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Tulipani. Su un davanzale di una via un po’ miserabile, messi a mollo in un vaso di vetro azzurrino, di quelli da poco prezzo. Non particolarmente freschi, non particolarmente sfioriti.
Mi ero infilato nella città vecchia e avevo appena comprato le sigarette da un tabaccaio il cui negozio, sopravvissuto ad ogni modernità, sembrava in bianco e nero. Pubblicità di trent’anni prima appese alle pareti, di un bianco incerto. Addirittura quelle di una marca, certamente estinta di tabacco da fiuto.
Uscito da lì fui risucchiato dai vicoli che si incrociavano senz’ordine, pareva fossero loro ad inseguir la gente, gente fitta fitta che camminava con piglio frettoloso. Esibire tanta fretta era senz’altro una posa collettiva. La mia sensazione era che tutti disponessero di moltissimo tempo da perdere e che in realtà stessero passeggiando, godendosi sia il sole abbacinante che l’ombra continua e netta delle case che divideva la strada come un tratto preciso di righello.
Stando dalla parte del sole eri immerso in un’impressione violenta d’insieme, vedevi colori e movimenti guizzare, sfuggiti alla luce fortissima. L’ombra ti restituiva la vista, ne recuperavi con sollievo il dettaglio. Quello, non era un giorno come un altro per me. Avrei dovuto infatti prendere una decisione importante. Che fosse così importante, di quelle che ti cambiano per sempre la vita e che hanno il potere di modificare anche l’esistenza altrui, mi aveva permesso di prendere tempo fino a quel momento. Tempo che tuttavia scadeva quel giorno e si legava ad un’azione che dovevo assolutamente fare. Avevo ancora qualche ora.
La mattina ero uscito di casa inebetito da una notte irta di spine. Avevo preso il caffè al solito bar e a Fernando, il gestore, con cui parlavo di cose trascurabili ma essenziali al nostro rito quotidiano, avevo risposto meccanicamente, senza un minimo di testa né cuore. Avevo poi seguito le mie gambe, apparentemente decise, fino a trovarmi nella città vecchia.
Non ci mettevo piede da vent’anni ma evidentemente la mia assenza prolungata era stata ben tollerata dato che nulla, ma proprio nulla, era cambiato da come ricordavo.
Attorno a me il flusso delle persone scorreva impetuoso, senza soste. Le urla dei fruttivendoli e i richiami dei pescivendoli di tanto in tanto inchiodavano qualcuno a contrattare. Dai negozi di stoffe pendevano pezze colorate coi vistosi cartellini dei prezzi.
La crisi demografica, almeno in quel quartiere poteva dirsi scongiurata: teste e gambe di bambino ovunque. Spesso capitava che una signora o l’altra ne riacciuffasse uno e serrandolo ben bene si immettesse di nuovo nella corrente incessante. Io seguivo la gente, a caso camminai per molte ore. Conobbi schiene, gambe, scarpe, gonne, calzoni, calze e sandali fino a quando, guardando l’orologio, fui certo che fosse ormai troppo tardi per decidere, tardi per agire e tardissimo per rimandare.
I giochi erano fatti. la mia vita sarebbe rimasta immutata, la solita vita.
Non mi dispiacque. Ciò che non accade, in effetti accade.