sono andata più volte al canile della città e ne sono sempre uscita col cuore a pezzi. Tutti i cani si proponevano, cercavano una carezza. Tu no, tu mi schivi e vaghi per conto tuo. Non ti aspetti più niente. Ed è per questo che mi commuovi ancor di più. Ti ho vista per un momento un giorno davanti al mercato coperto. Eri con un gruppo di polacchi. E una sera all’ora di chiusura del negozio. Volevo chiamarti, fermarti, ma eri già scomparsa. Ho chiesto di te a Kostja, l’ucraino che lava le nostre vetrine. Ti chiami Caia e non sei di nessuno. Segui un gruppo di polacchi che vive a ridosso dell’ ex campo profughi. Lì c’è un terreno incolto dove loro hanno attrezzato un dormitorio. Di giorno si trasferiscono sulle panchine dello spartitraffico di fronte al negozio. C’è una siepe che circonda questo giardinetto e che ti nasconde alla mia vista. Vedo loro, invece, che fanno la spola tra le panchine e il supermercato all’angolo per comprarsi la birra. Parlano e bevono tutto il giorno fino ad ubriacarsi. nessuno ti considera, ti fa una carezza, si preoccupa per te. E tu sei sempre lì, in mezzo a loro. Tutti gli abitanti della zona evitano quel luogo invaso da bottiglie, lattine, cartoni che gli slavi usano per ripararsi dal freddo o come materassi improvvisati, quando non ce la fanno a tornare alle loro baracche. E’ meglio oltrepassare, è meglio non guardare. Gli ubriachi sono sguaiati e violenti. E quelli soprattutto ci odiano.
Ho comprato una scatoletta di cibo per cani ed ho vinto le mie paure. Ti chiamo dolcemente, mi accuccio e ti aspetto. Hai fame. lo so. I cani come te sono sempre affamati. Ti fermi ma non ti avvicini. Aspetti che io faccia qualcosa. Ti lancio un boccone e poi un altro, senza avvicinarmi. Sei indecisa, mi guardi con quegli occhi che conoscono ormai ogni tipo di orrore e probabilmente ti chiedi perché io sia così gentile con te, cosa ti accadrà se ti avvicini, o cosa voglio in cambio. Mi scruti e nello stesso tempo ti guardi intorno, vigile, poi pian piano allunghi il muso, inghiottisci il cibo. Non mastichi, non assapori i bocconi, intimorita come sei. E in quel momento qualcuno passa e fa rumore. Tu fai un balzo, arretri e fuggi via. Devo ricominciare tutto da capo. Ti rivedo la settimana seguente. Allora vado dal macellaio e gli chiedo un po’ di macinato per te. Quindi ti chiamo dalla siepe. Sei sdraiata ai piedi di quattro slavi ubriachi. Mi vedono e subito mi dicono “Porta da mangiare a Caia così mangiamo noi”. Tu ti alzi e barcolli, vieni verso me con passo incerto, ti hanno fatto bere della birra e i tuoi riflessi sono appannati. Ridono tutti. Io li ammazzerei. Hai paura del cartoccio che ho tra le mani, così lo poso a terra e resto in disparte per darti modo di mangiare tranquilla. Annusi la carne, la lappi appena e te ne vai. Hai la nausea? Sei già sazia? I polacchi dicono di no. “Lei mangia spazzatura.” Ecco la spiegazione. Te la lascio lì comunque sperando che tu capisca che è tua. Uno degli uomini però nota il pacchetto e se lo mette in