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Di seguito sono pubblicati i contributi inviati per la Macchia di Marzo.
Il fattore meno serio è questo: la diga con il cadavere di
Gesù Cristo potrebbe divenire oggetto di culto per
feticisti e cani con la lebbra. Fossi foco battezzerei
neonati, fossi NATO bombarderei istruzioni, fossi azione
rimarrei stabile, fossi lapide mi riempirei di critici,
fossi cimice mi localizzerei in parlamenti, fossi mento
asseconderei labbra, fossi lebbra colpirei vescovi, fossi
covo rapirei presidenti, fossi dente cariato distruggerei
professori, fossi ora non mi vedrei, fossi reo abolirei la
pena di morte, fossi fossa mi recherei al comune, fossi una
“comune” mi moltiplicherei, fossi plico giungerei a
destinazione, fossi giunta emanerei leggi per giungere a
destinazione in orario. A Sutri il tufo è come tifo nello
stadio di Latina. A Napoli la bellezza è in ostaggio
all’Anonima Sequestri. A Milano le ragazze non indossano
reggiseno. A Torino usano bene la bocca. In Svizzera i
ghiaccioli non si sciolgono. A Praga si prega, si beve, si
paga e si vede la figa. A Ischia è sempre carnevale. A
Civita di Bagnoreggio le vecchie sono gentili ma chiedono
denaro. Ad Orvieto i cinesi sono tristi. A Viterbo sud di
notte si potrebbero girare b-movie horror con tanto di
nebbia e tette gratis. In Sardegna il sole è troppo
piccolo. In Puglia la salsedine pranza con gli abitanti. a
Roma i cinesi fotografano senzatetto e rovine. A Casalnuovo
c’è la tassa sulla polvere. A Vinovo gli estranei ti
sorridono. A Codogno parlano un dialetto che non si capisce
un cazzo. A Latina si scrivono una marea di cazzate
incomprensibili, ma la gente vota lo stesso la destra, per
poi essere dolorante quando si siede. In esclusiva per gli
abbonati di ciak ritira in edicola il dvd del capolavoro di
Truffaut LA CALDA AMANTE. In esclusiva per gli abbonati di
ciak ritira in edicola il dvd del capolavoro di Truffaut
L’ULTIMO METRO’. In esclusiva per gli abbonati di ciak
ritira in edicola il dvd del capolavoro di Truffaut TIRATE
SUL PIANISTA. In esclusiva per gli abbonati di ciak ritira
in edicola il dvd del capolavoro di Truffaut LA SIGNORA
DELLA PORTA ACCANTO. In esclusiva per gli abbonati di ciak
ritira in edicola il dvd del capolavoro di Truffaut JULES E
JIM. In esclusiva per gli abbonati di ciak ritira in
edicola il dvd del capolavoro di Truffaut MICA SCEMA LA
RAGAZZA. Solo 8 euro, vale 1 euro e 90 di sconto. Il
Capolavoro. Il cApolavoro. Il caPolavoro. Il capOlavoro. Il
capoLavoro. Il capolAvoro. Il capolaVoro. Il capolavOro. Il
capolavoRo. Il capolavorO. Il capo lavora con capo firmato,
ma in realtà per lavoro firma solo in basso a destra.
E solo quando osservi e non vedi i suoi occhi lucidi,
rivolti in basso verso il ceco della birra di un pub in
legno scuro, ti stupisci della fortuna dei credenti e degli
atei. Tutta al cinema appassionatamente a vedere la
passione e tifare la Roma “Anvedi il corpo de Cristo…
anvedi er sangue de Cristo! Forza ROMAAA!” tutti da
Superciccio con le bombe prese a Madrid. Ma purtroppo
arriva la primavera, arriva in ritardo come tutto o quasi,
ma arriva dal binario 33 e porta un carico di ricordi
osceni, scaduti e candidi…
AAAAAHHHHHHHHHHHHAAAHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!dormo di notte
due ore con la condizionale, distillo il cherosene,
installo internet explorer illudendomi di sopravvivere,
bombardo ostaggi iracheni, assaggio secrezioni vaginali,
prego cani senza coda, idolatro simboli fallici, brucio
libri della Fallaci, creo isole felici, invento amici,
violento mici, mi nutro di cazzate intellettuali,
disoriento le mie convinzioni, distruggo libertà ipocrite,
santifico i miei calzini, sputo in faccia al pubblico,
piscio in bocca alla croce, scopo due volte al giorno con
chi amo e una volta da solo, mi ubriaco di aria, osservo
poesie altrui, stimolo la noia, esalto la mia persona,
stringo la mano ad anarchici, mi spavento dei corpi altrui,
m’incazzo con la sinistra, m’incazzo con la destra, vorrei
abbracciare Tiziana, vorrei dimenticare le pillole tonde,
vorrei cd pornosemiotici negli scaffali di storia dell’arte
della libreria le Nuvole, LIBRERIE DI TUTTO IL MONDO…
SUICIDATEVI! vorrei metabolizzare le emozioni, vorrei
scrivere poesie che trattano di mare, rondini e acqua santa
del Papa, vorrei conoscere il significato, vorrei abolire
la primavera, vorrei abolire la PRIMAVERA, VORREI ABOLIRE
LA PRIMAVERA, NUOVA LEGGE DI GOVERNO: ABOLIZIONE DELLA
PRIMAVERA! (non ci sono più le mezze stagioni, si stava
meglio quando si stava peggio, a Roma non si trova un
parcheggio cfr. IN PRINCIPIO ERA IL TRIO) ma la primavera
giunge con il suo carico di ripetizioni e tormenti…
Ore sette occhi luce fioca fiocchi pinoficca – pasticca
divisa– rilasso rilasso colazione latte marmellata patatine
pizza aranciata pasta avanza attendo le 8 per pasticca
televisione leggo interrompo televisione 7 e mezza feci
viso scrivo 8 meno un quarto attendo le 8 per EN 03 urla
mute pianti urla silenzi sguardi tele 8 pasticca rilasso
vagabondaggio alcool 10 gocce tarlo picchio lontra pensiero
picchio specchio tele musica immagini elefante tre gambe
scrivo 9 puzza merda sudore picchio urla poesia lettura
interrompo 10 meno un quarto vocabolari sinonimi contrari
10 gocce rilasso rilasso dimenticare amplificare
dimenticare bramare sbranare mangiare dormire dimenticare
rilasso tela mare spiaggia piedi passi senza movimenti
passi di libri passi senza movimento testa in avanti cibo
carote pane piscia gialla scura alle 12 pasticca quando
arrivano le 12 quando arrivano quando arrivano le dodici
non arrivano sono io che devo avvicinarmi senza muovermi
senza azioni testa bassa collo ricurvo collo nudo unto
piedi al terreno pigiama uscire trombetta 11 arancio banana
frutta freddo caldo tepore freddo gelo gelo coperta vene
gonfie 12 meno 20 quando si giunge alle 12 dipende dipendo
io dipendo chiedo non chiedo bramo non bramo essere non
essere letture televisione pianti lacrima urla stronzi
rabbia sangue ipocrisia nervi fuori controllo urla teatro
arte libri dimenticare dimenticare fiori emozioni emozioni
sensazioni dormienti lavaggio auto 12 meno 5 quando
arriviamo alle 12 spenderò i 5 minuti pensando che potrei
anticipare l’ingoio della pasticca delle 12 meno 3 ancora 2
meno 2 ancora 1 meno 1 ingoio gola secca acqua grande
zerocinque zerocinque rilasso rilasso dormo occhi caldi
caldi di legna di camino bruciore intercostale testa
nevrotica nevrosi telefonare a lei televisione aminoacidi
arancia pesca estate mare torrenziale tempesta di fine
autunno archiviare scrivere scrivere scrivere scrivere
scrivere scrivere leggere dimenticare scrivere scrivere
piaceri cibo pasta olio formaggio pane mela acqua pianto
fumo pianto pianto lacrime urla pianto urla vove AAA pianto
calci smetto astinenza pianto astinenza ragione di vita
ragione pianto scrivere scrivere cervello astinenza calci
sulla parete testa sulla parete sangue sulla pare calci
alla porta serratura calci dolore anestetico dipendo
dipendo astinenza pianto fumo pianto le gocce le gocce
pasticca non è ora ora non vedo l’ora demonio visione di
mi
masturbo non raggiungo mi masturbo spranga su vetro sangue
dal cazzo sangue dal culo astinenza dolore di ago rovente
in intestini tenue sangue dal culo merda liquida dal culo
addormentato gambe calde fredde fredde dormono in simbiosi
passi nel cervello cinema film scrivere scrivere la
primavera pasticca bianca rilasso rilasso merda sonno dormo
dormo dormo dormo dormo dormire sogni senza sonno dormire
sonni senza sogni dormire sudore calore caldo tepore
inferno sudore puzza puzza fastidio luce occhi caldi gonfi
testa termosifone acceso 28 gradi oso orso oso oso orso
abbandono dondolare occhi in terra trascinare i pensieri ed
i capelli unti gocce trasparenti a breve bere gocce
trasparenti bere deglutire rilasso rilasso auto trasportato
autonomia in galera autonomia in galera autonomia in
prigione autonomia in cella con cesso senza scarico
lombrichi lombrichi su brace lombrichi ancora vivi su brace
devo vederla voglio vederla desidero vederla parlare con
lei parlare con lei è lei è lei è lei la salvezza
è lei la
salvezza terrena è lei la salvezza momentanea e futura è
lei mi avvicino a lei vedo lei mi avvicino a lei bellissima
è lei stupenda è lei viola è lei mi aiuterà
solo lei è lei
davanti a me è lei “…buongiorno… dottoressa…”
e lei
incrocia le dita ed avanza il busto: altruismo mascherato
da ipocrisia… ed il carnevale è terminato tre giorni fa…
Ringrazio ancora Andrea Coffami (in questi giorni è felice
perché il teatro Belli di Roma ha selezionato un suo
monologo teatrale) e Giuseppe Nogale (tutto si aggiusterà
tranquillo)

Avevo vent’anni e avevo paura. Ora non ne ho più, ora
sono invincibile. Ora che non è più.
Intorno a me c’è il silenzio, raggrumato, denso, rosso.
Silenzio che devasta. Silenzio che dispera.
Rimane sul volto un’espressione dolente. Non ho potuto evitarla.
Ma durante ho sempre sorriso. Cosa mi tratteneva da? Terrore.
Quel giorno decisi il mio tempo, ne feci la mia proprietà, lo
ridussi all’infinito, lo sparpagliai come fa un cieco col suo
sguardo. Quello sguardo che non ha meta né estensione né
fede, non conosce disperazione, non pronuncia verità, non contempla
le circostanze. E’ semplice Eterno. Lo sguardo reale è
quello che guarda dentro, quello che cantilena il dolore che ci appartiene
e che comunque ci incanta.
Perché la gioia è così distante dall’attrazione?
Perché l’esistenza ci distrae dalla serenità?
Mi somigliavo giorno dopo giorno. Mi rimanevo fedele. La mia coscienza
adombrata si ripiegava. Contorcendosi tra sé e sé, invece
di moltiplicarsi, si restringeva, si lasciava risucchiare dalle ore
torbide della mia inappetenza. Osservavo gli altri desiderandone la
tragicità. Osservavo quei luoghi mistici di inafferrabile disgusto,
quel patibolo di insospettabile immortalità, e li rinchiudevo
nella mia avversione.
Ora diranno che fossi IO il pazzo, perché non hanno altro che
la follia per spiegare un atto illegale. Il mio crimine per loro è
un atto sovversivo e dissidente. Ho turbato il comprensibile, ho disturbato
l’ovvietà. Ero folle, diranno. Ecco perché.
Perché quando una cosa addolora occorre scovare un perché
di cui potersi armare?
Il loro mio perché sarà? Delusione d’amore, diranno.
Tradimento. Certo, tradimento. Eppure, sembrava una persona così
per bene, un ragazzo tranquillo, NORMALE. Forse solo un po’ introverso.
Nessuno avrebbe mai potuto immaginarselo. Chissà se i familiari
si erano accorti che! E’ colpa dei genitori. Poveretti, era l’unico
figlio. I giovani d’oggi hanno troppo. Ai miei tempi, invece.
Sono sempre insoddisfatti. Bisognerebbe imparare a dirgli NO, ogni tanto.
Mi sembrava un po’ strano ultimamente. Forse si drogava. Sicuramente
si drogava.
CHE L’ULTIMA PAROLA POSSA ESSERE LA MIA, CAZZO!
DISPERATE, BALORDI, PERCHE’ NON C’E’ UN PERCHE’!
DISPERATE, PERCHE’ NON SONO STATO TRADITO, NE’ MI DROGAVO,
NE’…
E’ inutile. La mia esistenza…ancora impastata da mani estranee.
Volete che io vi spieghi?
Volete che io vi dica?
Avrebbe almeno potuto lasciare una lettera…
E invece vi lascio il mio silenzio. Quel silenzio che vi devasta e vi
fa disperare. Avreste potuto ascoltarmi prima. Avreste potuto molto,
prima. Avreste potuto tutto. Ora, invece, siete inermi. Ora ho manomesso
l’ingranaggio della rassegnazione. Sappiate solo che ho sorriso,
fino a un istante prima. Quel ghigno dolente che ora mi segna il volto
è la condanna dei vostri perché. Lasciate che io possa
scegliere di schiantare la mia rabbia contro le vostre inutili domande.
Evitate di trascinarmi nella vostra ovvietà. Lasciate che a spiegarmi
sia l’atto, non la parola. Sappiate solo che ho sorriso, fino
a un istante prima di schiantarmi a terra. Sappiate solo che ho sorriso.
