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Progetto Rorschach.
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Di seguito sono pubblicati i contributi inviati per la Macchia di Marzo.
Liberi come tanti Craxi sparsi per il mondo. Liberi come
petali nel vento sporchi di catrame e calpestati da
pneumatici bucati da un ramo caduto da un pino situato nel
giardino del nostro vicino il cui figlio è il nostro
migliore amico arrestato per favoreggiamento alle nove e 46
di un sabato mattina di Gennaio freddo che ricorda ghiaccio
e circoli di polo organizzati da Forza Italia. Riunioni
familiari con salatini dolci e cornetti alla crema serviti
da Lino Banfi. Musiche di Crivelli e note sparse sopra un
foglio viola. I piccoli fori ricevono querele e anime
immense si modificano il contorno di spinaci da Platinette,
mentre la Pivetti prega il Signore che l’orchestra della
Corrida non crei danni all’ascolto del suo programma. Lo
incontrai all’uscita del bar degli studenti di Roma tre,
pioveva grandine color nebbia. “Perché non entri?”
gli
dissi. “Non posso entrare con l’ombrello aperto!”
mi
rispose. Questa considerazione non è sbagliata, pensai nel
vento. Una confezione di pasta trafilata al bronzo mi
ricorda che le elezioni sono vicine. È in questo marasma
che il giovane anziano naviga senza remi e senza bussola e
senza permesso di soggiorno e senza casa e senza la minima
idea e senza senso. Il giovane anziano è pronto per il
duello con l’anziano giovane, non molto simile a lui.
Entrambi hanno acquistato almeno un numero de “Il
giornalino” all’età di sette anni ed ora espongono
la
bandiera della Pace come segno di rivolta. Per protesta
fumano erba e si assumono pochissime responsabilità come il
protagonista di American Beauty. Entrambi odiano la
televisione ma quando capita ammirano il capitalismo creato
dalla pubblicità con i modermi tessarati al Fascismo (Luca
e Paolo, Claudio Bisio, Enrico Bertolino, Fabio Fazio) Il
sonnambulo doveva andare in bagno ma il gabinetto del
dottor Caligari era occupato, si recò quindi nella più
vicina sagrestia. In quel tempo si svolgeva la sagra
dell’ostia Antica, dove decine di curati con il
raffreddore, assolvevano dai peccati centinaia di bambini
che masticavano bruschette con olio molto saporito. Nel
clima di festa, la perpetua si esibiva nel numero magico
della sparizione del calice d’oro. Sei volte su undici,
l’esperimento non riusciva ma le mamme applaudivano lo
stesso, seguite dai figli, dalle nonne, dai padri, dai
nonni, dalle figlie e dai rimanenti ospiti paganti. Nella
gioiosa folla di preganti, anche donne sicule in lutto, la
più anziana tra loro recava una fascia rossa al braccio e
dirigeva le preghiere. In sagrestia intanto era esposto il
nuovo calendario con Madonna in dodici pose molto audaci,
la nota pop star era diventata l’idolo di don Carlo, un
prete che venerava le patatine fritte e la buona musica
anni 80. Questi aveva sempre votato DC , anche se con un
passato di brigatista nero. I suoi ex compagni terroristi
ora sono al vertice di una nota multinazionale che
controlla l’80 per cento (quindi l’800) del mercato di
campo dei fiori a Roma. In cima alla classifica ci sono i
gladioli seguiti da garofani, crisantemi e rose gialle. Tra
di loro era presente anche una spia orientale reduce del
Vietnam, un certo Gon. “Sai Gon?! Siamo ancora a Saigon!
Altre tre ore di viaggio e arriviamo all’albergo non
preoccuparti” gli disse la moglie per rincuorarlo. Lei era
un’hostess dell’Alitalia con la passione del modellismo
e
del sadomaso. Si fece tre anni nel carcere di Poggio Reale
per aver stuprato un pony del circo Orfei. La famiglia di
circensi li sorprese in atteggiamenti equivoci nel camerino
del quadrupede, lei con in mano una Lido rossa, lui disteso
sul pavimento, sfinito. Maionese sparsa in terra, del
Domopak e pacchi di fazzolleti aperti sulla scrivania. Alla
vista di tale scena, il guardiano che aprì la porta del
camerino, rimase alquanto scioccato, cominciando così ad
ululare e telefonare ad amici e parenti per informarli che
la sera stessa a Porta a Porta ci sarebbe stato come ospite
il rappresentante del partito Umanista. I parenti,
insospettiti, avvertirono prontamente la polizia che giunse
nel luogo dell’accaduto in meno di quattro ore. Per sbaglio
arrestarono il pony che fu condannato a tre anni con due
sole condizioni: nessuna condizionale e nessun
condizionatore. Durante l’ora d’aria Silvestro (questo era
il nome dell’animale) era solito gettare oggetti vecchi dal
balcone del carcere. Una mattina colpì per sbaglio il
portiere della prigione. Nei suoi guantoni furono ritrovate
le chiavi del cancello ed i detenuti riuscirono a scappare
verso la libertà. Il giorno seguente era prevista
un’amnistia ma la donna straniera non si presentò in orario
accettabile e venne rimborsato il biglietto ai presenti,
accorsi da ogni parte del mondo, tranne che da Tor
Pignattara e Spinaceto per traffico insostenibile. Chi ne
approfittò fu un giovane e volenteroso bambino di colore
negro che, con acqua, sapone e stoffa, iniziò a pulire
vetri di automobili. Gli affari andarono così bene che il
suo padrone poté acquistare altri dodici schiavi ai quali
amputare dita o qualsiasi altra parte visibile all’occhio
nobile dei buoni di cuore razionale. “Cosa hai chiesto a
Babbo Natale, oh figliolo?” ed il pargolo cinese, ridendo
come una zanzara prima di iniettare veleno nella pelle di
un’ottantenne con le vene varicose, rispose: “Voglio Barby
cannibale, la casa d’appuntamenti di Barby, Ken travestito
ma la confezione con il pneumatico da bruciare ed il palo
della luce, Barby dolce Flebo, poi voglio Ken soldato in
Iraq, Ken carabiniere in missione in Irak ma la confezione
con la bara finta e la bandierina italiana, poi voglio Big
Jim terrorista in modo da poter dare la colpa a qualche
anarchico quando morirà Ken carabiniere, poi voglio 33
pacchetti di figurine Panini della serie “Ex terroristi
divenuti intellettuali” e l’ultimo libro di Angelo
Zabaglio”. Babbo Natale riuscì a portare al bambino ogni
cosa tranne il Big Jim terrorista (era esaurito in ogni
negozio del globo). In compenso gli portò il burattino di
Papa Luciano che però, in meno di un mese, si ruppe
gettandosi dalla finestra di un commissariato e l’uccisione
di Ken carabiniere rimase un mistero insoluto agli occhi
del bambino. Oggi quel fanciullo ha 46 anni, è sposato con
una donna molto intelligente, lavora come grafico
pubblicitario e nel tempo libero prega in latino, affinché
suo figlio termini con successo l’università e si trovi
un
lavoro lontano dai suoi occhi verdi come una bottiglia di
birra nel mare limpido delle 6 del mattino di un’estate
senza nuvole, ma con numerosi gabbiani che, volendo,
possono spiccare il volo verso Sud, senza preoccupazione di
un ritardo ferroviario, di un incidente autostradale o di
un proiettile di qualche buon cacciatore cristiano
cattolico.
(ringrazio come sempre il dadaista Andrea
Coffami per la revisione, i consigli ed i massaggi ai
piedi)
Era la buca diciassette a proiettarsi dietro il sentiero serpeggiante,
la luce arrivava alla spalle dei giocatori sudati in quel caldo ed interminabile
pomeriggio ; i caddies appostati dietro la cunetta
in attesa del primo colpo di quel bizzarro trio . A dir il vero i portasacche
avrebbero preferito veder i tre uomini protervi molto più volentieri
davanti ad un giudice accusati dei loro peccati o magari in cella con
qualche simpatico energumeno con un vizio evidente che trotterellare
liberi sul percorso. La partita era la solita del giovedì erano
i tre soci dell’impresa edile Luschi la più grande della
città ed anche i fieri creatori di mostri in cemento che si stagliavano
sulla costa.
Come nella vita anche nello sport non conoscevano regole e giocavano
sempre tra di loro perché in quel club di provincia ,sebbene
l’estrazione sociale degli inscritti fosse tutt’altro che
nobile , meccanici, agricoltori , tappezzieri e baristi ,nessuno voleva
sentirsi nella posizione di dover subire le loro spregiudicatezze golfistiche
ed essere obbligato a ribellarsi inimicandoseli.
La partita era cominciata tra insulti e i ventri opulenti stretti tra
i pantaloni rigati ondeggiavano
nei loro swing come la gelatina di ribes sui pasticcini della buvette
; inutile specificare che il livello sportivo era miserabile. Quel povero
campo che si era visto calpestare da giocatori professionisti ed illustri
“scarpe chiodate” ora pregava in silenzio che i caddies
fossero attenti ed arginassero quelle ferite provocate dai pesanti sockets
che strappavano zolle erbose scarnificando nel profondo il folto manto
profumato.
Durante la partita gli argomenti erano poco edificanti ,” troie
“ la parola più pronunciata e quelle voci prepotenti violavano
l’ovatta di suoni della pineta circostante; i caddies per i tre
giocatori non possedevano udito e li anticipavano sul percorso mestamente
ma ,inseguendo le palline con traiettorie sbilenche tra le rive scoscese
coperte di arbusti ed ortiche, si prendevano una sorta di rivincita
obbligando quei corpi flaccidi ad assumere posizioni goffe e precarie
per seguire i consigli ricevuti ed effettuare il colpo e mentre davano
l’ultima indicazione di direzione intimamente speravano in un
accidentale capitombolo che trovasse sul cammino qualche pietra acuminata
, prendendo in ostaggio lembi di tessuto dei pantaloni.
Le regole di questo gioco si basano sulla lealta’ del giocatore
e a fine buca la semplice domanda – Quanto hai fatto ? –
implica che si dica la verita’ in chiave numerica.
I tre soci accendevano violente discussioni condite da bestemmie ed
erano chiamati a testimoniare i tre caddies che venivano considerati
pure senza vista e anche se erano stati testimoni di quel air-shot nel
boschetto ,con lo sguardo venivano pilotati loro malgrado a tacitare
la menzogna.
Dopo diciassette buche il bilancio era pesante, i tre soci in totale
avevano perso un chilo,un etto e 46 grammi di balata ossia 22 palline
tra out , laghetti, alberi dalle fronde avide ed eccezionalmente un
colpo maldestro era finito sull’autostrada che passava accanto
alla buca dodici ed aveva colpito di rimbalzo un camion telonato conficcandosi
nella montagna di letame bovino trasportata.
I caddies si coprivano a vicenda durante gli spostamenti sul campo sempre
vigili a non essere colpiti
dai tiri striscianti raso terra dei tre sfiaccati giocatori. La buca
diciassette aveva visto i tre tiri di avvicinamento finire nella bocca
spalancata del bunker di destra , avevano scommesso l’aperitivo
sul colpo al green e quei culoni a strisce pareva che ballassero il
twist affondando le scarpe colorate nel suolo sabbioso per adressarsi
alla bandiera : il primo si era imbrattato di fanghiglia e la pallina
era rimasta dov’era a guardarlo impassibile, il secondo l’aveva
colpita con forza spingendola in out oltre la siepe irrecuperabile ed
il terzo, lasciando i caddies a bocca aperta ,era riuscito a scucchiaiarla
scoprendo esterrefatto di averla mandata dietro la sua ingombrante sagoma
dopo averla cercata invano con lo sguardo sul green. Il percorso si
concludeva con un magnifico par tre accompagnato da fossati di acqua
protetti da bambù. Una buca da giocare in scioltezza , un ferro
6 morbido per conquistare senza fatica il green in fondo alla discesa.
I caddies esausti trascinavano le sacche griffate contenenti ferri di
un valore esagerato per la scarsezza dei loro proprietari , Tulip ,il
caddy del piu’ vecchio dei soci ,aveva di nascosto fatto qualche
prova all’ombra dei pini e avrebbe pagato oro per provare un tiro
e sbalordire i tre giocatori
che ormai avevano solo in testa un agognato boccale di birra ed una
doccia rigenerante negli spogliatoi brulicanti. Lì avrebbero
millantato come ogni giovedì tiri da manuale residenti solo nella
loro fantasia malata. – Scommettiamo che la metto in bandiera
? – Silenzio , sguardo muto degli altri due caddies sbiancati
ad udire le parole . – Avete capito bene signori , scommettiamo
sulla diciotto ?
I tre giocatori prima increduli , poi presi da un tremore che nascondeva
un riso nervoso .
– Tulip stai scherzando , da quando hai queste velleita’
, spiegaci poi un morto di fame come te arrivato dal Senegal sul dorso
di un cammello cosa avrebbe da mettere in palio che ci possa interessare
? -
- Non c’e’ piu’ religione amici , stì barboni
non stanno al loro posto, appena hanno due euro in tasca si montano
la testa.Dai passami il ferro 5 e levati di li’ che mi dai fastidio.-
Raggiunti gli altri due caddies , Tulip sorrise e seguì la traiettoria
agganciata del giocatore che imprecando al cielo si perse il pluff della
pallina nel fosso .
- Ti rendi conto che sfrontatezza quel Tulip , aspetta che lo racconto
al caddie-master e vedrai che
strigliata che si prende il cioccolatino , il prossimo giovedì
vediamo se fiata ancora e poi te lo immagini a tenere in mano la mazza
, che non riconosce ancora i nomi dei ferri. -
Seduto in terrazza ed affacciato sulla buca diciotto gli parve di scorgere
una sagoma lontana che provava un swing sul tee di partenza e si chiese
a quell’ora di sera chi potesse essere ancora sul campo dove l’oscurità
era scesa nella sua invadenza ; sentì il rumore dell’impatto
del ferro sulla palla ed il sibilo della sua corsa supero’ il
vociare della club-house , strizzo’ gli occhi verso il green e
vide nettamente lo stopparsi della pallina a pochi centimetri dalla
buca ed in lontananza il frusciare di camminata in avvicinamento, fece
solo in tempo a riconoscere i denti bianchi, quasi fosforescenti di
Tulip e le movenze dinoccolate del suo corpo atletico piegato ad imbucare
il putt e l’aneurisma all’aorta lo colpì senza pietà.

Si avvisano i lettori che questa storia contiene elementi
violenti, pornografici e blasfemi. Se hai meno di 18 anni clicca EXIT
e levati dal cazzo.
LOCATION: studio medico dott. Solli
ORE: 16:00
del 4 marzo 2004
Mi ha detto che le macchie di Roscharch
sono una stronzata. Certo, tu me le mostri per “vedere” meglio dentro
di me, ma quando ne ho parlato con lui mi ha raccontato una strana storia.
Ti va di parlarne?
Certo, sono qui per questo.
Lui racconta che Roscharch si era
fatto di erba e assenzio e beveva il caffè con degli amici in un bar.
Era il 1921. La base sporca della tazza aveva disegnato cerchi di caffè
su un tovagliolo*. Lui li guardò a lungo e poi disse: “cazzo,
ci vedo le olimpiadi!”.
Tu credi a questa storia o pensi che se la sia inventata?
Non so, ha molta fantasia, ma potrebbe
essere vero, sa un sacco di cose.
Non è che magari lo ami troppo e quindi attribuisci
un valore eccessivo a quello che dice?
Anche questo forse è vero. Sai, sono
confusa anche sui suoi sentimenti nei miei confronti.
Cosa ti ha spinto a questa osservazione? E’ la prima
volta che lo dici.
Ieri eravamo al telefono ed io ero
giù. Avevamo discusso parecchio e stavo piangendo. Quando lui ha sentito
i miei singhiozzi ha detto: “non chiedermi il perché, ma mi è venuta
voglia di farmi una sega micidiale ”
Questo tizio è psicopatico. No, davvero, non scherzo.
Dovresti cominciare seriamente a pensare che è un pericolo o può comunque
diventarlo.
Ma torniamo alla macchia che ti ho dato: cosa ci hai
visto? Hai avuto 3 giorni per pensarci.