tasca. Te lo darà? Ne dubito. Parlo di te con tutti. Amici, clienti, familiari. Si impietosiscono alla tua storia ma non c’è un posto per te. Non ti vuole nessuno Caia. In fin dei conti nemmeno io. Oggi è un gran giorno. Mi hai vista e mi sei corsa incontro, fermandoti a poca distanza da me. Ti sorrido e per la prima volta allungo le mani ad accarezzarti il muso. Tremi tutta ma mi lasci fare. Povera Caia, sembri robusta, ma quando ti palpo la schiena mi accorgo di quanto sei magra. E’ la folta pelliccia ricciuta che ti fa sembrare più solida. Non mi stancherei mai di coccolarti anche se i polacchi mi dileggiano nella loro lingua. “Quanti soldi dai per lei? Noi vendiamo. Dieci Euro?” “Brutto stronzo, ma che ti vendi che non è neanche tua?”
“Non te la meriti, deficiente” penso. Sorrido invece, perché ho paura che m’impediscano di rivederti e mi accorgo che purtroppo sono stata troppo tempo fuori. Devo rientrare in negozio.
Ho accampato una scusa con mio marito e mi sono fatta lasciare la macchina. Lo faccio raramente e temevo un’inchiesta da parte sua, invece non mi ha detto niente. Ho deciso di cercarti lì, in quel campo; lo so che è pericoloso ma devo rivederti. Raggiungo la zona in pochi minuti, parcheggio e attraverso la strada. Il perimetro è delimitato da una rete arrugginita che ha ceduto in parecchi punti. I calci hanno fatto il resto. Entro da un varco e m’inoltro fra l’erba alta. Più avanti c’è un boschetto e delle figure sono accovacciate tra gli alberi. Vedo cartoni, panni appoggiati sui rami più bassi degli alberi, tettoie di lamiera sorrette da pezzi di legno. E’ un rozzo bivacco. Cammino e ovunque è pieno di escrementi e di bottiglie di birra e liquori vuote. Devo stare attenta. Dicono che loro abbiano tutti un coltello e che lo sappiano usare. Si colpiscono con le bottiglie rotte quando scoppiano le risse tra ubriachi. Ho visto un ragazzo con parte della faccia e l’orecchio sinistro sfregiati. Mi fermo, ho paura, alcuni di loro si sono alzati in piedi e mi stanno osservando. Non vedo donne. Ti chiamo a voce alta e stridula, una, due volte, tenendo bene in vista il sacchetto che contiene il tuo cibo. Da quel groviglio indecente sbuchi fuori tu. Che sollievo. Mi corri incontro e ti fai abbracciare, accarezzare, baciare. Quanto puzzi. Annusi il sacchetto con la carne e mi salti addosso, ormai sei abituata al mio odore. Mangi dalle mie mani, non ho portato un piatto di plastica. Mi ripaghi in questo modo dell’ansia e della paura di trovarmi lì da te. Poi come sei venuta te ne vai e torni dai tuoi compagni di vita, che per fortuna ci hanno lasciate in pace. Ora so come fare e ti prometto che questo momento si ripeterà ancora ed ancora. Sarà un’abitudine, il nostro appuntamento. Anche oggi sono lì e sto per alzare la solita rete quando uno slavo alto mi ferma e mi fa capire che oggi Caia non c’è. Sono seccata per questo contrattempo, non sono sicura che lui mi stia dicendo la verità, magari preferisce non avermi tra le scatole, magari stanno facendo qualcosa