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Chiunque può contribuire al Progetto Rorschach.
I contributi ricevuti verranno pubblicati nella pagina "Fuori Quota" di ogni Macchia.
Puoi inviare il tuo contributo a info@anonimascrittori.it oppure inviarlo sul Forum di discussione.

Di seguito sono pubblicati i contributi inviati per la Macchia di Giugno.




Una squallida storia “anti-grammaticale” d’amore, morte e cosmopoliti fumatori.

1) Nel lontano Rio Bravo una giovane indiana era intenta nell’astuta operazione intitolata “Missione goldfinger”. La giovane indiana era ben fornita di Dolce Forno, quello che usano le bambine indiane per cucinare dolci, patate e scaloppine di plastica. La figlia della giovane indiana, un’indiana trapiantata in loco decenni prima, vinse, il giorno precedente, il terno a lotto sulla ruota di Bari ed il ristorante cinese “La Cina è vicina al Cinavillage” (insegna devoluta da Monsignor. Teodoro Alfieri cavaliere del lavoro e fondatore, insieme alla cognata Nicoletta degli Esposti, dell’insuccesso editoriale dell’anno: Enigmi Settimanali) vinse, si diceva, un lettore dvd compreso di spina e pile stile per il telecomando non incluso. La giovane indiana non aveva mai vinto niente prima d’ora, il suo gatto ne prese atto tristemente.

2) In quel tempo, la madre, ovvero la giovane indiana intenta ancora nell’operazione di 007, annuì un dolce dolore allo stomaco destro, una fitta acuta come un pezzo di vetro macchiato di sangue nobile, una loffa intestinale che la costrinse ad ammutinare il polmone rimanente e sporco di catrame nero. Tre mesi prima aveva sofferto di questo dilemma: comprarsi una casa in riva al mare o pagare l’affitto per una palafitta? La giovane indiana terminò la sua inutile esistenza con questo dubbio. Emanò un breve urlo consolatorio che fu udito dalla figlia non vedente che stava masticando pezzi di plastica a forma di cotoletta alla milanese “Very good and now suck my dick!” le disse il cugino, un nero dalla pelle scura nato nel carcere di San Pietro Burgo, proprio nel giorno del suo compleanno. La radio trasmetteva “Xverso”.

3) La figlia della giovane indiana rispose prontamente: “Come ti permetti?! Non senti che my mater sta male? Ingrato pervertito! Solo perché sei mio parente non è detto che debba succhiarti il testacchio!” e i due risero a crepapelle, lei masticando, lui con un erezione allucinante ed imbarazzante. Infastiditi dalle urla della madre e della zia, si recarono, non senza calpestare involontariamente tre formiche anarchiche, nella stanza adiacente: la zia stava praticando la respirazione bocca a bocca alla madre della giovane che, sfortunatamente era deceduta da ormai 33 secondi netti. “She’s death!” dissero. Non è possibile! Ho vinto il lettore dvd da poco! It’s impossible!” E la zia prese tra le braccia la figlia della giovane indiana e la consolò piangendo e bagnandole la chioma castana tinta con l’Ennè.

4) La bocca dell’ex giovane indiana era paralizzata e semi aperta, una zanzara le fece una puntura sulla tonsilla. Un acido puzzo di urina, feci e cabina elettorale stimolò la figlia che cominciò a succhiare il latte dalla zia mulatta del cugino. “Figlia mia!” disse lei con le lacrime all’occhio. Il latte colava dal seno saporito dell’orba. Il cugino nero non poté non eccitarsi davanti a tale scena. Il suo pene era in erezione ormai da sei giorni, con conseguenti problemi nel dormire e nel girovagare in piazza. La poppata terminò e due giorni dopo venne celebrato il funerale della giovane indiana nella chiesa del Rio Bravo. La bara in legno massiccio, venne acquistata usata al mercatino della Memoria di Latina. I presenti erano discretamente tristi, gli assenti sufficientemente indifferenti, il prete portò ritardo di tre minuti e si scusò.

5) Anche il diretto Cisterna-Rio Bravo portò ritardo, ma questi non aveva né biglietto né soldi e Aristide dovette pagargli la multa. Aristide e Ritardo giunsero in chiesa mentre scorrevano i titoli di coda. Il chierichetto all’entrata li invitò gentilmente di attendere l’inizio del funerale successivo. Nacque una lite che prontamente venne battezzata con olio di ricino. Lite smise di piangere ed iniziò ad eseguire qualsiasi ordine gli veniva imposto. I presenti inventarono perciò il gioco del “zittoemuto-nonpensarecipensoio”. I convenuti al funerale decisero di recarsi a casa della defunta e cominciarono: “Fai una trottola!” e la pupa trottolò. “Dai un pizzico alla padrona di casa!” e la pupa si recò al cimitero, scavò per terra, aprì la bara, pizzicò la giovane indiana, richiuse la bara, risistemò il terreno e ritornò a casa.

6) Il gioco continuò per altre due ore circa. Il clima d’ilarità prese ad imitare la defunta e svanì lentamente, alcuni presenti intrattenevano con i vicini, discussioni filosofiche riguardo il rapporto tra confetti alle mandorle e confetti Falqui, finché Aristide non disse alla pupa: “Bevi questo!” e la pupa bevve la vodka tutta d’un fiato. “Mangia quello!” e la pupa si avvicinò all’acquario, prese un pesciolino, lo mise in bocca e lo ingoiò ancora vivo. Un sorriso di bimba apparve sul volto di Lite. “Buttati dal balcone!” e la pupa ubriaca e sazia si gettò dal settimo piano del palazzo e non ritornò più. Tutti a ridere a crepapelle, tranne il proprietario della Panda parcheggiata sotto il balcone. L’unica frase consolatoria che riuscì a dire fu: “Il vetro non è un problema, il tettuccio mi costerà caro… ma per fortuna la vernice era rossa!”.

7) Il bulbo oculare di Lite, a causa dell’impatto, schizzò in bocca al barbone Egidio Candio che esclamò: “Finalmente si mangia!”. Il signor Candio divenne un senza-tetto in seguito alla caduta del muro di Berlino che per sbaglio gli distrusse la casa. Viveva da solo, la moglie lo abbandonò tre giorni dopo il matrimonio urlandogli: “Impotente tre alla seconda, voglio vedere i miei figli! Voglio proprio vedere dove vai a finire! Senza Vitasnella in offerta speciale! Ho condiviso il Condiriso con te e più non posso!”. Egidio non fece in tempo a capire. La donna era sparita e si ritrovò solo, in compagnia di una scatoletta di tonno al naturale. Giorni tristi. Giorni amari. Il signor Candio arrivò a mercificare il suo corpo in cambio di 50 euro. In una notte di luna piena l’avvocato Giugliemi lo sodomizzò ed in cambio ricevette 100 euro falsi.

8) Giugno è alle porte, l’afa s’insinua sotto le gonne dei viados milanesi, il pappone guadagna di più, risparmiando cocaina per le troie notturne e di conseguenza il pusher calabrese è costretto a smerciare più fumo del solito. Per fortuna il gruppo di amici organizzò un falò sulla spiaggia. La figlia della giovane indiana portò il fumo, il cugino nero le cartine, la zia le sigarette, Aristide la birra, Ritardo i superalcolici, il chierichetto il vino, i convenuti al funerale bicchieri e fazzoletti, Egidio niente, la sua ex moglie un fustino di Dixan, l’avvocato Guglielmi i preservativi, i viados milanesi i jambè, il pappone sei angurie, le troie notturne il rosario, il pusher calabrese il televisore portatile. Quella notte Rete4 trasmetteva “8 ½” di Fellini. Le onde del mare non disturbarono la visione del film, la pubblicità ci riuscì benissimo.

8½) La congrega di amici si addormentò sulla spiaggia. Il primo a svegliarsi fu Egidio che fece accomodare la luce nei neuroni, si sollevò e si gettò in mare con la disinvoltura di un coccodrillo. Immerse il capo nell’acqua e ritornò dagli amici dormienti. Sorseggiò l’ultima birra, baciò sulla fronte l’ex moglie, sfiorò le sue labbra con le dita e si diresse verso la stazione con l’innocenza dello scorrere di un fiume.