(from the music of Craig Armstrong, track n.6)
Plurale per vergogna e scialle rosso
- Ninin vuoi fare il pisolino, dai allungati sul divano . L’ aria
e’ umida stellina, copriti con lo scialle rosso che ti avevo fatto
all’ uncinetto , non ti puoi ricordare ma quante bizze avevi messo
in atto per ottenerlo quando a carnevale ti avevamo mascherata da gitana,
ricciolina cocciuta. –
- Nonna , ti ricordi Porco de Porchi , sembrava così elegante
, un signore d’altri tempi dicevi,
l’avevamo incontrato quando passeggiavamo sulla spiaggia d’inverno
e poi si faceva vedere di frequente. Aveva la mania dei regali, sete
che arrivavano da paesi lontani , aveva regalato alla mamma un kimono
colorato che era un incanto. Diceva sempre che si sentiva così
solo
e che eravamo una bella famiglia.
Lo trovavi infinitamente colto ,avevi subito un sortilegio e parlavi
con lui per ore dei suoi viaggi e dei tanti luoghi che aveva abitato
mentre noi giocavamo con i cani.
In estate si era presentato in campagna , allora non passavano tante
macchine e bastava mettersi chinati giù con l’orecchio
sull’asfalto caldo e si poteva udire in lontananza il brusio delle
vetture in arrivo che risalivano le curve della stretta vallata . Noi
eravamo abituate a saltare di fascia in fascia agili e leggere ed eravamo
risalite sul costone da dove si dominava il paesaggio vicino alla chiesetta
di S. Antonio e lo avevamo atteso dall’alto confabulando i ns.
piani segreti. A noi nonnina cara non piaceva , infatti lo chiamavamo
già con quel epiteto,aveva dei modi di avvicinarti che ti facevano
ribrezzo, cercava di toccarti in tutti i modi quando non era osservato,
anche se le mie sorelline ed io riuscivamo sempre a svincolarci come
anguille, per giunta deridendolo . Si era portato la macchina fotografica
e ci aveva fatto salire sul ciliegio a raccogliere quei duroni maturi
e aveva detto sottovoce di alzarci i pantaloncini e far vedere bene
le gambe come le attrici del cinema . Sai ,ai tempi non ci era del tutto
chiaro il suo proposito ma avevamo capito che era da combattere come
un nemico ed ogni arma era lecita.Unite avevamo focalizzato nella macchina
bianca e luccicante la ns. prima rappresaglia , prima delle righe zigrinate
aiutate da chiodi arrugginiti trovati in cantina e poi il tubo di scappamento
, quella cavità metallica che sembrava essere in attesa di ricevere
ogni sorta di oggetto con il permesso del suo diametro. Patate novelle
, mi sembra di ricordare, erba e pietre , quello era stato il ns. primo
ripieno confezionato mentre era in cucina con te a discutere di quando
abitava a Roma davanti ad un caffè fumante che gli avresti tirato
in viso se solo avessi sospettato le sue sordide mire.
Non e’ accaduto nulla di grave per fortuna , ma mettersi contro
delle piccole teppiste era da stolto nonna , avevamo parlato e voi grandi
fortunatamente non avevate messo in dubbio le parole a lungo meditate
e dopo era sparito, volatilizzato. Ho da qualche parte quel quadretto
che mi aveva regalato , “ ragazzi di borgata che giocano a pallone”
mi aveva detto di tenerlo che sarebbe diventato di valore, l’
ho ancora con me e di quelli come lui ne ho incontrato altri ma non
ho mai avuto paura, solo ripugnanza e pena .-

…e la stradale l’ha beccato mentre stava impennando col
motorino?
Sì, come al solito faceva “o’ tuosto” e invece
s’è ammosciato come il cazzo di mio nonno.
Mio nonno diceva che ai tempi suoi stava sempre con un cazzo grosso
così mentre adesso sta sempre con papà a guardare i programmi
di Maurizio Costanzo che parlano di impotenza.
A me fa schifo…
Chi, papà o mio nonno?
Nooo, Costanzo! Magari, invece di stare per strada senza lavoro, potremmo
pensare di rapirlo e fare qualche lira.
E quando lo riesci ad avvicinare?!! Quello tiene 30-40 guardie del corpo!
Ci vorrebbe uno pieno di soldi come lui e che ci fa pure schifo, ma
senza sorveglianza.
Comunque mi stavi dicendo di Toshi, che l’ha beccato la stradale…
Ah sì, Toshi… Cazzo! Pensaci un attimo: Toshi!!!
Un giapponese che vive di rendita qui con la scusa che studia architettura
alla facoltà di Napoli.
Ma l’università in Giappone non la tiene?
Aspè, statti zitto, è figlio di un grande architetto di
Tokyo, a me sta pure nu poco n’gopp’ a o’ cazzo: ecco
chi possiamo sequestrare!
Stiamo coperti perché nun conosce manco o’ kung fu, dice
che alle nuove generazioni non gli passa manco per la capa di fare arti
marziali!
Ci sono andato a bere una birra con altri 2-3 sfasolati, diceva che
è figlio unico, immagina un po’. Naturalmente ha pagato
lui.
Azz, e perché nun m’hai chiamato pure a me? Mi facevo primo,
secondo, frutta e dolce.
Strùnz’, era un pub, al massimo ti prendevi un panino…
Me ne prendevo tre!
Ma secondo te come lo possiamo sequestrare? Quello ci riconosce.
Ci mettiamo una calza in testa come nei film, la pistola finta si rimedia.
E la macchina?
La 127 di mio padre, lui non l’ha mai vista.
Come scriviamo la lettera al padre? Mica sappiamo scrivere giapponese...
Gli registriamo la voce mentre chiede al padre il riscatto: “altrimenti
mi uccidono”, deve dire. Deve dirlo con paura. Poi faccio un mp3
e lo spedisco alla casella e-mail del padre. La moderna tecnologia aiuta
il crimine.
Ma lo vuoi uccidere veramente?
Ma no, tanto il padre paga sicuro. Al massimo qualche schiaffo.
Lo rapiamo domani sera quando torna dai soliti giri nei locali.
Cazz’, sono le 2 e questo non torna, tuo padre lo poteva mettere
il riscaldamento in questa macchina…
Giggi’, questa è una 127, è quasi antiquariato e
tu vuoi il riscaldamento?
E poi puzza di gas…
L’impianto è vecchio, cè una perdita, ma basta tenere
aperti i finestrini e non si accumula.
Oh-oh-oh eccolo, guarda dint’o specchietto: è lui, jamme
Giggi’, e coraggio, pensa a una bella spiaggia…
Rimini?
Macché Rimini! Strùnz’, una spiaggia tropicale,
jamme va!
Mani in alto, sali in macchina.
Non fate male, ho soldi per voi qui…
Sssst, fai silenzio e sali! Vai!
Portalo dentro la baracca.
Siediti qui, resta calmo e non ti faccio niente. Adesso devi fare un
comunicato per la tua famiglia, digli che devono pagare se ti vogliono
rivedere, digli di preparare 500000 euro: euro, non yen.
Ci rimetteremo in contatto con loro al più presto e gli diremo
dove spedire i contanti.
E dammi l’indirizzo e-mail di tuo padre, come si chiama tuo padre?
Sanshiro Sawa…
San Ciro??? …e che cazz’ e nome è?
Zitto strùnz’, andiamo e chiudi bene il catenaccio.
Mamma mia, che bella figura, Toni’, sembravi un rapitore professionista:
“ci rimetteremo in contatto con loro… Si sarà cacato
sotto dalla paura.
Certo che la lingua giapponese nun se capisce manco ‘na parola…
Mi è bastato sentire come gli tremava la voce mentre incideva
il messaggio, il padre pagherà subito.
Ora vado a fare il trasferimento nel computer di mia sorella e poi spedisco
tutto a Tokyo da un internet point.
Tu accertati che non tenti di scappare e dagli da mangiare tra 2 ore.
Ok, capo!
…Giggi’
Sì?...
Si’ completamente strùnz’!
Pronto, ispettore Katsumoto? Sono l’architetto Sawa.
Ho ricevuto un file audio dall’Italia con la voce di mio figlio.
E’ stato rapito, dice di aver riconosciuto entrambi i rapitori,
suoi conoscenti di Napoli.
Non fa i nomi dei due ma dà i loro numeri di telefono. Sarà
facile attraverso il consolato italiano rintracciare questi delinquenti.
Grazie, le rigiro la mail. Mi tenga informato.
Buongiorno. Click.
e-mail: services@xxxxx.com
oggetto: eliminazione parassiti
Egregio Dottor Chang.
2 dei suoi assistenti devono raggiungere immediatamente l’Italia
e disinfestare casa di mio figlio da 2 noiosi parassiti..
Troverete nel file allegato, come al solito criptati, i dati per raggiungere
il luogo. Verserò le sue commissioni sul solito conto.
Grazie, buon lavoro. S.S.
Toni’, stavo pensando ad una lunga vacanza a Rimini…
Giggi’, dobbiamo andare fuori dall’Italia, lontano, via.
Magari ci compriamo un chiosco in Brasile e vendiamo il cocco ai turisti,
in pantaloncini per tutta la vita.
Toni’, io il cocco lo vendevo fino a 2 anni fa proprio sulla spiaggia
di Rimini…
Giggi’, sono sfiancato, andiamocene a dormire, sono 2 giorni che
stiamo facendo i carcerieri.
E questo lo lasciamo qui da solo?
Hai visto che porta di ferro? Stai tranquillo, ci vediamo qui domani
mattina.
Vrrrrrr….vrrrrrrrrr…vrrrrrrrr….vrrrrrrrr
Pronto?
Toni’, so’ Giggino, non so che è successo ma qui
a casa sta tutto sotto sopra.
Embè, sei disordinato e che vuoi da me?
No, hanno rovistato per tutta la casa e non trovo mammà e pap…
E chiama la polizia, no, …no aspè che dico?…La polizia
no!
Stanno tutti i vetri delle finestre scassati. Hai presente quell’armadio
di mio nonno in ciliegio?
Quello che pare una tomba egizia?
Esatto, dentro l’armadio ci sta infilata come una stelletta di
acciaio, tipo quelle dei ninja del videogioco che sta nel bar. Toni’,
io mi metto appaura.
Esci subito e ci vediamo dove sai tu.
Porco cazzo e questi mo’ verranno a cercare anche me…
Apri quella cazzo di porta, devo parlare con Toshi, fa ambressa, muoviti…
Che ha combinato tuo padre? Che sta succedendo? Abbiamo trovato la casa
tutta rovistata, c’era questa in un armadio…
Mi dispiace, mio padre ha rintracciato voi, non so come, ha inviato
dei sicari ninja da Giappone.
Loro missione è uccidervi, vostra unica maniera di salvare è
liberare.
Madonna mia, Toni’, e mo che facciamo?
Abbassa la voce, non fargli sentire. Allora, adesso entriamo e io gli
mollo uno schiaffo e faccio il violento, magari si spaventa e trova
il modo di fermare questi killer…che cazzo ne so, Giggi’,
improvvisiamo.
Come facciamo a fermare questi ninja? Parla o ti ammazzo!
Sciaff! Thud!
Toni’, ha battuto la testa… sta perdendo sangue…
Ma che cazz ‘e sfortuna!
Io sono così sfortunato che, se mi cade il cazzo, rimbalza e
mi va a culo!
Portiamolo in ospedale, questo muore...
Prendilo per i piedi, gira di là, esci…
Cazzo, eccoli là, ci hanno trovati… e mo’????
State indietro, gli ho già spaccato la testa, se vi avvicinate
gli sparo…
Toni’, e se non capiscono l’italiano? Sono giapponesi, che
brutte facce che tengono....
Capiscono, capiscono, non vedi che si sono fermati?
Prendiamoci la loro motocicletta, andremo più veloce.
Dacci le chiavi della moto o lo ammazzo!
Toni’, andiamo in tre? Questo pesa…
Ci serve l’ostaggio. Vai, vai, metti in moto, lo reggo io.
Stanno prendendo la macchina di tuo padre per inseguirci…
Vabbuò, faranno i 60 all’ora…
KA-BOOM!
Gesù, Giuseppe e Maria, è zumpata a machina in aria.
Maronn’ a machina e pap…l’impianto a gas... ma avevi
chiuso i finestrini?
E qua in campagna entravano i grilli… mi fanno schifo...
Lasciamo questo a terra davanti a un ospedale e jammece a piglià
il primo aereo. Scuordete l’Italia, Giggi’!
FINE

Quella
sera Micky era uscito da solo. Come sempre.
Era andato al Qube a sentire uno di quei gruppi tedeschi che suonano
E.B.M.
Musica per pochi: suoni estremi, atmosfere decadenti, tanto “nero”,
tanta “notte” e non solo perché lo indicava l’ora.
Il buio, come dire… si respirava.
Le ragazze erano molto belle, esili, quasi tutte more e dagli occhi
spietati. Poi però incontravano qualcuno, un amico, un’amica,
gli scappavano dei sorrisi e ci si accorgeva che erano solo delle maschere
molto belle.
A mezzanotte eccoli arrivare sul palco, puntuali come se fossero appena
usciti dalle pagine di un racconto di Henry James.
Erano in quattro, ma il cantante con la sua sola presenza sembrava personificare
tre dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse: Fame, Malattia e Morte.
Il busto, completamente scoperto, mostrava delle impronte. Manate nere.
Ovunque. In tutto quel corpo fatto di pelle ossa e poca carne: sul petto,
sulle braccia, sul dorso. Anche in faccia, come se si fosse accarezzato
gli occhi con le mani sporche d’inchiostro.
Quel giullare maledetto alla fine del concerto cantò Gottes Todd.
Si appese ad una grossa croce di ferro marcio e rimase crocefisso per
un quarto d’ora sputando verso l’alto con gli occhi rigirati
all’indietro: stava cantando la sua “morte di Dio”.