che non devo vedere. “Caia morta,” fa lui e ridacchia nell’osservarmi il viso. E’ brillo, malsicuro sulle gambe. No, non è vero. Mi vuole far del male. Lui si avvicina ancor di più e mi indica il cassonetto della spazzatura che è di fronte a noi. “Caia morta. Macchina corre veloce. Non vista lei.” Ridacchia di nuovo e io comincio a tremare. L’avranno fatta sparire? Gli avranno dato fastidio quelle mie apparizioni oramai quotidiane? Caia sa attraversare da sola la strada, l’ha fatto mille volte. Caia sa badare a se stessa. Non è possibile. Lo slavo parla e parla nella sua lingua ed io non capisco niente. Sono istupidita. Forse è un errore, Si è sbagliato. E’ un altro cane, non è lei. Ne girano tanti di randagi e tutti seguono tutti. Mi accorgo che siamo davanti al cassonetto, mi ha guidata lui. Io sono in trance. Appoggia il piede sul pedale e il coperchio si apre. E io vedo la morte. Eccoti. Il tuo corpo è adagiato sul fondo, rifiuto tra i tanti, scomposto, inerte. E penso a Mia, che mi aspetta a casa, tra i suoi giocattoli, sicuramente sdraiata sul divano. E penso e penso. Vorrei urlare, vorrei picchiarmi per non averti portata via dal tuo mondo. Ti avrei salvata. I troppi “no, non conviene”, “un altro cane come si fa”, “sono due femmine, Mia ne morirebbe” sono serviti a tranquillizzare la mia coscienza. Ecco la conseguenza della mia vigliaccheria. La casa sporca, la casa pulita. Ti avrei salvata, almeno tu, principessa di paglia senza corona e senza collare. Almeno tu. Forse butto da qualche parte il sacchetto con il tuo solito cibo, non so, non l’ho più tra le mani e anche lo slavo se ne è andato. Cammino confusa lì intorno, non vedo e non sento niente se non un dolore acuto e pulsante dentro il petto che mi fa rotolare grosse lacrime sul viso. Ho bisogno di soffiarmi il naso. Mi fermo e cerco nella borsa un fazzoletto di carta, ed ecco che mi accorgo di trovarmi di fronte a un giardino. Lungo la ringhiera, verniciata di fresco, c’è una bordura di tulipani viola. “Ma si possono piantare tulipani di quel colore” penso. Sembrano i carciofi che i contadini lasciano a marcire sul campo. D’impulso decido di compiere uno di quei gesti che ci sono proibiti dall’infanzia. Infilo le mani tra l’inferriata e strappo un po’ di quei fiori del lutto. Più in là vicino ad una portafinestra bianca c’è una grande ciotola. Senza esitare scavalco la ringhiera e colgo uno di quei fiori. Uno solo. Non è successo niente, nessuno mi ha notata. Sono tutti davanti al televisore perché è periodo di mondiali di calcio e oggi gioca la nostra nazionale. La città è deserta. Apro il cassonetto e butto sul tuo corpo i tulipani viola. Quella specie di carciofi ti si addicono. Brutti fiori per una cagna brutta. Alla fine, lentamente lascio andare l’ultimo fiore, di un giallo sfolgorante. Questo è per la tua anima, Caia. La tua anima gentile e fiera. Torno a casa e trovo mio marito eccitato. Mi comunica felice: ”L’Italia ha vinto”. Io no. Che il riposo ti sia dolce, Caia. E mi chiudo in bagno.