Fine

Angelo Zabaglio e Andrea Coffami (ringraziamo gli Squallor e Federico Fellini)

Un mare di solitudine ventosa si stende accanto alla spiaggia delle folaghe.
Il volto d'Apollo compare attraverso la pozza santa a tentarmi.
Più bello di ogni bellezza m'irride.
Il vento che passa, ferito, tra le mie dita, m'irride.
Il mondo mi guarda ,la compassione negl'occhi:  ragazza magra, oggetto d'un amore divino, un gelsomino dal profumo d'ambra gualcita, che non cercava né fama né scienza.
Altro cercavo!, ma non il dolore di quell'immagine adamantina, così irrealmente al di là di ogni bellezza del bello da uccidere tutti i desideri dell'anima, tutti i ricordi, per renderti tabula rasa per lui.
Ho rifiutato la vita del Dio, per non essere mai ancella di nessun Signore né vivere giorno per giorno scorgendo i teschi sotto la carne degl'altri.
Mi ritrovo adesso a sguazzare in un premeditato silenzio attraverso le autostrade del tempo, cieca ad ogni emozione, preda del ritmo di una musica senza note che guida le percezioni tra lamine e fori, tra fulgori e confusi tremori, inscritti nella polvere cosmica, sperma dei mondi.
Ah! Apollo!, venerato Dio di tutta la città!
Mi consacrarono a Te nel tempio alla spiaggia.
BELLO!, cinto di rami celesti, mi guardasti già là, nella zona dove il confine del sogno brucia tutti i credenti.
Ero una magra ragazza, che nessuno sfiorava, incapace di tutto, se non di nominare le Cose.
Mi stavano stretti la reggia ed il tempio.
Volevo la spiaggia.
Volevo cambiare la vita di noi, donne dell'harem di Priamo.
Mi servivo delle parole per raccontare un disagio: il disagio di chi, pur sapendo da sempre dare il nome alle Cose del mondo, è colpevole di tradimento anche solo ad alzare lo sguardo.
Per questo non volevo l'amore di un uomo, per combattere la mia battaglia di pace.
Cercavo la via per togliere il velo alle donne, superare i confini, allentare tutti i dominî .
Già allora mi pensavano pazza o strega di erba!
Perciò mi consacrarono al Dio: una magra ragazza che vuol essere un uomo.
E Lui, là fin dall'inizio, dietro le tende  e le colonne nell'aria, ascoltando questa donna così piena di spigoli, mi volle, alla fine, solo per curiosità.
Lo vidi venire in un'alba d'ambrosia, sicuro e beffardo, senza ironia: mi sembrò sulle prime un uomo di Troia, un angelo nero già pronto a ghermirmi.
Feci aria nei miei pensieri. Alzai in volo la mente per staccarla dal corpo e impedire alla guerra di entrarmi nel ventre.
Invece Lui avanzò maestoso, insieme ad una promessa d'estate.
POI MI GUARDO'.
Ed io, già pronta a fuggire, mi chiedo adesso come farò a dimenticare.
Fu come accendere il giorno di notte.
Fu come l'amore consumato in un prato di lamiera.
Fu come uscire gelati dal fuoco.
Fu come essere il guanto dell'anima del mondo.
Fu come essere il sinolo della somma sostanza.
Fu come se intere esperienze di vita si fondessero insieme per generare un'unica essenza da mille moltitudini.
Fu come percepire la forma ultima di un soffio di vento.
Fu come un intatto ritorno.
Fu come un giorno nuovo.
Fu come una scultura di luce coerente solo a se stessa.
Fu come fiutare il profumo dell'Arte assoluta.
Fu come aprire ogni poro all'inizio del mondo.
Fu come vedere la rosa perfetta.
Fu come gustare la creazione degli atomi primi.
Fu come udire tutto il visibile farsi palpabile onda.
Mi fissò, occhidritti, sputandomi in bocca il suo vero nome: buio d'estate, tempo appassito, nulla di troppo, appena toccandomi il labbro con il suo essere eterno di polvere d'oro, pieno di tutti gli uomini, di tutte le finzioni possibili, di tutti i fruscii suonati fino alla fine dei giorni, di tutte le voluttà di colore gettate da ogni Van Gogh.
Fu come superare i limiti stessi imposti dalla metrica arcana di Lui in un palpito di profumo vitale.
Fu come una tentazione di pianto.
Fu Lui, l'ineffabilmente bello, Lui, che conteneva un intero universo e i confusi sussurri di tutte le voci,  che mi lambì in un stante il poco del cuore che avevo.
CANNIBALE, mi divorò fino all'ultimo ganglio spinale.
Mi annichilì la follia e così, ubriaca e commossa, di Te, oh, mio Apollo, nudo, steso sulla terrazza del mare, aperto e disposto verso ogni mio sussulto animale,
NON RIUSCII, NON RIUSCII, NON RIUSCII, NON RIUSCII, NON RIUSCII
a percorrerti tutto!
Mi scostai, sublimata, in quella che fu una volontaria mutilazione d'amore.
Essere ed alzarti, Signore del cielo, fu un attimo unico, enorme gargoille di nuvola bianca, il viso, più bello del bello, avvolto di marcescente silenzio, elargente ogni possibile occhiata sul mondo a me, sola, tra tutte l'unica che non hai posseduto, poichè fosti la stella che sei e bruciasti nel fuoco qualunque mia intenzione di Te.
I sentieri del Tempo, adesso, davanti a me, si snodano, infiniti.
Ogni giorno mi hai, tuo vaso -vasus divinae gratiae, rosa misticha, sedes sapientiae, salus infirmorum, refugium peccatorum, turris eburnea, orapronobis-
corda d'arpa che  Tu suoni in vibrazioni di matematica misura.
Nessuno mi crede.
Nessuno ha memoria.
Così, come un'anima resa libera dalla visione, solo io so leggere il presente per predire il futuro.
IO, LIBERA DENTRO, in mezzo alle mille evidenze dei media, IO VEDO:
Passerò nella storia come meteora di ghiaccio e di fuoco.
Non sarà la mannaia Clitemnestra ad annientarmi.
Per chiunque sarò l'intuizione del dio, la formula trovata, l'eureka dell'intelligenza cui seguirà, inevitabile, il rogo, per aver cercato di ardire l'ignoto.
Inquisizioni e sovrani, religioni e partiti, multinazionali e televisioni, tutti hanno scritto il loro nome sul volto stupendo del Lossia."





- Savvatoreee, Savvato’! La posso buttare via questa bandiera?

- Mammà, ma tu si’ scema?! Quella è la bandiera della pace, ci sta pure scritto.

- Ma la guerra è finita, no? Non serve più. E’ diventata una mappina fetente fuori dal balcone.

- Mammà, ma se scoppia n’ata guerra? Lavala e mettila in un cassetto che non si può mai sapere.

Poco più di un anno dopo

- Mammà, dove sta la bandiera della pace?

- Gesù, Savvato’, e io che ne so?

- Mammà, l’hai messa via tu quando l’hai lavata. Ora serve di nuovo, c’è un’altra grande manifestazione per la pace.

- Devi vedere dentro alla cassa di zio Tommaso.

- Ma hai idea di che bordello ci sta in quella cassa, mammà? Ci stanno piumoni, maglie di lana, lenzuola...

- E tu pigliati un lenzuolo, non è buono? Tu fai tipo “bandiera bianca” della pace.

- Che ci azzecca? La bandiera bianca serve se uno si deve arrendere.

A me serve quella originale-arcobaleno!

Ma tu guarda quanto tempo devo perdere... quanta roba inutile e vecchia: invece di buttarla se la conserva...

Mammà, che cos’è questa agenda con la copertina di pelle che sta nella cassa?

- Savvatò, non gridare e vieni a parlare di qua che ho l’acqua del rubinetto nelle orecchie e nun ti sento.

- Guarda cosa ho trovato: è un’agenda del 1972, è piena di ricette di cucina. Zio Tommaso era bravo a cucinare, eh?

- Ah, stava sempre lui ai fornelli, era un poeta della tavola.

Diceva zia Assuntina che lui l’aveva conquistata con un piatto segreto che aveva inventato sotto le bombe nel 1943.

Forse sarà stata anche la fame del dopoguerra, ma sicuramente Tommaso faceva nu spaghetto che era n’opera d’arte, me lo ricordo bene. E se lo ricorda bene anche tuo padre, tu sei stato criato con l’aiuto di uno spaghetto di zio Tommaso...

Ma non ha mai detto a nessuno come si preparava. Alcuni ingredienti si coglievano chiaramente, ma c’era qualcosa che... che lo rendeva diverso.

Tu li chiamavi “zii” a lui e alla moglie Assuntina, ma erano dei vicini di casa, te lo ricordi?

- Sì, ma a me sembravano veramente come degli zii…
Guarda, Savvatò, che magari ha scritto la ricetta là dentro…

- Qui nell’agenda? ...azz, mammà, e qui ci sta davvero!
- Overo fai?

- Sì, eccola qua, scritta da lui, si intitola: “ricetta segreta”. Sarà questa!!!
- E leggi, leggi un po’ come si fanno.

- Allora: mettere olio in una zuppiera, aggiungere aglio tagliato a pezzetti e prezzemolo tritato. Colare gli spaghetti al dente e versarli nella zuppiera. Girare il tutto e aggiungere l’ingrediente segreto.

Azz’, ma’! Non si capiscono le quantità e, soprattutto, che cazz’è st’ingrediente segreto?

- E tu fallo lo stesso così com’è scritto là dentro… che importa se manca una cosa?.

- Che ci azzecca, mammà, è come se tu per esempio dalla bandiera arcobaleno della pace ci togliessi il giallo… No-o, mo’ devo sapere, devo capire e devo assaggiare.