Era evidente a chi erano indirizzati quegli sputi: tra il pubblico si
avvertiva un’insana soddisfazione per quei “gesti”.
Micky provava fastidio… ma si chiedeva quanto tempo sarebbe passato
ancora prima di diventare come loro. Forse avevano ragione.
Dio era andato via. Si era dimenticato dell’uomo.
Dio era assente.
Dio era morto.
Al ritorno da quel concerto si fermò in un Irish Pub.
Nonostante l’ora tarda, lo Shannon sembrava un tappeto umano.
Normale, nel giorno di San Patrizio.
Forse ci voleva un po’ di folk irlandese dopo un concerto così
nero.
Appena entrato in quel locale focalizzò l’attenzione sul
chitarrista e la cantante che stavano improvvisando Crazy man Michael.
Lei era una bella donna, dal look non appariscente, ma dalla voce angelica
ed i movimenti molto pacati. Non poteva passare inosservata.
Lui, un uomo di circa quarant’anni, goffo e grasso. Stava suonando
seduto su una sedia a rotelle. Era sempre sorridente. Da quel sorriso
lasciava trapelare una grande umanità: era il sorriso di chi,
dopo tanto dolore e sofferenza, aveva raggiunto finalmente la pace.
Micky si accorse subito che stavano insieme...a vederli provò
quasi una sensazione di benessere.
<<Secondo me se la scopa…>>
<<Ma chi? Quel maiale in carrozzella?>>
Non potè proprio fare a meno di sentirle, quelle due teste rasate.
Stavano in piedi bevendo le loro birre proprio accanto a Micky, intenti
a sfoggiare i loro bei tatuaggi: celtiche, ragnatele, elmi. L’avambraccio
del più corpulento minacciava “Jiudas sterben muss und
sterben wird”, e non era necessario conoscere il tedesco per capirne
il significato.
Iniziarono tutta una serie di battute che schernivano zingari, ebrei
e negri.
Su questi ultimi diedero il meglio.
<<Sai quanto ci mette una negra a buttare la spazzatura?>>
<<Spara! Quanto ci mette?>>
<<…nove mesi.>>
Ridevano a crepapelle. Ridevano tutta la merda della loro vita.
Micky non capì più nulla. Non sentiva più la musica.
Solo le urla di quei balordi.
E si immaginò Erika tra di loro, quel fiore nero che ormai non
c’era più perché era stato reciso nel modo più
inaspettato e brutale. La vedeva lì, mentre piangeva delle loro
battute.
Allora afferrò la sua pinta con quanta forza aveva e colpì
il più vicino in faccia trasformandola in una maschera di sangue.
Quella maschera si afflosciò sul tavolo. E poi tutto nero. Solo
dei rivoli rossi sul legno che disegnavano figure, cifre…. 4…51….
Micky si svegliò in un soprassalto di paura.
Nel buio i numeri rossi della sveglia indicavano le 04:51.
Un incubo. Un altro maledetto incubo…
***
Micky ha l’età di Cristo: è alto, magro, ha i capelli
lunghi, neri, gli occhi cerulei.
Micky non ride quasi mai. Se lo fa è soltanto perché gli
capita di farlo. Ogni tanto mostra un sorriso amaro, ma non riesce a
fare di meglio. Tutti se ne accorgono che Micky è diverso dagli
altri, eppure nessuno si è mai chiesto il perché di quell’ombra
costantemente presente nei suoi occhi, nessuno si è mai chiesto
il perché della sua malinconia. Un giorno qualcuno disse che
la sua tristezza sembrava arrivare da un altro tempo e da altre vite,
ma il perché di quello sguardo antico… quello no, nessuno
se l’é mai chiesto.
Micky ha solo un amico: un diario dove appunta tutti i suoi sogni. Quelli
belli. Quelli brutti. Gli incubi. E anche quelli “astrali”,
quei sogni in cui l’anima sembra distaccarsi dal corpo per poi
viaggiare chissà dove.
L’ultima volta che ne aveva fatto uno, aveva sognato la fine del
tempo.
Uno scenario biblico, apocalittico: cieli neri, venti tempestosi, mari
in burrasca…
Lui era in cielo, in compagnia di un vecchio dalla lunga barba bianca:
quel vecchio sembrava l’immagine classica del dio, così
come la vede la fantasia innocente e pura di un fanciullo.
Ma non era Dio. Era un profeta.
Il cielo era nero e grigio, ma si distinguevano benissimo quattro colonne
di aria bianca e vorticosa che delimitavano una sorta di baldacchino.
Era lì che si trovava, immobile… sospeso nel vuoto.
I venti, fortissimi, facevano sbattere violentemente contro le vesti
i loro lunghi capelli.
Il profeta aveva una tunica a strisce di tipo ebraico; con un lungo
bastone di legno gli indicava i quattro punti cardinali. I primi tre
glieli mostrò semplicemente, senza aggiungere nulla; poi si volse
a destra, gridando con voce sapiente: <<E ora guarda: l’Est!!>>.
Anche se lo scenario era catastrofico, Micky non aveva paura di quella
fine del mondo.
Micky non era vittima della fine.
Micky era… giudice della fine: lui ed il vecchio erano gli unici
a vedere la fine della Storia.
Era in alto, molto in alto... al di sopra di tutti… si sentiva
così potente, in quel sogno!
Forse è questo il più grande peccato di Micky: giudicare.
Non solo nei sogni. Anche nella vita.
Uno strano modo di giudicare, il suo, sospeso tra orgoglio ed umiltà.
La gente ha paura di lui, teme i suoi occhi, teme le sue parole, teme
i suoi silenzi.
E tutto questo ha il suo enorme prezzo: la solitudine…
Dopo la morte di Erika, era solito trascorrere interi pomeriggi al cimitero
inglese, dietro la piramide Cestia. Avvertiva la magia e la pace assoluta
di quel luogo. Stare lì gli faceva bene.
Spesso se ne stava seduto su una panchina a leggere un libro: ogni tanto
alzava lo sguardo per vedere i gatti che si rincorrevano tra gli alberi
e le lapidi.
Alcuni facevano l’amore. Chissà quante vite erano state
concepite tra quelle ceneri!
Ad uno di essi aveva dato persino un nome: Persifal. Come il cavaliere
che trovò il Santo Graal.
Era un gattone nero e pasciuto, che a differenza degli altri non mostrava
alcun timore: si faceva prendere in braccio, si lasciava accarezzare;
alcune volte, quando portava con sé qualcosa da mangiare, lo
seguiva nelle sue passeggiate. Lo faceva per ingordigia o magari proprio
per riconoscenza.
Era bello camminare tra quelle tombe.
Era vero: c’erano tanto dolore e tante lacrime. Ma non solo. C’era
anche l’Amore.
Chi ha detto che non esiste l’Amore eterno? Eccolo lì,
in quelle statue, in quei nudi così sensuali, in quegli angeli
piangenti, in quelle dediche così disperate, ma così immensamente
pure….
Elisabeth Mary Wegener 1902-1930
Ella passò
da un dolce sogno d’amore
alla vita degli angeli
In memory of Martin Le Mesurier Manson 1915-1977
So long for a while
and than until
the end of time
I find you somewhere
on a star
Alla memoria di Annabel Benjamin 1812-1857
In questi silenzi in cui
le cose si abbandonano
ripenso il tuo sorriso
ed è per me acqua limpida
Rebecca Wilson 1861-1870
Come una cometa che
attraversa il cielo stellato
sei andata via troppo presto,Angelo mio…
L’Amore era lì. I gatti se n’erano
accorti.
Non era dei morti di cui bisognava aver paura. Ma dei vivi….
***
Non era tra i migliori il periodo in cui Micky sognava di profeti,
giudici ed apocalissi…
Non aveva un lavoro fisso: se gli andava bene ogni tanto lo venivano
a chiamare dal negozio di strumenti musicali che si trovava dietro l’angolo.
Per una decina di euro dava una mano a caricare un pianoforte sul camioncino,
o a consegnarlo direttamente al proprietario. Per poco di più
si metteva a disposizione di tutti quei gruppi che affittavano la strumentazione
(amplificatori, microfoni, mixer, ecc…), seguiva le band per tutta
la serata: saliva sul palco, caricava, scaricava, aiutava a fare il
sound check. Stressante, sì! Ma aveva un buon pasto assicurato,
cosa non frequentissima. E se i musicisti erano simpatici, spesso gli
allungavano qualche birra.
Altre volte lavorava come manovale in un vecchio deposito delle ferrovie:
su quei binari non passava un treno da decenni. Eppure gli piaceva l’odore
del ferro arrugginito: gli dava una sensazione di romantica ed affascinante
decadenza.
Questi erano i lavori che faceva per sbarcare il lunario.
Ma non erano tanto i soldi, il suo problema. Dopotutto di quelli gliene
importava ben poco.
La solitudine di una volta si era trasformata in isolamento: Micky ormai
non comunicava più con nessuno. Si sentiva troppo elevato per
questo: le persone che gli suscitavano ancora un po’ d’interesse
erano rimaste in poche.
Con il padre non aveva mai parlato. Non l’odiava, ma l’aveva
visto sempre troppo impegnato ad abbracciarsi le bottiglie di vino per
considerarlo degno della sua attenzione.
Sua madre si avvicinava a diventare una donna anziana: da tempo delusa
della vita, si era rifugiata in quella che lei chiamava “Fede”.
Il rosario che aveva tra le mani ormai era diventato parte integrante
del suo corpo. Troppo difficile anche comunicare con lei.
Erano mesi che ormai non andava più a trovarli.
E perché sarebbe dovuto andare in quella casa, poi? per dirgli
cosa?
Troppi ricordi insani.
Suo nonno che, quando aveva undici anni, una sera lo incatenò
a tavola per non essersi fatto il segno della croce “come tutti
i cristiani”.
Suo zio. Le sue “carezze”…
Le urla dei genitori, che avevano sempre litigato, dal giorno in cui
Micky era nato al giorno in cui se n’era andato via di casa.
E poi i soprusi dei bambini più grandi di lui, che erano così…così
cattivi!
No! Ormai quella casa non aveva più nulla a che fare con la sua
vita.
Preferiva spezzarsi la schiena caricando pianoforti per pagarsi l’affitto
e vivere da solo in una topaia di monolocale con doccia, frigo, letto,
un tavolo, un cesso e nient’altro.
Preferiva sentire il fracasso che facevano i ragazzi del primo piano,
quattro jazzisti squattrinati che si ubriacavano ogni sera sognando
di suonare a New Orleans.
Preferiva sentire i sospiri di Erika, che si portava i clienti nell’appartamento
accanto al suo.
Erika. Sì…forse era l’unica ad avere uno spessore
umano degno d’interesse.
Mulatta, di origine anglo-nigeriana, era nota a tutti come “la
puttana di via Cavour”, perchè aveva cominciato a battere
il marciapiede nel centro della capitale, quando non era nemmeno ventenne,
poi, la svolta: il permesso di soggiorno, un appartamento in periferia,
e i clienti direttamente a casa, senza dover dipendere da nessuno.
Una strana puttana, Erika: adorava Debussy e i libri di Yoshimoto, i
quadri di Klimt e i film di Almodovar. Quando parlava sembrava tutto
tranne una puttana, eppure puttana lo era, visto che per stare con lei
si dovevano pagare 200 €…
I suoi clienti erano quasi tutti tra i 40 e i 50 anni. Micky si divertiva
a spiarli dalla finestra: gente importante, con la giacca, la cravatta,
la 24 ore. Alcuni avevano la faccia sudaticcia: dovevano essere quelli
che tenevano la foto della famiglia nel portafoglio e che magari andavano
alla messa tutte le “santedomeniche” a braccetto delle loro
signore. Erano quelli che finivano subito: entravano ed uscivano dal
palazzo in un tempo massimo di venti minuti. Altri avevano la faccia
da “squalo”: gente che odiava gli immigrati, ma che quando
si trattava di scopare pensava che nulla fosse meglio del culo di una
negra. E infine quelli dal portafoglio bello imbottito, che si fermavano
tutta la notte, pronti a sborsare fior di quattrini pur di usufruire
di quella prestazione.
Ma tutto questo a Micky non importava: lui era solo un semplice osservatore
delle cose, un po’ giudice, un po’ psicologo. Erika una
buona vicina di casa. Tutto qui.
Tra di loro c’era stata sempre una strana complicità.
<<Questa sera non ho alcuna voglia di lavorare>> gli disse
una volta: <<Ti va di stare un po’ da me? Ci facciamo due
chiacchiere, ci beviamo qualcosa. Ieri sera un cliente mi ha lasciato
una bottiglia di vodka nel congelatore. Ti piace la vodka al limone?>>.
Come dirle di no? Si presentò alla sua porta seminuda. Indossava
un accappatoio molto corto, aperto fino all’ombellico, alcune
gocce d’acqua le accarezzavano i seni. I capelli erano ancora
bagnati: lunghe treccine le sfioravano i fianchi. E poi due occhi neri
come l’ebano…
Parlarono tutta la notte, fino all’alba. Di film e di libri. Di
Amore, addirittura: quell’Amore che non fa pensare ad altro, che
fa scoppiare il cuore per la gioia e il dolore, quell’Amore che
prima ti fa toccare il cielo e che un istante dopo ti fa sprofondare
all’Inferno, che ti porta alla pazzia e che ti fa maledire Dio.
Erika era una prostituta, una “puttana di gran classe”,
se così si può dire; eppure sembrava saperne molto di
più rispetto a tanti altri.
E Micky? Cosa ne pensava dell’Amore?
Aveva amato solo due volte nella sua vita.
<<…un Demone e un Angelo…>> disse quella sera:
<< per loro ho attraversato le montagne e i fiumi, ho patito la
fame, il caldo e la sete…ogni mio pensiero, ogni mio gesto erano
dediche per quel demone, poesie per quel viso d’angelo. Ma quanto
costa l’Amore? Non ho più nulla …>>.