Ci vedo una rosa, una rosa piegata
in giù come se volesse raccogliere qualcosa o raggiungere l’acqua. Ma
è fresca, non appassita, potrebbe essere piegata dal vento forte.
E l’hai mostrata a lui?
Sì…
Ti va di dirmi cosa ha detto?
Ci ha visto il mostro di Loch Ness
che nuota in fondo al lago di notte come se una telecamera lo riprendesse
dal basso.
Devi smettere di vederlo, credimi, per il tuo bene.
LOCATION: casa di Carla
ORE: 18:00 del 4 marzo 2004
Il mio analista dice che dovrei smettere di vederti.
Perché?
Dice che sei un po’ matto.
Ha detto questo? E tu cosa gli hai
raccontato?
Beh, del mostro di Loch Ness…
E questo fa di me un matto? Gli avrai
detto altro, sicuramente.
Beh non gli ho detto che parli nel sonno…
Parlo nel sonno? Davvero?
Certo, ieri litigavi, facevi a botte con qualcuno…
Mi hai fatto un po’ paura. Hai detto: “erano anni che volevo riempire
di botte Dio!” Ma forse avrò capito male...
Beh, sarebbe da farlo davvero…
A volte hai un modo di scherzare quasi fastidioso.
Sei inquietante, lo sai?
Ieri
ho visto un servizio sui bambini che hanno perso gli arti saltando sulle
mine antiuomo in Afghanistan. Bambini senza una gamba, o senza braccia…
Ed una bambina senza faccia... Non avevo mai visto una cosa del genere.
Sembrava un teschio: niente
naso, niente bocca né pelle…
E
vogliamo parlare della lapidazione, della mutilazione genitale, delle
guerre…?
E Dio che c’entra?
Mica le ha messe lui le mine! Sono stati gli uomini, che Dio ha creato
liberi. Liberi anche di fare il male. Si chiama libero arbitrio.
Libero arbitrio un cazzo.
E’ come mettere 10 bambini in una
stanza con pezzi di vetro e coltelli: diamogli il libero arbitrio, lasciamoli
soli per un po’ e vediamo se ne escono sani.
Quale genitore lo farebbe?
Questo ha fatto Dio: ha dato la libertà
a chi non sapeva usarla e poi s’è girato dall’altra parte.
Devi ammettere che qualcosa non ha
funzionato nei sui progetti.
Parli di cose troppo grandi per me, non sono capace
di risponderti, dovresti parlarne con un sacerdote. E poi cosa c’entra
tutto questo con noi due?
Non mi interessa parlare coi gregari,
si fanno la legge a modo loro.
Io vorrei vedere il legislatore direttamente
in faccia.
LOCATION: esterno palazzo
ORE:
19:00 del 4 marzo 2004
Drrr…drrr…
Chi è?!!
Toni’, Tonino, scendi!
In questo momento non posso, ho da fare!
Muoviti, è una cosa importante. Che
stai facendo?
Ho il vibratore nel culo, mi stavo guardando un porno…
Sfilatelo
da dietro, mettiti i pantaloni e scendi. E porta la pistola.
Click.
Che cazzo hai da dirmi di così importante da interrompermi
“Kiss me baby”?
Mi
devi prestare la pistola. Devo uccidere delle persone e poi devo uccidermi
io e mi serve che ci sia anche tu.
E perché, che ti hanno fatto?
E’ Dio, sta facendo un casino. Devo
riempirlo di botte.
Ho bisogno che ci sia anche tu, devi
fermare San Pietro e tutti quelli che accorreranno per dividerci.
Devo fargli molto male.
E se ti presto la pistola e poi mi fai passare un
guaio? Io ci lavoro con questa.
Dopo che avrò portato a termine la
cosa, cambierà tutto. Ci sarà più giustizia, più equilibrio.
Tu non sarai più una guardia giurata,
magari sarai uno skipper.
E glielo dici tu a Dio? Magari lo costringi a farmi
diventare skipper. Mi piacerebbe tanto...
Lo
so, non ti preoccupare, dammi il ferro e vedrai.
BANG! In faccia a Tonino, che muore sul colpo.
Toni’, scusa, è l’unico modo.
Aspettami lì a terra che tra poco
arrivo e andiamo dall’altra parte a fare quel servizio.
LOCATION: studio dottor Solli
ORE:
19:38 del 4 marzo 2004
Prego, si accomodi, il dottore c’è ancora, è dentro
con una persona.
Bene,
credevo di non trovarlo… Non urlare.
La prego non spari, non mi faccia del male.
Ssssht…
Tu non farti sentire dal dottore: levati il camice bianco e le calze.
No, per favore, non mi faccia del male.
Questo
lo hai già detto, levati anche il resto e poi rimettiti il camice bianco.
Cosa ha intenzione di farmi? La prego…
Mettiti
a pecora, girati… ”L’infermiera a pecora”, una fantasia comune. Ecco…
aahhh, ecco qui, fa male?
No… no… la prego faccia, ma non spari.
Ok BANG! BANG!…
Che sta succedendo Lisa?
BANG! BANG! BANG!
Aaahhhh no, che cosa fa? Ha ucciso il dottore…
BANG! BANG!
Aaaaaah… via, chiamate qualcuno!
BANG, BANG!
Dite ai poliziotti di mirare bene
per ammazzarmi o faccio una strage!
Chiamate i tiratori scelti, le unità
speciali dei film americani.
Uccidetemi, io non posso farlo, devo
andare in paradisooo!
Ora
devo pregare, così riesco a passare direttamente lassù, speriamo che
non si accorgano di quello che ho combinato.
Padre nostro che sei...
BANG! ne…cl…unghhhff…
BANG! BANG!
Agente! Non avvicinatevi!
Agente, si accerti che sia morto.
Soggetto pericoloso a terra, avvicinarsi con cautela.
Capo, l’ho preso in fronte. E’ morto.
LOCATION: esterno strada
ORE: 19:52 del 4 marzo 2004
Sì, la notizia è tua, ma vieni subito se vuoi uscire
con l’edizione di domattina.
Qui ci sono morti ovunque, la scena è impressionante.
Ne ha uccisi 4 prima che lo colpisse un agente in borghese… Sì, probabilmente
un malato di mente.
Aveva i pantaloni abbassati, Sì… anche un tentato
stupro, si pensa.
Non ci sono ancora elementi, arrivano altre ambulanze,
è un casino, portati il fotografo e magari un cameraman… Devo chiudere,
arriva l’ispettore.
Cazzo, mi hanno ucciso! E questa sarebbe
la morte? Mi sento uguale a prima. Guarda come mi hanno ridotto la faccia,
mi fa quasi schifo avvicinarmi.
Che fico, nessuno mi tocca, devono
farmi i rilievi… he he he e guarda chi arriva…
Grandissimo stronzo di merda! Non avevi detto che
mi avresti ammazzato, coglione io che t’ho anche dato la pistola… mo’
ti spacco la faccia, stronzo!
No,
no ahio… Tonino, smettila, era chiaro che dovevi morire anche tu. Altrimenti
come venivi con me dall’altra parte, scusa?!!
Ti ammazzo un’altra volta…
E
lasciami, ormai siamo morti, pensiamo piuttosto a come arrivare in paradiso.
Dovrebbero venirci a prendere, no?
E io che cazzo vuoi che ne sappia?!! Chi si era mai
preoccupato di informarsi?
Toni’,
la smetti o no di tirare cazzotti? Fanno male, mi pare di essere ancora
vivo!
E’ la mia volontà di farti male che senti, non il
dolore vero. Perché ho voglia di scassarti il culo in 40000 pezzi!
Signori, seguitemi.
E questo mo’ chi è? Guarda com’è vestito,
questo sicuro viene da lassù. Andiamo, Toni’, nun fa o’ scemo che vai
a finire all’inferno.
Guarda, il tunnel con la luce in fondo
come nei film.
Quella è un’attrazione per le anime dei turisti. Noi
giriamo di qua, c’è l’ascensore.
Eccoci qui, attendete in quel salotto, grazie.
LOCATION: qualche parte tra il cielo e la terra
ORE:
indefinite
Toni’, visto che pulizia qui dentro?
Ma che stai facendo? Rubi i posacenere?
Ma fai schifo proprio, siamo qui per una cosa seria e ti vuoi far acchiappare
per questa robetta?
Fatt’e cazzi tuoi!
Accomodatevi, prego.
Siamo in attesa delle altre anime coinvolte per “far
luce” sui fatti. Voi siete i primi perché morti sul colpo, gli altri
sono spirati dopo.
Ma qui tutti vestiti uguale? Non hanno
freddo col lenzuolo addosso? Beh, sembra riscaldato bene…
Buonasera, signori. Sono la persona incaricata di
conoscervi meglio. Come mai sembrate alquanto spaesati? Non vi aspettavate
questa destinazione?
Senti,
io avrei bisogno di parlare col capo, il direttore, o’ boss!
Qui siamo tutte anime, non esiste gerarchia.
E
il fabbricante, il produttore... come lo chiamate? Dio... non si può
incontrare?
Certo, sarà lieto di conoscervi al più presto. Intanto
rilassatevi e contemplate il cielo.
Toni’,
ma che significa? Non stiamo già in cielo? Questo mi pare che sta fatto…
Prego, Padre, queste sono le nuove persone che gradivano
conoscerti.
Tu sei Dio?
Sì, per servirti.
Mannaggia o’ cazz’ taggio
accidere!…
Fermati, che fai??? Padre…
Ma non lo sai che sta succedendo sulla
terra?
Non lo vedi cosa hai creato? Stai
sempre a pensare ai cazzi tuoi qui sopra con questi quattro drogati…
Lascialo, lascialo… finiscila!
Lo lasci…
Toni’
fatt’ e cazzi tuoi, dammi il posacenere che ti sei fottuto e mantieni
a chistu scemo.
Aiutateci, fratelli accorrete… stanno massacrando
di botte Dio con un posacenere!
Weh, ricordati che io voglio fare lo skipper!
(Come supporto
al racconto l'autore ci ha inviato anche questa immagine: immagine01
)
Non ho una donna da un secolo, oramai. Al punto che mi si stanno atrofizzando…
i sensi.
Non ho MAI avuto fortuna con le donne. Eppure non si può dire che io
non mi sia dato da fare. Ho sempre architettato con cura le mie strategie,
i miei piani d’attacco. Io sono un tipo previdente, che pensa a tutto.
Profumo, barba, profilattici, mutande maculate… Non mi manca mai nulla.
Sono sempre armato per la battaglia…ma non ho mai sparato nemmeno una
cartuccia. O meglio, se ho sparato, ho sempre sparato a vuoto.
Per delle circostanze specifiche di cui vi parlerò tra poco, ho coltivato
con cura il mio vocabolario in campo sessuale. Un po’ grazie agli amici,
che se non sanno qualcosa, ricorrono comunque a una buona dose d’inventiva,
e un po’ grazie al dizionario medico di mio padre. So che stavate pensando
anche a delle fonti più “specialistiche”: ebbene, di quelle ne faccio
incetta da sempre. Ma in quei casi alle parole non ho mai badato troppo.
Fatto sta che da alcuni mesi ho scoperto di essere un buon praticante
di onanismo. Se solo un anno fa me lo avesse detto qualcuno, io l’avrei
preso a schiaffi, giuro!
Onanista a chi??? Te lo faccio
vedere io chi è l’onanista! Su, dai, calati i calzoni, scemo! Vediamo
chi è il vero onanista tra noi due!…
Insomma, credo abbiate capito che per me essere onanisti significava
avercelo piccolo.
‘O nanista… E nel mio caso…beh,
lasciamo stare, ché altrimenti mi deprimo ulteriormente.
Vi stavo dicendo appunto che, pur non avendo una donna da un’eternità,
la mia erudizione erotica ultimamente si è affinata in modo sorprendente.
Saprei dirvi almeno due o tre sinonimi per ogni termine “tecnico” di
cui abbiate conoscenza. Sì, la penso anch’io come voi: a che vale sapere
tutte queste cose se poi alla teoria non si unisce un bel tirocinio
pratico??? Ok, siamo d’accordo: il mio è un talento sprecato.
Ma certe conoscenze possono evitarvi delle situazioni mooolto spiacevoli.
Parola mia. Non c’è da scherzarci, ragazzi.
Ora, vi ho detto che non ho mai avuto fortuna con le donne. Ma c’è stato un giorno in cui, forse
per qualche straordinaria congiunzione astrale, chissà, o per l’avvicinarsi
del periodo elettorale (in cui tutto ciò che sembra impensabile diventa
possibile, come per opera di un intervento divino), la mia condizione
luttuosa sembrò dover mutare le sue sembianze terrorifiche.
Vi parlo di una sera in cui, ispirato forse da un film di Tinto Brass
di cui avevo scrupolosamente osservato la locandina passeggiando per
strada, mi decisi a entrare in un locale, determinato a mettere in gioco
tutto il mio sex appeal. Per incoraggiare la mia timida mascolinità,
decisi di sbottonarmi i primi bottoni della camicia; osservai che dal
torace faceva capolino un ciuffo di
pelacci crespi. Mi umettai i palmi delle mani con un po’ di saliva,
e le passai su quel ciuffetto ispido, nel tentativo di addomesticarlo
un poco.
Mi annusai. Dalle ascelle proveniva un odore acre di sudore. Beh, poco male, pensai: alluvionerò le donne con i miei feromoni!
Ero davvero disperato.
Entrai nel locale come fossi stato Humphrey Bogart in Casablanca. Mi
accostai a una colonna, e mi ci appoggiai, con tutta la disinvoltura
che avevo a disposizione. Ben poca, a dire il vero. Palleggiavo tra
le mani una sigaretta accesa destinata a consumarsi per autocombustione…
L’avevo sottratta dal pacchetto di mio padre, furtivamente. Quella sigaretta
avrebbe dovuto segnare il mio tempo massimo di conquista…
Sì, avete ragione: va bene l’ottimismo, ma una sigaretta forse era un
po’ troppo poco per tentare l’impresa… E infatti alla fine avevo preso
tutto il pacchetto.
Avevo scelto un locale che fosse il più buio e fumoso possibile, per
far passare inosservata la sporgenza più grande del mio corpo: un gigantesco
brufolo che proprio quella sera era spuntato a dispetto sulla mia fronte
lucida. Prima di uscire, avevo cercato di camuffarlo con il fondotinta
di mia sorella, ma più tentavo di coprirlo, più il brufolo si arrossava
finendo col dominare incontrastato sul mio volto basito. Lo lasciai
vincere: pensai che quel residuo pubere avrebbe potuto attrarre qualche
donna matura in cerca di giovani “stalloni”. Ma io non mi sentivo né
giovane né tantomeno uno stallone... piuttosto, potevo somigliare a
un porcospino.
Nel locale c’erano tantissime donne. Una più bella dell’altra. Lanciavo
sguardi a tutte, con l’occhio truce da “uomo bello e impossibile”. Cercai
di estrarre dalla memoria tutti i consigli di quel corso sulla seduzione
che anni fa mia sorella aveva trovato in allegato a Riza Psicosomatica,
e che casualmente mi era capitato di ascoltare cinque o sei volte, quando
in casa non c’era nessuno.
Cosa diceva il tizio della cassetta?
Dai, ricordati… Diceva che…
Con desolazione notai che il pacchetto di sigarette si era quasi svuotato
completamente.
La spalla appoggiata sulla colonna di finto marmo cominciava a dolermi.
I peli sul torace si erano tutti intirizziti, e stavo attento a non
avvicinarvi la sigaretta per paura che potessero incendiarsi.
Sentivo il brufolo pulsare sulla fronte… Lo immaginavo fiammeggiante
come un faro che guida il sentiero dei naviganti nella notte.
Maledissi Tinto Brass e tutte le sue locandine lussuriose.
Una… due… Tre sigarette in tutto. La speranza era quasi del tutto morta.
Lanciai l’ultimo implorante sguardo a una donna seduta al bancone. La
fissavo come un cane bastonato. Se non aveva funzionato la tattica del
macho - pensai- forse quella della supplica poteva muovere l’animo soccorrevole
di qualche donna. Candy Candy,
dove sei? Stavo cercando la mia crocerossina…
Dovevo aver sfoderato uno sguardo talmente disperato che quella donna
cominciò a fissarmi. Riassunsi la postura bogartiana e riaccesi la sigaretta,
ingoiando pure un po’ di fumo… cosa che mi fece tossire per un quarto
d’ora circa. Stavo quasi per morire soffocato nel tentativo di non tossire
convulsamente e di mantenere quel tono dignitoso che con tanta fatica
stavo cercando di ostentare quando finalmente la donna si alzò e si
diresse verso di me. Gridai al miracolo. Si avvicinò, senza dire nulla.