Stai a vedere che magari una di queste sere lo preparo a Mariella e quella mi cade tra le braccia come ha fatto zia Assuntina con zio Tommaso…

- E tu ca nun sai fa’ neanche pane e nutella vorresti fare lo spaghetto di zio Tommaso?

Savvatò, ma vafangulo, va!

- Nun esiste, mammà, come devo fare per sbrogliare ‘sta matassa? Voglio la ricetta completa-precisa.

- L’unica speranza è parlare con zia Assuntina, magari lei se lo ricorda, anche se questa è storia di 20 anni fa.

- Ma dove la trovo?
- I figli l’hanno messa in una casa di riposo, tiene quasi 90 anni, loro dicono che ci vuole stare lei, io dico che per loro era diventata un peso. Che munnezza di gente.

- Hmmm, e dove sta questa casa di riposo?
- Nella provincia di Caserta, magari domani mattina chiamo la figlia e ti faccio sapere.

Uscita Caserta nord, mi faccio tutto il vialone come ha detto mamma.

A destra e poi fino alla curva

Dietro la curva... eccola: Villa Paradiso, che tristezza stu posto, a cominciare dal nome.

- La signora Assuntina Iazzetta, gentilmente...

- Assuntina “Chi”?

- Assunta Iazzetta.

- Sì, ho capito, ma qui la chiamiamo Assuntina-Chi perché non ci sta più tanto con la testa e non riconosce nessuno.

- Ah, così stanno le cose?
- Sì, ma ogni tanto ha qualche sprazzo di lucidità, l’ultimo 2 anni fa…

Girate là a destra e andate all’ultima stanza, subito dopo il termosifone che perde.

La stanza da dove sentite uscire le bestemmie, sta là!

- Andiamo bene...

Assunti’, buongiorno, come state?

Vi ricordate di me? Sono il figlio di Nunziatina.

- Nunziatina chi?

- Assunti’, sono Salvatore, il figlio di Nunzia.

Abitavate a fianco a me, a Napoli, quando c’era ancora la buonanima di vostro marito Tommaso.

- Tommaso chi?

- Oh madonna mia, Assunti’, vi ricordate di Nunzia, Nun-zia. Abitava a fianco a voi, io sono il figlio.

- Il figlio di chi?

- Sentite, Assunti’, allora, vostro marito Tommaso faceva degli spaghetti meravigliosi, vi ricordate la ricetta? Provateci.

- Tommaso mio? Eh… sì.

Tommaso era bravo a fare un piatto che era una poesia in bocca.

Erano spaghetti, una cosa che scendeva dalla bocca allo stomaco e faceva partire nu sentimento che arrivava fino o’ core.

Uno che era capace di fare una cosa tanto buona mi doveva per forza amare assai, o no?

Una magia… vi faceva scordare qualunque guaio.

- Ecco, perfetto, vi ricordate come li preparava? Quanto olio metteva, Assunti’ ?
- Lui faceva 3 giri di zuppiera con la bottiglia dell’olio, diceva che erano i 3 giramenti di testa che aveva avuto quando aveva visto a me la prima volta.

- E poi? Quanto aglio tagliuzzava?
- Uno spicchio d’aglio lo faceva in 5 pezzetti, diceva che io gli avevo fatto o’ core a piezzi e da quando si era innamorato di me nun s’erano incollati più!

- Poi tritava il prezzemolo fresco?
- Stracciava il prezzemolo, 2-3 rametti, e faceva “m’ama o non m’ama”. Poi girava tutto e ci allungava sopra gli spaghetti appena scolati.

- Assunti’, per l’amore di Dio, quale ingrediente aggiungeva prima di servire gli spaghetti la buonanima di vostro marito Tommaso???

- Tommaso chi?


Perugia, 16 novembre 2000
E’ Venerdì. Sono le 4 di notte e non ho sonno. Non credo che oggi riuscirò a dormire. Ho i sensi alterati dall’alcool, da fiumi di vino e da nuvole di hashish.
Tre candele illuminano la mia stanza, un incenso la profuma; lo stereo è acceso: Tim Buckley canta “Phantasmagoria in two”.
Sul mio tappeto ci sono bottiglie vuote, sigarette e bicchieri capovolti.
Una donna ha appena lasciato il mio letto.
Prima di prenderla ho osservato a lungo i suoi occhi: erano freddi come il ghiaccio, pieni di rabbia. Ogni tanto mi guardavo allo specchio della mia stanza: anche i miei occhi erano uguali a quelli di lei. Sembravo un lupo inferocito, affamato; e lei…per me lei era solo una cagna in calore.
Poi il sesso.
I nostri corpi che diventano un tutt’uno: il mio sudore è il suo sudore, i suoi sospiri sono i miei sospiri.
Orgasmo. Le gocce del mio piacere caldo bollente scorrono sul suo fragile corpo come piccoli ruscelli irregolari. Lei segue quel piacere con le mani. Si accarezza i fianchi, l’addome, i seni…
Me l’ero scopata. Così, con la stessa attenzione di una bestia che marca il proprio territorio.
Io maschio. Io dominatore.
Non l’avevo mai fatto in quel modo.
L’ultima volta era stata una cosa diversa. Penso a quell’ultima volta.
Allora la mia mente si apre ed esce fuori un nome: Zoe.
La rabbia e l’odio invadono il mio essere.
Zoe. Giudico quel nome e lo condanno.
E’ a quel punto che prendo una bottiglia di vino.
Mi attacco ad essa. Due, tre, quattro sorsi lunghi. La bottiglia è finita; la lascio sul mio tappeto e torno da quella donna, ma mi respinge: <<No! È tardi: domani pomeriggio devo lavorare e sono mezza ubriaca…>>.
Avrei potuto chiederle di dormire qui, ma non l’ho fatto. L’avrei fatto se fosse stata la mia donna, ma non lo è. Non è la mia donna, non è una mia amica, non è “niente” e anch’io per lei sono la stessa cosa: ”niente”.
La osservo mentre si veste. Lo fa in pochi minuti.
Si avvicina alla porta e mi saluta con un freddissimo “ciao,ci sentiamo…”.
Le rispondo con la stessa espressione.
Nessuna carezza, nessun’abbraccio. Neanche un bacio.
Lei va via e io ritorno nella mia stanza. Ho voglia di ascoltare un po’ di musica; qualcosa di rilassante. Faccio una breve ricerca e tra le mani mi capita il cd di Tim Buckley … il vecchio Tim!
Saranno mesi che non lo ascolto. Sì, ora ricordo: l’ultima volta è stato proprio insieme a Zoe, davanti alla luce del fuoco.
Si discuteva d’amore e d’amicizia.
Noi eravamo poesia.
No! non posso ascoltarlo: mi farò male di sicuro…ma la tentazione è forte. Proviamo.
Buckley comincia a far arpeggiare la sua chitarra e per me questo è incredibilmente doloroso.
Chiudo gli occhi e nella mente affiorano i ricordi:
…immagini…
…sapori…
…odori…
Sì! Fa tanto male! È una sorta di specchio. Riscopro chi sono veramente.
Io sono uno stupido romantico e questa notte sono stato un clown; una maschera di clown in mezzo a un gran deserto: la solitudine.
Ho voglia di scrivere. Prendo un foglio di carta, una penna. Trasformo i miei pensieri in parole.
E’ facile. La penna sembra scrivere da sola:

E’ venerdì. Sono le 4 di notte e non ho sonno.
Non credo che oggi riuscirò a dormire…