Chi era quell’uomo? Un bugiardo? O l’ultimo dei romantici?
Erika iniziò a fissare i suoi occhi e trovò la verità:
erano grigi e profondi come il mare d’inverno…e trasparenti,
così chiari che si potevano attraversare con lo sguardo e vedere
l’anima.
Era vero: negli occhi di Micky c’erano angeli e demoni, montagne,
foreste e fiumi. C’era l’uomo che vive, l’uomo che
soffre, l’uomo che ama, ma c’erano anche tanta fierezza
e tanto orgoglio.
Quell’uomo sapeva di saper amare. Forse per questo la gente ne
aveva paura.
Forse per questo Micky era solo.
La vodka era finita, ma non erano ubriachi, solo un po’ inebriati
dalla notte: la luna era gigantesca e splendente e i ragazzi del primo
piano stavano suonando divinamente le note di Autumn in New York. Lei
era dolce ed aveva un buon profumo, lui perse tutto d’un tratto
la sua malinconia.
Si sentivano così vicini.
…e arrivarono i sogni.
<<….chiudi gli occhi…>> disse la ragazza: <<…e
dimmi: cosa vedi?>>
<<Vedo te, in un tempo lontano mille anni. Hai una splendida veste.
Danzi sotto questa luna di fronte ad una moltitudine di gente. Tutti
ti applaudono e mi sorridi…e tu? Cosa vedi?>>
<<Anch’io vedo te: sei vestito da cavaliere… sei bellissimo,
e vittorioso… nella mano destra hai una grossa spada: è
rossa di sangue, nell’altra hai la testa di un potente drago.
Sei tu che l’hai ucciso. E la gente è felice…l’hai
liberata dal drago…c’è una gran festa…e io
danzo, danzo per te …e ora? Cosa stai vedendo?>>
<<Adesso vedo... vedo l’arcobaleno: non l’avevo mai
visto così da vicino…viene da me e mi dona i suoi sette
colori. Prendo un pennello e comincio a dipingere…>>
<<…cosa dipingi?>>
<<Dipingo te, bellissima, che esci nuda dalle acque di un mare
tropicale… e tu, invece? Cosa vedi adesso?>>
<<Vedo un tramonto…vedo una spiaggia stupenda…e un’isola…
no... tante isole…vedo la Polinesia…è lì che
mi trovo…e vedo te, da lontano con una tela di fronte…stai
dipingendo…>>
Il gioco continuò per ore, finchè si addormentarono l’una
nelle braccia dell’altro.
Come due fanciulli. Due anime pure.
Forse era questa la felicità: dimenticare la vita e sognare insieme
ad una persona che ti respira accanto. Solo una volta. Una notte.
Quella fu l’ultima volta in cui Micky vide Erika, “la puttana
di via Cavour”.
Due giorni dopo i giornali parlavano di una ragazza di colore, Erika
Anderson, di anni 30.
Il suo corpo venne trovato senza vita, sulle sponde del Tevere, a nord
di Roma. Un colpo d’arma da fuoco, dietro la nuca. Un’esecuzione.
“Un omicidio legato al mondo della prostituzione e alla malavita
locale”, questo era tutto quello che dicevano, non una riga di
più... in fondo a chi poteva interessare la morte di una prostituta?
Nessuno cercò la verità.
Quella mattina Erika aveva ricevuto una telefonata: un cliente, uno
sconosciuto, le chiedeva una “prestazione un po’ particolare”,
ma l’offerta era buona: poteva pagarsi quasi due mesi d’affitto.
Erika accettò. In fondo si trattava di farlo con due uomini;
in passato “la vita” le aveva regalato di peggio. Poche
ore dopo quella telefonata, si trovava dentro una Mercedes. C’erano
tre uomini: l’autista, giovane, e gli altri due sulla quarantina,
ben vestiti, con i Rolex d’oro, le borse in pelle e tutte quelle
robe lì…
Seduta dietro, tra quei due, cominciò subito a sottostare ai
loro giochetti erotici. Non le piaceva quella situazione, non le piacevano
quegli uomini. Avevano uno strano odore.
Era l’odore della morte…e lei non lo sapeva.
La portarono in una villa di lusso, all’EUR, nella Roma “bene”.
Per tutta la sera dovette sopportare le perversioni di quei mostri.
Alla fine uno dei due uscì, l’altro aprì una valigetta:
era piena di banconote, tutte mazzette da 500 €. Ne prese due e
gliele lanciò addosso.
<<Prendi!! sei stata brava…te le sei meritate…>>
Fu un lampo.
Una miriade di pensieri in una frazione di secondi.
“Ci saranno un sacco di milioni là dentro…di più…
e io sono stanca di questa vita, non la merito…
voglio andare via... voglio viaggiare. I tropici. La Polinesia. Micky…Dio,
quanto sono stata bene quella sera!!! nessuno mi aveva mai vista così,
come un essere umano... e quegli occhi!!!… i tuoi occhi…andiamo
via, Micky!!!!… andiamo via. Ma quale Demone? Ma quale Angelo?...io
sarò la tua Dea…sarò la tua fortuna…la tua
felicità...”.
Erika afferrò una statuetta di bronzo, sul comodino. Lo colpì
in fronte, un colpo secco: l’uomo cadde immediatamente, privo
di sensi. Lei prese la valigetta e corse verso le scale, ancora con
la statua sporca di sangue fra le mani. Gli altri due le vennero incontro,
li minacciò: <<State lontani!!! Io vi ammazzo!! Capito?
Vi ammazzo...>>
<<Ma cosa credi di fare?>> disse il più grande: <<
dove credi di andare? sei solo una lurida puttana…>>, l’afferrò
per i capelli, estrasse una pistola e sparò. Poi si rivolse a
quell’altro: <<Tony è ancora vivo?>>.
<<Sì…è solo un po’ stordito...>>
<<Bene…sbarazzati di questa cagna...e mi raccomando: deve
essere un lavoro pulito!!>>.
Le cose andarono così.

Fronde di canestrelli
armati e passamontagna sulla testa. Sognava. Notabili con scuri di ferro
arrugginito e acciaio pregiato per potenti. Sognava. E poi la decisione
di partire verso mari lontani che lo avrebbero rilassato, sottratto
da quelle mani rosse che lo volevano portare via, per sempre via dalla
sua vita in armonia con il vento e le correnti, via dal senso di pace
che si avverte dopo una tempesta nel mare dei tropici.
Ma la pace gli morì nel petto mentre la forza della sua coscienza
lo schiaffeggiò svegliandolo nel cuore della notte.
Si volse verso lo specchio e vide il suo viso, il viso dell’uomo
che si chiamava Angelo, il nocchiere, era lì. Fermo.
Al suo lato Susi ronfava come al solito e lui come sempre la guardò
schifato.
Erano momenti pesanti, quelli in cui un uomo ripensa alla cazzata che
ha fatto.
Alle tante che ha fatto.
Questo accadeva ogniqualvolta si ritrovava insonne in quella stanza,
con Susi che ronfava, e lui che non riusciva a non buttare fuori la
spazzatura, i maledetti pensieri e le brutte parole della sera precedente
quando per l’ennesima volta si era dovuto scontrare a testa bassa
contro sua moglie Antonia. Contro la sua saldezza morale, contro il
suo vigore di donna senza troppi aggettivi inutili. Contro colei che,
sebbene pareva minuta, riusciva a vivere i momenti difficili con un
coraggio straordinario e le cui parole fiondavano pesanti al bersaglio
come pugni di pietra sulla faccia.
E lui lì, immobile davanti allo specchio, colpevole di essere
fuggito ancora una volta, di non essere stato abbastanza forte, amaramente
in colpa per essersi ritrovato ancora una volta nel letto del solito
bordello, con accanto quella baldracca che nel sonno non smetteva mai
di russare. Puntualmente si rifugiava in quel luogo, anche se quella
donna non lo attirava più, ma forse non lo aveva mai attirato
veramente.
Si convinse di dover pensare ad altro.
Ma non ci riuscì. Seduto nel bordo del letto ripensò a
quando conobbe la sua Antonia, a quando decise di sposarla, ci aveva
pensato tante volte ma proprio in quegli istanti comprese che la percezione
del senso di una sconfitta non era tale.
Il matrimonio non doveva essere questo. Almeno per lei non era stato
così. Restava fedele alla sua scelta di amore e unione coniugale
e nonostante le difficoltà aveva sempre ostentato sicurezza.
Ma lui no, si sentiva oppresso, schiacciato dal senso di colpa per il
fatto di sapere quanto soffrisse nel silenzio quella donna, e poi le
paure di spingersi oltre, dove non era mai andato, verso un ideale di
felicità comune per il quale non sapeva bene come comportarsi.
Da quando era tornato non era riuscito a integrare la sua vita con quella
di Antonia, e si lasciava vivere dalla sua vita in quel modo, lasciava
che gli eventi passassero sulla sua pelle come il lascito delle stagioni
sulla terra.
Dimessa la sua divisa da marinaio impegnato nei traffici del globo aveva
perso tutta quella frenesia per i pensieri di un letto caldo nella sua
terra. Strano il destino, quando era imbarcato l’idea di tornare
nella sua città produceva eccitazione, bastava che pensasse al
suo letto e alla sua Antonia per riavvicinare il pensiero alla sua terra,
ma a distanza di pochi anni dal suo sbarco, la sensazione di trovarsi
ancorato, incatenato a terra, procurò lui la tentazione di abbandonare
tutto per andare ancora una volta in cerca di distrazioni per il suo
spirito sfuggente, ammaliato dal richiamo del mare.
Seduto nella stanza di quel casino, quel rifugio di puttane e puttanieri,
apparentemente senza sogni e desideri, comprese che la sua scelta di
partire avrebbe rappresentato l’ultima occasione di libertà
per muovere dei passi verso l’ignoto. Dei passi che però
lo avrebbero portato lontano per sempre.
La sua vita d'altronde era stata segnata per sempre dal viaggio, dal
desiderio di una partenza imminente che si realizzava unicamente con
la levata di ancora.
Suo fratello Franco aveva abbandonato tutto per l’America e lui,
a tredici anni, decise di imbarcarsi improvvisamente come mozzo in una
nave che in quella terra di sogni e di conquiste l’avrebbe condotto.
Partenza dopo partenza, così avvenne il suo fatale incontro con
la grandezza del mare.
Ma fu solo al suo arrivo a Montevideo che seppe di essere molto lontano
dal fratello, il quale era sì in America, ma in un paese che
si chiamava Stati Uniti… d’America.
Quando sentì il nome di quel paese non seppe bene che dire, provò
un certo sconforto poiché pensò ad una miriade di luoghi
in cui l’avrebbe dovuto cercare. Solo dopo qualche tempo gli venne
in mente che aveva un biglietto del fratello in cui veniva indicato
un indirizzo preciso. Pensò che se l’avesse letto prima
non avrebbe favoleggiato su una sua America immaginaria, ma avrebbe
potuto decidere più precisamente la data e la destinazione del
suo viaggio. Nel biglietto era scritto:
Frank Camba
3200 Davis St.
Pensacola 32503
Florida (USA)
Aveva solo tredici anni. Per lui il senso di quel biglietto corrispondeva
ad un invito.
Vieni, raggiungimi in America Angioletto.
La scritta “USA” non l’aveva neppure presa in considerazione
in quella scritta piena di numeri incomprensibili.
Aveva tredici anni e tante idee confuse per la testa, aveva pensato
che forse quella scritta stava ad indicare l’uso che avrebbe dovuto
fare del biglietto. Aveva tredici anni e non sapeva che la Florida faceva
parte di una unione di stati comunemente denominati Stati Uniti. Per
lui contava solo raggiungere l’America, quella America, l’america
del fratello.
Pensò che allora avrebbe dovuto saperlo, ma in quel periodo la
vita imponeva alle persone di crescere in fretta, non c’era tempo
per studiare. Quando ormai si era ritrovato in Uruguay, senza un soldo,
decise che avrebbe trovato un lavoro per proseguire il suo viaggio e
raggiungere il fratello. L’unico impiego che riuscì ad
ottenere fu quello di trasportatore bagagli alla stazione centrale di
Montevideo, e con esso ricevette una tuta blu, un cappellino dello stesso
colore, la tessera delle ferrovie uruguayane e una raccolta di pacche
sulle spalle.
Era piccoletto, ma il ragazzo sapeva il fatto suo, conosceva il senso
della parola sacrificio, avrebbe fatto strada, gli dicevano allora.
Ed in effetti ne fece molta. Passati tre mesi aveva racimolato la somma
che lo avrebbe portato al porto più vicino a suo fratello. E
così abbandonò tutto. Lasciò tuta, cappellino e
tessera al deposito per il quale lavorava poiché la sua strada
sarebbe stata decisa dal movimento delle maree e dalla indomabile voglia
di trovare uno spunto per l’infinito. Ma di questo lui ancora
non sapeva.
Quando arrivò a New York erano appena le sette del mattino. Quello
era il porto più vicino in cui era riuscito ad approdare. Distava
migliaia di chilometri da suo fratello, ma non pensò che quello
fosse un problema. Aveva viaggiato per giorni, intervallati da un unico
scalo in Venezuela. Per i suoi occhi era proprio strano quel continente,
quelle città che sorgevano come funghi solitari circondati e
ricoperti da alberi imponenti e piante meravigliose. Era veramente un
mondo nuovo.
Solamente tredici anni ed alle spalle aveva già un viaggio intercontinentale
ed uno transcontinentale. Forse era qualcosa di straordinario o forse
no, ma si sentì strano nel momento in cui di primo mattino si
mise a passeggiare in direzione della Florida.