Prese la mia sigaretta, fece un tiro, e lentamente fece uscire il fumo
dalle sue labbra carnose.
Ci mancava pure il fumo passivo!
– borbottai tra me e me mentre sempre più inutilmente cercavo di trattenermi
dal tossire. Tentai comunque di ricompormi. Deglutii, e le sorrisi come
un ebete.
“Io mi chiamo Chantal” disse lei. “ E tu?”
“Io…io…mi chiamo Tinto”
Giuro che non lo dissi per mentire! E’ che mi sembrava di non ricordare
più niente, nemmeno il mio nome. L’unica cosa che mi riusciva di ricordare
era la locandina del film di Tinto Brass, che ora avevo ripreso a osannare
con tutto l’entusiasmo di cui è capace un povero uomo miracolato.
“Senti, Tinto: a me non va di stare a tergiversare. Mi piaci. E vorrei
trascorrere la notte con te.”
In quel momento, riacquistai tutta la fede che col tempo mi sembrava
di aver smarrito…
“Esiste!... Sì, Dio esiste!”
esultai dentro di me.
Ci dirigemmo in auto verso casa sua. Guidava lei. Io le ero seduto di
fianco, mentre tentavo di annusarmi l’alito. Sul cruscotto c’era un
foglio con un disegno…
“Ti piace? L’ho disegnato io” disse Chantal.
Io feci cenno di sì, mentre cercavo di rinverdire quei tenui ricordi
scolastici di storia dell’arte… Chiedo
solo un nome, pietà! un nome
di un pittore, di uno scultore, di un qualcheduno che possa venirmi
in soccorso per poter intrattenere una conversazione!…
Ma io avevo in mente tutt’altro, in quel momento… E l’unico ricordo
che stava riemergendo prepotente dai miei anni di scuola era una parola
latina…
Com’era?... Ah, sì: l’ “ARS AMANDI”!
A questo ricordo si aggiungeva quello delle riviste che io e il Beppi
ci passavamo sottobanco… Va beh, ci siamo capiti.
…
“Pino…no...Poncho…nemmeno…Peppe…Sì,
forse era Peppe! Mmmmhhh, no, mi sa
di no… PEDRO!!! Ecco come si chiamava: Pedro!!! PEDRO PICASSO!”
Così mi rassicurai, illudendomi che finalmente avrei potuto sostenere
qualsiasi conversazione di arte… Si
sa, l’intellettuale esercita sempre un certo fascino. Sette anni di
liceo dovevano pur servire a qualcosa!
Mentre io mi arrovellavo le meningi in cerca di reminiscenze sedimentate
come le ere geologiche, Chantal aveva iniziato a parlarmi del suo disegno.
“ Quello l’ho dipinto tre settimane fa. Ho voluto rappresentare la forma
e la sostanza delle cose.
Illustrare l’apparenza e l’inganno, perché ciò che sembra in un modo
spesso si rivela solo la superficie visibile delle cose. Troppo spesso
ci soffermiamo alla prima impressione, senza indagare oltre la forma
manifesta della realtà”
Ecco, ti pareva: avevo rimorchiato un trans! Mi sembrava troppo bello
per essere vero! Accidenti a me, all’idea bislacca che avevo avuto quella
sera, a Tinto Brass, ai suoi culi, a Pedro Picasso e compagnia bella!
Intanto Chantal aveva fermato l’auto. La guardai “un po’ più giù”, cercando
di notare se ci fosse qualche indizio capace di rivelarmi la “forma
manifesta della realtà”…
Macché uomo e uomo! Gente, a me quella sembrava una donna in tutti i
sensi! E se fosse stato un uomo, beh, poteva voler dire solo due cose:
o che era trascorso troppo tempo dalla mia ultima volta ( e Dio sapeva
quanto ciò fosse vero!) oppure doveva trattarsi di un classico esemplare
di
“ o nanista”, perché altrimenti la “faccenda” non si spiegava.
Salimmo a casa sua. L’ansia stava crescendo a dismisura, al punto che
dovetti andarmene in bagno.
“E’ lì in fondo a sinistra”, mi disse Chantal, che intanto aveva messo
della musica di sottofondo.
“Adesso calmati…ODDIO!... ODDIO,
NON CI POSSO CREDERE!... Suvvia, calmati, che altrimenti rischi di fare
cilecca… E chissà quando ti ricapita una situazione simile!”
Feci di tutto per calmarmi un po’.
“Piuttosto, pensa a quello che
devi fare… Allora, l’alito: com’è? Puzza?”
Dio, una vera fogna! Roba da non credere! Mi guardai intorno in cerca
del dentifricio. Me ne misi un po’ sul dito indice, e strofinai energicamente:
denti, lingua, palato, tonsille, faringe, laringe, epiglottide… Per
poco non vomitai.
“ E ora: le ascelle?” Per
quelle c’era davvero ben poco
da fare.
“Va beh, l’uomo ha da puzzà!”
, mi dissi.
E i profilattici??? Merda! Dov’erano? li avevo presi oppure erano rimasti dentro
il marsupio dell’uomo tigre???
“ah, eccoli qui! Tutti presenti
all’appello: extrasensibili, lubrificati., iperresistenti, ritardanti
per lui stimolanti per lei, piacere intenso, colorati, verde smeraldo,
rosso carminio, nero…no, quello nero no, perché snellisce… che si illuminano
al buoi, zebrati, a pois, lana
fuori cotone sulla pelle, gusto fragola, gusto arancio, tuttifrutti,
tropicale, gusto lungo…
Ah, no, quelle erano le Brooklin…
“Tinto, va tutto bene?”
“Sì, eccomi…arrivo”
Stavo sudando come un’idrovora!
Nonostante le mie più rosee speranze, Chantal era ancora vestita. Mi
avvicinai verso di lei, gongolando come un idiota e sfoderando un sorriso
da vero imbecille. Dovevo fare davvero pena.
Avvicinandomi a lei inevitabilmente mi cadde l’occhio sulla, o meglio,
nella scollatura…
Tette piccole ma sincere, mi
dissi con fare da intenditore.
Non so come, ma da un momento all’altro mi ritrovai steso e ammanettato
alla spalliera del letto. Chantal mi guardava come una gatta, seduta
sopra di me. Mi guardava, senza fare nulla. Ridacchiai nervosamente.
Cosa aveva in mente?
Le braccia cominciavano a formicolarmi. Tutt’a un tratto mi venne in
mente quel film dove lui viene legato e seviziato da una donna… Sì,
bravi, proprio quello: Misery non deve morire. Cominciai a temere
di essere capitato nelle mani di una pazza. Mi rassicurai soltanto quando
lei, sensualmente, cominciò a baciarmi il torace… Sì, mi baciò anche
il fantomatico ciuffetto di pelacci crespi che ben conoscete… Però,
non si punse. Credo.
Lentamente, continuando a baciarmi, scese sempre più giù, fino ad arrivare
sotto l’ombelico.
“Oh, quando lo dico al Beppi creperà d’invidia!!” pensai soddisfatto
tra me e me.
Mentre continuavo a ringalluzzirmi, Chantal si bloccò e mi sussurrò:
“Cosa vorresti che ti facessi ora?”
Oh, Beppi, Beppi, mi chiede cosa vorrei che mi facesse? Ma tutto, baby,
tutto!
Questo fu quello che pensai.
“Beh…insomma…fa tu” fu quello che invece più codardamente le dissi.
“Dai, non esser timido: dimmi ciò che desideri, e io esaudirò i tuoi
sogni…”
W ALADINO, W LE LAMPADE E W I GENI! – pensai esultante.
Ma non volevo azzardare troppo. Con un po’ di indecisione, balbettai:
“se… se ti va…mi piacerebbe che…che…”
Eddai, parla scemo!
“Che…mi piacerebbe che…che mi baceresti…Ah, no, scusa: volevo dire baciassi!”
Ci mancava pure la grammatica, cazzo! Lei era un’artista, era una che
sicuramente conosceva Pedro Picasso, e io che combinavo? Mi mettevo
pure a sbagliare i verbi?!?
Ma Chantal sembrò non preoccuparsene. L’unica cosa che fece fu di insistere
con quella domanda:
“Sii più esplicito, dai: a cosa stai pensando ora?”
Ero un po’ confuso. Insomma, cosa voleva? Una parola più ardita, forse?
Sì sì, era quello che voleva! Ah, avevo davanti a me una vera linfatica…No,
non linfatica…linf…linfocita? No, nemmeno… Ah, sì, ecco cos’era: una
linfomane!...
“Io starei pensando a un bocch…”
Mi fulminò con lo sguardo.
“No, non volevo dire quello. Scusami, Chantal, scusami!...”
Non ci stavo capendo più nulla.
“Tinto, continua: cosa stavi dicendo? che ti piacerebbe cosa?”
Ma cosa diavolo voleva sentirsi dire, insomma??? Più chiaro di come
ero stato non potevo essere… O no? Improvvisamente mi illuminai! Lei
era un’artista, no? Sicuramente stava cercando un uomo colto, dalla
terminologia ricercata… Mica le solite corbellerie! Ah, che donna sublime
era! Si eccitava con i termine eruditi, forbiti… E io ne conoscevo uno,
un tempo… Un termine latino, uno dei pochi che avevo imparato da ragazzo.
Quale occasione migliore di quella per sfoggiare la mia cultura umanitaria?
…cioè, volevo dire, umanistica?
“ Mi piacerebbe una…fellatio!”
Bravo, bravo, ti meriti un bacio ragazzo: te lo sei ricordato! Lo vedi?
Dimmi, lo vedi che tu sei sempre stato portato per le lingue straniere,
eh? Erano i professori che non hanno mai saputo comprenderti!
Avrei potuto continuare così per ore, autocongratulandomi e compiacendomi
per quell’ impareggiabile vocabolario che avevo saputo sfoggiare fino
a quel momento.
“E se io ti chiedessi di fare altrettanto con me, eh? Cosa dovrei
chiederti di farmi?”
Deglutii... Avevo capito a cosa si riferiva. Non sono mica scemo. Solo
che non sapevo come si dicesse… Quando a una donna si fa un…una … insomma,
quando le si bacia lì…come si dice???
Il vuoto assoluto. Ero in preda al panico.
Chantal intanto insisteva:
“Allora, cosa dovrei chiederti, io?”
Vieni in mio soccorso, Beppi, ti prego! Il Beppi era, per certi versi,
l’ “intellettuale” del gruppo: chi meglio di lui avrebbe saputo suggerirmi
la “parolina magica”?
Niente. Ancora il vuoto assoluto.
Mi sembrava che Chantal si stesse innervosendo.
“E allora, non sai dirmelo?”
“No…è che io…io…Guarda, ce l’ho sulla punta della lingua, giuro!”
EUREKA! Ecco come si dice!
“Slinguazzo!” le dissi trionfante.
A Chantal si iniettarono gli occhi di sangue.
“COSA HAI DETTO??? RIPETILO, SE HAI IL CORAGGIO!!!”
“Niente, io non volevo dire quello…è che… è che…”
“Lo sai cosa siete voi uomini, eh? LO SAI? SIETE DEI FALLOCRATI! ECCO
COSA SIETE!”
“Fachè?” balbettai.
Ma lei non mi considerò. Comunque non doveva essere un complimento…
“SIETE DEI LURIDI MASCHILISTI CHE PENSANO CHE IL MONDO RUOTI INTORNO
A LORO! DEI DEMENTI CHE CREDONO CHE LE DONNE ESISTANO SOLO PER SODDISFARE
I LORO VIZI!”
Ero paralizzato, dal terrore, dalle manette e dal fatto che mentre parlava
Chantal mi strizzava i “gioielli di famiglia”, e più si arrabbiava più
me li strizzava. Per poco non mi fece diventare un soprano…
Con le lacrime agli occhi cominciai a implorarla:
“Ti prego, Chantal, ti prego!”
“TI PREGO COSA, EH? MA TI VEDI??? DOV’E’ FINITA ORA LA TUA SPAVALDERIA?”
Ma quale spavalderia??? Proprio io, la cui audacia più grande si è sempre
risolta nel bagno di casa! Dio mio, mi sembrava di trovarmi in un incubo.
Chantal intanto se n’era andata in un’altra stanza. Ritornò con un paio
di forbici in mano.
…
Quando mi risvegliai, mi ritrovai steso su una panchina del parco, con
la gente che passeggiava e che continuava a guardarmi divertita.
Ma cosa cazzo avete da ridere??? pensai irritato.
Mi sentivo tutto intorpidito. Non era come nei film, in cui uno si risveglia
e non si ricorda più cosa gli sia successo. No. Io mi ricordavo tutto.
E ringraziavo il cielo di essere ancora vivo. Solo, non riuscivo a capire
come ci fossi finito, lì, in quel parco. Pensai che dovevo essere svenuto.
Oddio, le forbici!!! Terrorizzato, indirizzai lo sguardo verso il
basso.
COSA???
Non ci potevo credere!
(finale “democratico”: scegliete voi come far terminare il racconto. Suggerirei
di impiegare il forum del sito www.anonimascrittori.it per
inviare i vostri finali)
(Ringrazio Fabietto per avermi suggerito alcuni miglioramenti e tutti
i miei amici uomini per avermi fornito degli ottimi pretesti di ispirazione:
che Dio vi benedica!)

<<”Come
ti puzza il culo!!!!” disse
la vacca al mulo: “Sarà la tua puzza di cacca!!!!”
rispose il mulo alla vacca…Oh me misero…me tapino…quanto è grossa
la mia sequoia…trallallero trallallà…figaro qua…figaro là…>>.
È così
che conobbi Strego.
All’interno
del parco “Mussolini” barcollava da un albero all’altro intonando frasi
senza senso con una sigaretta in bocca, una bottiglia in una mano e
il pisello nell’altra. Cercava di pisciare nella direzione giusta, ma
era talmente sbronzo che riusciva solo a centrarsi le scarpe.
In quella torrida serata di luglio non avevo proprio
nulla da fare: i miei amici musicisti non suonavano, il portafoglio
era semivuoto, e quanto alle donne…beh, lasciamo perdere…
La mia storia con Dorotea era finita da tre settimane.
Per sempre.
Nessun’altra donna. Nessun altro uomo. Semplicemente
l’amore che una mattina si sveglia e delira così, senza una ragione.
L’amore che non dura. L’amore che muore perché non è eterno.
Eppure
lei, il mio Angelo dai lunghi capelli rossi, io l’avevo amata davvero…
Trascorsi
le prime settimane ad ubriacarmi tutte le sere. A vomitare. Ad ascoltare
vecchie canzoni di Nick Drake. A rileggere le sue lettere. A rivedere le nostre foto. A piangere. A masturbarmi…
La classica
routine di un uomo abbandonato.
Dopo 20
giorni decisi di uscire. Eravamo io ed un insano desiderio di morte.
Una coppia perfetta!!
Ero lucido.
E la lucidità della mia mente mi permise di elaborare tra i miei pensieri
una tristissima e quanto mai contorta danza di numeri.
Erano 4
ore che non mi tiravo una sega. 8 che non parlavo con nessuno. 16 che
non dormivo. 20 che non bevevo alcool. Quasi 48 che non toccavo cibo.
Quasi 100 che non guidavo. Quasi 150 che non lavoravo. Quasi 500 che
non parlavo con Dorotea. Quasi 600 che non la vedevo. Quasi 700 che
non sorridevo. Quasi 800 che non tenevo una donna tra le braccia…
Sì…800
ore non sono poi molte, sono più o meno 34 giorni. Come dimenticare
quel momento? Immagini che si ripetevano nella mente centinaia di volte
al giorno, come un film che si conosce a memoria.
Avevamo appena finito di fare l’amore, quella
notte. Poi lei raccolse le ginocchia al mento. Sembrava una bambina
in cerca di protezione. Di tenerezza…
L’abbracciai
con la dolcezza di sempre, la dolcezza che in quei momenti spesso mi
dimostrava lei per prima…ma appena sfiorai la sua pelle, mi accorsi
immediatamente che c’era qualcosa che non andava.