Garmish, 18 febbraio 1999
La Valle del Loisach ha la forma di una “U”.
100.000 anni fa, il ghiacciaio era profondo migliaia di metri. Oggi il ghiacciaio non c’è quasi più. Ma fa ancora freddo. Soprattutto d’inverno.
Zoe è nata proprio qui, in un piccolo villaggio posto in una parte del versante dove i raggi del sole vi arrivano solo per poche settimane all’anno: l’inverno inizia i primi giorni di ottobre per andarsene negli ultimi di aprile. Lei è nata a febbraio. Nevicava ininterrottamente da due settimane. Nonna Ruthild, appena la vide per la prima volta, esclamò: “sei così bianca…sembri la figlia della neve”.
“La figlia della neve”. E’ così che la chiamava quella tenera vecchina, fino al giorno in cui se ne andò con il sorriso fra le labbra. Un giorno di tormenta. “Lo vedi, piccola mia? Tua madre viene a prendermi…” le disse mentre Zoe accarezzava le sue mani.
Aveva solo 12 anni, e quella notte stessa divenne una donna.
Io la incontrai 13 anni dopo.
Lo studio fotografico mi aveva mandato a Spello per un servizio matrimoniale. Una di quelle cose che detesto di più: fotografare coppie di sposini dementi impazienti di rivedere i loro orrendi vestiti che fanno da sfondo ai ruderi medievali.
Era una giornata di ottobre: il sole quasi assente, le nuvole grigie e minacciose.
L’ideale per la mia vecchia Canon degli anni ’70. Avevo il mio cavalletto, una Yashica automatica, un po’ di rullini da 400 ISO, uno da 200, uno da 100.
Il minimo indispensabile per un fotografo del mio calibro.
L’appuntamento era di fronte alla Chiesa di S. Maria Maggiore alle 16:00.
Gli sposini si presentarono a bordo di una Jaguard verde petrolio addobbata di ridicoli nastri bianchi. Avevano un’ora e mezzo di ritardo, ma di questo non potevo lamentarmi: spesso fanno di peggio.
L’autista era un ragazzo poco più giovane di me, ma a dire dal suo sguardo doveva essere molto più sofferente: chissà per quanto tempo dallo specchietto retrovisore dovvette sopportare le “contenute effusioni” alle quali quei due si lasciarono andare, seguendo il copione che impone una giornata così solenne. Io tutto sommato mi ritenni fortunato: il lavoro era terminato poco prima del tramonto e alle prime gocce di pioggia. Avevo fatto un bel lavoro, anche se il peggio mi sarebbe aspettato in camera oscura. Avevo usato tutte e due le macchinette fotografiche, tutti i miei rullini: per rispettare i tempi della consegna avrei dovuto lavorare l’intera notte, e non solo.
Pioveva a dirotto e lei era lì, poco al di fuori delle Mura Romane, ad aspettare un autobus che sembrava non dovesse mai arrivare.
<<Posso fare qualcosa per te?>> le chiesi.
<<Devo andare ad Assisi, all’Ostello della Pace. Ma non ti disturbare. Il pulmann passerà fra pochi minuti…>>.
<<Ti stai fracicando… dai, sali! Io vado a Perugia. Assisi mi viene di strada>>.
Si fidò della mia faccia pulita e salì in macchina. Era evidente che non avevo cattive intenzioni.
Per tutto il tragitto non aprì quasi bocca. Si scusò soltanto per l’odore non gradevole che emanavano i suoi vestiti.
<<E’ cloruro di ammonio…>> mi disse con un accento tedesco. Mi spiegò che si trovava in Umbria per uno stage di tre mesi. Diceva di essere una restauratrice. <<Sugli affreschi ancora non mi fanno mettere le mani. Per quello ci pensa la mia insegnante: ora sta lavorando a Spello su un’opera del Penturicchio. Io mi limito semplicemente a pulire le colonne di travertino, a stuccarle, se necessario. Si comincia in questo modo il lavoro del restauratore…>>.
E’ così che conobbi Zoe, “la figlia della neve”.
Per me non era bellissima. Forse era proprio il colore della sua pelle a renderla così affascinante. Forse era la sua voce. Forse era il suo modo di parlare. Forse erano quelle mani così affusolate, quei polsi così esili, quasi a mostrare una fragilità infinita, un disperato bisogno d’aiuto.
Quella donna mi aveva già stregato.
Poco prima di arrivare all’ostello le dissi di essere un fotografo e che mi sarebbe piaciuto vederla di fronte all’obiettivo, se le avesse fatto piacere. Avevo esagerato: ero stato troppo invadente. Accettò il mio biglietto da visita senza dirmi nulla, ma non mi cercò mai. Fui io a tornare ad Assisi.
Insomma: non mi aveva detto di “no” e se dovevo essere invadente, cosa che non è mai rientrata nel mio carattere, quella volta dovevo esserlo fino in fondo.
Una sera l’aspettai sotto l’ostello. Scese dal pulmann e mi venne incontro con un’espressione perplessa, portandosi appresso il “suo” forte odore di ammoniaca: non sembrava infastidita di vedermi lì, solo un po’ stupita.
<<Non te ne tornerai in Germania se prima non avrò fotografato le tue mani!>> le dissi con un tono categorico ed ironico allo stesso tempo.
<<Le mie mani? Cos’hanno di particolare le mie mani?>>
<<Sono così piccole, ma vedrai…riuscirò a farti prendere una stella con quelle mani!!!>>.
In realtà nella mia mente non c’era alcun soggetto preciso: stavo semplicemente cercando di incuriosirla. E ci riuscii!
La sera seguente la portai sulla Rocca. Per arrivare in cima dovemmo percorrere una strada avvolta nella nebbia e nella foschia. Un paesaggio degno delle più desolate brughiere inglesi.
Dall’alto la piana di Assisi sembrava un lago incantato, uno di quei “quadri” descritti in quei romanzi bretoni con la dama del lago, Merlino, il Drago, Excalibur…insomma: quella magia lì.
Il sole era pallido. Era tutto perfetto!!!
Scattai soltanto due fotografie. Due primi piani.
Nel primo le aprii il palmo della mano nel “gesto dell’elemosina”: il sole, al tramonto, sembrava adagiarsi su quella mano come un leggerissimo fiocco di neve.
Nel secondo chiusi la sua mano. Dall’obiettivo vedevo il suo pugno che copriva quel debole sole morente, come se, una volta avuto quel fiocco, l’avesse stretto tra le mani.
C’ero riuscito. Quelle mani così fragili avevano preso una stella.
Tenni una stampa per me, e spedii una copia di quelle foto al suo indirizzo. Oggi me le ritrovo proprio qui, nella sua stanza, di fronte ai miei occhi. È una piccola stanza dalle pareti azzurre.
Dalla finestra si vede un grigio paesaggio alpino: fa molto freddo.
Da un vecchio grammofono, situato in un angolo della stanza, escono le note gracchiate di un quartetto d’archi di Dvorak Sopra di esso c’è una foto incorniciata. Zoe avrà avuto 8-10 anni. E’ in braccio ad una tenera vecchina da un sorriso tanto triste: nonna Ruthild.
Le foto che le ho scattato sono vicino al letto. Quella volta avevo fatto un lavoro impeccabile: guardo quei due primi piani con fierezza ed orgoglio.
Osservo Zoe mentre dorme, incantato dalla sua fragilità e dalla sua purezza: ha una vita nel suo grembo, una vita che nascerà fra poco più di un mese.
Quando la salutai l’ultima volta cercai di baciarla, ma si allontanò con freddezza: alla domanda “stai con qualcuno?” mi rispose ”più o meno…”.
Il padre del bambino è proprio lui. Quello del “più o meno…”.
Non saprei proprio come definire un “uomo” che consiglia di far abortire la propria donna e dirle: “scegli! O me o il bambino!”. Lei non l’ha visto più. Ha scelto la vita.
Questa mattina mi è venuta incontro chiedendomi di abbracciarla, mi ha preso la mano e insieme abbiamo accarezzato il suo grembo. La sua tenerezza è infinita.
Credo che sia quella tenerezza che può mostrare soltanto una donna consapevole di far crescere una vita dentro di sé. In quei momenti ho sentito un calore umano che non avevo mai provato.
Ma altre volte siamo distanti anni luce, senza scambiarci una parola per ore intere.
Forse è soltanto un fattore culturale: è quella che chiamano “freddezza del nord”?
Ed io? Perché sono qui? Cosa ci faccio? Andare a trovare una ragazza incinta di otto mesi, una ragazza che fino a pochi giorni fa avevo visto una sola volta. Che senso c’ha tutto questo?
Preferisco non darmi una risposta. Sono domande che mi fanno terribilmente paura.