 

Lo ha fatto apposta! Sa che la detesto! Gliela nascosi sei mesi fa quella cravatta giallapiumerosa, disegnata appositamente dal suo caro amico..
La misi nell’ultimo cassetto della cucina.
Sì, nella cucina. A nessuno verrebbe in mente di trovare un indumento tra le posate. Ma lui l’ha scoperto! Che genio! Eppure quando gli chiedevo di apparecchiare la tavola, era un continuo domandare. Ed ora la indossa!
Che sacrilegio strozzare quella camicia bellissima a righe leggere di un celeste così chiaro da commuovere. La mia ultima stiratura d’amore.
Certo.. se stringesse di più il collo, avrebbe fatto almeno il suo dovere. Un bel nodo, di quelli piccolini che premono, premono .. che godimento! Vederlo cambiare colore mentre mi narra, costernato, il tradimento con la nostra vicina di casa, è un’eccitazione da provare. Bastardo!
Mi dice che siamo aperti NOI, che solo IO posso capirlo. Aperti a cosa?
Noi, noi di una generazione che ha vissuto in pieno, il "Love and Pace" e non "Pace and Love", dice, alternativi anche in quello! Che tristezza..
Annuisco, mentre immagino le piume trasformarsi in milioni di puntine da disegno che bucherellano l’ epiglottide tinteggiando il paglierino che fa da sfondo al nodo scorsoio.