<<Cos’hai?>>
le chiesi.
Non mi
rispose.
La osservavo sotto la sola luce di una candela…Dio,
quant’era bella con quello sguardo triste!
Era magnificamente bella!
Accarezzai il suo viso, e con una ciocca dei suoi
capelli le asciugai gli occhi imbevuti di pianto. Tenevo le mani tra
i suoi capelli e con la mia fronte toccavo la sua. Vedevo le lacrime
nascere dai suoi occhi e morire tra le labbra. E’ lì che la baciavo...
Baciavo le sue lacrime e non dimenticherò mai quel
sapore così amaro. Era veleno!
800 ore
prima…
Quel “film”
ormai mi tormentava da 34 giorni. In ogni istante della giornata. Dall’alba
al tramonto.
Stavo male.
E in quei casi si cerca sempre un pretesto per stare peggio.
Le probabilità
che un bolide grande quanto il Texas si schiantasse contro la mia città
causando l’estinzione umana in pochi mesi erano praticamente nulle.
Dovevo accontentarmi di molto meno. O semplicemente dovevo essere meno
egoista. Così aspirai ad una fine più “individuale”.
Speravo
in un brutto incontro: un teppista, una banda di nazi armati di catene,
un balordo con la pistola, un qualsiasi rappresentante della feccia
umana, felice di massacrarmi di botte e di farmi sputare sangue…
Era l’01:35
circa… ancora un po’ troppo presto per quel tipo d’incontri.
Accesi
il televisore per uno “zapping”.
Immagini
altamente culturali: pornocasalinga vista davanti, il kamasutra in videocassetta
alla “fantastica” offerta di 73.00 €, Selen vista da dietro, Maurizia
Paradiso che consigliava “Mandingo” per delle erezioni mai viste, il
culo di Selen (primo piano), poppe astronomiche (roba da far vomitare
anche il masturbatore più incallito!), sesso, sesso, sesso e ancora
sesso… Continuai a giocare con il telecomando fino a quando qualcosa
di veramente interessante non catturò la mia attenzione.
MTV: Chris
Cornell dei Soundgarden stava cantando a squarciagola “Jesus
Christ pose”; sembrava un moderno Messia avvelenato con il mondo,
con tutto e con tutti. Proprio come me.
Nell’ordine
su una grande croce si alternavano un fantoccio woodoo, una bella ragazza
dagli occhi bendati e lo scheletro di una mezza specie di “Terminator”.
Un concentrato di suoni condito da immagini subliminali e provocatorie.
Un efficace strumento di tortura per cardinali fascisti e borghesi benpensanti.
A quel punto spensi il televisore: ero pronto per la mia impresa.
Uscii di
casa a piedi. Direzione: il parco “Mussolini”.
Erano anni
che non lo vedevo di notte, forse dai tempi dell’Arcadia. Quando
“chiudevamo” quel locale, le
serate finivano quasi sempre ai giardini di fronte, davanti ad una bottiglia
di vino, ad una canna, ad una chitarra o ad un jambè…e se poi c’era
Foffo nelle vicinanze, allora si andava a casa di qualcuno a cucinare
il suo bel guanciale che teneva costantemente custodito in macchina….
e se fuori c’erano 33°, beh questo era solo un dettaglio.
Iniziai
a girovagare per il parco ricordando i vecchi tempi: l’Arcadia,
Foffo, il Vicolo Cieco, i Senzabenza, i goal di Robby
Baggio ai mondiali del ’94, i Traffic Jam, il “Demone Blu”, le
Teste di Legno, il Miro’s Pub, Caterina e il suo violino,
la “Pantera” del ‘90, il Marsigliese, Nicoletti, San Masseo e tutto
il resto. Dorotea. Tutto il resto. Dorotea. Tutto…
I giardini
erano quasi deserti. Qualche extracomunitario ubriaco forse, ma nessuno
corrispondeva al soggetto che stavo cercando. Deluso, mi sedetti su
una panchina ed accesi la trentaseiesima sigaretta della giornata.
È a quel
punto che incontrai quell’uomo.
Dopo aver
finito di pisciarsi sulle scarpe,
mi venne incontro chiedendo una sigaretta.
“Ma come?
Non vedi che ne hai una accesa in bocca???” avrei dovuto dirgli.
Non lo
feci. Anzi gli diedi tutto il pacchetto.
<<Tieni!>>
gli dissi: <<ne sono rimaste solo 4, ma puoi tenerle…credo di
aver fumato abbastanza per oggi…>>. Le prese soddisfatto.
Il lampione
più vicino era ad una ventina di metri. La sua luce mi permise di riconoscere
un uomo di 45-50 anni, di corporatura robusta ma non molto alto, dai
capelli grigi di media lunghezza e la barba incolta.
<<Posso
sedermi qui?>> mi chiese umilmente: <<Perdonami….ma non
ce la faccio proprio ad arrivare all’altra panchina…>>. Rimasi
colpito dalla sua gentilezza. Insomma: era pur sempre un “barbone” o
una cosa del genere. Avevo già avuto incontri di quel tipo e ormai avevo
capito che quella vita, la loro vita, non poteva permettersi la gentilezza.
Era un lusso troppo grande.
Quell’uomo non si reggeva in piedi. Lo aiutai
a sedersi su quella panchina.
Puzzava
da fare schifo: una ripugnante miscela di vomito, alcool, piscio, sudore,
merda…
<<Ti
ringrazio…Posso sapere il tuo nome?>> mi disse.
<<Micky…>>
gli risposi.
<<Sei
un guerriero, Micky! si vede dai tuoi occhi…sei vero…proprio come Attila…>>.
Attila…che
cazzo centrava Attila?!?!
Capii immediatamente
che avevo a che fare con un povero pazzo.
Un pazzo
innocuo: i suoi occhi esprimevano tutto tranne la violenza o l’odio…
Non era
proprio quello che stavo cercando, non era come incontrare “Gianluchino”,
Leo lo zingaro, il Negro o gli altri delinquenti che in quel periodo
bazzicavano la mia città, ma forse l’incontro con un vagabondo sarebbe
stato altrettanto violento per la mia anima.
Forse mi
avrebbe fatto ugualmente male.
Decisi
di parlare con lui: <<Tu invece, come ti chiami?>>.
<<Puoi
chiamarmi Strego…>> mi rispose.
Strego
(e chissà qual era il suo vero nome) doveva avere sicuramente qualche
rotella fuori posto…molto probabilmente un acido gli aveva spappolato
parte del cervello durante la fase lisergica degli anni ’70, quando
era leader dei METEORA, gruppo progressive rimasto conosciuto
soltanto nella scena musicale bolognese. A quanto pare quel nome non
gli portò molta fortuna…
In realtà
la nostra conversazione non durò molto. Mi disse che il giorno seguente
avrebbe fatto qualcosa di “veramente strepitoso” e che se ne avevo voglia
me ne avrebbe parlato la sera stessa al bar della stazione, magari davanti
a qualche birra… Mi disse che negli ultimi mesi viveva tra Latina e
Latina Scalo e che in primavera aveva fatto la comparsa per un documentario
sul medioevo che stavano girando a Sermoneta.
<<Dovevi
vedermi…>> mi disse: <<ero bellissimo, col mio arco e le
mie frecce. Ero un arciere!>>.
Alla fine
di quella frase il vino gli risalì tutto in una volta e cominciò a vomitarsi
addosso.
Quando
finì lo aiutai a coricarsi sulla panchina. Dopo pochi minuti si addormentò
piangendo.
Nel sonno
ripeteva continuamente una specie di mantra: “avrei ricoperto il
tuo corpo con petali di rose…avrei ricoperto il tuo corpo con petali
di rose…avrei ricoperto il tuo corpo con petali di rose… “.
Decisi
di tornare a casa.
Dormii
ininterrottamente per 13 ore, disertando il lavoro ancora una volta.
Sicuramente cercarono di contattarmi un’infinità di volte, ma il mio
cellulare era disperso da tempo immemorabile, e
quanto al telefono di casa, era stato distrutto durante una mia
fase di isterismo alcolico.
Forse mi
avevano già licenziato…
Feci colazione
alle 6.30 del pomeriggio con una spremuta di arancia, una vodka gelata,
una brioche, ed una vodka gelata. Qualche ora dopo mangiai uno squallido
piatto di pasta in bianco. Infine decisi di andare alla stazione a trovare
Strego. Prelevai 100 € dal Bancomat: se qualche giorno prima il mio
conto era vicino allo zero, adesso stava veramente franando.
“Vai, Strego!”
pensai dentro di me: “stasera offro io…”.
Dopo una
settimana risalii a bordo della mia Alfa 33 grigio ardesia del ’91.
“Una vera macchina da coatto!!!” mi diceva sempre Foffo, anche quando
era quasi nuova…Io l’ho sempre adorata.
Arrivai
alla stazione poco prima di mezzanotte e al bar ordinai la terza vodka
della giornata.
Chiesi
informazioni al ragazzo che serviva dietro al bancone.
<<Ma
chi, Strego?! Certo che lo conosco!!>> mi disse: <<Spesso
trascorre le notti qui alla stazione, in sala d’attesa…ma non credo
che si farà vedere per un bel po’…ho appena saputo che oggi l’ha combinata
davvero bella! Del resto si vedeva che quello era proprio scemo…>>.
Il cameriere
mi raccontò “quella cosa strepitosa” di cui la sera prima Strego fece
solo un vago accenno. Per me Strego non era più un pazzo. Era un poeta,
forse l’unico che abbia mai incontato…
Chiesi
al cameriere una bottiglia di Martini Bianco, bella fredda. Risalii
in macchina e cominciai a correre senza meta con una mano al volante
e l’altra al Martini. Poi mi diressi a Roma. Sulla Pontina sfiorai
diverse volte i 190 km orari. Poco prima dell’EUR la bottiglia era finita…
Girai per
il quartiere delle puttane: alcune erano africane, molte dell’est…non
so perché ero arrivato lì, non avevo mai pagato per scopare e non avevo
alcuna intenzione di farlo quella sera.
Una ragazza
mi costrinse a fermarmi. <<Ehi, bello! Ti va di stare un po’ con
Irina?>>.
Avrà avuto
20 anni, forse meno… era bellissima, dal corpo esile e i capelli lunghi
e neri. Indossava una microgonna
di pelle nera, dalla quale si intravedeva un perizoma rosso, gli stivali
alti fino al ginocchio dello stesso colore ed una magliettina aderente
corta fino all’ombellico…
La feci
salire in macchina. <<Devi pagarmi subito.>> mi disse: <<sono
60 €…>>.
Glieli
diedi e le chiesi dove dovevo andare. <<Non possiamo allontanarci
troppo, altrimenti “lui” s’incazza e mi fa
storie…>>. Mi fece fermare ad una traversa di via dell’Umanesimo.
<<Ecco.
Puoi parcheggiare qui…>>.
“Qui” era
tra un bidone della spazzatura ed una campana per la raccolta differenziata.
Cominciò
a spogliarsi mettendo in mostra i suoi seni, piccoli ma ben fatti.
L’abbracciai
e tentai di baciarla come fino a poco tempo prima facevo con un’altra.
<<….e
no bello!! Questo non lo puoi
proprio fare…E’ la prima volta con una di noi, vero? Guarda: si fa così…>>.
Mi sbottonò
la camicia e poi i pantaloni. Iniziò ad accarezzarmi il torace e a leccarmi.
Poi scese sempre più giù: cominciò a manipolarlo con le mani e con la
lingua. Me lo prese in bocca…
Rimasi
inerme.
<<C’è qualche problema?>> mi chiese.
<<Credo
proprio di sì…>> le risposi con un infinito imbarazzo. <<Scusami…non
so neppure io perché ti ho fatto salire in macchina…>>.
<<Ok,
magari sarà per un’altra volta, d’accordo?>>.
Aprì lo
sportello e se ne andò via, lasciandomi così: vicino ad un bidone della
spazzatura, con 60 € in meno ed un cazzo morto in mezzo alle gambe.
Mi sembrava di nuotare in un oceano di merda…
Continuai
a girare per le vie di Roma finchè la macchina mi lasciò a piedi, senza
benzina.
Era quasi
l’alba. Entrai in un bar. Il primo che trovai aperto. Ordinai una vodka
gelata. Doppia.
Avevo due
strade di fronte a me.
Berla tutta
in un sorso e poi ordinarne un’altra e dopo un’altra ancora…
Oppure
lasciare il bicchiere lì intatto. Pagare ed andarmene…
EPILOGO
La mattina
precedente, Strego si era alzato da quella panchina. Dopo due ore di
elemosina riuscì a comprarsi due cartoni di Tavernello. Nel primo
pomeriggio li aveva già finiti.
Successivamente
andò in un nascondiglio che conosceva solo lui. Indossò un costume medievale,
quel costume che forse in un modo o nell’altro era riuscito a far sparire
dal set, a Sermoneta, qualche mese prima. Con sé teneva pure l’arco.
Gli mancavano solo le frecce. Vagò per il centro della città così, vestito
da arciere medievale e con un elmo in testa.
Fuori il
termometro toccava i 37°.
Si fermò
a Piazza del popolo, di fronte alla torre dell’orologio. A pochi
metri dalla fontana iniziò a far scoccare l’arco contro il quadrante
dell’orologio. Senza frecce. Tendeva l’arco e lasciava la presa. Non
fece in tempo a lanciare la nona delle sue frecce immaginarie che in
lontananza già si sentiva il suono di una sirena.
Due portantini
scesero dall’ambulanza e gli misero la camicia di forza, un terzo gli
fece un’iniezione. Strego non oppose alcun tipo di resistenza.
Da allora
in città non lo vide più nessuno.
Dedicato a tutti quelli che sono ancora fermi di fronte a “quel”
bicchiere.

E un attimo dopo
fu a terra, privo di forze, seduto sul cumulo che aveva smosso per seppellire
per sempre una sciagura del suo passato. Il viso non era cupo, non guardava
verso in basso, non mostrava segni di tormento o prostrazione, ma anzi,
il viso di Arturo Bachis era disteso, sereno.
Intorno a lui infuriava l’impietosa buriana, fitte raffiche di
pioggia e vento che lo martellavano senza che lui facesse niente per
ripararsi. L’aria fresca fischiava selvaggiamente al passaggio
fra i due colli della valle della luna e lui restava lì immobile
ad osservare il paesaggio travolto dalla burrasca nella notte.
Arturo Bachis non pensava più alle azioni che aveva appena compiuto,
non pensava al fatto che era diventato un assassino, da quel momento
e per sempre. Guardava la valle della luna e pensava che i giorni in
cui era andato lì con la sua adorata Maria Adele.
Si ricordò di quelle lunghe giornate di primavera con il pranzetto
al sacco preparato da lei. Pensò alla mattinata felice passata
a raccogliere asparagi facendo a gara per chi ne avesse raccolti di
più e poi, mentre lei stendeva la tovaglia sull’erba, lui
molto accaldato si era buttato in mare, come per compiere chissà
quale gesto eroico.
Quel giorno la valle della luna era bellissima e lui aveva pensato che
vista dal basso, dal bagnasciuga, era ancora meglio poiché laggiù,
a dieci minuti di cammino da dove avevano lasciato la macchina, tutto
il resto del mondo sembrava lontano e poco importante.
Quella notte aveva messo per sempre fine alle sue inquietudini, o almeno
così pensava.
Da quella notte aveva cominciato a non dormire più in quel letto
che era diventato più freddo della morte.
Per sempre. Per sempre lei se n’era andata via. E nonostante il
suo gesto non sarebbe servito a farla rivivere lui si sentiva soddisfatto.
Pensava che quel bastardo che l’aveva uccisa non l’avrebbe
mai potuta raggiungere, neanche nella morte. Pensava a lei come a qualcosa
di puro nonostante tutte le volte che lei lo aveva tradito con quel
bastardo figlio d’un cane.
Ma ora era morto, anche lui, per sempre morto. Come tutte le immagini
di questa storia, come la sensazione che Arturo era costretto a sentire
dentro di sé, dentro a quel suo corpo stanco, dentro al suo cuore
ingannato e privato della possibilità di concedere un perdono.