Perugia, 28 settembre 2000
“La figlia della neve” è qui, ospite nella mia casa. È insieme al suo bambino. Si chiama Zed ed ora ha 15 mesi. È bello come la madre: gli stessi occhi, lo stesso colore di capelli.
Doveva venire da sola, ma poco prima di partire, mi ha telefonato dicendomi che non ce l’avrebbe fatta 7 giorni senza suo figlio. Amore di madre. Mi ha chiesto se per me sarebbe cambiato qualcosa portandolo con sé. Le ho risposto di no. Mentivo. Almeno in parte…
Sono veramente felice di conoscere il piccolo Zed: giocavo con lui quando ancora si trovava nel ventre di sua madre!
Ma io non so niente di Zoe. Non so quale mistero si cela dietro i suoi occhi grigi, dietro il suo corpo di bimba. Voglio conoscerla come donna, non come madre.
Mi sembra di far parte di un piccolo sistema planetario: Zed è il nostro “sole”, io e Zoe i “pianeti” che si muovono intorno. Amore e affetto le nostre “orbite”.
È veramente bello tutto questo, ma c’è qualcosa che mi turba: io non sono suo padre e tutto questo non è un gioco!
Alle 8:00 in punto ha inizio quello che abbiamo battezzato il nostro “rituale della sera”, tutta una serie di piccole operazioni effettuate con il massimo della cura e dell’attenzione: spogliare il piccoletto, passargli la pomata, mettergli il pigiamino, scaldare il latte, farlo addormentare con un biberon tra le mie braccia. Tutto questo mentre sua madre si sta facendo una doccia; quando ritorna, Zed ormai è nel regno dei sogni e lei, finalmente, è tutta per me.
Oggi al tramonto siamo andati alla Rocca. Era spettacolare. Tutta Assisi era spettacolare.
La città è costruita con una pietra rosa che al tramonto si tinge prima di rosso e poi di viola, un viola che ricorda l’ultimo colore dell’arcobaleno.
Sulla via del ritorno ci siamo fermati in un vecchio rudere benedettino, poco al di sotto di San Damiano. Abbiamo aspettato la notte, una meravigliosa notte di primo autunno, che non si è fatta per nulla attendere.
La luna si lasciava ammirare soltanto per uno spicchio sottilissimo, ma l’assenza di nubi ha fatto sì che essa regnasse sovrana per tutto il tempo, milioni di stelle facevano da sudditi, i grilli cantavano, le lucciole danzavano. Un ragazzo stava suonando il violino e un uomo dalla lunga barba bianca lo ascoltava dall’alto di un ulivo: con le gambe incrociate era seduto sul ramo più robusto; sembrava quasi incantato da quelle note. Entrambi concentratissimi, forse non si saranno nemmeno accorti della nostra presenza.
Noi eravamo distanti una decina di metri da quell’ulivo. Zoe si è tolta le scarpe, ha preso il bambino in braccio e, lasciandosi cullare da quella musica, ha iniziato una sorta di danza con gli alberi, le lucciole, il cielo, le stelle, l’universo intero…Si muoveva come una falena.
<<Dai, balla insieme a noi!!!>> mi disse. L’ho seguita come meglio potevo. L’erba sotto i nostri piedi nudi era gelida. Ma sembrava tutto così infinitamente bello.
Tornati a casa abbiamo acceso il camino per inaugurare l’autunno. Ogni sera abbiamo scelto insieme delle musiche per accompagnare Zed nel sonno: Suzanne Vega, John Martin, i La Crus... Oggi è toccato a Tim Buckley.
Alle note di “Phantasmagoria in two” il piccoletto dormiva già da un pezzo e sua madre giaceva tra le mie braccia. Zoe aveva il corpo fresco come la brezza primaverile, la sua pelle odorava di timo.
Era venuto il momento di scoprire le carte.
<<Zoe, ma tu cosa provi per me? Hai fatto un viaggio stressante con un bambino, uno zaino enorme e un passeggino. Riesco vagamente ad immaginare come da sola tu abbia preso la macchina, il treno e l’aereo con tutti quei bagagli. Per una settimana hai lasciato la tua casa, i tuoi amici, i tuoi genitori e i tuoi impegni per vedere me. Perché?>> le chiesi mentre il fuoco scoppiettava con vigore.
<<Questa è una domanda da un milione!! Dunque: c’è l’amicizia, ma tu per me non sei un amico; c’è l’amore, ma per te non provo nemmeno amore; però ci sono anche delle sfumature, qualcosa che sta tra l’amore e l’amicizia, ma che non è nessuna delle due…>>.
Cominciavo a provare fastidio: odio le sfumature. Per me tutto è bianco o nero. Preferisco la carta “AGFA”, io. Niente toni di grigio.
<<…e te, invece? Cosa provi?>>
Ormai l’ho capito fin troppo bene cosa provo per lei. Ma non è la stessa cosa. Non le ho detto nulla. E se non gliel’ho detto questa sera non credo proprio ci saranno altre occasioni.
Il mio silenzio era passato del tutto inosservato. Zoe rideva. Zoe scherzava. Zoe programmava viaggi: da Praga al Machu Picchu, dal Mare del Nord all’isola di Ventotene…
La sua leggerezza mi stava ferendo. Tentai una specie di rivalsa: <<…e sentiamo: quando ci vuoi andare a Praga? Fra un anno? E se sto insieme ad una donna, cosa le dico? “ciao...io manco per una settimana…vado a Praga con una che ancora non ha capito che cazzo vuole da me…una che mi vede come una sfumatura…” è questo che le dovrei dire?>>.
<<Non ti capisco! Ma cosa stai dicendo? E poi, anche se fosse, che male c’è? Anch’io quando sei venuto a trovarmi non ero sola. Avevo una relazione con un ragazzo>>.
<<Che cosa?!?>> le ho chiesto sentendomi all’improvviso il re degli idioti.
Ecco cos’erano le sue stranezze, i suoi silenzi. Stava scopando. Lei era incinta e scopava con uno che non era il padre di Zed. La parte più sporca e maschilista di me ha preso il sopravvento.
“Troia, troia, troia e ancora troia!” ho pensato dentro di me: ” troia della neve!!!”.
Ormai non ci sono più dubbi. Io l’amo davvero.
Siamo stati quasi un’ora in silenzio, ipnotizzati dalle fiamme del fuoco. Ogni tanto ci guardavamo negli occhi. I miei erano gli occhi del giudice; i suoi quelli dell’imputata.
Erano lucidi. Per entrambi. Ma qualcosa ci impediva di piangere.
Il mio era orgoglio. Il suo credo che non lo saprò mai.
L’abbiamo fatto ancora una volta. Era un addio.
Sembravamo usciti fuori da un quadro decadente, o da un verso di uno scrittore “maledetto”, ma quanta poesia in quel silenzio!
Credo che la lascerò partire, senza nemmeno avere più sue notizie.
E’ infinitamente triste tutto questo. Ma delle volte, quando le sto accanto, mi sembra di morire.
E’ come morire di freddo…

Garmish, 6 ottobre 2000
Prima di andare a dormire questa sera mi piacerebbe tanto parlare un po’ con te, proprio come facevamo nel nostro “rituale della sera”.
Mi sarebbe piaciuto molto di più chiamarti al telefono, ma quel “buona fortuna” che mi hai detto tanti giorni fa all’aeroporto mi sembrava tanto un “addio”…
Vorrei sapere come stai.
Oggi pomeriggio ti ho sognato: sei venuto da me ed io t’ho detto “bentornato!!”.
So che non potrai capirmi, ma quel sogno mi ha dato tanta gioia. Tanta forza.
È chiaro che mi manca il “rituale della sera”, ma non solo: mi manca tutto, soprattutto le piccole cose che ho vissuto con te.
Amo l’Italia. La sua lingua, la sua arte, la sua cucina. Mi sono innamorata di tutto questo sin dalla prima volta che l’ho visitata. Adesso, grazie a te, mi sento ancora più innamorata.
Sarei curiosa di sapere cosa stai facendo in questo istante. Forse starai aggiornando il tuo diario… ascoltando della buona musica…starai facendo delle foto o ti starai preparando il pranzo. Cosa stai cucinando?
Vorrei sapere tutto!!!
Ho preso una decisione importante: vorrei cambiare casa, trovare un appartamento più grande e dividerlo con altra gente giovane, con altre mamme e altri bimbi.
Sono stanca di vivere da sola in questo monolocale così piccolo! Basta!
E basta anche donare tutta la mia vita a Zed!
Avevi ragione tu quando mi dicevi che non sono soltanto una madre, che non devo dimenticare di essere una donna, soprattutto.
Sento che è arrivato il momento di riscoprire la mia femminilità.
Non voglio un uomo. Non ne ho proprio voglia, adesso.
Semplicemente devo pensare un po’ più a me stessa, oltre che a mio figlio.
Non so ancora precisamente come fare; ma è già tanto che ho preso questa decisione.
Scrivimi se ti senti di poterlo o volerlo fare. Ne sarei veramente felice.
Arrivederci.
Zoe


Perugia, 28 novembre 2000
Sono trascorsi quasi due mesi da quando mi ha scritto quella lettera.
La piccola Zoe. Giudicata, condannata, “uccisa” dal mio orgoglio in un modo che neanche oso ricordare, perché di questo…sì…provo vergogna!
L’insonnia continua ad accompagnare le mie notti. Notti che mi costringono a vagare come un’anima dannata da un locale ad un altro, tra spire di fumo, bicchieri di bourbon e musicisti ubriachi. Notti bianche senza fine che combatto con Rohypnol e massicce dosi di Tryptizol.
Questa notte non ho voglia di uscire, né di dividere la mia malinconia con qualcun altro che non sia questa penna o questo foglio di carta.
Su una rete locale stanno trasmettendo un documentario sul Kilimangiaro, il monte più grande di tutta l’Africa.
La tribù Masai lo chiama Mugai-mugai che significa “la casa di Dio”. Il cronista sta raccontando di alcuni esploratori che negli anni ’70, poco prima di raggiungere la vetta, hanno trovato il corpo di un leopardo sotto cumuli di neve e lastre di ghiaccio.
Da allora molti studiosi del comportamento animale hanno cercato di capire perché quel giovane leopardo abbia percorso tutta quella strada per andare incontro ad una morte certa. Cosa stava cercando? Nessuno lo scoprirà mai!
Mi viene da pensare a quel povero animale durante il suo cammino: la fame, gli stenti, il respiro affannato, il vento gelido…
Sicuramente deve essere stato una grande anima per scegliere di morire nella “casa di Dio”!
Scegliere. Esatto!
Quel leopardo aveva fatto una scelta. La “sua” scelta.
In un certo senso lo ammiro e l’invidio.
Ed io? Qual è la mia scelta?
Amo una donna che vive a tre paesi di distanza, ha fatto un figlio con un luminare del menefreghismo e per di più quelle poche volte che mi è stata accanto non ha provato le mie stesse emozioni.
Eppure questa sera ho scelto l’amore. Un amore amaro. Un amore di ghiaccio che continuerà a farmi morire di freddo…
Proprio come quel leopardo.