Inizialmente partì sicuro, a piedi, ma giunto alla metà
del ponte di Brooklin rimase bloccato dall’immensità di
ciò che vide: New York. Cresceva man mano che si avvicinava.
Il porto era poco fuori dalla sua immensità e lui non aveva mai
visto nulla di simile. Deglutì con un attonito silenzio sul suo
viso, una espressione di stupore lo immobilizzò fino al momento
in cui chiuse la bocca e riprese a camminare.
E in qualche modo, senza ricordare come, era riuscito a riabbracciare
suo fratello, colui che lo aveva chiamato, colui che aveva sempre sognato
di riabbracciare. Aveva americanizzato il suo nome, ma queste sono cose
che lui non poteva ancora capire, non aveva ancora ben chiaro il significato
del desiderio di una vita migliore che circonda l’esistenza delle
persone.
Per suo fratello Franco la partenza corrispondeva al suo sogno di stabilità
mentre, per quanto riguardava lui, a tredici anni ciò che già
lo contraddistingueva era il continuo bisogno di cambiamento, quello
e solo quello sarebbe diventato il suo indice di movimento.
E fu metro dopo metro, città dopo città, che finalmente
riuscì ad arrivare a Pensacola. Il paradiso per suo fratello
Frank, ma non per lui.
Esattamente non ricordava quanto tempo si era trattenuto in quel luogo,
forse qualche mese, forse di più, in ogni modo era stato il tempo
giusto per capire che quella non era la sua scelta, quella non era la
sua destinazione finale. Il primo ed il secondo tempo del suo lungo
viaggio fecero lui comprendere che la scelta definitiva sarebbe stata
nel suo rifiuto di qualunque destinazione finale. Dopo il richiamo del
fratello quindi sentì ancora una volta il richiamo del mare.
Aveva tredici anni.
Forse era andato dal fratello solo per informarlo che era stato lui
l’artefice del suo primo passo verso i geografici estremi della
conoscenza, verso il desiderio di mettere tutto in discussione ad ogni
levata di ancora in porto. Ed anche Frank conosceva le innate attitudini
del suo fratellino e forse, per questo motivo, lo aveva spronato a partire,
a tornare al più presto da dove era venuto per poi ripartire
al più presto, nella speranza di incontrarlo ancora una volta
inaspettatamente.
Angelo pensò che il messaggio del fratello era vai, non ti fermare
qui, vai e scopri dove puoi arrivare…
Ricordò questi particolari e si accese una sigaretta. Susi aveva
leggermente placato la sua incessante azione respiratoria. Era passata
un’ora circa da quando si era svegliato e doveva assolutamente
fare un po’ di chiarezza fra i suoi pensieri.
Sbuffò verso la finestra. In quel fumo cercò di rintracciare
una soluzione alle sue angosce, ma sapeva che il suo dilemma non poteva
essere risolto in quel luogo. Non in quella stanza spoglia, il teatro
delle sue debolezze carnali.
Crescere con l’acqua del mare nelle vene si era dimostrato più
difficile di quanto non avesse pensato il giorno del suo matrimonio
con Antonia. Il giorno che aveva deciso di navigare ancora per qualche
anno e poi ritirarsi definitivamente per aiutare la donna a crescere
i figli e dare uno scopo al progetto di vita comune.
Il motivo delle sue ansie era sempre stato questo: la perdita della
libertà, una cosa che solo il mare riusciva a dargli, e poi il
difficile compito di far fronte ai problemi di una famiglia intera per
la quale avrebbe dovuto inevitabilmente affrontare tutto e tutti in
prima persona.
Gli ultimi anni del suo imbarco erano stati duri.
Lavorava sodo quel marinaio, era ben voluto da tutti gli equipaggi con
i quali aveva condiviso le fatiche del mare. Era aiutato e rispettato
perché sapeva ascoltare e capire i problemi degli altri, stimato
perché il mare rappresentava per lui molto più di un semplice
lavoro.
Pensò che tutto questo era sempre stato molto facile, si alzò
dal bordo del letto e si diresse alla finestra. Fuori tirava una forte
levantata con sprazzi di pioggia mista a polvere e sabbia africana che
andava a ricoprire la strada e le macchine sottostanti.
Ripensò ai momenti nei quali avvenivano i loro discorsi, le ciance
di ciurma in quelle notti di burrasca al centro dell’Oceano Atlantico,
che già il nome era freddo di per sé da sopportare.
Si ricordò di quanti, fra suoi superiori, in quelle notti si
lasciavano andare alla malinconia come l’ultimo dei giovani mozzi
imbarcato. Erano uomini anche loro, non tutti erano in grado di assecondare
il mare. Bisognava nascere e sentirsi mare, andare a terra e provare
senso di smarrimento senza il flusso delle correnti sotto la chiglia.
Bisognava amare il dondolio delle amache di sottocoperta perché
quella è la vita che soddisfa l’uomo di mare. Tutto il
resto è terra, è finito come il pensiero di un confine
che circonda l’uomo e il suo paese, la sua nazione, la sua patria
che non serve a niente.
Il confine di un marinaio è la visione della costa.
Ripensò a quelle bufere nere e ne sentì la mancanza. Nella
sua memoria affiorarono sempre più intensi i discorsi con gli
altri membri dell’equipaggio, con il cambusiere che proveniva
dalla sua stessa città ed il capitano con il quale dissentiva
spesso per la sua interpretazione dei libri di Joseph Conrad.
Quello sosteneva che non c’era niente di psicologico nei libri
di Conrad. Cuore di tenebra e La linea d’ombra erano quello che
erano, due bei libri, scritti bene e basta.
Angelo il nocchiere, era quella la sua qualifica, gli suggeriva al contrario
che non si trattava di semplici descrizioni. Non solo erano esperienze
reali dell’autore nei mari del mondo, lui era convinto che all’interno
di quelle pagine, di quelle parole, era esplicitamente prevista una
analisi delle percezioni umane, una introspezione della coscienza dell’uomo
che Conrad aveva potuto sperimentare attraverso un lavoro, quello del
marinaio, che più di altri esponeva gli uomini al confronto con
se stessi e con la natura.
Si trattava di appassionanti conversazioni notturne che spesso venivano
accompagnate da una abbondante bevuta del liquore comprato all’ultimo
scalo. Se erano stati a Maracaibo sicuramente nei loro bicchieri versavano
del buon rum, se erano stati dalle parti di Acapulco il liquore era
di sicuro tequila o mezcal, così come i porti scozzesi facevano
tirare su grosse quantità di whisky e fra Unione Sovietica e
Giappone ci si poteva destreggiare bene fra vodka e sakè.
Il mondo era una costellazione di porti e ad ogni porto corrispondeva
un liquore e una vagonata di storie da raccontare. Il più delle
volte tutti si animavano al culmine della tempesta, dopo qualche bicchiere
ogni marinaio, chi più chi meno, iniziava a parlare di sé.
Al contrario, quando si verificava la calma piatta, il minimo barico,
tutti stavano un po’ per i fatti loro, fra le nebbie che pelo
d’acqua tendevano ad offuscare anche i pensieri.
Ci fu un solo giorno in cui Angelo il nocchiere non si sentì
disposto a parlare con gli altri e stranamente questo avvenne quando
la nave entrò nel cuore di una tempesta disumana al largo delle
coste del Perù, proprio quando era il momento di stare tutti
uniti gli uni con gli altri.
Si era sposato da qualche mese e sentiva che dentro di sé qualcosa
si stava muovendo. Spesso riusciva a ributtare dentro tutti i suoi pensieri
neri, ma non quella notte. Non si era stretto nella comunità
degli insonni sottocoperta, aveva preferito distendersi sulla sua amaca
che ondeggiava bruscamente per le furiose ondate che la nave riceveva
a tribordo.
Due giorni prima erano salpati dal Messico. Guadalajara prima e un piccolo
scalo ad Acapulco poi, nell’attesa di circumnavigare l’America
Latina lambendo le coste della Terra del Fuoco per fermarsi poi una
volta ancora a Fortaleza, in Brasile, e ripartire in direzione dell’Europa.
La nave sarebbe dovuta approdare ad Amburgo e da lì sarebbe dovuto
tornare via terra a casa sua, da quella che ormai era ufficialmente
sua moglie Antonia.
Si era chiesto in quel viaggio se lei era rimasta incinta quando l’ultima
volta, quattro mesi prima, avevano fatto l’amore nella loro prima
notte di nozze.
Restò nell’amaca tutta la notte. Sembrava che la tempesta
non lo impensierisse affatto. Si scolò da solo una bottiglia
di mezcal, verme compreso, e arrivato verso il fondo della bottiglia
i pensieri si fecero di colpo più pesanti. Non si sentì
più in nessun posto, in nessuna nave e nessuna tempesta al largo
delle coste peruviane. Stava girando il mondo ma non era ciò
che aveva in testa.
Pensò che si era sposato da quattro mesi e non aveva ancora deciso
di cambiare le sue abitudini, il suo modo di vivere, e poi lampi di
colore rosso e fulmini nella memoria.
L’ultima donna con cui era stato, in Messico, era una ragazza
che frequentava ormai da qualche anno ogni volta che faceva scalo ad
Acapulco. Si chiamava Juana ed era bella, ma non dava lui il senso di
calore che avvertiva quando pensava alla sua Antonia.
Era per questo che aveva scelto lei? Era per questo che l’aveva
sposata?
Il porto più sicuro è sempre l’ultimo. Forse a questo
aveva pensato quando aveva preso la decisione di sposarsi. Ma perché
continuava la sua vita di sempre? Per quale motivo non riusciva a staccarsene?
E come mai prendere una qualunque decisione lo faceva soffrire in quel
modo?
Quella notte non ebbe risposte, solo immagini dolorose e flashback,
anni di notti fra sesso e fuoco. Alcol che scorreva e risate e pianti
di ciurma e poi un angelo con le ali di seta che emergeva da un mare
in burrasca di colore rosso.
Quel messaggero aveva disteso le sue braccia in avanti per accoglierlo,
per portarlo a sé, ma mentre lui si avvicinava il volto di quella
creatura divina si faceva sempre più cupo e assumeva dei tratti
demoniaci. Il ricordo di quella scena era ancora stranamente nitido,
soprattutto quando, nel momento in cui si tirò indietro, istintivamente
lo respinse con un pugno di luce. Il colpo era affondato nel fianco
della creatura che senza spasmi di dolore si era accasciata su un lato.
Osservò come sprofondava lento in quel mare rosso, mentre da
sotto l’ala fuoriusciva un liquido nero che materializzò
la figura di un delfino nell’atto di spiccare un saltò,
tramutatosi poi in uno di quei grossi rettili delle vicine isole Galapagos
che malignamente sorrise e tornò giù.
A quel punto il sogno finì e non vide più nulla.
Ripensò a quando si era svegliato. La mattina seguente il mare
era calmo e mentre sotto un sole cocente svolgeva le sue mansioni aveva
deciso di tornare per sempre, di lasciare la vita di mare e tutto il
resto e di assumersi le sue responsabilità di marito e di padre.
Era stato questo il suo errore? Una scelta avventata?
Pensò di no, smosse la tenda e si diresse nuovamente verso il
letto. Susi aveva smesso di russare da un po’. Fuori il tempo
si era calmato all’improvviso e da quando si era svegliato erano
passate quasi due ore che aveva trascorso con i pensieri rivolti al
passato.
Si sedette nel letto e sorrise perché sapeva, l’aveva sempre
saputo quale era il suo problema, ma il fatto di non averlo mai affrontato
seriamente era la parte più importante della faccenda. Quello
era il fulcro di tutte le sue angosce, di tutte le sue ansie. Non il
problema in sé, ma il modo in cui affrontarlo.
E lui non l’aveva mai fatto.
Era tornato nel suo paese, nella sua città, a casa sua con sua
moglie. Poi era nata la loro prima figlia, Rafaela, cui era seguita
la nascita di Licia e poi quella del primo maschio, Franco, cui aveva
voluto dare il nome di suo fratello.
Erano i primi anni da cittadino a terra, sapeva che aveva per sempre
varcato il suo confine, la sua frontiera, ma non stava neanche lì
il motivo esplicito delle sue sofferenze.
Era lì con il suo corpo. Ogni mattina si alzava e di buon ora
andava al porto a lavorare, ma la sua mente era solita salpare e partire
in viaggi cui spesso non tornava per lunghi periodi. Viaggi nei ricordi
lontani che pesavano come il rimorso di non riuscire ad essere mai presente
nei momenti critici della vita familiare.
Non era più solo, questo era quello che doveva capire.
Antonia non era più forte di lui. Era solo più costante,
non evitava i problemi, ma si faceva colpire in prima persona pur di
evitare un danno alla famiglia. Anche lui era forte, ma nella sua vita
era stato forte solo per difendere se stesso. Sentiva che era lui stesso
la causa delle sue paure, il suo modo di tirarsi indietro che doveva
assolutamente cambiare.
Era lì con il corpo, ma la sua mente non era mai tornata, si
era rifiutata di accettare la perdita di quella sua libertà,
del suo prezioso egoismo di esistere in un mondo dove lui veniva prima
degli altri, anche prima della famiglia.
D’altra parte era partito per la prima volta a tredici anni.
Le onde spumeggianti, il sapore della salsedine e la mancanza della
vita di mare erano diventati solo un facile pretesto per scacciare il
pensiero dei tradimenti oltremare ed il peso di azioni cui dopo il matrimonio
doveva rispondere ad un’altra persona.
Susi e il suo bordello non erano però di là dal mare e
lui doveva finalmente convincersi di essere tornato per un motivo preciso,
quel motivo per cui aveva deciso di lasciare la sua vita di mare.