Poco distante da lui il vento piegava due tulipani neri, li guardò
e si chiese se quando fosse morto l’uno anche l’altro si
sarebbe lasciato seccare. Si chiese se erano legati da qualche tipo
di rapporto, quei due tulipani selvatici neri, e se l’uno fosse
riuscito a reggere al pensiero della perdita dell’altro, oppure
sarebbe rimasto in vita proprio come accadeva a lui. In vita senza vita.
Continuò ad osservare quei tulipani per un po’ e pensò
che era terribile dover pensare certe cose, poi girò lo sguardo
e sorrise nell’istante in cui ripensò che aveva appena
ammazzato un uomo.
Si alzò di scatto e mosse quattro rapidi passi verso i due tulipani,
si inginocchiò e ne strappò uno di netto. Lo fece così,
con un gesto fulmineo del braccio, ma si accorse subito di aver commesso
qualcosa di irreparabile, qualcosa che profanava uno dei luoghi a cui
teneva di più, uno dei luoghi a cui era più legato per
il ricordo della sua Maria Adele.
Guardò il tulipano fra le sue mani, si chiese perché lo
aveva fatto, sembrava più dispiaciuto per quel fiore che per
l’uomo che aveva appena seppellito.
Si convinse che l’aveva fatto affinché qualcuno o qualcosa
potesse condividere il suo dolore, l’aveva fatto con cattiveria
per poter osservare l’altro tulipano e scoprire se anche la sua
anima si sarebbe lasciata andare in un succube abbandono oppure avrebbe
reagito alla vita nonostante il dolore di una tale privazione.
L’anima del tulipano nero.
Con questo pensiero Arturo Bachis si strinse il fiore al petto e ricevette
in dono le immagini della sua vita con Maria Adele che presto si trasformarono
nell’incubo della continua presenza di quel bastardo figlio di
troia che due volte aveva provato a portargliela via. E la seconda volta
c’era riuscito.
Gli tornarono in mente i litigi con lei e le sere in cui non era tornata
a casa per stare con il bastardo in putrefazione, Ramon Lo Jacolo, così
si chiamava quel maledetto spagnolo. In quelle notti si tormentava pensando
a dove fosse andata ma rigettava l’idea su cosa stesse facendo,
a quello non voleva pensare mentre si ranicchiava nel letto sperando
di sentire la porta aprirsi e chiudere fuori per sempre ogni forma di
negazione dell’amore nei suoi confronti.
Pensava a quanto era bello ballare con lei e quanto gli pesava la triste
dannazione per non essersi accorto di un insegnante di ballo viscido
e infame come quello. Ma ballare con Maria Adele era divino, e forse
irripetibile, e lui voleva ripensarla in quei momenti, quando volteggiava
leggera e impregnava la sala da ballo con l’essenza del suo profumo
muschiato.
Ma subito tornò a sprofondare nel dolore e si ricordò
della crisi che durò un bel po’, dei suoi interrogatori
che peggioravano le cose e della confessione sotto la scalinata di Santa
Chiara quando lei piangeva e non voleva staccarsi dal suo petto irrigidito
al suono delle sue parole. Richiamò alla mente la voglia di piangere
che aveva sempre impedito davanti agli occhi di lei per paura di essere
giudicato troppo debole.
Per un istante pensò che se lei fosse stata viva l’avrebbe
voluta abbracciare, stringere la faccia fra i suoi seni e lasciarsi
andare in un pianto caldo e liberatorio. Non voleva più pensare
di essere troppo debole o severo o qualunque cosa che non permettesse
loro di vivere con serenità. Voleva essere se stesso e pensare
che uno sbaglio non è mai la fine di tutto, anche se ormai la
fine di tutto aveva cancellato la possibilità di qualunque sbaglio.
Poi si ricordò della decisione di lei di troncare con quel figlio
di puttana, delle telefonate nel cuore della notte, di lei che urlava
alla cornetta che era tutto finito, che aveva fatto un grosso errore
mentre Arturo si sentiva incapace di reagire un po’ per un senso
di risentimento nei confronti della donna e un po’ perché
lo impauriva il confronto con quel fottuto ballerino che aveva sedotto
sua moglie.
Non aveva mai avuto coraggio nella sua vita ma l’aveva trovato
dopo quello che lui le aveva fatto, dopo quello che aveva fatto portandola
via per sempre non solo a lui ma a tutto il mondo, a tutta la bellezza
che c’è su questa terra.
Richiamò alla mente le immagini di quella sera, lei non era rientrata.
Per qualche ora rimase ad angosciarsi alla finestra mentre fuori pioveva
a dirotto, pensava ad una nuova serie di incontri segreti, poi verso
le undici arrivò una telefonata dei carabinieri che lo avvisavano
di recarsi all’ospedale Marino per degli accertamenti. Non volle
pensare subito a qualche disgrazia ma quando arrivò lo informarono
subito che Maria Adele Costa era stata investita da un’auto ed
era deceduta poco dopo il suo arrivo al pronto soccorso.
Lui mantenne un po’ di forza per vedere la salma, poi gli venne
improvvisamente a mancare quando chiese maggiori informazioni sull’accaduto.
Gli dissero che era tutto ancora da dimostrare, il caso era aperto,
ma si sospettava l’omicidio premeditato. Dopo aver investito la
donna l’auto dell’investitore si era bloccata di colpo un
centinaio di metri più avanti, era come se in un primo momento
non si fosse voluto fermare a soccorrerla, come se fosse stato un fatto
accidentale. Lo stesso investitore era però corso indietro e
inginocchiatosi sulla vittima urlava e supplicava perdono.
Dissero che ammise di averla investita ma volevano essere sicuri di
trovarsi davanti all’uomo giusto e non ad uno squilibrato qualunque.
Non potevano ancora divulgare le sue generalità.
Gli dissero che era un insegnante di ballo spagnolo.
I suoi occhi si illuminarono e fu in quel momento che capì di
essere perduto per sempre. In balia di inarrestabili eventi che in là
nel tempo sarebbero dovuti avvenire.
Il processo si era concluso con l’arresto per omicidio del bastardo
rotto in culo di un ballerino, ma questo non lo fece stare meglio affatto.
Due anni, due lunghi anni che pesarono ad Arturo Bachis come se anche
lui fosse stato incarcerato. Due anni per pensare a cosa fare e, nella
follia, decretare una sentenza di morte. Due anni per rivedere la faccia
di quella merda di uomo e strangolarlo nel sottoscala buio del quartiere
Castello dove viveva e forse dove andava la sua Maria Adele nelle notti
in cui, con la solitudine del suo cuore, lui invocava una pietà
ed un perdono che non era lui a dover invocare.
Avrebbe voluto vedere quella casa ma non ne ebbe il tempo, o forse il
coraggio. Con il corpo nel bagagliaio si era diretto nel cuore della
notte verso la valle della luna. Guidava col volto coperto di lacrime,
la musica spenta. Solo il rumore dei copertoni nell’asfalto bagnato
ed un senso di vuoto allo stomaco.
Dopo una estenuante camminata col morto in spalla, e sotto una pioggia
che aumentava di intensità, aveva scavato una profonda fossa
nella terra e vi aveva deposto per sempre l’unico uomo che aveva
odiato nella sua vita e con lui pensò di gettare via tutta la
sua angoscia per questa storia, tutta la voglia di ammazzarlo ancora
e ancora e ancora.
Si guardò intorno un’altra volta, si alzò in piedi
e fece un giro a trecentosessanta gradi. Aveva ancora il tulipano in
mano. Le gocce colavano e colavano da ogni punto del suo corpo. Osservò
la parte alta della valle e decise di avviarsi alla macchina. Passando
sulla terra smossa per la sepoltura lasciò cadere il fiore.
Sorrise amaramente.
Decise che non sarebbe mai più tornato alla valle della luna.
- Voglio pisciare!
- Vuoi pisciarmi in bocca?
- Dopo averti scopata ho sempre voglia di pisciare!
Abbondano le pisciate nella sua vita pornografica. E’ quasi sempre
buio quando sale il desiderio di buttare fuori,colare,pisciare,inondare,bagnarsi,segnarsi.
O anche: é nella casa- bara. Hanno finito di scopare.(-si finisce
di scopare?-)
Lui ora si lava /cosa è più ridicolo di questo lavarsi
dopo essersi presi?/.Lava il suo cazzo. Gli accarezza la schiena. Ha
voglia di sodomizzarlo. Ha voglia che quell’acqua bianca diventi
il suo piscio. Ha voglia di bere quel piscio.
Perché avverto che la ragazza-orina è indecente,assolutamente
pornografica?
Sospendo i giudizi / in Bataille- che amo- l’orina o piscio è
sempre presente. Colano i liquidi dai buchi. Dalle fessure del mondo.
E’ non poter trattenere ancora per un solo attimo in più
l’indecenza. E’ prostrarsi al limite.
La piccola pisciatrice/ del resto lei che investe secoli,dipana rughe,non
può non essere piccola/ voglio che abbia capelli neri,occhi gialli,pelle
bianca. E poi è magra, al limite della dispersione della sua
attività.
Pisciare è privato ma ha un odore assolutamente pubblico. Ai
benpensanti dà fastidio. Piace ai cani.
Quando ha preso/capelli neri ed occhi gialli/ l’abitudine a pisciare?il
desiderio irrefrenabile?
Questo segno, questa putredine macchia la segue ovunque: macchine,alberghi,letti,pavimenti.
Sorta di allagamento perenne. Galleggiano oggetti,sedili,dure coperte.
A tratti mentre intreccia i capelli sfiora con lo sguardo il suo amante.
Sa che lui ama la sua orina. Forse soltanto questa. Gialla scolatura.
Lo guarda. Porta le mani alla bocca. Sente l’odore lo sente- sente
lui.
E’ come tutti gli altri .Cazzo duro.

Ed eccola finalmente la macchia di marzo. Adesso tutto sta diventando
chiaro, finisce il mese e per magica magia appare la macchietta del
precedente mese. Sapete come lo scopro? Facile, vado a vedere se cè
la mia macchia di febbraio spedita ad aprile e infatti cè, infondo
infondo, ultima arrivata, ma cè. Ha fatto appena in tempo! Allora
mi viene subito l’idea: scrivere subito subito un’altra
macchia, così stavolta mi metto lassù in cima e subito
all’inizio tutti leggono il mio nome. Quasi quasi mi monto la
testa, a scrivere macchie sulle macchie dei pazzi, e poi chissà,
potrei avere un avvenire, specializzandomi a scrivere macchie, non è
poi tanto difficile con un po’ di allenamento, e se proprio non
mi viene in mente niente, posso anche lasciare cadere una macchia vera
di inchiostro vero sul foglio di carta bianca o anche colorata, da una
delle mie quattordici vere penne stilografiche, e voilà, il gioco
è fatto, macchia per macchia, una macchia la faccio sempre. Ma
porca puttana, per un giorno che non accendo il computer, e come apro
la pagina, ecco che appare la lista dei soliti noti, ed anche stavolta
mi sono perso il primo posto. I primi saranno gli ultimi, va bene, è
una frase che consola molto, ma consola solo, poi sei libero di masturbarti
come vuoi, e se poi continuo a dire porca puttana, e menomale che non
ho detto puttana Eva, QUELLO mi castiga, e non mi invita a venire avanti,
anche se occupo l’ultimo posto, e anzi vi dirò di pi e
di meglio, mi spedisce dritto dritto nell’inferno, dove, dopotutto
non dovrei trovarmi nemmeno troppo male, ma se si può avere qualcosa
di più adeguato, perché pensarci su a riflettere, si prende
e si ringrazia. Tante grazie, in prima fila, si vede sempre il tanga
della ballerina! Ma perché perdersi d’animo, se mi sbrigo,
può anche darsi che finisco proprio sotto la Debora, che scrive
racconti romantici tipo Pisciare. Favola N. 3 Voglio pisciare! Vuoi
pisciarmi in bocca? Dopo averti scopata ho sempre voglia di pisciare!,
e roba così, che a dire la verità a me piace un sacco.
Cara mia, forse mi sono già innamorato di te. Ergo, stare sotto
la Debora non sarebbe nemmeno un brutto posto dove stare, anzi, direi,
che potrebbe essere un bel posto. E da qui si capisce, che l’ultimo
libro a cui sto lavorando si intitola Cacciatore di luoghi, che non
è il solito posto, tipo Agli Antichi Sapori (cucina casereccia
surgelata), Nuovo Cinema Odeon (aria climatizzata), Bar Dei Quattro
Amici (sala per fumatori), Lido Tiziana (maestro di ballo latinoamericano
in sede), Zoo di Pallapesante (animali esotici e sconti per comitive),
Albergo Tre Nanetti (cinquestelle servizio in camera e cameriera a ore).
E dopo aver capito questo, passiamo alla macchia di marzo, che soggettivamente
pone una miriade di problemi, primo fra tutti che la macchia di febbraio
l’avrei conclusa con un Chi se la sente, mi risponda pure. Adesso
non ricordo su cosa dovevano rispondermi e quell’avrei forse è
sbagliato, però ci sta bene. Comunque, se casomai a qualcuno
fosse venuto in mente di rispondere, come faccio a saperlo, che ci metta
almeno la ricevuta di ritorno, così richiama la mia attenzione
che è universalmente noto che le raccomandate R.R., quando arrivano
col postino, preoccupano il ricevente, solitamente portando, nell’ordine,
le seguenti liete novelle: abbiamo il piacere di comunicarle che la
sua domanda di pensione è stata respinta; la informiamo che non
ha pagato la tassa di cui al codice C56X per l’anno 1979 pari
a Euro 2,00 più diritti di mora pari a Euro 100.000,00, a cui
vanno aggiunti i diritti di segreteria, di cancelleria, le spese di
spedizione, le spese legali e le spese varie pari a Euro 300.000, per
un totale che potrà leggere sul bollettino postale già
precompilato (tanto per farle un piacere), e potrà versare l’intero
importo nel più vicino ufficio postale in un’unica comodissima
rata; ci dispiace comunicarle che il suo ricorso prodotto in data 6
luglio 1999 è stato respinto, come risulta dal provvedimento
della Direzione Centrale allegato i copia alla presente, ma ci teniamo
a informarla che contro il provvedimento che rigetta il ricorso, potrà
produrre ricorso rivolgendosi direttamente alla sede periferica del
nostro Istituto sita in Milano (e l’indirizzo e il C.A.P. te li
cerchi da solo, e sappi pure che non abbiamo tempo per rispondere alle
tue telefonate, che se hai ben notato, sulla lettera il numero di telefono
nemmeno ce lo abbiamo messo). Ma ritorniamo alle nostre macchie e ai
miei problemi soggettivi, e continuando nel tema dell’eventuale
risposta, posso anche aggiungere, che prima o poi, ma credo che lo farò
poi, mi stampo tutti gli interventi del progetto e piano piano, ma veramente
piano e lentamente, uno alla volta li leggerò, ma non per il
gusto di leggerli, ma nella speranza che qualcuno abbia dato risposta
a quanto chiedevo, anche se al momento non ricordo la domanda. Faccio
una promessa, che non manterrò, se alla macchia di aprile sono
ancora qui, e ho il tempo, la forza, la speranza e la carità
di scrivere il mio pezzo, farò un pezzo bellissimo (soggettivamente),
un vero e proprio racconto, con tutti i crismi e le regole e i capoversi
di un racconto vero. Il naso mi cresce di attimo in attimo, ma intanto
io prometto, poi chi se ne frega. Secondo problema soggettivo, è
che nella macchia di febbraio è saltata una è accentata,
ma meglio una è accentata saltata, che una è accentata
senza accento, che sarebbe errore blu scolastico, e non errore blu cobalto
o errore blu oltremare chiaro, e cè un cè senza l’apostrofo,
errore di battuta, refuso, in gergo, orrore pei puristi. Ma mica sono
sicuro che siano solo queste le sviste, anche se sul mio originale sembra
tutto a posto. Ma andiamo avanti con i tre problemi soggettivi, ed ecco
apparire all’orizzonte lo spettro di gennaio: si fosse per caso
offeso che la mia partenza è avvenuta a febbraio, che cazzo ci
sto a fare a iniziare l’anno, mi potrebbe dire, ma potrei anche
rispondergli, chi cazzo ti ci ha messo a quel posto, e se voglio decidere
che l’anno inizia, per esempio a novembre, o se l’anno voglio
farlo durare undici mesi, ti darebbe fastidio? Certo che ti darebbe
fastidio, e adesso smettila di piangere che poi mi nevichi, devi pure
capire che mi faccio tante cose, e non sono mica obbligato a farmi tutti
i mesi. Quindi, risolto il problema dei problemi soggettivi, passiamo
un po’ a parlare della macchia di marzo, che se è un mese
pazzo come si dice, è il mese giusto per produrre macchie colorate.