Corriere dell’Umbria, 23 dicembre 2023
Ieri mattina è stato trovato morto, nei pressi della Rocca di Assisi, un “barbone” di 53 anni. L’uomo si chiamava Michele “X”, e veniva chiamato da tutti il “profeta” per i suoi racconti deliranti a sfondo biblico-apocalittico. Parecchi cittadini ricordano che, più di una volta, aveva detto di aver “incontrato” Dio, il diavolo, i 4 cavalieri dell’Apocalisse ma, soprattutto, una figura mitologica che chiamava “la figlia della neve” e che, a quanto pare, gli aveva cambiato l’esistenza.
“X” era alcolizzato (sembra bevesse 6 “cartoni” di vino al giorno) e viveva di elemosina facendo la spola tra la “cittadella” di Assisi e la Basilica di S. Maria degli Angeli dove da tutti era amato e rispettato per il suo animo gentile e generoso.
Nelle tasche del suo cappotto la polizia non ha trovato documenti, soltanto due fotografie con un primo piano di mani femminili e delle pagine ingiallite che sembra facessero parte di un diario vecchio di molti anni.
A dare l’allarme della morte sono stati, intorno alle 8, alcuni scout che si stavano preparando ad una escursione sul monte Subasio. All’apparenza l’uomo sembrava stesse dormendo su un giaciglio di giornali e cartoni.
Gli scout hanno provato a svegliarlo senza risultato, quindi hanno chiamato il 118 e la polizia. Inutili i soccorsi, arrivati nell’arco di un quarto d’ora. Il “profeta” era già morto. La causa più probabile del decesso, secondo i sanitari accorsi, è stato l’assideramento. Il cadavere, poi, è stato portato all’obitorio. Qui è stato Frate Rosario a riconoscere in quel barbone proprio Michele “X”. Il frate, responsabile dell’accoglienza dei pellegrini nella Porziuncola, lo conosceva bene e più volte cercò, inutilmente, di tirarlo fuori dal tunnel dell’alcool.
Sale così a sette il numero di clochard ‘morti di freddo’ nella nostra regione durante il periodo Natale.


La giornata era cominciata nel migliore dei modi: attesa minima alla fermata, autobus semivuoto, libro avvincente tra le mani. E silenzio.
Poi quell’irruzione improvvisa di ragazzini urlanti. Sul "mio" autobus.
E addio silenzio e addio lettura.
Così, non riuscendo a leggere, mi ero messa ad osservare quel gruppo di piccole furie, cercando in loro le tracce di un’adolescenza che - incredibile - un tempo avevo vissuto anch’io. Adolescenza di slanci, ribellioni, amicizie morbose e fragili, passioni brevi e violente. E di crudeltà: inconsapevole quanto si vuole, ma pur sempre tale.
Perch cos’altro può essere quella feroce esclusione che gli adolescenti sanno infliggere ai loro coetanei?
Una ragazzina biondissima parlava a voce alta a pochi centimetri dalle mie orecchie. Era davvero carina, e, soprattutto, sapeva di esserlo. La più carina della classe: la condizione ideale per affrontare l’adolescenza.
Con una disinvoltura dettata dall’abitudine, si era facilmente conquistata il centro dell’attenzione: dei maschi dediti al corteggiamento e delle femmine in cerca di qualche riflesso di gloria. E’ incredibile quanto, già a quell’età, si cerchi la compagnia dei vincenti. E io, che ora dai vincenti rifuggo come fossero criminali, io che adesso non trovo in loro nessun incanto, com’ero, io, allora?
La ragazzina carina parlava e rideva, sfoderando un’embrionale ma sorprendente capacità di sedurre. Distribuiva le sue attenzioni in modo assai diseguale, secondo il grado di importanza attribuito a ciascuno. In base alla casta di ciascuno, si potrebbe dire, perché in fondo di questo si tratta, di caste: da quella superiore dei vincenti fino all’ultima degli emarginati. Con alcune intermedie.
E una distinzione: le caste inferiori sono assai più al femminile che al maschile. Loro, i maschi, se non hanno un bell’aspetto possono perlomeno far leva sulla simpatia o sulla bravura nei campi di calcio. Alle ragazzine la bruttezza non si perdona, in nessun caso.
La ragazzina carina continuava il suo show. Era facile capire quale dei ragazzetti che le ronzavano intorno godesse dei suoi particolari favori e quale delle sue compagne figurasse come l’amica del cuore. C’era però una ragazzina a cui lei non si degnava neppure di rispondere, per quanto questa si affannasse ad attirare la sua attenzione. Una ragazzina decisamente brutta. Grassa, sgraziata, goffa, quanto l’altra era snella, sinuosa, armoniosa. I capelli lisci come spaghetti, senza volume e senza linea, la faccia troppo tonda con il naso un po’ schiacciato, gli occhi piccoli coperti da occhiali spessi. Ma la bruttezza non era la sua colpa maggiore: quello che risultava imperdonabile era la sua istintiva resistenza all’emarginazione. Avrebbe potuto restare in disparte, senza dare fastidio, cercando semmai l’amicizia di compagne più alla sua portata, più disponibili. Ma lei no, non sapeva restarsene all’ombra. Voleva entrare nel cerchio di luce in cui campeggiava la ragazzina più bella, non per prenderne il posto - giacché una simile idea non poteva neppure sfiorarla - ma per godere di un po’ di luce riflessa. Tentava ripetutamente di catturare la sua attenzione, ma otteneva al massimo uno sguardo distratto, che subito si volgeva altrove, o un gelido monosillabo. E quando aveva provato ad allungare una mano per accarezzarle i capelli biondi, lei si era sottratta al suo tocco con un senso di evidente e impaziente fastidio. Meglio, molto meglio, se si fosse isolata volontariamente, orgogliosamente, se avesse reagito in maniera fiera, persino aggressiva, persino violenta. Qualunque cosa, piuttosto che quell’atteggiamento inutilmente, grottescamente adorante.
Che ne sarà di te, brutto anatroccolo? Mi piacerebbe pensarti trasformato in cigno, come nella favola, se nella vita ci fosse spazio per qualcosa di simile. Tra le braccia di un uomo che ti guarda adorante come ora tu stai guardando chi non lo merita. Affascinante donna, sicura di sé ma colma di tenerezza, quella tenerezza che tanto difetto fa, oggi, alla bella compagna che vorresti ti fosse amica. Rapita dalla bellezza intorno a te - di un quadro, di un fiore, di una poesia, di una musica - una bellezza che non arretri con fastidio di fronte alla tua mano.
Vorrei che la vita ti donasse molti e preziosi attimi di gioia, ché nulla più di attimi è lecito attendersi in materia di felicità.
Non so cosa ti riserverà il futuro. Intanto, però, è facile immaginarti nel presente, a fare da tappezzeria alle feste dei tuoi compagni, intenta ad abbuffarti di panini per ingannare il tempo.
Nessuno ti inviterà a ballare. E se uno sguardo maschile si poserà su di te, sarà solo per prenderti in giro, o per misurare la tua bruttezza.
Scendendo dall’autobus, avevo visto la ragazzina brutta sedersi al posto mio. Nessuno, pensavo, si sarebbe avvicinato a lei: sarebbe rimasta da sola a guardare fuori dal finestrino. Cos’era quello che sentivo? Tristezza, compassione, rabbia?
Fortuna che alla fermata c’era lui ad attendermi, col suo sorriso.

“La pazzia è una forma di normalità”
Pirandello

…e tutto accadde dopo un Bang!


Chissà perché appare ai miei occhi questo mare.