Ora va anche nel dettaglio!
Sostiene che ciò che lo ha fatto capitolare siano stati i sandali in cuoio, di quelli che usavamo NOI negli anni ’70, scomodissimi, dove l’alluce si strangola bluastro, chiedendo perdono, completamente piatti con una sensazione di vertigine continua.
E’ stato un dejavu, dice.. .
Un colpo di mannaia sarebbe meglio! Che patetico. Lo emozionano un paio di sandali e poi va in giro con una cravatta da venditore di palloncini.
Non replico. Lo guardo e fisso la cravatta.
Accendo una sigaretta e lui mi fa: …………"Pensa ,non fuma"…

No, una mannaia, no. Troppo facile. Forse sarebbe meglio un’iniezione anabolizzante, così da vedere il collo taurino gonfiarsi , assecondando le puntine.
Con una smorfia disgustosa, infila un dito nei millimetri d’aria che la separano dal bottoncino in madreperla ( che Dio solo sa quanto mi sono costati!) per allentarla..
Che peccato..
Afferma, fiero, che non sono le lunghe gambe, affusolate, di venticinquenne , calve come le sue tempie ad averlo ipnotizzato, e che di questo devo rassicurarmi.
Idiota!
Ho rughe che posso ancora contare. E per le mie gambe..beh, sono vissute!
E’ diventato paonazzo.. che sia avvenuto il miracolo??

No.. sussurra che la signorina aspetta un figlio da lui…
E vediamo un po’..cosa dovrei fare io ora?
Deglutisco ettari di nicotina in un colpo solo. Taccio. Taccio e fumo. Fumo sì, lanciandoglielo sui piumaggi, magari cambiano colore e ribelli prendono il volo, graziandomi la vista.

Possibile che mi sia sbagliata così?
Era il 12 maggio di un anno da dimenticare, un’estate già prepotente, una manifestazione pacifista per un secchio di rifiuti abbandonati davanti ad una scuola elementare, che non erano neanche tanti, e tac! La scintilla! Perché non è stato un fulmine? Uno di quelli che inceneriscono, polverizzano stilisti vergognosi e uomini penosi che passano la vita a ritagliare articoli di giornale di opinionisti imbecilli ma che fa tanto avanguardia?
Aveva ragione mia madre. Liala, Sveva Casati… tutte quelle sante donne che hanno ingioiellato con le copertine rosa e oro, le librerie per generazioni, dovevano continuare ad uccidere quelle scrittrici che andavano procreando figure di donne in emigrazione per emanciparsi in un cultura maschilista.
Spengo la diciottesima sigaretta, sono maniaca le conto, e gli chiedo cosa voglia fare, quando l’occhio cade sul lobo sinistro. Un orecchino!
Riesco solo a fare un cenno, tanto è l’inverosimile.
Sorride, l’imbecille.
Un vezzo, dice, suggerito dalla Giusy.
Giusy? Fuffi? Cippi? Si chiama Giuseppa, cazzo!
Un uomo che non è neanche in grado di apprezzare un nome maschile castrato, pretende di essere padre? E se diventa gay? Che fa? Lo rimette dentro?
Sto perdendo lucidità,non me ne frega nulla.
Un bip ci distoglie per un secondo. Un messaggio sul cellulare. Il suo, ovviamente.

…….."Mi chiede come sta andando… che tenera"…

E se il bypass che gli hanno impiantato l’anno scorso esplodesse ora? Ho sentito che a distanza di tempo può accadere. Sorrido speranzosa mentre le testa mi dice: domani dieta!
Mi carezza la mano e si alza. Ha finito.
Eh no! Io no!
Voglio vedere la cravatta tingersi di AB negativo, voglio vedere schizzare gli spermatozoi che mi hai sempre negato far crescere erba sulla camicia, voglio vedere mille orecchini spillarsi sul neo che tanto ti dava preoccupazione, schiantandomi ogni giorno con la tua ipocondria!
Voglio……..