Il solo pensare alla sua Antonia gli spaccava il cuore, ma non l’aveva
mai amata quanto lei meritava, quanto lui le avrebbe voluto e sicuramente
potuto dimostrare. Forse era il suo senso di colpa. Ma non riusciva
a dimostrarlo.
Quello era il motivo fondamentale della sua crisi di coscienza e sapeva
che non poteva dividere la sua vita in due per sempre senza operare
definitivamente un cambiamento che fosse radicale, un cambiamento per
tutelare qualcosa che in fondo anche per lui era speciale. Ciò
che pesava si chiamava responsabilità, il modo di affrontarla,
il modo di levare un po’ di peso dalle spalle della sua donna.
L’indomani era domenica, si ricordò che aveva promesso
al piccolo Franco che quel giorno avrebbe insegnato lui a nuotare.
Sorrise ancora una volta al pensiero che avrebbe dovuto subire la più
grande di tutte le scenate, ma pensò anche che ormai aveva capito,
sapeva come si doveva comportare una volta per tutte. Guardo ancora
una volta quella donna, non la svegliò, ciò che lei chiedeva
erano solo i suoi soldi.
Si mise le scarpe e la giacca e quando chiuse la porta alle sue spalle
si sentì sicuro di ciò che avrebbe fatto. Niente di così
difficile. Era arrivato il momento di tornare a casa.

Albachiara. Alleluia. Eureka. Ho trovato. Ho capito. Ecco come si fa
ad avere in anticipo la macchia e arrivare primi. Ma perché questa
mania di arrivare sempre primi, non so proprio da dove deriva, anche
un secondo posto a volte può andare bene. Ma andiamo avanti.
Basta aprire la posta — posta elettronica, naturalmente, qui…
qui in questo progetto intenderei dire, nulla è convenzionale,
altrimenti se progettiamo il già progettato, che ci stiamo a
fare qui (quanti qui ci ho messo qui, sembro il nipote di zio Paperino,
ma forse dovrei scrivermi Qui, notare la maiuscola, e forse dovrei concludere
la frase con un punto esclamativo-interrogativo, ma mai sono stato bravo
in qualcosa, figuriamoci a scrivere e far di conto, quindi concludo
la frase, la inizio e la continuo come mi pare e mi viene e chiudiamo
la parentesi). Chiusa la parentesi, ritorniamo da dove eravamo partiti
(un progresso invidiabile dirà qualcuno, ma chi se ne frega),
e quindi ritorniamo a basta aprire la posta e trovi la mail con la macchia
del mese in corso. Te la guardi, ti piace non ti piace, intanto saluti
Barbara e le comunichi che mi sono fidanzato di nuovo con mia moglie
e ti ricordi che a marzo avevi fatto una promessa. Voi ve ne siete già
dimenticati, ma io che dimentico quasi tutto questa cosa qui non l’ho
dimenticata, intanto vi parlerò della mia smemoratezza, proverbiale
al punto che figuratevi che una volta sono uscito vestito di tutto punto,
finanche il cappello ci avevo quella volta, e la cravatta, e addirittura
le scarpe lucide lucide, pulite come non mi era mia successo, dandosi
il caso che dovevo incontrarmi con una bonazza, ma se dico bonazza dovete
credermi, e se non mi credete tento peggio per voi, bionda e curvata
al punto giusto e, particolare non secondario alta e con delle poppe
grosse così, quanto?, direte voi, intorno ai sei chilogrammi
e passa ciascuna, per non parlare del didietro volgarmente detto culetto,
esco ma mi dimentico dove avevamo l’appuntamento. Ricordavo che
ci eravamo conosciuti al bar due sere prima, due sere o anche tre non
mi ricordo bene, e adesso non sapevo dove andare che l’indirizzo
me l’ero scritto nel cervello, mai poi a causa di una piccola
sbornia a base di scolorina si era scancellato. Allora mi metto a girare
per la città, torno persino al bar, che è quello solito
dei soliti amici, ma tra 8 milioni di persone, 2 milioni e mezzo tra
strade principali, strade secondarie e vicoli e vicoletti, non sono
mica nato fortunato, né mi ricordo il recapito dove la mia porno
avventura si sarebbe dovuta svolgere, né incontro la bionda-porno-bonazza,
che maledizione gli scocciatori, i iettatori e tutti quelli che ti stanno
antipatici, li incontri appena appena d’azzardi a mettere il naso
fuori dalla porta di casa, e a questo proposito, lo dico solo a fini
statistici, i suddetti antipatici iettatori che scocciano, al 90% abitano
nel tuo stesso palazzo e nel palazzo di fronte o sono colleghi d’ufficio.
Quindi ne deduco che probabilmente la bonazza bionda, non era né
una scocciatrice, né una iettatrice, né antipatica, e
non era nemmeno una mia vicina di casa o una collega di lavoro. Comunque
mi dovetti rassegnare, anche se meditai per qualche giorno, sul come
fare scomparire dalla città almeno il 99,999999999999999999999999999999999999999999999999999%
di tutta la popolazione. Sopravvivono solo due persone, una di sesso
maschile mezzo imbranato, e una di sesso femminile bionda e bonazza
e tutto il resto giusto che corrisponde esattamente alla descrizione
della tizia di cui vi dicevo sopra. Non sapremo mai se è brava
a letto e ama il sesso anale, o casomai fosse multi o mono orgasmica
e se ha l’eiaculazione femminile, come dicono che molte femmine
sanno fare, mi sarebbe però non dispiaciuto, quindi mi sarebbe
quantomeno piaciuto scoprire il suo punto G e in subordine anche gli
altri punti, ma a volte così vanno le cose. Pazienza. Pazienza
un corno… Ma ora basta, mi direte, basta parlarci della bionda,
abbiamo capito che era una bonazza, ma il mondo è pieno di donne,
e ricordaci la promessa che ci hai fatto. Va bene, va bene, come al
solito avete ragione, ma mi preme precisare che il mondo è pieno
di donne e vi do ragione, ma io in materia sono un po’ crudo e
quando mi capita, poi mi scordo l’indirizzo, perché ho
tante cose da ricordare e poi con quel vizio della scolorina, spesso
mi si cancella anche il vizio di ricordare, e giacché siamo in
tema di precisazioni voglio anche precisare che di nuovo anche nella
macchia di marzo, è saltato qualche apostrofo, ma il mio originale
è giusto, io le cose le faccio sempre giuste quando non le sbaglio,
e questo avreste già dovuto capirlo da un pezzo, e terza precisazione,
ma questa non è una vera e propria precisazione, vorrei dire
questo, e sono indeciso se metterci i due punti, così non ce
li metto e vado avanti, e stavo dicendo che se casomai decidessi di
dire la mia su tutte le macchie fino alla fine del progetto, diventerei
tutto macchiato, un macchiaiolo oserei dire, ma un macchiaiolo che però
non ha scritto niente sulla prima macchia, quella di gennaio, e questo
sarebbe anche un fatto eccezionale per chi legge la Bibbia, e vi chiarisco
subito il perché, perché voi da soli non ci arrivate.
Perché una persona tutta macchiata, per chi legge la Bibbia s’intende,
manca proprio della macchia principale, la prima, la più bella,
quella che condiziona tutta la vita futura in seguito a seguire, la
macchia originaria, ma in fin dei conti questi sono cazzi loro, e le
mie macchie possono anche restare così come sono, macchie acefale
e non se ne parla più. E subito arriva la punizione divina, anche
il computer fa crash, ma io ho un patto col diavoletto della porta accanto,
e riesco a salvare tutto il lavoro alla faccia della nemesi ovvero giusta
vendetta. E adesso la smetto con tutto, e vi ricordo la promessa. Finalmente
era ora ci hai tenuto col fiato sospeso per tutto questo tempo, direte
voi, ma io ci credo poco che voi perdete tempo con le mie promesse.
Ma visto che l’ho detto e sono già alla seconda pagina
adesso ve lo dico. Ma come, non vi ricordate!?, avevo promesso che ad
aprile vi facevo un bellissimo racconto invece delle solite cazzate.
Ma come forse ho già detto, il naso mi ricresce e arriva fino
allo schermo del computer (vi interesserebbe sapere di che marca è
il mio computer? No, non ve ne frega niente, lo sapevo), ma perché
mai ho scritto ricresce, forse qualche volta me lo hanno tagliato!,
comunque oramai l’ho scritto e ce lo lascio, ma quello che è
sicuro e che le mie promesse vengono mantenute solo una volta ogni O,99999999999999999999999999999999999999999
volte, cioè quasi mai, e se vi avevo promesso che per aprile
ci sarebbe stato il racconto, adesso vi racconto che, uno, sto per finire
la pagina, e questo non è un problema, perché basta andare
alla pagina seguente, due, non mi viene in mente niente da raccontare,
anzi, perché io sono sincero, ho in mento solo l’inizio,
che fa più o meno così: C’era una volta…,
poco originale, se vogliamo, ma se l’anno usato in tanti vuol
dire che funziona. Ma però (si può dire ma però?
io lo dico) non è detto che inizierò proprio così,
potrei anche iniziare con: Una volta c’era…, che mi sembra
una trovata figa, tre, la macchia di aprile mi sembra una sciarpetta
rossa appoggiata sullo schienale del divano, e dal momento che il mio
divano è tutto uno sfascio, e sfascio e sciarpa mi richiamano
i film dell’orrore, in tutta sincerità debbo dire che la
macchia aprilina (come cazzo si dice, perché il correttore di
Word ne lo segna rosso?, quanto è bello marzolina, facile facile)
non mi ispira granché. Per un racconto di genere, s’intende,
perché vista la lunghezza della presente macchia, per ispirarmi
mi ha ispirato, ma rimandiamo tutto all’altro mese, dopotutto
siamo a Pasqua, anzi esattamente oggi è venerdì santo,
moriamo e risorgiamo, e a maggio forse il racconto viene fuori, ma io
non ci conterei. Vedremo. Intanto saluto Barbara, e le faccio gli auguri.
Chissà se lei è bionda come la bionda del mio passato,
ma gli auguri bisogna farli anche agli altri, altrimenti si offendono.
E quindi ciao, l’uovo di Pasqua e la sorpresa, possiamo anche
rimandarla a data da destinarsi. Come si dice, ogni giorno è
Natale. Solo che non ricordo chi lo dice. Ci vediamo alla prossima puntata.
Doria 9 aprile 2004

C'era una volta un uomo che era giunto alla soglia della disperazione
perchè la sua identità era stata rubata.
Ormai da tempo aveva perso la sua usuale allegria perchè, non
smetteva di ripetersi, un fottuto bastardo ragazzino negro di 13 anni
gli stava distruggendo la vita. Il suo orgoglio di vero italiano e
sano fascista era straziato, come pugnalato e torturato: perchè
la vita era stata così crudele?
In fin dei conti era un uomo buono, un patriota; quello che, la semantica
della lingua corrente, ben descriveva e concettualizzava come "uno
dei nostri ragazzi".
A quell'epoca questo buon cittadino, come lui con sentita e sincera
modestia si definiva, viveva una situazione assurda, paradossale ed
insostenibile, che squartava, maciullava, deflagrava la sua esistenza.
Come fosse possibile che un bambino di 13 anni, un fottuto immigrato
proveniente da chissà quale parte di quell'immondezzaio che
era l'Africa, avesse il suo stesso nome ed il suo stesso cognome non
era dato saperlo. Il povero italiano a dire il vero un'idea, a forza
di pensare solo a quello, se l'era fatta. Secondo lui l'unica razionale
spiegazione non poteva che essere data dal fatto che un infame comunista
del cazzo, tempo addietro, si era messo di proposito a scopare a destra
e a manca per l'Africa quelle mignotte tribali dando nomi italiani
ai nascituri per poi creare scompiglio nel giusto e democratico mondo
occidentale.
Un bel giorno però, ascoltando il telegiornale sentì
una notizia che lo determinò a prendere una decisione che probabilmente
albergava da molto tempo nel suo subconscio. Apprese che molti concittadini
stavano vivendo la sua stessa vicenda e, pur se era vero che molte
di queste persone, pensò, erano dei rossi, tuttavia tanti tantissimi
erano camerati: doveva contattarli!
Decise che, d'ora in avanti, il suo unico scopo doveva essere quello
cercare ed eliminare questi fottuti bambini. D'altra parte l'esasperazione
di cui era soggetto ogni qualvolta veniva prelevato dalla forza pubblica,
l'amica dei cittadini che giustamente faceva il suo dovere, e portato
in squallide stanzette per compiere <<ulteriori e più
approfonditi accertamenti>>, era giunta a livelli insopportabili.
La sua quotidianità civile era divenuta una poltiglia incancrenita
di carne tumefatta.
Il suo fegato si rifiutava di lavorare, così come tutto il
suo apparato digerente: mangiava e vomitava residui di cibo conditi
da copiose macchie di sangue e bile, stava assumendo un colorito giallo,
il suo fisico prestante di buon fascista era, ormai, un vecchio ricordo.
Povero onesto cittadino!
Non molto lontano, intanto, un gruppo di bambini ascoltava attentamente
un loro coetaneo che, salito su una cassetta della frutta trafugata
dall'antistante discarica, diceva: <<E' giunta l'occasione che
aspettavamo. Domani si terrà il Gran Galà del Quiz.
Dobbiamo far capire a questa pletora di razzisti che noi siamo vivi,
che lasciamo la nostra terra per venire qui non certo perchè
la nostra più grande aspirazione è quella di pulire
i vetri delle loro fottutissime macchine.
La maggior parte di questa gente è rincoglionita da se stessa.
Da tempo hanno perso il senso del ridicolo. Ma ciò che è
più grave, come ben sapete amici miei, è che questo
loro atteggiamento, questo senso di autoconservazione e autoripetizione
della quotidianità nasconde un pensiero subdolamente razzista.
E' questa la vera ragione della nostra lotta. Ne va della nostra identità
e della nostra vita.