L’inganno dei miei stanchi occhi che credono io non riconosca questo scorcio che somiglia a quello che si può ammirare dall’alto della duna di Su Giudeu, la duna di Chia che da un lato guarda all’isolotto scuro come il miraggio di una testuggine gigante che quieta si allontana dal mondo degli uomini e dall’altro volge a est, ricongiungendo questo lembo di terra alla spiaggia del Morto, il luogo in cui a lungo ho riflettuto sugli sbagli che ho commesso nella mia vita, disteso su quella sabbia dorata che ha la capacità di riportarmi ai granelli di una vita passati con te babbo, e con tutte le cose che ci siamo detti e che vorremo dirci per sempre ancora.
Ma oggi è un giorno strano, lo sento, e tutto ciò che vorrei dirti ho paura si dissolverà con un soffio di vento su questo tormentato deserto. Tutto ciò che vorrei dirti vorrei ti arrivasse in un istante, in questo giorno distratto, che potesse svelarti l’ultimo dei segreti celati in un anello mancante fra ciò che sai dei miei pensieri e ciò che reputi veramente importante.
Io sono qui, ora ma non per sempre. Ora sono qui con i pensieri che mi sfuggono dalla mente, con lo sguardo ingannato da un paesaggio inesistente, mentre tremo per la paura di non riuscire ad arrivare al mio ultimo pensiero.
Ma sappi che tutto ciò che ti avrei voluto dire, oggi, è qui con me, tutto ciò che non ti ho spiegato ho provato a immaginare che tu lo percepisca con il messaggio che io ho affidato a questo vento secco perché lo porti da te.
Ti vorrei dire che ogni volta che ho tolto un proiettile dal caricatore, ogni volta che ho avuto paura di sparare e ho mirato in alto, mi chiedo se ho colpito, se ho ucciso anche io.
Ogni volta ci penso, mi chiedo il perché.
Ogni volta.
Babbo io ogni volta che esco tolgo un proiettile e spero che non mi servirà, spero che non sia l’ultimo che mi rimane.
Il maresciallo Cherchi mi ha insegnato a fare così, lui dice che lo fa perché se è spacciato non vuole concedere a nessun altro il diritto al suo ultimo colpo.
Dice anche di mirare per colpire, sempre.
Ma io babbo non lo faccio, e non so perché conservo il mio ultimo colpo, lo faccio e basta.
Ogni volta che mi chiedo perché sono qui poi penso che potrei essere lì con te a litigare per la malsana passione che nutriamo nei confronti di quella politica demenziale, oppure penso che potrei passeggiare per ore fra le calde dune dell’inverno di Chia o continuare a guardare il cielo turchino di Cagliari, senza annoiarmi, pensando che vivo nel posto più bello del mondo.
Oggi sono qui, lontano, ma non riesco più a vedere questa distesa di sabbia morta che mi circonda e sento che forse avevi ragione quando pensavi che partire fosse una pazzia, ma non hai avuto il coraggio di dirmelo quando mi hai accompagnato all’aeroporto.
Mamma invece me l’avrebbe detto eccome. Se ci fosse ancora forse lei mi avrebbe convinto, lei mi ha sempre convinto.
Mi diceva di usare la testa, mi diceva che il pensiero degli uomini è un’arma il cui sparo cambia il mondo, ma il cui uso non è alla portata di tutti, perché il pensiero è l’arma che i potenti negano ai poveri.
Se ci avessi pensato allora non sarei partito.
Ma tu babbo sei vecchio e malato ed io ho messo la firma anche nella speranza di aiutare te. L’unico modo per provare a stare bene era questo. Anche se oggi penso che avevi ragione a dire che acqua pane e qualcosa nel piatto ti fanno andare avanti.
Ma io ho sentito il rumore dei soldi, il loro fruscio.
Quando uno ne ha tanti non conta mai quante monete ha nella tasca.
So che pensavi che avevo torto a dire che nella Brigata Sassari è più forte il sentimento di fratellanza fra i sardi.
La fratellanza, la forza di questo sentimento di appartenenza è la conferma dell’autenticità della nostra identità.
Ogni volta ci penso e forse avevi ragione a dire che noi sardi ce ne accorgiamo solo quando siamo fuori, quando abbiamo bisogno di cantare un inno fino a farci scoppiare il cuore perché siamo lontani da quella terra che genera tutte le nostre malinconie, quello scoglio in mezzo al mare che amiamo chiamare Sardegna.
Lontani e consapevoli di ciò che non accettiamo di noi stessi e distanti dagli altri, sicuri che sia impossibile ci possano comprendere, gli altri, che straniti ci guardano quando facciamo sventolare festosi i quattro mori nei cieli del mondo.
La fratellanza, è vero, ci precede fuori per riportarci dove apparentemente non ne abbiamo bisogno, a casa, ma ora capisco che più che altrove è lì, nella nostra terra che si leva alto un grido inascoltato che invoca fratellanza, un lamento che implora unità e impegno. Un grido nato sordo che noi stessi non siamo in grado di ascoltare poiché qualcuno ci ha sempre impedito di parlare. E anche stavolta avevi ragione tu.
Ogni volta ci penso babbo.
Ogni volta che esco e tolgo un proiettile, ma fino ad oggi non avevo mai saputo il perché.
E in questo momento lo so, sento di saperlo.
So perché miro sempre in alto sperando che le raffiche finiscano presto e quelli laggiù si arrendano, che quelli laggiù si dimostrino più ragionevoli di noi.
Lo so.
Ogni volta che ho tolto un proiettile dal caricatore l’ho fatto perché è un colpo in meno babbo, l’ho fatto perché è un pensiero in più.
L’ho fatto per la mamma e per te e per l’uomo che mi avete fatto diventare. Lo fatto per la mia sorellina, affinché il germoglio appena venuto alla luce dal suo grembo possa non vedere mai quanto è brutta la guerra e quanto è brutto l’uomo che la porta nel suo cuore.
L’ho fatto perché spero sempre che chi mi sta di fronte possa tornare ad abbracciare la sua umanità tradita e possa osservare il cielo di Nassyria senza quei rumori rimbombanti di elicotteri e aerei che rompono il fiato e infrangono i sogni di chi li guarda.
Questo cielo, il cielo di questa gente, quello che ho davanti ai miei occhi stanchi, dopo tutti questi mesi ho capito che non è tanto diverso da quello che i miei sogni mi portano a immaginare. Quello che in un respiro della Barbagia di Belvì mi ossigena il cervello fino a farmi provocare un breve mancamento, ma che poi mi fa sentire più forte e parte del paesaggio che sono intento ad ammirare.
L’ho fatto anche per questo e per la possibilità che questi bambini non guardino più verso l’alto con la paura di perdere tutto per sempre.
Ricordo, sì, io ricordo quando guardavo il cielo e vedevo gli aerei alzarsi in volo dalla base americana di Decimo. Ricordo babbo, quando ci eravamo appena trasferiti e tu babbo mi sollevavi con forza e mi facevi pensare al loro modo potente e leggero di liberarsi dal peso della terra.
Pensavo che erano dei bellissimi uccelli, puri sogni di una libertà più veloce del suono di tutte le parole del mondo.
Oggi li vedo ancora ma non sono più così, non sono mai stati così e non lo saranno mai, ma allora non lo sapevo. Non saranno mai così gioiosi per i bambini di questa parte di mondo che quando li vedono scappano impauriti come se stesse arrivando il più terribile fra i demoni. Lo vedo nei loro occhi, per loro quegli aerei sono il più incomprensibile degli spettacoli, la morte che arriva dall’alto con un rombo assordante.
Non saranno mai dei bellissimi uccelli, eppure io lo sentivo davvero che riuscivano a liberarsi dal peso della terra, come ora anch’io riesco a fare con l’immagine di quella testuggine gigante che parte per il mare.
Come tutti credo riusciremo a fare.
Ed è per questo che ho tolto il proiettile, perché possa finalmente in un istante ritornare… … …
                                                                                          … … …
                                                                                              … … .
                                                                                                   …
                                                                                                        …
                                                                                                            ..
                                                                                                               .
                                                                                                                      da te.