Esce il sole e tiri fuori l’ombrello, che a essere imparziali,
anche l’ombrello potrebbe essere una macchia da sfruttare a pieno
titolo. Ma ecco incalzare la macchia variopinta marzolina e sembra un
fiore cannibale, come dice sempre il mio parroco che il diavolo è
sempre pi bello di come lo descrivono, perciò ti prende in giro
e alla fine ti inghiotte. Ma a me non mi frega, se è un fiore
vegetariano me lo pappo cucinato, altrimenti lo spedisco dritto dritto
allo zoo delle scimmie gay, e poi povere chiappe, sono cazzi suoi anche
se la scimmia è più sexy quando è vestita. Allora,
d’accordo, facciamo che la macchia di marzo, è un fiore
cannibale, ma tanto per giocare, e alla fine del gioco io finisco in
bellezza, anche se qualcuno mi mander affanculo. Ma ho tutto da perdere
e nulla da guadagnare. Barbara, aspettami, so già che ti amo.
Muschioso rappreso
sbrullato rancoroso rancido malessere blando. Bip. Parole immote aggrovigliate
percotendo elusive sviando annebulate e flaccide esitabonde tremolanti
castrazioni sperdendo sibilando fibrillanti roride intorpidite dipanando
orlate ronzanti sussulti frusciando quasi folate di venticiattolone
sfollanti cumuli lanuginosi di nubi farfuglianti nel chiarore livido
sfumante tra la penombra azzurrata degradazioni di luci untose sbrilluccicanti
rischiarano oscillazioni labili filiformi e volubili incerate trepidanti
ma in fondo chete scemanti nei vicolacei circoletti a raggiera vagando
mollicci melliflui sussulti. Blop. Blando malessere rancido rancoroso
sbrullato rappreso muschioso. Miciattolando fioche folli fiammelle nell’aere
illividito addensandosi cupe pendule. Ops.

NO.
Questa volta non mi prostituirò.
Eviterò che il bisogno d’accoglienza mi stordisca, tradendomi.
Troppe volte ho voluto esser compresa. A costo che il senso di me si
smarrisse, oppure si assentasse.
E mi domando dove fossi. Io. Allora. Quando.
Dov’ero quando rincorrevo la compiacenza? Dovere di PIACERE.
Dov’ero quando disperdevo sorrisi vuoti? Dovere di STAR BENE.
Dov’ero quando tacevo, pur increspandosi il cuore? Dovere di FINGERSI.
Dov’ero quando avrei voluto scegliere? Dovere di NON SENTIRSI.
Dov’ero quando raccoglievo le briciole dei sentimenti? Dovere
di RESPINGERSI.
Dov’ero? Io. Allora. Quando. Dovevo.
Ho sempre sentito un mormorio dentro. Sempre.
Era la mia disubbidienza.
Prima mormorava. Ora la sento URLARE.
DOVE SONO? DOVE SONO? DOVE SONO?
Nascondendomi, mi sono persa.
Non mi trovo più.
SOUNDTRACK. OVERTURE.
Esistono momenti (secondi, giorni, anni) in cui si percepisce una sensazione
strana. Una sensazione interiore ed intima di vuoto: qualcosa che non
funziona nella propria esistenza.
Senti la necessità di ascoltare un suono che sia in sintonia
con il tuo stato d'animo, una musica martellante, forse un rumore. Quella
vibrazione che riesce a raccontare i tuoi incubi e che riesce a disegnare
i tuoi pensieri più intimi.
I nervi sono tesi e così anche l'animo. Apri gli occhi ed inizi
la giornata con quella tensione che per un istante percepisti un millisecondo
prima che cominciasse il nuovo millennio.
Un inizio, una fine:
"...
Sento il telefono suonare. Devo rispondere?
E' una faccenda seria, come un cancro terminale
E sta giungendo la fase finale
Comincia a crescere ed io comincio a fantasticare.
..."
ISPETTORE PALOMA . UN FINALE.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
Era stato sempre un elemento a suo favore, pensava. D'altra parte il
crescente nervosismo dell'emerito Prof.Cherokee Abdullah Silkh non dipendeva
solamente dalla situazione in cui si era cacciato. Oltre la sua arguzia
(ah! come gli piaceva definirsi arguta ed usare quel termine mentre
parlava) inevitabilmente la sua carta vincente era stata sempre il suo
aspetto fisico.
Carmen Paloma era definita da tutti una donnuccia flaccida, fisicamente
irritante e decisamente sovrappeso, ma portava con sè uno sguardo,
quello sguardo!, inquisitore, pungente e camaleontico. Uno sguardo che,
semplicemente, insinuava. Gli uomini non potevano resitergli quando
decideva di farsene uno ed i criminali entravano in un tunnel di nervosismo
nevrotico che li poneva in inevitabile soggezione.
Forse il mondo l'avrebbe trattata da donna insignificante se non fosse
stato per quello sguardo che insinuava: offensivo ed imbarazzante.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
L'ispettore Paloma sentendo per la decima volta la frase urlata in tono
di sfida, si mosse verso la fonte di quel rumore.
Evitava sempre di chiamare, nominare, scrivere (salvo che negli atti
ufficiali che doveva compilare al Dipartimento di Polizia) o anche accusare,
una persona per nome e cognome: per lei era "il soggetto".
Riteneva che comportandosi in tal modo distruggeva qualsiasi filo di
contatto, per quanto fiebile fosse, che per pura casualità potesse
sorgere tra lei ed il perseguito. Oltretutto, non poteva nascondere
a se stessa che di fatto adorava utilizzare nei suoi discorsi una terminologia
astratta e asessuata, cosa che la riusciva a far sentire superiore anche
a Dio, anzi al "Soggetto che starebbe lì su".
Aspetto fisico, sguardo ed uso dei termini astratti: una combinazione
devastante. Imbarazzante per chi ne era oggetto...per la vittima. <<Meglio
della macchina della verità!! anzi no, meglio della tortura!!>>
sghignazzava sempre tra sè, sopratutto quando era a lavoro.
<<Agente arresti il soggetto prevenuto e lo traduca in carcere.
Arguto!!!>> ordinò.
<<...e butti via argutamente la chiave>> mormorò,
sicura, nella sua testa.
PROCURA DELLA REPUBBLICA
RAPPORTO DELL'ISPETTORE C. PALOMA
AL PUBBLICO MINISTERO PROCEDENTE
Criminale: Prof.Cherokee Abdullah Silkh
Giudizio: colpevole
Prove: 1) Avvocato Stanislao Kesser Da Silva trovato morto;
2) Atteggiamento nervoso e non conciliante del fermato.
Provvedimento
Arresto e traduzione presso la più vicina casa circondariale
dello Stato; sentenza di colpevolezza; processo per direttissima da
celebrarsi quando possibile; condanna da determinarsi in quella sede
a cura del Pubblico Ministero procedente.
ISPETTORE
Carmen Paloma
NOBEL.
<<Ormai la mia scelta l'ho fatta>>
Non poteva fare a meno di sorridere a quell'affermazione. Come poteva,
lui, considerare che fosse realmente possibile pronunciare una frase
di quella portata?
Da giovane, anzi da giovanissimo gli avevano dato il nobel per la fisica.
Il giorno della premiazione era stato introdotto ai presenti come il
"Profeta della nuova fisica".
Ancora ventitreenne, sulla base di precisi calcoli e percorsi logici
inequivoci aveva trovato la conferma scientificamente provata dell'esistenza
di universi paralleli. Ora, la teoria, elaborata da Hugh Everett III
e successivamente ripresa e ampliata da Bryce De Witt, non era più
un'audace costruzione del mondo quantico.
Tuttavia il nobel gli era stato consegnato anche per un'altro motivo.
Con la sua teoria veniva destrutturato definitivamente il principio
di causa-effetto. Questo poteva essere ristretto all'attività
di accadimenti concreti riferentisi ai mondi newtoniani, tale principio
però saltava completamente nel momento in cui si affrontava la
natura sul piano subatomico e su quello universale cosmologico.
Le fluttuazioni quantiche, confermavano i suoi studi, si pongono come
un rumore di fondo che disturba il lavoro del nostro cervello. Le azioni
dei neuroni a livello celebrale non sono determinate nè da noi
stessi nè da qualcos'altro, esse semplicemente non sono deteriminate:
non c'è causa-effetto, ma solo casualità.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg escludendo la possibilità
di calcolare contemporaneamente posizione e velocità di una particella
ha come conseguenza che il neurone, allo stato naturale, non ha oggettivamente
nè posizione nè velocità. Esso può mettersi
in moto o no, quello che la mente fa è cercare di determinare
un evento (il moto) e non un'altro (il non moto).
Non esiste allora nessuna scelta. L'evento si verifica se noi lo osserviamo
e ciò in quanto noi diveniamo parte dell'universo a cui appartiene
quella casualità. Quell'istante è quello in cui si formano
le infinite casualità e quindi gli infiniti universi.
Grazie per il Nobel!!!!!
<<Ha ancora senso parlare di scelte che determinano la propria
vita? La vita di chi?>>
Non c'è presente, nè passato e nè futuro, essi
esistono in un tutto inseparabile.
DISPERAZIONE.
<<Sto malissimo!!!>>
Non poteva urlare...non ne aveva la forza; non poteva muoversi...non
ne aveva la forza; non poteva ragionare e razionalizzare...non ne aveva
la forza.
Avrebbe voluto fermare il suo cervello, quel maledetto coso non la smetteva
di bombardarlo di stimoli elettrici. In questi momenti si sentiva una
cavia in balia della sua stessa mente che andava completamente alla
deriva...almeno avesse potuto sapere quale...
Quel nero...quello spaventoso nero cresceva.
<<BASTARDA!!!>>
Arrivava senza avvertire, rimaneva quanto voleva e poi da un momento
all'altro spariva, senza lasciare traccia e per fortuna, fino ad oggi,
senza fare vittime.
<<Bastarda!! almeno avvertimi quando decidi di colpire!!>>
Era anche questo che lo mandava ai matti: non potersi preparare, non
potersi organizzare per tempo. Avrebbe potuto non fissare appuntamenti
con i clienti, cancellare quelli già presi; poteva non andare
in tribunale e farsi sostituire. Ma così, di punto in bianco,
si sentiva incatenato. Dalla realtà esterna che lo costringeva
ad agire, a prendere delle decisione, a fare delle scelte; dal suo intimo
che gli impediva il controllo del più insignificante neurone,
quasi si attivassero senza una causa.
Certo che la sua fama di imbattibile e spietato avvocato non poco lo
metteva in imbarazzo quando, solo, si guardava allo specchio e vedeva
il nulla. Il vuoto.
Era imbarazzante sopratutto ora che difendeva due fra le personalità
più odiate al mondo, i due potenti che per decenni avevano governato
a suon di guerre preventive.
Lui, l'avvocato Stanislao Kesser Da Silva, anche questa volta era stato
troppo bravo. Ormai era sicuro, come lo erano tutti, che i giudici del
Tribunale Penale Internazionale gli avrebbero dato ragione e avrebbero
mandato assolti i suoi assistiti.
Ma ora era stanco, vuoto e solo.
Ore 11:38 PM.
Lo studio è vuoto.
L'avvocato Stanislao Kesser Da Silva esce chiudendosi la porta alle
spalle. Guarda con difficoltà le scale che dovrà scendere.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare
a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare
a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare
a quelle scale!!>> si chiese.
<<Perchè mi deve far fatica anche il solo pensare si arrivare
a quelle scale!!>> si chiese.
Occhi rossi, lacrime.
Buio e silenzio.
Un passo, un'altro passo.
Nero, passi, silenzio, silenzio, silenzio...
SCELTE.
Per Cherokee Abdullah Silkh la ricerca scientifica aveva una sua ragion
d'essere solo se i suoi obiettivi venivano costantemente relazionati
alla realtà politica e sociale: non aveva senso pensare universi
paralleli senza pensare simultaneamente a realtà politiche e
sociali parallelle.
Tracciare queste relazioni biunivoche era divenuta ben presto una necessità
e pertanto, un giorno, decise che come portava avanti i suoi studi per
rivoluzionare il mondo scientifico, così doveva agire per rivoluzionare
il mondo sociale. Una scelta che lo aveva avvicinato agli ambienti eversivi
(o di lotta rivoluzionaria, dipende dai punti di vista) fino a divenire
un dirigente d'azione della Comunità Dormiente.
In ogni caso, pensava, a qualunque universo lui, o meglio il suo Io-osservatore,
appartenesse doveva tener fede agli accordi presi con la Comunità.
Quel lurido infame doveva scomparire da questa terra e doveva essere
la mano di Cherokee Abdullah Silkh a portare a termine l'operazione:
qualunque cosa fosse successa, qualsiasi ispettore di polizia lo avesse
ricercato, chiunque non si fosse fermato davanti alla fama di cui godeva
l'emerito Prof. Cherokee Abdullah Silkh.
<<Se quegli imbecilli conservatori che mi hanno dato il nobel
sapessero che sono un dirigente d'azione, un sicario, della Comunità
chissà come ci rimarrebbero. Come spiegargli che mi sono stancato
da tempo di fare solo ricerca scientifica; che mi sono chiesto quale
aiuto ho dato agli esclusi con la mia teoria ed i miei studi>>.
La scelta ormai era stata fatta. L'universo in cui viveva, aveva deciso,
era l'unico vivibile, l'unico osservabile.
"La Scelta", una volta osservata, aveva istantaneamente cancellato
ogni ansia ed ogni incubo.
Era lì nel buio in attesa che qualcosa si muovesse, che l'obiettivo,
il bastardo, uscisse dalla porta del suo fottuto studio. Sapeva che
aveva di fronte un uomo senza scrupoli, freddo, vigile e senza esitazioni.
Lui invece era stato sempre un emotivo, solo "La Scelta" lo
aveva trasformato. La imponente consapevolezza di quell'atto di autodeterminazione
era stata come una rinascita, sapeva che la realtà è caso,
che il mondo è tale in quanto in tal modo viene osservato. Si
era convinto che quello in cui viveva era l'unico mondo possibile. Niente
universi paralleli, niente salti spazio temporali, niente singolarità
casuali da attraversare.
Le infinite combinazioni di ogni singolo universo, consideravano sempre
un elevato numero di persone sfruttate e allora inutile pensare al resto:
combattiamo ora e subito!
Cigolii.
Buio e silenzio.
Un passo, un'altro passo.
Nero.
Passi, silenzio, silenzio, silenzio...
ISPETTORE PALOMA . UN ALTRO FINALE.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
Era stato sempre un elemento a suo favore, pensava. D'altra parte il
crescente nervosismo dell'emerito Prof.Cherokee Abdullah Silkh non dipendeva
solamente dalla situazione in cui si era cacciato. Oltre la sua arguzia
(ah! come gli piaceva definirsi arguta ed usare quel termine mentre
parlava) inevitabilmente la sua carta vincente era stata sempre il suo
aspetto fisico.
Carmen Paloma era definita da tutti una donnuccia flaccida, fisicamente
irritante e decisamente sovrappeso, ma portava con sè uno sguardo,
quello sguardo!, inquisitore, pungente e camaleontico. Uno sguardo che,
semplicemente, insinuava. Gli uomini non potevano resitergli quando
decideva di farsene uno ed i criminali entravano in un tunnel di nervosismo
nevrotico che li poneva in inevitabile soggezione.
Forse il mondo l'avrebbe trattata da donna insignificante se non fosse
stato per quello sguardo che insinuava: offensivo ed imbarazzante.
<<Non lo so, non lo so, non so niente!>>.
L'ispettore Paloma sentendo per la decima volta la frase urlata in tono
di sfida, si mosse verso la fonte di quel rumore.