Siamo giunti, finalmente, alla fase finale del nostro piano. Domani
compieremo un atto dirompente che si introdurrà nella coscienza
collettiva. Sarà facile. Abbiamo gettato nel panico la loro
civiltà cripto-razzista appropriandoci dei loro nomi. Non hanno
più un'identità perchè così facendo abbiamo
messo in crisi il loro ordinario sistema di autodeterminazione ed
autoqualificazione personale.
Ognuno può essere se stesso ed un altro, tutti sono tutti e
quindi nessuno, se non ci riconoscono non ci imprigioneranno, se non
ci distinguono non ci abbatteranno.
E' giunto il momento di attaccare il vero epicentro del loro rincoglionimento
globale, vera fonte di quel razzismo subdolo che noi dobbiamo debellare
.Come ben sapete, non c'è gioco a premi, non c'è quiz
show, non c'è domanda da un milione di euri che veda come concorrente
una persona di colore.
Questa è la vera esplicitazione, la prova provata, che la loro
società e cultura si sta modificando verso un istinto evolutivo
di sopravvivenza fondato su principi sostanzialmente razzisti>>.
Passarono dei giorni e l'uomo che aveva deciso di trovare il bambino
di 13 anni con il suo stesso nome era riuscito a raccogliere intorno
a sè un numero accettabile di onesti cittadini e bravi ragazzi
che stavano vivendo il suo stesso dramma.
Quei giorni furono caratterizzati da un'attività frenetica
di coordinamento ed organizzazione, ma poi finalmente era cominciata
la caccia di quei bastardi teenager.
Di buon ora, ogni mattino, l'affiatato gruppo di cittadini usciva
dalle proprie case con il petto in fuori ed animati di buona volontà,
come il Signore gli aveva sempre insegnato. Avevano cercato, inseguito,
individuato e perso; ritrovato, pedinato, osservato e spiato.
Una ricerca che finalmente stava dando i suoi frutti. Certo, in alcuni
casi si erano sbagliati, avevano preso per errore qualcuno che non
c'entrava niente e lo avevano preso a bastonate rompendogli le ossa
una a una; avevano violentato qualche uomo o qualche donna, ma poco
importava.
Un bel giorno finalmente l'uomo che aveva costituito quell'amabile
compagnia chiamò a raccolta i suoi amici per comunicargli delle
notizie sensazionali: l'indomani quei figli di troia negra avrebbero
compiuto un attacco, ma non si conoscevano i dettagli, al Gran Galà
del Quiz.
Inizialmente fu lo sconcerto, nessuno si aspettava che avessero puntato
così in alto. Ma subito tutti si guardarono negli occhi e un
grido ad un volume altissimo si sollevò nell'aria. Quell'atto
rituale penetrava nei loro cuori e gli infondeva un coraggio così
sentito che le loro vene iniziavano a pompare sangue in maniera forsennata,
i loro occhi diventavano lucidi, i loro muscoli fremevano per entrare
in azione.
L'evento telenazionale sarebbe stato difeso e allo stesso tempo avrebbero
catturato e massacrato quei negretti del cazzo.
Coricatosi nel suo letto l'uomo, che una volta era stato tanto triste,
si sentì di nuovo fiero e si addormentò pensando che
l'indomani si sarebbe ripreso la sua identità da quel fottuto
bambino di 13 anni e che se la sarebbe riconquistata a forza di sprangate
su quell'africano.
Finalmente arrivò il giorno che tutti aspettavano. Il Teatro
del Pensiero Unico era gremito di personaggi famosi e ricchi industriali,
tutte le televisioni erano sintonizzate sulla stessa frequenza.
I vip si erano finalmente seduti nelle prime file, e la maggior parte
della nazione si stava godendo qualche minuto di pubblicità
nella trepidante attesa che il grande show avesse inizio. Ormai tutto
era pronto per il Gran Galà del Quiz.
Tre, due, uno...Si aprì il sipario, il presentatore avanzò
con un sorriso che andava ben oltre il tubo catodico. Un passo dopo
l'altro giunse al microfono, chiuse gli occhi per una frazione di
secondo come se volesse comunicare un'iniziale timidezza, sconfitta
però subito dal suo noto temperamento. Guardò la platea
che aveva di fronte, ma subito fissò intensamente la telecamera
di tre quarti entrando finalmente in tutte le case.
Un altro secondo di trepidante attesa e poi proclamò: <<Che
il Gran Galà abbia inizio!!!>>.
Tuttavia non fece in tempo a continuare il discorso di apertura perchè
fu presto il buio. Improvvisamente andò via la corrente.
Qualche telespettatore diede un paio di schiaffoni al proprio televisore,
molti pensarono che fosse una trovata prevista dello show e quindi
attendevano che qualcosa di magnifico accadesse; nel teatro gli spettarori
rimasero un po' perplessi perchè sentivano ed intravedevano
i tecnici che correvano da una parte all'altra.
Ad un certo punto si cominciò a sentire un rumore sempre più
incalzante. Non era assordante, ma il suo sistematico cadenzare lo
ergeva sopra la miriadi di suoni e sopra lo stesso vocio della platea.
Si fece appena in tempo a identificare quello strano suono in una
marcia, che sul palco si accese una singola luce diretta al microfono.
Tutti si zittirono, stupefatti di vedere un bambino di colore arrampicarsi
sul palcoscenico ed appropriarsi del microfono.
Il piccino abbassò l'asta portandola alla sua altezza e proferì:
<<Faccio parte del Gruppo di destrutturazione esistenziale in
lotta contro il pensiero cripto-razzista, per la liberazione ed emancipazione
degli immigrati. Rivendichiamo...>> .
Anche il bimbo come il presentatore non riuscì a concludere
il suo discorso. Una spranga tagliò l'aria e si incastonò
nel suo piccolo cranio. Del materiale misto di sangue e cervello volò
fin sui costosissimi vestiti e trucchi di chi sedeva in prima fila.
Gli spettatori che siedevano nel teatro, entrarono nel panico, ma
non tutti contemporaneamente. Il terrore si insinuò nell'animo
degli astanti man mano che sentivano urla di paura e vedevano i propri
vicini di poltrona alzarsi e correre via verso le uscite.
Fu in quello stesso momento che gli ignari telespettatori, nelle loro
case, senza poter capire cosa accadesse, rimasero bloccati e attoniti
a fissare lo schermo a righe multicolori della propria tivù
e, come ipnotizzati dal suono monotòno che fuorisciva dall'apparecchio
catodico, entrarono pian pianino in uno stato mentale di coma.
Nel frattempo il panico all'interno del teatro era destinato ad aumentare
poichè appena i terrorizzati vip arrivarono alle tende che
celavano gli ingressi, irrimediabilemte sbatterono violentemente contro
le porte che erano state sbarrate.
Braccia rotte, gambe spezzate, corpi schiacciati e calpestati. C'era
anche chi riusciva a svicolare, tentando successivamente di correre
verso un'altra uscita nella speranza che la trovasse aperta. Tuttavia
il panico che cresceva secondo dopo secondo li rendeva cechi e gli
impediva di capire o anche solo di vedere che quel mattatoio di carne
umana si formava in corrispondenza di tutte le porte e lungo tutto
il perimetro del teatro. In ogni caso, anche quando qualcuno riusciva
a retrocedere non poteva che compiere solo pochi metri perchè
subito si scontrava violentemente con chi fuggiva nella direzione
inversa.
Sangue, vomito, pezzi di carne, ciocche di capelli e vestiti avevano
sostituito la moquette. Il terrore che cresceva esponenzialmente,
aveva messo gli apparati digerente, intestinale e di evacuazione,
di quelle civiche celebrità completamente fuori controllo;
non c'era angolo che non si presentasse come una poltiglia fangosa
di colore rosso e ocra, da cui si espandeva una pozza da rigurgito
fognario e discarica che solo la paura più nera impediva di
far notare la propria presenza nelle narici sanguinanti dei fuggitivi.
Tuttavia il buon cittadino che aveva scagliato il colpo non visse
così a lungo per assistere a quel macabro spettacolo, infatti,
mentre si beava soddisfatto del risultato conseguito nonchè
di aver riconquistato finalmente la sua identità, un bimbo
gli saltò addosso mordendogli a sangue le orecchie, gli accecò
gli occhi e con le sue manine gli strappò la lingua. L'uomo
si adagiò al fianco del piccolo immigrato che aveva appena
terminato di massacrare ed in cinque minuti morì dissanguato
tra dolori lancinanti ed urla irripetibili.
Purtroppo bastarono quelle sole due morti sul palco per scatenare
il caos.
I concittadini del buon patriota uscirono armati delle loro mazze
e delle loro spranghe, i bambini africani uscirono allo scoperto armati
della loro rabbia. Teste saltarono, bulbi oculari volarono come biglie
scagliate da una fionda di un ragazzetto che gioca, il sangue scorreva
e poi merda, piscio e ancora sangue.
In quel nefasto teatro, in quel nefasto scontro solo la follia manteneva
la sua inamovibile razionalità. Tutti erano contro tutti: patrioti
contro concittadini, bambini contro bambine; bastardi tredicenni contro
inferocite oneste personalità dello spettacolo; fascisti contro
democristiani, comunisti contro "io sono più comunista
di te"...
Alla fine, non vi fu nessun vinto e nessun vincitore. Non vi fu più
nessuna celebrità, nessun bambino, nessun onesto cittadino
e nel teatro scese il silenzio.
Era proprio quello il momento che i tecnici elettricisti, gli operatori
di pulizia, i cameraman e tutto lo staff aspettava. Partirono, di
gran lena a pulire, deodorare, attivare, rigenerare, inquadrare. Se
non fosse stato per la circostanza che l'arena teatrale era vuota,
nessuno avrebbe potuto immaginare quello che era accaduto un'ora prima.
All'ultima centralina elettrica attivata la scenografia del palco
riacquistò tutto le sue potenzialità affabulatorie e
la musica riprese ad essere la più dolce delle ammaliatrici.
Il collegamento televisivo fu ripristinato ed al "tre" il
gagliardo presentatore riconquistò il suo posto e, con saldamente
in mano il foglio delle risposte, su cui ancora si notavano due coraggiose
gocce di sangue che tentavano di testimoniare l'accaduto, pronunciò
le parole che tutti i democratici, civili e onesti telespettatori
si aspettavano: <<Che il Gran Galà abbia inizio!!!>>
La nazione tele-elettorale a quel suono uscì dallo stato ipnotico
in cui si trovava e riacquistò la totale e piena facoltà
di intendere e volere un quiz.
Così, vissero tutti felici e contenti.

C'è un vuoto in me
In cui sospira e geme
Una vacillante foglia
Scossa dalla rosa dei venti
Sguardo tenue, flebili parole
Magma di incertezza e desio
Scolpite come lapidi si imprimono,
Memorie quotidiane,
Gioie spente ed assenze
C'è un vuoto in me..
Lo vedi?
Se vuoi può acoglierti
Fraternamente
In fondo c'è silenzio
E passione
Passo passo...siamo più distanti
Chiuderò gli occhi e sparirai
C'è un vuoto...tutto intorno a me
Ed il marasma dentro
Lo stesso anticamente noto caos
Che non mi da pace
Oh la mia Itaca lontana..
..Il mio sogno smarrito
In realtà la diga era ricolma di numerosi corpi sazi di morte e
privi di dolori. Mosè non potè fare nulla e gli ebrei vissero
nell'angusta angoscia futura di una mancata deportazione.
...minuto di silenzio per le vite che potevano essere salvate...
...anni di silenzi su tutte le vite che sono invece state condannate...
...silenzio...
...e noi come tanti burattini continuiamo a scrivere...
Quando sono migliaia che muoiono è come se non ci restasse altro
che questo. vincitori, vinti, VITTIME, viltà. Degli OTTOMILATRECENTOSESSANTANOVE
ebrei deportati dall'Italia ne fecero ritorno soltanto 980. Novecentottanta
che sopravvissero? Levi s'è suicidato. Levi,ti salutiamo.

perdurante
nell'abbraccio dell'unanime sconforto.
Seppure evidente nella ferita d'apocalisse,
squarciata ormai da tempo.
Perduravano le tue nuvole grige
nei sogni di vortice.
La linfa incantatrice
è attiva nei muscoli dell'universo.
Hai portato il toro al macello,
si è ribellato con delle speranze alla Van Gogh.

Una stretta di mano e ci sedemmo. Come al solito, il bar dell’Hotel
Palace sembrava un grande mercato o, peggio, la sala d’attesa di una
stazione. Di tanto in tanto, però, il brusio uniforme di voci veniva
rotto dalla risata chioccia di una signora grassoccia come un barilotto,
che sedeva a gambe divaricate alla nostra sinistra. Alla prima risatona,
il signor Garay la fulminò con un’occhiataccia di sguincio,
ma quella, per tutta risposta, esplose in una nuova eruzione di riso. Allora
Garay fece uno strano verso – gnneck! – storcendo il collo di
botto, e una luce sbrilluzzante gli sfarfallò negli occhi, mutando
il suo sguardo all’improvviso: rasserenandolo quasi avesse pigiato
un tasto nella memoria del cervello, per cancellare la cicciona e la sua
risataccia molesta. Custardoy sembrò percepire il mio disagio. Noi
due ci conosciamo da una vita, dato che siamo nati nello stesso quartiere
vicino allo Stadio Santiago Bernabeu, dove abbiamo cominciato ad amare il
calcio assistendo alle sfide del mitico Real. Quelle domeniche sulle tribune
hanno cementato la nostra amicizia al punto che posso dire che siamo in
grado di leggere nel pensiero dell’altro. Custardoy, infatti, mi fece
l’occhietto per rassicurarmi. Poi prese la parola, rivolgendosi al
misterioso signor Garay. “Allora? gliela diamo una mano, al mio amico?
così finirà di passare le notti insonni. Vede, quando non
dorme diventa insopportabile, sempre nervoso: non lo riconosco più.
