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  Sole accecante, caldo torrido e un’arena deserta.
Spalti completamente vuoti.
Drappi sgargianti penzolano dalla tribuna autorità.
Vuota.
Al centro della pista un ragazzo si guarda intorno. Curiosità mista a paura gli accendono lo sguardo. Le scarpe, inadeguate al terreno, sollevano polvere mentre gira su se stesso.
Pochi metri distante un toro nero, enorme e lucido ruspa per terra, sbuffa e mugghia lanciando intorno sguardi di fuoco. Paura e curiosità: il ragazzo è diverso dai soliti matador che già conosce: ma non sai mai quand’è il momento che ti sfoderano la spada nascosta dietro al corpo.
I due si muovono intorno al centro dell’arena. Non c’è musica per questo valzer a distanza, il tempo è fermo, il sole è di tre quarti, le ombre disegnano fantasie strabiche.
Appare Hemingway.
Dietro al ragazzo.
Il toro non presta attenzione. Educatamente si disinteressa di affari privati che non lo riguardano.
“C’è un’area di sicurezza” spiega Hemingway al giovane “c’è uno spazio in cui il toro non può farti del male”.
Il suo sguardo è magnetico, anche il toro adesso sembra interessato.
“E c’è uno spazio invece” prosegue il vecchio Hem ormai privato del mare “c’è uno spazio che appartiene al toro: solo i veri matador hanno il coraggio di entrare in quello spazio e agitare la muleta.”
Il ragazzo guarda il vecchio scomparire, poi torna a girarsi verso il toro: che distoglie rapido lo sguardo, imbarazzato per essersi fatto sorprendere a origliare.
I due continuano a muoversi: il panorama intanto si è aperto: scomparse le gradinate dell’arena, hanno lasciato il posto a un orizzonte sconfinato.
Sono liberi, adesso: e continuano a girarsi intorno.