Evitava sempre di chiamare, nominare, scrivere (salvo che negli atti
ufficiali che doveva compilare al Dipartimento di Polizia) o anche accusare,
una persona per nome e cognome: per lei era "il soggetto".
Riteneva che comportandosi in tal modo distruggeva qualsiasi filo di
contatto, per quanto fiebile fosse, che per pura casualità potesse
sorgere tra lei ed il perseguito. Oltretutto, non poteva nascondere
a se stessa che di fatto adorava utilizzare nei suoi discorsi una terminologia
astratta e asessuata, cosa che la riusciva a far sentire superiore anche
a Dio, anzi al "Soggetto che starebbe lì su".
Aspetto fisico, sguardo ed uso dei termini astratti: una combinazione
devastante. Imbarazzante per chi ne era oggetto...per la vittima. <<Meglio
della macchina della verità!! anzi no, meglio della tortura!!>>
sghignazzava sempre tra sè, sopratutto quando era a lavoro.
Ore 5:27 AM.
Questa volta però era in difficoltà.
E' vero il soggetto-avvocato era sparito da ore. L'ultimo soggetto che
lo aveva visto era stato il collaboratore che se ne era tornato a casa
verso le 10:00 PM e lo aveva lasciato solo a studio . Diceva che spesso
l'avvocato rimaneva a meditare per un po' da solo, ma quella notte si
era persa ogni traccia.
E' vero, avevano fermato un soggetto a 100 metri dallo studio, che era
stato identificato come quella specie di genio un po' indiano, un po'arabo
ed un po' nativo americano che veniva chiamato Profeta della nuova fisica!
<<Agente, lo lasci andare..ne ho abbastanza di sentire argutamente
quella voce così sgradevole!>>
SOUNDTRACK, CHIUSURA.
Sai che non esiste un rimedio, devi resitere.
Il mondo dei tuoi pensieri è colorato di blu e nero. Questa sensazione
non è tristezza è la tensione che senti per l'impotenza
e l'impossibilità di controllare il tuo destino, di scegliere
la tua esistenza.
Desideri cercare un senso, però per trovarlo non basta avere
un obiettivo perchè è necessario conoscere la strada per
raggiungerlo e devi avere la forza per percorrerlo quel sentiero.
Il tempo trascorre, continui a cercare una musica che sia in sintonia
con il tuo stato d'animo. I tuoi pensieri sono ancora blu e neri. Incontri
personaggi che non puoi evitare, che devi affrontare. Vorresti fuggire
anche se tu sai che la polizia karmica non ti può prendere perchè
desidera solo metterti paura...e tu hai paura:
"...
Questo è quello che otterrai
quando avrai a che fare con noi.
Per un minuto mi perdo in me stesso.
..."
Sei a casa, sei sotto le coperte e finalmente puoi chiudere gli occhi.
Varchi la soglia della tua mente, un'altro mondo, un'altro universo.
I pensieri corrono, i suoni si accavallano, suoni come pennelli: rosso,
verde, bianco, azzurro, viola, marrone...Di più, di più,
ce ne sono sempre di più.
Calma, tranquillizzati. Ora riposa, perchè non sai in quale universo
ti sveglierai domani.
Fa freddo, un vento gelido spazza il piazzale e fa volare le cartacce.
Infilo il piumone, indosso il cappello e ti metto il guinzaglio. Usciamo.
E’ il solito giro, tutto il perimetro del parcheggio del centro
commerciale che data l’ora è vuoto, quindi ti posso lasciar
libera di annusare e correre dove vuoi. Sei allegra, tu ami queste temperature,
sai che poi il caldo di casa ti aspetta. Trotterelli al tuo fianco,
ogni tanto ti allontani per perlustrare le aiuole sparse qua e là
nell’asfalto, ma mi tieni sempre d’occhio. Non preoccuparti,
lo sai che sono io che come al solito mi adeguo ai tuoi ritmi, ti aspetto,
ti seguo, è il nostro tempo. Ti osservo mentre esamini un ciuffo
d’erba e mi accorgo che non mi sono ancora assuefatta alla tua
bellezza.
Quando ti ho adottata eri ricoperta di croste nere, avevi le orecchie
purulente, il pelo ormai a chiazze e non conoscevi il mondo. Avevi sopportato
per anni un dolore talmente grande che ho pensato fosse giunta l’ora
di ripagarti, per quel che potevo, di tutto l’amore che ti era
mancato. Eri un esserino che riusciva a malapena a camminare, tutto
era nuovo per te, anche calpestare l’erba e godere del sole. Ma
la tua bellezza e l’innata affettuosità ti hanno salvata.
Ti ho amata da subito. Ora sei una cagna felice. Ma se fossi stata brutta
e scontrosa? Ti guardo e penso a Caia, la principessa di paglia. Caia
è un ammasso di pelo tra il rossiccio e il biondastro, ispido
e sporco, due occhi acuti e un tartufo rosa. Qualche volta è
passata davanti alla porta del negozio in cui lavoro. Poiché
amo i cani ho provato a chiamarla ma mi ha guardata ed ha attraversato
subito la strada. Caia dagli occhi gialli,brutta, infangata e solitaria,
perché mi hai colpito? E sento una voce che mi risponde <<perché
ti rivedi in lei.>> Soffro di transfert nei confronti dei cani
abbandonati e scontrosi. A volte mi sento così anch’io.
Sono andata più volte al canile della città e ne sono
sempre uscita col cuore a pezzi. Tutti i cani si proponevano, cercavano
una carezza. Tu no, tu mi schivi e vaghi per conto tuo. Non ti aspetti
più niente. Ed è per questo che mi commuovi ancor di più.
Ti ho vista per un momento un giorno davanti al mercato coperto. Eri
con un gruppo di polacchi. E una sera all’ora di chiusura del
negozio. Volevo chiamarti, fermarti, ma eri già scomparsa. Ho
chiesto di te a Kostja, l’ucraino che lava le nostre vetrine.
Ti chiami Caia e non sei di nessuno. Segui un gruppo di polacchi che
vive a ridosso dell’ ex campo profughi. Lì c’è
un terreno incolto dove loro hanno attrezzato un dormitorio. Di giorno
si trasferiscono sulle panchine dello spartitraffico di fronte al negozio.
C’è una siepe che circonda questo giardinetto e che ti
nasconde alla mia vista. Vedo loro, invece, che fanno la spola tra le
panchine e il supermercato all’angolo per comprarsi la birra.
Parlano e bevono tutto il giorno fino ad ubriacarsi. nessuno ti considera,
ti fa una carezza, si preoccupa per te. E tu sei sempre lì, in
mezzo a loro. Tutti gli abitanti della zona evitano quel luogo invaso
da bottiglie, lattine, cartoni che gli slavi usano per ripararsi dal
freddo o come materassi improvvisati, quando non ce la fanno a tornare
alle loro baracche. E’ meglio oltrepassare, è meglio non
guardare. Gli ubriachi sono sguaiati e violenti. E quelli soprattutto
ci odiano.
Ho comprato una scatoletta di cibo per cani ed ho vinto le mie paure.
Ti chiamo dolcemente, mi accuccio e ti aspetto. Hai fame. lo so. I cani
come te sono sempre affamati. Ti fermi ma non ti avvicini. Aspetti che
io faccia qualcosa. Ti lancio un boccone e poi un altro, senza avvicinarmi.
Sei indecisa, mi guardi con quegli occhi che conoscono ormai ogni tipo
di orrore e probabilmente ti chiedi perché io sia così
gentile con te, cosa ti accadrà se ti avvicini, o cosa voglio
in cambio. Mi scruti e nello stesso tempo ti guardi intorno, vigile,
poi pian piano allunghi il muso, inghiottisci il cibo. Non mastichi,
non assapori i bocconi, intimorita come sei. E in quel momento qualcuno
passa e fa rumore. Tu fai un balzo, arretri e fuggi via. Devo ricominciare
tutto da capo. Ti rivedo la settimana seguente. Allora vado dal macellaio
e gli chiedo un po’ di macinato per te. Quindi ti chiamo dalla
siepe. Sei sdraiata ai piedi di quattro slavi ubriachi. Mi vedono e
subito mi dicono “Porta da mangiare a Caia così mangiamo
noi”. Tu ti alzi e barcolli, vieni verso me con passo incerto,
ti hanno fatto bere della birra e i tuoi riflessi sono appannati. Ridono
tutti. Io li ammazzerei. Hai paura del cartoccio che ho tra le mani,
così lo poso a terra e resto in disparte per darti modo di mangiare
tranquilla. Annusi la carne, la lappi appena e te ne vai. Hai la nausea?
Sei già sazia? I polacchi dicono di no. “Lei mangia spazzatura.”
Ecco la spiegazione. Te la lascio lì comunque sperando che tu
capisca che è tua. Uno degli uomini però nota il pacchetto
e se lo mette in tasca. Te lo darà? Ne dubito. Parlo di te con
tutti. Amici, clienti, familiari. Si impietosiscono alla tua storia
ma non c’è un posto per te. Non ti vuole nessuno Caia.
In fin dei conti nemmeno io. Oggi è un gran giorno. Mi hai vista
e mi sei corsa incontro, fermandoti a poca distanza da me. Ti sorrido
e per la prima volta allungo le mani ad accarezzarti il muso. Tremi
tutta ma mi lasci fare. Povera Caia, sembri robusta, ma quando ti palpo
la schiena mi accorgo di quanto sei magra. E’ la folta pelliccia
ricciuta che ti fa sembrare più solida. Non mi stancherei mai
di coccolarti anche se i polacchi mi dileggiano nella loro lingua. “Quanti
soldi dai per lei? Noi vendiamo. Dieci Euro?” “Brutto stronzo,
ma che ti vendi che non è neanche tua?”
“Non te la meriti, deficiente” penso. Sorrido invece, perché
ho paura che m’impediscano di rivederti e mi accorgo che purtroppo
sono stata troppo tempo fuori. Devo rientrare in negozio.
Ho accampato una scusa con mio marito e mi sono fatta lasciare la macchina.
Lo faccio raramente e temevo un’inchiesta da parte sua, invece
non mi ha detto niente. Ho deciso di cercarti lì, in quel campo;
lo so che è pericoloso ma devo rivederti. Raggiungo la zona in
pochi minuti, parcheggio e attraverso la strada. Il perimetro è
delimitato da una rete arrugginita che ha ceduto in parecchi punti.
I calci hanno fatto il resto. Entro da un varco e m’inoltro fra
l’erba alta. Più avanti c’è un boschetto e
delle figure sono accovacciate tra gli alberi. Vedo cartoni, panni appoggiati
sui rami più bassi degli alberi, tettoie di lamiera sorrette
da pezzi di legno. E’ un rozzo bivacco. Cammino e ovunque è
pieno di escrementi e di bottiglie di birra e liquori vuote. Devo stare
attenta. Dicono che loro abbiano tutti un coltello e che lo sappiano
usare. Si colpiscono con le bottiglie rotte quando scoppiano le risse
tra ubriachi. Ho visto un ragazzo con parte della faccia e l’orecchio
sinistro sfregiati. Mi fermo, ho paura, alcuni di loro si sono alzati
in piedi e mi stanno osservando. Non vedo donne. Ti chiamo a voce alta
e stridula, una, due volte, tenendo bene in vista il sacchetto che contiene
il tuo cibo. Da quel groviglio indecente sbuchi fuori tu. Che sollievo.
Mi corri incontro e ti fai abbracciare, accarezzare, baciare. Quanto
puzzi. Annusi il sacchetto con la carne e mi salti addosso, ormai sei
abituata al mio odore. Mangi dalle mie mani, non ho portato un piatto
di plastica. Mi ripaghi in questo modo dell’ansia e della paura
di trovarmi lì da te. Poi come sei venuta te ne vai e torni dai
tuoi compagni di vita, che per fortuna ci hanno lasciate in pace. Ora
so come fare e ti prometto che questo momento si ripeterà ancora
ed ancora. Sarà un’abitudine, il nostro appuntamento. Anche
oggi sono lì e sto per alzare la solita rete quando uno slavo
alto mi ferma e mi fa capire che oggi Caia non c’è. Sono
seccata per questo contrattempo, non sono sicura che lui mi stia dicendo
la verità, magari preferisce non avermi tra le scatole, magari
stanno facendo qualcosa che non devo vedere. “Caia morta,”
fa lui e ridacchia nell’osservarmi il viso. E’ brillo, malsicuro
sulle gambe. No, non è vero. Mi vuole far del male. Lui si avvicina
ancor di più e mi indica il cassonetto della spazzatura che è
di fronte a noi. “Caia morta. Macchina corre veloce. Non vista
lei.” Ridacchia di nuovo e io comincio a tremare. L’avranno
fatta sparire? Gli avranno dato fastidio quelle mie apparizioni oramai
quotidiane? Caia sa attraversare da sola la strada, l’ha fatto
mille volte. Caia sa badare a se stessa. Non è possibile. Lo
slavo parla e parla nella sua lingua ed io non capisco niente. Sono
istupidita. Forse è un errore, Si è sbagliato. E’
un altro cane, non è lei. Ne girano tanti di randagi e tutti
seguono tutti. Mi accorgo che siamo davanti al cassonetto, mi ha guidata
lui. Io sono in trance. Appoggia il piede sul pedale e il coperchio
si apre. E io vedo la morte. Eccoti. Il tuo corpo è adagiato
sul fondo, rifiuto tra i tanti, scomposto, inerte. E penso a Mia, che
mi aspetta a casa, tra i suoi giocattoli, sicuramente sdraiata sul divano.
E penso e penso. Vorrei urlare, vorrei picchiarmi per non averti portata
via dal tuo mondo. Ti avrei salvata. I troppi “no, non conviene”,
“un altro cane come si fa”, “sono due femmine, Mia
ne morirebbe” sono serviti a tranquillizzare la mia coscienza.
Ecco la conseguenza della mia vigliaccheria. La casa sporca, la casa
pulita. Ti avrei salvata, almeno tu, principessa di paglia senza corona
e senza collare. Almeno tu. Forse butto da qualche parte il sacchetto
con il tuo solito cibo, non so, non l’ho più tra le mani
e anche lo slavo se ne è andato. Cammino confusa lì intorno,
non vedo e non sento niente se non un dolore acuto e pulsante dentro
il petto che mi fa rotolare grosse lacrime sul viso. Ho bisogno di soffiarmi
il naso. Mi fermo e cerco nella borsa un fazzoletto di carta, ed ecco
che mi accorgo di trovarmi di fronte a un giardino. Lungo la ringhiera,
verniciata di fresco, c’è una bordura di tulipani viola.
“Ma si possono piantare tulipani di quel colore” penso.
Sembrano i carciofi che i contadini lasciano a marcire sul campo. D’impulso
decido di compiere uno di quei gesti che ci sono proibiti dall’infanzia.
Infilo le mani tra l’inferriata e strappo un po’ di quei
fiori del lutto. Più in là vicino ad una portafinestra
bianca c’è una grande ciotola. Senza esitare scavalco la
ringhiera e colgo uno di quei fiori. Uno solo. Non è successo
niente, nessuno mi ha notata. Sono tutti davanti al televisore perché
è periodo di mondiali di calcio e oggi gioca la nostra nazionale.
La città è deserta. Apro il cassonetto e butto sul tuo
corpo i tulipani viola. Quella specie di carciofi ti si addicono. Brutti
fiori per una cagna brutta. Alla fine, lentamente lascio andare l’ultimo
fiore, di un giallo sfolgorante. Questo è per la tua anima, Caia.
La tua anima gentile e fiera. Torno a casa e trovo mio marito eccitato.
Mi comunica felice: ”L’Italia ha vinto”. Io no. Che
il riposo ti sia dolce, Caia. E mi chiudo in bagno.

Lo ha fatto apposta!
Sa che la detesto! Gliela nascosi sei mesi fa quella cravatta giallapiumerosa,
disegnata appositamente dal suo caro amico..
La misi nell’ultimo cassetto della cucina.
Sì, nella cucina. A nessuno verrebbe in mente di trovare un indumento
tra le posate. Ma lui l’ha scoperto! Che genio! Eppure quando
gli chiedevo di apparecchiare la tavola, era un continuo domandare.
Ed ora la indossa!
Che sacrilegio strozzare quella camicia bellissima a righe leggere di
un celeste così chiaro da commuovere. La mia ultima stiratura
d’amore.