Come si può fare?”, domandò. “Ecco vede il mio
problema…” aggiunsi io, ma Garay mi interruppe bruscamente.
“So già tutto, non si preoccupi. Ho capito perfettamente la
situazione. Custardoy mi ha spiegato per filo e per segno cosa la preoccupa.
Del resto ne ha buon motivo: Jauralde è un uomo senza scrupoli.”
sussurrò con voce ferma. E devo ammettere che mi sentii davvero rassicurato.
Conoscevo a fondo pregi e difetti di Custardoy: per quanto eccentrico ed
imprevedibile – diciamo pure un po’ matto -, era un tipo in
gamba: il classico uomo di mondo che ne aveva viste di cotte e di crude,
sopravvivendo a mille disgrazie senza fare una piega. Conclusi che mi aveva
certo presentato la persona capace di tirarmi fuori da quella situazione
balorda, che stava rovinando i rapporti con la mia famiglia a causa del
crescente nervosismo che aveva stravolto il mio carattere mite. “Come
si può fare, dunque?”, ripetei, scosso da un fremito di rinnovato
entusiasmo. “Semplice: basta pagare e tutto è possibile, in
questa valle di lacrime.” replicò secco Garay, guardandomi
dritto negli occhi e mettendomi di nuovo a disagio, non tanto per quello
che aveva detto, che in fondo mi aspettavo, quanto per il modo con cui aveva
parlato. “Ci pensa Pedrinho.” aggiunse subito dopo il tipaccio.
E si passò l’indice della destra sotto la gola, facendolo scorrere
in orizzontale. Un gesto che stonava con la sua bizzarra cravatta giallina
zeppa di uccellini. “E chi è, un suo amico?” chiesi,
incuriosito ma in fondo preoccupato. “In un certo senso sì.
E’ uno che ha un certo potere, sulla vita degli altri. Cinquemila
pesetas e Jauralde non le darà più alcun fastidio, signor
Aragon”. “Davvero, ne è sicuro?”. “Certo:
i morti non danno più fastidio a nessuno, mi creda.” concluse
lui, ed un brivido mi percorse la schiena. Non mi ero sbagliato: Custardoy
stava diventando sempre più pazzo, ma non credevo fosse giunto al
punto di andare a raccontare i fatti miei ad un uomo che poteva farmi diventare
il mandante dell’omicidio di un personaggio così in vista come
l’imprenditore Jauralde: il costruttore più ricco di Madrid,
dedito a traffici illeciti d’ogni risma. Dopo un primo sgomento, però,
scoprii che l’idea non mi dispiaceva più di tanto. In fondo,
prima o poi tutti dobbiamo morire.

Calipso, il cui nome vuol dire la Nascosta, è la Ninfa che
nell’Odissea trattiene Ulisse con sé per dieci anni, inutilmente
offrendogli l’immortalità perché rimanesse con lei.
Ermes le ordinerà poi di lasciarlo partire per volere di Zeus. In
realtà Calipso è una delle antiche dee mediterranee, una POTNIA
METER, relegata lontana dal potere, che ora detengono gli dei Olimpici indoeuropei,
giunti con gli invasori achei, e poi eoli, ioni e dori.
(clicca qui per vedere l'immagine)
Te, grande dea bianca, pòtnia méter, silenzio di basilico
e olivo. Te, nascosta, spodestata, ancorata polena d’isola, che s’inabissa
nel Tempo, quale dio, dagl’occhi di ramarro o serpente, ti lasciò
a guardar nubi e mare in un deserto d’amore?
A chi canti il mattino in una malinconica nenia di glicini viola?
Ti ergi nel Sole: aspetto tremendo in numinosità di dea, montagna
di specchi albastrini, profilo d’ardesia, bianca purezza di vergine
antica.
Sorridi, le trecce gettate sui seni, coppe di magnolia.
Sorridi, vibrante, al mattino, occhi di definitivo cristallo.
Grande meretrice di Bal, l’amore l’hai avuto altre volte: ogni
giorno s’accende di nuovi brividi santi. Hai aperto le gambe a tutti
i destini, acclamata da tutti i maestri.
Sorridi, esaltante, nel bianco-glauco del mare, le labbra d’argento
di Elena, appena rapita, son tue. Son tue le mani di rosa di Cleopatra,
che ungevano d’oro il corpo di Cesare Magno. D’avorio la voce
d’ Isotta, adultera senza vergogne, è la tua. E’ tuo
lo sguardo di vento della d’ Este Isabella, che rapinò un cardinale.
Lo sguardo di foglie autunnali d’Artemisia pittrice è il tuo.
E’ tuo il sesso di giallo tulipano di Josephine che imperò
Napoleone.
Un attimo solo: e quell’uomo?
Ricordi, signora di sabbia?.....quell’uomo!??.
Era uno come tanti.
Arrivò fino a te dalla croce del Sud. Fino a te. Arrivò in
un giorno di sale e di mare, di caldo e memorie, di siesta e di grilli.
Andasti a vederlo. Normale. Assolutamente normale, cuore naufrago e sale,
su un corpo abbruciato. Normale. Incredibilmente normale,mente fredda e
alghe, su capelli di onde.
Alzò gl’occhi dal tronco cui stava aggrappato- stan sempre
aggrappati ad un tronco, gli uomini- e ti vide, cozzando con gl’occhi
sopra il tuo duro splendore.
Vento fermo.
Ma quanto ti palpitò il cuore, a vedergli quegl’occhi?-Caterina
la Grande si prese anche il più giovane ussaro-.
Oppure ti si addormentarono i seni?- Elisabetta, l’inglese, sopportava
solo i pirati-.
Lui ti guardò, deciso, ma stanco, con tutta la stanchezza del mondo.
Fu, forse, il lapislazzulo della sua indicibile passione, senza radici,
che ti portasti al monte?- Dalila, l’ebrea, cuciva coperte coi
crini di Sansone-
Dopo, ricordi?
Cullasti da sola i suoi fianchi onerosi per anni: tu, la donna di sole,
che portasti i francesi fin dentro Orleans, che da sola, allora Matilde,
costringesti nella neve un impero.
Lui ti rispose gemendo tristezze, languidezze di uomo-AH!, mio Enrico!
: E’ già tanto se non ti faccio tagliare la testa!-
Risanasti da sola il suo sangue di piombo pesante con baci e chicchi d’amor
voluttuoso- regina Vittoria, governasti un impero-
L’amasti. Come sa amare una donna, quando non cerca né scienza
né ombra- Manon, gelida mano, riuscì ad unire l’eterno
all’amore-
E tu, la grande, l’immota che sprofonda nel Tempo, gli offristi d’esser
rumore di sole al tuo petto. Avventata Calipso!!!! Hai raccolto una vita
in tela di ragno.
Troppo amore!!! Così non volle restare.- Marylin bionda s’uccise
per John con pastiglie di resina scura-
La storia poi disse che t’ordinarono di farlo partire. -ma fu
Orfeo a girarsi o Euridice a scappare?-.
Se ne andò, impacciato e guardingo: era un uomo, un uomo normale.
Molto tempo è passato. raccogli i pensieri, rugiada notturna, o Calipso,
nascondi i momenti del sogno.
Da tanto tempo t’han detto ch’è morto.
Altera passasti tra minuti di gloria, Mata Hari e Curie Maria.
Un sospiro ed un mondo.
Ma qui solo l’attimo conta e tu canti un tramonto che è alba.

Il ragazzo si era accorto che il toro, Hemingway, l’arena erano
stati tutto parte di un suo sogno. Anzi, no, l’arena no. Era reale.
Bhè, più che in un’arena si ritrovava in uno stadio.
E precisamente sul palcoscenico di uno stadio.
Era riuscito a dare subito un’interpretazione al sogno appena fatto:
il toro rappresentava le sue paure, Hemingway un retaggio della sua cultura
venuto a cercare di dargli una mano a superare quel momento con quella filosofia
“da vecchio e il mare”.
“C’è uno spazio in cui il toro non può farti male”
continuava a ripetersi.
Si guardava intorno e cercava quale potesse essere questo benedetto spazio.
Tra la batteria e la tastiera? Tra l’amplificatore del chitarrista
e quello del bassista?
No, dietro al microfono, quello era il suo posto! E coincideva con “lo
spazio che appartiene al toro, quello dove solo un vero matador ha il coraggio
di entrare e agitare la muleta”.
Sì, perché Samuel quando cantava dimenticava tutto, la fatica
delle prove, i problemi dei genitori divorziati, i pochi soldi che circolavano
nelle tasche, un futuro incerto da artista…
E quando dimenticava diventava forte, coraggioso, impavido, quasi prepotente
nella sua sicurezza.
Un vero matador della musica, quella musica che lui stesso creava, una sorta
di dark elettronico mellifluo e suadente, perfetta cornice della sua voce
morbida.
Però nelle ore che precedevano il concerto, mentre i suoi compagni
occupavano ogni minuto libero a fare il sound-check, a bere birra rinfrescante,
a fare amicizia con le ragazze che gironzolavano curiose, Samuel si metteva
in un angolo del palcoscenico, seduto a terra, a osservare passivo tutto
ciò che gli girava intorno, con lo sguardo sornione e disinteressato.
Cercava più che altro di mascherare “l’ansia da prestazione”
che lo invadeva ogni volta.
Eppure il vestito per l’occasione era pronto che aspettava in camerino
per essere indossato da quel suo fisico alto e proporzionato, il suo gruppo
era formato da gente preparata, la giornata primaverile prometteva una serata
dalla temperatura perfetta, gli amici, quelli veri, avrebbero fatto parte
del pubblico e lo avrebbero incitato a dare di più, sempre di più,
e infine il suo progetto musicale era abbastanza riconosciuto come artisticamente
valido dalle sue parti.
Certo, quello a cui stavano partecipando era un festival di importanza regionale,
ci sarebbero stati confronti, critiche… Era una di quelle occasioni
in cui o ti stroncavano la carriera o invece prendevi veramente il volo.
E a passa trent’anni Samuel non sapeva più se sperare la prima
o la seconda cosa.
Tra un pensiero e l’altro si era appisolato e aveva fatto quel sogno.
Il toro… Il toro… Gli veniva in mente la scena di questa creatura
che cieca dalla rabbia corre contro un ostacolo non per superarlo ma per
cercare di abbatterlo.
La rabbia… Un ostacolo… Lisa.
Lisa aveva fatto proprio come il toro. Guidando la sua auto, era corsa proprio
incontro a quell’ostacolo, a quel muro, senza accorgersene, accecata
dalla rabbia, quella rabbia sgorgata dal disprezzo che Samuel le aveva “vomitato”
addosso in quella notte folle e ubriaca da dimenticare
Samuel aveva fatto un gran male a quella ragazza, un male a cui non aveva
potuto porre rimedio, il tempo purtroppo non gli aveva dato spazio.
Non aveva potuto chiederle scusa per l’insana gelosia, per averla
trattata come “l’ultima delle tossiche e la prima delle puttane”.
Il tempo gli aveva rubato la possibilità di dire a Lisa l’ultima
tenera parola e lei non ci sarebbe stata quella sera a gridargli quanto
era “bello, bravo e pazzo”, non ci sarebbe stata a giocare con
le ciocche di quella enorme frangia che gli nascondeva metà viso,
non ci sarebbe stata a dargli un bacio leggero sulle labbra per augurio.
Lisa era stata un piccolo angelo nella sua vita, un angelo che lui aveva
strappato a forza dal cielo e aveva calpestato.
Samuel si era alzato a quei ricordi, si era diretto verso il camerino, ormai
cominciava ad imbrunire, l’ora si avvicinava. Si era vestito in silenzio,
mentre i suoi compagni facevano un gran chiasso eccitati dall’evento.
Si era guardato allo specchio: quel completo nero, la camicia nera, la cravatta
rossa, la fluente frangia… Era proprio bello, sì!
Il sorriso però… Troppo triste…
Ripensò al toro, al microfono, al pubblico che tra poco avrebbe riempito
lo stadio, alla sua musica che adorava e che avrebbe cantato con tutta la
forza dell’anima, a Lisa che non c’era, ad Alexandra che lo
avrebbe aspettato fuori a fine concerto…
“Toro sto arrivando, sto entrando nel tuo spazio” si disse e
un accattivante ghigno si era disegnato sulla sua bocca mentre girava le
spalle allo specchio e usciva dalla stanza.
Dedicato agli “Interpol” (e ai “Camera con Vista”
con l’augurio di riuscire a “prendere il volo”)
Era ghiaccio, si è fatto morbido. E' neve insanguinata.
Non mi avevano detto che ti svegliavano con schiaffi.
Questa affianco ha più capelli di me, raccolti o no
qui tutti i capelli hanno lo stesso colore.
Quanto tempo dobbiamo stare fermi?
Aspetta cretina aspetta.
Intanto la neve rossa s'è sciolta.
E' fatta, l'ho fatto, è sciolto, è ora di non sapere che giorno
è.
Un po' mi muovo, mi giro a destra
per non sentire l'odore che c'è a sinistra.
Mi giro a sinistra, per non sentire l'odore a destra.
E se mi giro la sua bocca è all'ingiù come la mia,
gli occhi ancora più in basso.
"Poteva venire un po' più tardi signorina...." e quella
urla.
La neve rossa è acqua sporca
perchè la bestia piange anche se non gliel'ho detto io di farlo.
Mi cade la spallina della canottierina leggera
e c'è qualcuno che mi stringe il braccio, non sono mai stata nuda
come adesso.
Mentre nel naso mi entra con forza il cordone ombelicale
"Signorina può andare"
è quello che mi ha saputo dire.
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