Se ne è andato.





La guerra delle due Rose terminò con la caduta di tre petali. I tre decisero di unire i loro corpi e scrivere un racconto da poter donare al Re. Il Re non era semplice di gusti, né facile da soddisfare: per di più i tre erano sfrontati, persone di malaffare. Il Re col sangue agli occhi, livido li guardò giocare. Per prima cosa si sfilarono gli orologi, per testimoniare che non avevano limiti. Dopodichè si tolsero le scarpe, per affermare che non erano schiavi. Assunsero pose bizzarre, con l'intenzione atavica di storpiare i corpi rendendoli finalmente belli. Esplosero in risa, in urla e in burle, svuotandosi infine le tasche per dire che non erano sudditi. Sulle dita era visibile l'inchiostro nero donato loro da Umberto Eco. Il Re, ormai sconfortato, iniziò a danzare nel salone del palazzo al suono di "Tanti auguri" di Raffaella Carrà. Era il segnale convenuto: armigeri della peggior risma sciamarono nella sala a passo di beguine: circondarono affettuosi il loro sire e come estremo segno d'amore ne smembrarono le carni e le spartirono coi cani. Terminato il ludico pasto, i cani cominciarono a...miagolare, mi piacerebbe pensare. E invece no. Toccò loro la più funesta delle sciagure: iniziarono a parlare! "Mi consenta" disse uno.
Il suo amico, infastidito da un prurito al piede sinistro, ingaggiò un barbone nato a Casablanca e lo trasformò in fotomodello. Nel giro di 33 giorni il suo viso scuro era presente in ogni piazza del Paese con la scritta "Un giorno anche io saprò scrivere saggi di psicologia".
La ressa davanti alle librerie di tutta la Santa Nazione costrinse gli intemerati Tutori dell'Ordine in Pubblico a intervenire con solerzia e la solita chirurgica perizia. Le vittime si contarono a decine: anonimi scrittori si aggirarono loschi tra i feriti curandone i più gravi.
- No, scusate un attimo... anzi, scusate un attimino... L'avete scusato?... Bene, bene... A-tti-mi-no... Dio mio! povero italiano, povera gente, poveri tutti! –
Nel frastuono un anziano libraio, nostalgico dei tempi andati e irrimediabilmente perduti si contendeva, ormai in fin di vita, l'ultimo spasmo di rivendicazione linguistica.
L'anziano libraio non riusciva ad arrivare alla fine del mese (al massimo giungeva alla S). Devo pur campare! Si inventò perciò un nuovo lavoro: creava interferenze telefoniche al cliente che non aveva voglia di interloquire con l'amico al telefono. Esempio: Pronto! Come stai? Non mi lamento. Pronto ZIA SONO davanti lo STADIO! Papà COME. Pronto? Chi parla? MANDA LUISA! Ma chi urla? Non sento. ci. ci risentiamo. ciao!
"Ciao un par de cojoni!!!" interloquì garbatamente don Aurelio Mazzafierro sporgendosi dal balcone tra tulipani rossi, blu e neri."E lei che cazzo c'entra, scusi?""No... era per giustificare la macchia del mese... sa... i tulipani... i colori..."
"Don Aurè, me scusi tanto: ma nun s'era accorto che c'aveva già pensato quer ragazzetto poeta che tempo fa è 'nciampato su un riccio (sì quello lì, proprio lui, Zabaglio!) a giustificà la macchia co' la storia delle du' rose??? Me dica la verità che co' tutta 'sta confusione s'è distratto n'attimimo, eh?" "AAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH! ATTIMINOOOOOOO! NOOOOOOOOO!" (voce fuori campo)
E in meno di un secondo l'attimo fuggì in piedi sull'attico e disse: "Capitano mio capitano! È scappato il capitone ho paura e per questo salgo sul tavolo!" al Diavolo le viole e chi vìola le regole. Preferirei tegole in testa e "tegolini" in bocca, mentre con la sigarilla smocka fumaglia di rilassi nervotici e tutto il resto è lettera pura, inviata al mittente. Mittentesconosciutoall'indirizzorecapitarealdestinatarioincasodimancataconsegnadistintamentesalutiamogarbatamente prendiamolevostredifeseerilanciamogiochinevroticiepossibilmenteavremmopiacerediRIDEREperchédiventadifficiledifendersi daidiffidentichediffamanoediffondonodifferenzeDefinendosiSANIassistiamoallassassiniodellaCREATIVITA'-tà-tà-tà-PUM!La difficoltà futuristica dada-umpistica di lettura e scrittura creativa che pare creatina venduta da cretine in palestre di Latina disturbò il sindaco Zaccheo intento nell’ordinare camere per camerieri e camerati. E l’ascoltatore barra lettore ormai ci ha abbandonati e traditi nell’osservare il pavimento annebbiando l’udito, tocca a voi rimediare, sarebbe una responsabilità troppo grande per me che al massimo riesco a rubare gomme da masticare in un Pub con la foto di Femi Benussi.
"Sempre meglio che rosicchiare pubi sul feto di Accio Benassi" rispose interloquito il sindaco della città traslitterata: il virus ormai s'allargava, e a macchia d'olio prendeva possesso delle menti e dei corpi: dei petali e delle foglie: neanche sassi e canali maleolenti ne rimanevano indenni. Per via di quel virus, tutto iniziò a trasformarsi nel proprio timore. I sassi divennero suole e le suole cacche di cane, le foglie furono autunno, i petali vento, i fiori cesoie. E ogni epilogo mutò in prologo. La guerra delle due Rose iniziò con la caduta di tre petali…