Certo.. se stringesse di più il collo, avrebbe fatto almeno il
suo dovere. Un bel nodo, di quelli piccolini che premono, premono ..
che godimento! Vederlo cambiare colore mentre mi narra, costernato,
il tradimento con la nostra vicina di casa, è un’eccitazione
da provare. Bastardo!
Mi dice che siamo aperti NOI, che solo IO posso capirlo. Aperti a cosa?
Noi, noi di una generazione che ha vissuto in pieno, il "Love and
Pace" e non "Pace and Love", dice, alternativi anche
in quello! Che tristezza..
Annuisco, mentre immagino le piume trasformarsi in milioni di puntine
da disegno che bucherellano l’ epiglottide tinteggiando il paglierino
che fa da sfondo al nodo scorsoio.
Ora va anche nel dettaglio!
Sostiene che ciò che lo ha fatto capitolare siano stati i sandali
in cuoio, di quelli che usavamo NOI negli anni ’70, scomodissimi,
dove l’alluce si strangola bluastro, chiedendo perdono, completamente
piatti con una sensazione di vertigine continua.
E’ stato un dejavu, dice.. .
Un colpo di mannaia sarebbe meglio! Che patetico. Lo emozionano un paio
di sandali e poi va in giro con una cravatta da venditore di palloncini.
Non replico. Lo guardo e fisso la cravatta.
Accendo una sigaretta e lui mi fa: …………"Pensa
,non fuma"…
No, una mannaia, no. Troppo facile. Forse sarebbe meglio un’iniezione
anabolizzante, così da vedere il collo taurino gonfiarsi , assecondando
le puntine.
Con una smorfia disgustosa, infila un dito nei millimetri d’aria
che la separano dal bottoncino in madreperla ( che Dio solo sa quanto
mi sono costati!) per allentarla..
Che peccato..
Afferma, fiero, che non sono le lunghe gambe, affusolate, di venticinquenne
, calve come le sue tempie ad averlo ipnotizzato, e che di questo devo
rassicurarmi.
Idiota!
Ho rughe che posso ancora contare. E per le mie gambe..beh, sono vissute!
E’ diventato paonazzo.. che sia avvenuto il miracolo??
No.. sussurra che la signorina aspetta un figlio da lui…
E vediamo un po’..cosa dovrei fare io ora?
Deglutisco ettari di nicotina in un colpo solo. Taccio. Taccio e fumo.
Fumo sì, lanciandoglielo sui piumaggi, magari cambiano colore
e ribelli prendono il volo, graziandomi la vista.
Possibile che mi sia sbagliata così?
Era il 12 maggio di un anno da dimenticare, un’estate già
prepotente, una manifestazione pacifista per un secchio di rifiuti abbandonati
davanti ad una scuola elementare, che non erano neanche tanti, e tac!
La scintilla! Perché non è stato un fulmine? Uno di quelli
che inceneriscono, polverizzano stilisti vergognosi e uomini penosi
che passano la vita a ritagliare articoli di giornale di opinionisti
imbecilli ma che fa tanto avanguardia?
Aveva ragione mia madre. Liala, Sveva Casati… tutte quelle sante
donne che hanno ingioiellato con le copertine rosa e oro, le librerie
per generazioni, dovevano continuare ad uccidere quelle scrittrici che
andavano procreando figure di donne in emigrazione per emanciparsi in
un cultura maschilista.
Spengo la diciottesima sigaretta, sono maniaca le conto, e gli chiedo
cosa voglia fare, quando l’occhio cade sul lobo sinistro. Un orecchino!
Riesco solo a fare un cenno, tanto è l’inverosimile.
Sorride, l’imbecille.
Un vezzo, dice, suggerito dalla Giusy.
Giusy? Fuffi? Cippi? Si chiama Giuseppa, cazzo!
Un uomo che non è neanche in grado di apprezzare un nome maschile
castrato, pretende di essere padre? E se diventa gay? Che fa? Lo rimette
dentro?
Sto perdendo lucidità,non me ne frega nulla.
Un bip ci distoglie per un secondo. Un messaggio sul cellulare. Il suo,
ovviamente.
…….."Mi chiede come sta andando… che tenera"…
E se il bypass che gli hanno impiantato l’anno scorso esplodesse
ora? Ho sentito che a distanza di tempo può accadere. Sorrido
speranzosa mentre le testa mi dice: domani dieta!
Mi carezza la mano e si alza. Ha finito.
Eh no! Io no!
Voglio vedere la cravatta tingersi di AB negativo, voglio vedere schizzare
gli spermatozoi che mi hai sempre negato far crescere erba sulla camicia,
voglio vedere mille orecchini spillarsi sul neo che tanto ti dava preoccupazione,
schiantandomi ogni giorno con la tua ipocondria!
Voglio……..
Se ne è andato.
La guerra delle due Rose terminò con la caduta di tre petali. I
tre decisero di unire i loro corpi e scrivere un racconto da poter donare
al Re. Il Re non era semplice di gusti, né facile da soddisfare: per
di più i tre erano sfrontati, persone di malaffare. Il Re col sangue
agli occhi, livido li guardò giocare. Per prima cosa si sfilarono
gli orologi, per testimoniare che non avevano limiti. Dopodichè si
tolsero le scarpe, per affermare che non erano schiavi. Assunsero pose bizzarre,
con l'intenzione atavica di storpiare i corpi rendendoli finalmente belli.
Esplosero in risa, in urla e in burle, svuotandosi infine le tasche per dire
che non erano sudditi. Sulle dita era visibile l'inchiostro nero donato loro
da Umberto Eco. Il Re, ormai sconfortato, iniziò a danzare nel salone
del palazzo al suono di "Tanti auguri" di Raffaella Carrà.
Era il segnale convenuto: armigeri della peggior risma sciamarono nella sala
a passo di beguine: circondarono affettuosi il loro sire e come estremo segno
d'amore ne smembrarono le carni e le spartirono coi cani. Terminato il ludico
pasto, i cani cominciarono a...miagolare, mi piacerebbe pensare. E invece
no. Toccò loro la più funesta delle sciagure: iniziarono a
parlare! "Mi consenta" disse uno.
Il suo amico, infastidito da un prurito al piede sinistro, ingaggiò
un barbone nato a Casablanca e lo trasformò in fotomodello. Nel giro
di 33 giorni il suo viso scuro era presente in ogni piazza del Paese con
la scritta "Un giorno anche io saprò scrivere saggi di psicologia".
La ressa davanti alle librerie di tutta la Santa Nazione costrinse gli intemerati
Tutori dell'Ordine in Pubblico a intervenire con solerzia e la solita chirurgica
perizia. Le vittime si contarono a decine: anonimi scrittori si aggirarono
loschi tra i feriti curandone i più gravi.
- No, scusate un attimo... anzi, scusate un attimino... L'avete scusato?...
Bene, bene... A-tti-mi-no... Dio mio! povero italiano, povera gente, poveri
tutti! –
Nel frastuono un anziano libraio, nostalgico dei tempi andati e irrimediabilmente
perduti si contendeva, ormai in fin di vita, l'ultimo spasmo di rivendicazione
linguistica.
L'anziano libraio non riusciva ad arrivare alla fine del mese (al massimo
giungeva alla S). Devo pur campare! Si inventò perciò un nuovo
lavoro: creava interferenze telefoniche al cliente che non aveva voglia di
interloquire con l'amico al telefono. Esempio: Pronto! Come stai? Non mi
lamento. Pronto ZIA SONO davanti lo STADIO! Papà COME. Pronto? Chi
parla? MANDA LUISA! Ma chi urla? Non sento. ci. ci risentiamo. ciao!
"Ciao un par de cojoni!!!" interloquì garbatamente don Aurelio
Mazzafierro sporgendosi dal balcone tra tulipani rossi, blu e neri."E
lei che cazzo c'entra, scusi?""No... era per giustificare la macchia
del mese... sa... i tulipani... i colori..."
"Don Aurè, me scusi tanto: ma nun s'era accorto che c'aveva già
pensato quer ragazzetto poeta che tempo fa è 'nciampato su un riccio
(sì quello lì, proprio lui, Zabaglio!) a giustificà
la macchia co' la storia delle du' rose??? Me dica la verità che co'
tutta 'sta confusione s'è distratto n'attimimo, eh?" "AAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH!
ATTIMINOOOOOOO! NOOOOOOOOO!" (voce fuori campo)
E in meno di un secondo l'attimo fuggì in piedi sull'attico e disse:
"Capitano mio capitano! È scappato il capitone ho paura e per
questo salgo sul tavolo!" al Diavolo le viole e chi vìola le
regole. Preferirei tegole in testa e "tegolini" in bocca, mentre
con la sigarilla smocka fumaglia di rilassi nervotici e tutto il resto è
lettera pura, inviata al mittente. Mittentesconosciutoall'indirizzorecapitarealdestinatarioincasodimancataconsegnadistintamentesalutiamogarbatamente
prendiamolevostredifeseerilanciamogiochinevroticiepossibilmenteavremmopiacerediRIDEREperchédiventadifficiledifendersi
daidiffidentichediffamanoediffondonodifferenzeDefinendosiSANIassistiamoallassassiniodellaCREATIVITA'-tà-tà-tà-PUM!La
difficoltà futuristica dada-umpistica di lettura e scrittura creativa
che pare creatina venduta da cretine in palestre di Latina disturbò
il sindaco Zaccheo intento nell’ordinare camere per camerieri e camerati.
E l’ascoltatore barra lettore ormai ci ha abbandonati e traditi nell’osservare
il pavimento annebbiando l’udito, tocca a voi rimediare, sarebbe una
responsabilità troppo grande per me che al massimo riesco a rubare
gomme da masticare in un Pub con la foto di Femi Benussi.
"Sempre meglio che rosicchiare pubi sul feto di Accio Benassi"
rispose interloquito il sindaco della città traslitterata: il virus
ormai s'allargava, e a macchia d'olio prendeva possesso delle menti e dei
corpi: dei petali e delle foglie: neanche sassi e canali maleolenti ne rimanevano
indenni. Per via di quel virus, tutto iniziò a trasformarsi nel proprio
timore. I sassi divennero suole e le suole cacche di cane, le foglie furono
autunno, i petali vento, i fiori cesoie. E ogni epilogo mutò in prologo.
La guerra delle due Rose iniziò con la caduta di tre petali…

C'è un vuoto in me
In cui sospira e geme
Una vacillante foglia
Scossa dalla rosa dei venti
Sguardo tenue, flebili parole
Magma di incertezza e desio
Scolpite come lapidi si imprimono,
Memorie quotidiane,
Gioie spente ed assenze
C'è un vuoto in me..
Lo vedi?
Se vuoi può acoglierti
Fraternamente
In fondo c'è silenzio
E passione
Passo passo...siamo più distanti
Chiuderò gli occhi e sparirai
C'è un vuoto...tutto intorno a me
Ed il marasma dentro
Lo stesso anticamente noto caos
Che non mi da pace
Oh la mia Itaca lontana..
..Il mio sogno smarrito

“Dormi, Odisseo, disteso nel letto di piume: scuro profilo nel bagliore
inquieto del bianco tenebroso dei veli.
Riposa il tuo corpo, vinto dal mio che non conosce stanchezza: nelle pieghe
confuse degli odori dei corpi, accanto alle parole non dette, rimane un’essenza
d’animale.
Tutto hai dimenticato nella furia dell’amore, anche l’ansia del
viaggio.
So che partirai. So che questo attimo è solo vuota finzione, immagine
riflessa nello specchio della felicità. Tu sogni stracci di vita e
di mare, il tuo mare. Sogni la nave e le cupe ninfee d’altre sponde.
Sicuramente salperai gridando “Mille regretz de t’abandonner”,
ma già ben saldo, sulla tolda, piedipiantati, aggrappato alla vela.
Oh! Sì! Mi fisserai, fino all’orizzonte, ma andrai.
Davvero troppo tardi l’ombra del viso sul cuscino scandirà il
Tuo destino dal Mio. Fuori adesso una brezza mattutina fa danza e lamento.
I maiali nella stalla si muovono inquieti.
I lupi, distratti dall’aurora, ritornano al monte.
Ognuno di voi possiede una montagna di giochi e ricordi e, per quanto vagabondiate,
alla fine, Voi là tutti tornate.
Cercate un destino, ardete nel limite.
Alessandro, il più Grande di tutti cercava l’orizzonte del mare:
la fontana del palazzo di Pella dove sognava le vele, lo segnò fin
da bambino.
A te il grugnito dei porci t’indigna, l’ululato dei lupi t’affanna.
Non capisci l’enormità del mio gesto: solo loro gustano fino
in fondo il sapore del mondo.
Hai a suo tempo recitato la parte.
Rispetto. Meraviglia. Stupore. Davanti alla strega.
Da uomo che molto ha veduto negli Holliday Inn dell’Oriente, speravi
più bella la maga. Fissasti sui miei fianchi opulenti occhi come buche
feritoie.
Di certo pensasti”Era tutta leggenda!”
Lo stesso pensò Claudio di Poppea, ed era già suo.
Ho sorriso tra me ed iniziato la danza.
Salomé non fu certo più abile. La scuola è la stessa.
L’offerta del bagno, il vino speziato, il camino ed il cibo la sera,
la coltre pulita.
L’amore passa non solo per gl’occhi.
Sperduto, hai chinato la testa, intuendo d’un tratto d’avere
di colpo smarrito la crudeltà che raggela, che lì il tuoi occhi
eran pieni di ali davanti alle piume mie mani.
Hai ceduto senza violare nessuna delle tue fervide certezze, però.
TI AMO, Odisseo.
Mi piace ripetermi questa parola dalle molte vocali, miele al mio cuore.
Per questo ti temo, voce soave, amabile viso, odore rasposo di pino.
Fuggo da te.
Stamane andrai, insieme alla agnella nera a spiare il silenzio d’antiche
presenze scomparse.
Cercherò poi la tua assenza, lo so.
Ti farò immortale e ricordo.
TI AMO, perché fin dall’inizio sapevo che saresti partito.
Nessuno ama la felicità d’un eterno presente.
Amiamo solo chi s’ha destino di perdere.
L’Amore insegue solo chi è sua sventura e suo sogno. Beatrice
e Dante ne sanno qualcosa.
Ma qui nelle lunghe giornate, regolate soltanto da profumi e da grida animali,
a volte, ho sperato, l’eterno.
Nell’aggrapparmi, aggrovigliarmi, involgermi in te, troppe notti ho
udito attraverso gli specchi il moltiplicarsi dell’aria.
Come se il cuore al di dentro- nido di silenzi che non han mai volato- schiudesse
echi fatti di carne.
Gli stessi che la bella Eleonora, di diec’anni più vecchia,
ma Aquitana del Sud, aprì in una volta a Enrico, re inglese.
E’ questo allora l’Amore?
Un soffio di grida animali?
Pupille senza orizzonti?
Tutte le cellule smosse dal fiato del drago?
Agonia di baci e sospiri?
E dopo, di giorno, riso scoperto di denti, passeggiate profumate d’ibisco,
adolescenti splendori, ardori di sole e d’aranci, forte calore?
Sono queste le stesse tenerezze dei lupi.
Adesso comincio ad essere stanca di cercare il tuo grembo di uomo per posare
la testa e tacere.
L’alba ora avanza.
I compagni tornati nel mondo stanotte, t’han già preparato la
nave.
Ti guardo, incredibile uomo diventato assoluta presenza, disteso così
nella stanza piena d’attesa soleggiata.
Ti vedo. Tra poco imbarazzato e teso, il corpo d’Apollo fermato, che
indugi alla soglia. “Telefonerò, scriverò, mai ti scorderò.
Tornerò, stanne certa!”
Sarai già favola allora.
“Ecco il biglietto da visita, in fondo c’è la mia mail.
Chiamami pure di qualunque cosa tu abbia bisogno!”
TUTTO IL TRACCIATO DELL’ILLUSIONE PERCORSO IN UN’UNICA FRASE!!!
Sorriderò pudica, ma griderò “ Non andare, rimani, amor
mio di sempre, amore di mai!”
La nave sul bordo dell’acqua e ne medesimo istante la donna che riempie
il cielo.
Resterà solo il vuoto della danza sull’ultimo sesso d’animale.”.
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