C'è un vuoto in me
In cui sospira e geme
Una vacillante foglia
Scossa dalla rosa dei venti

Sguardo tenue, flebili parole
Magma di incertezza e desio
Scolpite come lapidi si imprimono,
Memorie quotidiane,
Gioie spente ed assenze

C'è un vuoto in me..
Lo vedi?
Se vuoi può acoglierti
Fraternamente
In fondo c'è silenzio
E passione

Passo passo...siamo più distanti
Chiuderò gli occhi e sparirai

C'è un vuoto...tutto intorno a me
Ed il marasma dentro
Lo stesso anticamente noto caos
Che non mi da pace

Oh la mia Itaca lontana..
..Il mio sogno smarrito




“Dormi, Odisseo, disteso nel letto di piume: scuro profilo nel bagliore inquieto del bianco tenebroso dei veli.
Riposa il tuo corpo, vinto dal mio che non conosce stanchezza: nelle pieghe confuse degli odori dei corpi, accanto alle parole non dette, rimane un’essenza d’animale.
Tutto hai dimenticato nella furia dell’amore, anche l’ansia del viaggio.
So che partirai. So che questo attimo è solo vuota finzione, immagine riflessa nello specchio della felicità. Tu sogni stracci di vita e di mare, il tuo mare. Sogni la nave e le cupe ninfee d’altre sponde.
Sicuramente salperai gridando “Mille regretz de t’abandonner”, ma già ben saldo, sulla tolda, piedipiantati, aggrappato alla vela.
Oh! Sì! Mi fisserai, fino all’orizzonte, ma andrai.
Davvero troppo tardi l’ombra del viso sul cuscino scandirà il Tuo destino dal Mio. Fuori adesso una brezza mattutina fa danza e lamento.
I maiali nella stalla si muovono inquieti.
I lupi, distratti dall’aurora, ritornano al monte.
Ognuno di voi possiede una montagna di giochi e ricordi e, per quanto vagabondiate, alla fine, Voi là tutti tornate.
Cercate un destino, ardete nel limite.
Alessandro, il più Grande di tutti cercava l’orizzonte del mare: la fontana del palazzo di Pella dove sognava le vele, lo segnò fin da bambino.
A te il grugnito dei porci t’indigna, l’ululato dei lupi t’affanna.
Non capisci l’enormità del mio gesto: solo loro gustano fino in fondo il sapore del mondo.
Hai a suo tempo recitato la parte.
Rispetto. Meraviglia. Stupore. Davanti alla strega.
Da uomo che molto ha veduto negli Holliday Inn dell’Oriente, speravi più bella la maga. Fissasti sui miei fianchi opulenti occhi come buche feritoie.
Di certo pensasti”Era tutta leggenda!”
Lo stesso pensò Claudio di Poppea, ed era già suo.
Ho sorriso tra me ed iniziato la danza.
Salomé non fu certo più abile. La scuola è la stessa.
L’offerta del bagno, il vino speziato, il camino ed il cibo la sera, la coltre pulita.
L’amore passa non solo per gl’occhi.
Sperduto, hai chinato la testa, intuendo d’un tratto d’avere di colpo smarrito la crudeltà che raggela, che lì il tuoi occhi eran pieni di ali davanti alle piume mie mani.
Hai ceduto senza violare nessuna delle tue fervide certezze, però.
TI AMO, Odisseo.
Mi piace ripetermi questa parola dalle molte vocali, miele al mio cuore.
Per questo ti temo, voce soave, amabile viso, odore rasposo di pino.
Fuggo da te.
Stamane andrai, insieme alla agnella nera a spiare il silenzio d’antiche presenze scomparse.
Cercherò poi la tua assenza, lo so.
Ti farò immortale e ricordo.
TI AMO, perché fin dall’inizio sapevo che saresti partito.
Nessuno ama la felicità d’un eterno presente.
Amiamo solo chi s’ha destino di perdere.
L’Amore insegue solo chi è sua sventura e suo sogno. Beatrice e Dante ne sanno qualcosa.
Ma qui nelle lunghe giornate, regolate soltanto da profumi e da grida animali, a volte, ho sperato, l’eterno.
Nell’aggrapparmi, aggrovigliarmi, involgermi in te, troppe notti ho udito attraverso gli specchi il moltiplicarsi dell’aria.
Come se il cuore al di dentro- nido di silenzi che non han mai volato- schiudesse echi fatti di carne.
Gli stessi che la bella Eleonora, di diec’anni più vecchia, ma Aquitana del Sud, aprì in una volta a Enrico, re inglese.
E’ questo allora l’Amore?
Un soffio di grida animali?
Pupille senza orizzonti?
Tutte le cellule smosse dal fiato del drago?
Agonia di baci e sospiri?
E dopo, di giorno, riso scoperto di denti, passeggiate profumate d’ibisco, adolescenti splendori, ardori di sole e d’aranci, forte calore?
Sono queste le stesse tenerezze dei lupi.
Adesso comincio ad essere stanca di cercare il tuo grembo di uomo per posare la testa e tacere.
L’alba ora avanza.
I compagni tornati nel mondo stanotte, t’han già preparato la nave.
Ti guardo, incredibile uomo diventato assoluta presenza, disteso così nella stanza piena d’attesa soleggiata.
Ti vedo. Tra poco imbarazzato e teso, il corpo d’Apollo fermato, che indugi alla soglia. “Telefonerò, scriverò, mai ti scorderò. Tornerò, stanne certa!”
Sarai già favola allora.
“Ecco il biglietto da visita, in fondo c’è la mia mail. Chiamami pure di qualunque cosa tu abbia bisogno!”
TUTTO IL TRACCIATO DELL’ILLUSIONE PERCORSO IN UN’UNICA FRASE!!!
Sorriderò pudica, ma griderò “ Non andare, rimani, amor mio di sempre, amore di mai!”
La nave sul bordo dell’acqua e ne medesimo istante la donna che riempie il cielo.
Resterà solo il vuoto della danza sull’ultimo sesso d’animale.”.