Un ragazzo, con un borsone da palestra, salì dietro di lei. L’autobus ripartì mentre lentamente la piccola folla di persone, che erano appena salite, obliteravano il biglietto. Venne il turno di Luna che guardava ogni cosa con occhi stupiti.
Conservò il biglietto, guardò per un attimo il giovane che la seguiva e poi trovò un posto libero dove poté sedersi.
Si divertiva a guardare fuori dal finestrino. Guardava nelle automobili che passavano sotto di lei e immaginò che un giorno ne avrebbe posseduta una. Lungo il marciapiede, scorrevano file di vetrine invitanti, in vita sua non aveva mai visto tante persone camminare per strada. Una ragazza bionda guardava la vetrina di una negozio di vestiti, un giovane elegante camminava a grandi passi, portando una bella cartella di cuoio. Uomini e donne stavano seduti ai piccoli tavoli davanti ai bar.
Lentamente l’autobus uscì dal centro e incominciò ad andare più veloce. Qui i marciapiedi erano quasi deserti, le vetrine dei negozi più rare e meno attraenti e le automobili passavano accanto all’autobus, senza darle il tempo di spiare le persone che l’occupavano.
Dopo un po’ si stancò di guardare fuori. Per stare più tranquilla andò dal conducente. Si meravigliò quando scoprì che a guidare l’autobus era una donna, esile e giovane, coi capelli lunghi legati a coda.
L’autista, senza togliere gli occhi dalla strada, le confermò che c’erano ancora otto fermate e finalmente la nona sarebbe stata la sua. Nessuno aveva occupato il posto che aveva lasciato libero. Incominciava a sentire la stanchezza. Decise di sedersi di nuovo e senza entusiasmo riprese a guardare fuori dal finestrino.
Il ragazzo con gli occhi azzurri scese alla sua stessa fermata, i capelli neri del maschio riflettevano gli ultimi raggi del sole al tramonto.
Gli chiese da che parte fosse via Oberdan e lui si offrì di accompagnarla...................
(continua?)
Mi sto annoiando anch’io, figuriamoci voi che dovreste leggerlo, per questo il punto di domanda dopo continua mi sembra sacrosanto. Sacro, non saprei dire perché, santo perché i santi fanno i miracoli, e tutti, incominciando dal sottoscritto, accogliamo come un miracolo l’interruzione improvvisa del racconto: noioso più noioso di una mosca che ti annoia, infastidendoti fino alla noia, scontato come i giacconi di montone ai saldi di fine stagione. Ma non vi rallegrate, perché potrei decidermi di finirvelo di raccontare, e questa è una vera e propria minaccia. Dai giornali di domani su nove colonne: OTTO MORTI PER NOIA NELLA SOLA GIORNATA DI IERI E OLTRE CENTO RICOVERATI, AFFETTI DA NOITE ACUTA, NEGLI OSPEDALI CITTADINI A CAUSA DELLA SIRENA SPENTA. E dovete sapere ancora che ho in mente almeno millecinquecento finali, ma tanto per andare a letto leggeri ve ne propongo solo due, anche perché stanno in tema alla macchia di giugno, ecco cioè volevo dire che quella di giugno è una macchia che prospetta principalmente due finali che poi vi dirò. Intanto facciamo chiarezza. Nella macchia di maggio, quando un conducente indicò a Luna il 19, doveva dirsi le indicò e niente affatto gli indicò, trattandosi di una Luna di sesso femminile, un po’ più su, quando io sottoscritto dico ognuno dice scriva tace quello che gli pare e piace, scriva doveva essere scrive, infine, proprio alla fine della macchia Luna diventa Eva. Se qualcuno e ne è accorto, sai le critiche nel forum, dovrei proprio andarci a dare un’occhiata, lo farò quanto prima, ma intanto da vero scrittore moderno, potrei sostenere che questi pseudorefusi nascondono significati simbolici e tanto reconditi, che nemmeno io stesso me ne rendo conto, specialmente con Eva/Luna potrei fare il bello e il cattivo tempo del simbolismo inconscio che dirige l’atto squisitamente creativo (non significa niente, ma a qualcuno queste cose piacciono), ma se debbo dire la verità i refusi presunti, sono veri e genuini e mi ci sono proprio scappati. Una notizia da prima pagina, uno scoop da pagare a peso d’oro e punto e basta. Ma ritornando ai finali, ecco il primo. Primo finale: il ragazzo col borsone e i capelli neri, non è il bravo giovane che sembra. Luna gli (e non le) chiede di indicargli la strada. Lui fa finta di essere un gentiluomo e si offre di accompagnarla. Strada facendo, il ghiaccio si scioglie, non del tutto s’intende, altrimenti Luna verrebbe giudicata una troppo facile, e si raccontano un po’ della loro vita. Quando il ragazzo, che potremmo chiamare Andrea, o anche Maurizio, ma forse è meglio Alex, diminutivo di Alessandro che fa più fico, sente che Luna cerca una sistemazione per la notte, e poi da domani inizierà a cercare una sistemazione per tutta la vita, le (questa volta ho scritto giusto) propone un affare. C’è un suo amico che deve affittare un monolocale già arredato proprio a pochi metri da qui, e l’affitto è praticamente gratis. Luna, che ha pochi soldi, pensa di essere stata fortunata a incontrare quel bravo giovanotto, alto e muscoloso, e si fa condurre senza troppa resistenza nel suddetto monolocale. Ma appena arrivati, si accorge subito che non c’è nessun amico che affitta monolocali e il bravo ragazzo potrebbe essere anche un cattivo ragazzo, la stanza è in disordine, proprio uguale uguale a quelle che ha visto in televisione nei film polizieschi. Cerca di immaginare cosa potrebbe capitarle, restando sola per la prima volta con un uomo nel chiuso di una casa, che anche se è un monolocale è pur sempre una casa, però non ha tempo per riflettere e meditare sulle sue sensazioni, perché lui, che continua a avere modi gentili, ma si vede subito, non so da che cosa, forse dagli occhi lucidi o dal rigonfiamento dei pantaloni, che il suo atteggiamento è cambiato, le offre da bere e al terzo bicchiere, Luna che era abituata a bere solo acqua, un po’ di caffè ma veramente solo un goccio la mattina, gazzosa, Coca Cola e Fanta, inizia a avere la vista annebbiata e le idee ancora più confuse. L’epilogo è scontato, lui la violenta, e dopo aver vinto l’iniziale difesa di lei, dopo pochi minuti di lotta impari (non dimentichiamo che lui è un tipo atletico e muscoloso), Luna è completamente alla sua mercè e nel giro delle ultime quattro pagine del racconto, senza trovare troppa resistenza da parte di lei, riesce a farsi fare un pompino con ingoio, la svergina, le penetra anche nel culetto con le dita e col cazzo che è anche meglio di quello del pornattore più affermato, dopo averla brevemente lubrificata con la saliva, e infine le viene in faccia emettendo una quantità industriale di sperma che sembra latte condensato. C’è chi può e chi non può, e il giovane ex bravo ragazzo, evidentemente è tra quelli che possono senza chiedere mai, tenendo anche presente che se siamo stati attenti, questa è la quarta venuta. Poi una frase rivelatrice del racconto, tipo la notte scendeva, e i ricordi ritornavano ad affollarsi nella mente di Andrea o Maurizio o Alessandro detto Alex, come cazzo vogliamo chiamarlo lo chiamiamo, erano ricordi di un’infanzia che non aveva mai avuto, e si affollavano micidiali nella sua mente malata, ma il corpo era ancora quello dell’atleta che aveva sognato di essere, e che un padre padrone e una matrigna ingrata e senza cuore, non gli avevano permesso di diventare, ci dice il resto Questo dimostra che tutto il racconto si impernia sull’incontro scontro di due esseri sognanti, nei quali però il caso, la natura, la sfortuna, quello che ci vogliamo mettere ci mettiamo, ha condotto su strade diverse, facendo diventare il maschio vittima e carnefice allo stesso tempo, e la donna vittima e eroina sacrificata sull’altare del sogno che si trova proprio dietro l’angolo, ma fa anche pensare che la vittima/carnefice, ha ancora qualche cartuccia da sparare, perché il riferimento al corpo muscoloso, questo richiama. E se vogliamo aggiungere una nota anche più spinta, possiamo metterci che prima di abbandonarla al suo destino, la cosparge di urina, in altri termini le piscia addosso, col suo affare ancora mezzo duro che sembra la lancia di un pompiere, e la sequenza potrebbe durare anche dai due ai tre minuti, cioè mezza pagina. Poi lui la lascia sola nel monolocale, che non si è capito bene a chi appartiene, e Luna, mezza sbronza e tutta fradicia, guarda con occhi che dovrebbero impietosire. la parete nuda della stanza, e vede comparire il cielo, e tra le nuvole un mezzo gatto nero, che notoriamente il gatto nero tutto intero porta sfiga, come a dire che i sogni si realizzano sempre ma solo a metà. Credo che tutto sia in tema alla macchia di giugno: la sirena spettinata di maggio, ha subito violenza e si è accasciata dicendo chi me l’ha fatta fare a fare la sirena potevo anche starmene al mio paese e sposarmi con il figlio del barbiere, che se non è proprio bello, almeno mi radeva i peli senza farmi male, e invece eccomi qui, che adesso mi tocca almeno farmi la doccia, e io che stasera volevo andarmene a letto presto, mannaggia ora chi lo dice a Maria, e sai le critiche di quei vecchi sempre seduti davanti al bar a scommettere se sei ancora vergine o l’hai già data via e anche il cielo che vedo è solo un cielo finto, tanto lo sanno tutti che i mezzi gatti non volano. Ma la stessa macchia di giugno, ci autorizza a raccontare il secondo finale, che fino a un certo punto è uguale al primo, almeno fino a quando non entrano nel monolocale. Da questo punto in poi, secondo finale, possiamo immaginare un monolocale pieno di scheletri, dentro e fuori l’armadio, e Luna si spaventa a morte, chiunque si spaventerebbe vedendo tanti scheletri tutti insieme, ma poi si capisce che il ragazzo è uno studente di medicina, che sta preparando anatomia, è orfano di padre, la madre, alcolizzata, vive a mille chilometri di distanza, anche se l’odore dell’alcol arriva fin là, e lui si guadagna da vivere e si paga gli studi, facendo l’istruttore in una palestra appena fuori città, e così di questo passo, fino a quando trovano il coraggio di confessarsi che si sono innamorati l’uno dell’altra e viceversa e fanno l’amore in un parco deserto vicino alla palestra dove lui lavora, che questo è logico, perché a farlo nel monolocale, che il ragazzo ha potuto prendere in affitto solo per la bontà di una nobildonna rimasta prematuramente vedova, ma tra di loro c’è solo una forte simpatia, anche se una volta hanno fatto del sesso, ed è stato penoso per lui confessarlo a Luna, una delle scene migliori di tutto il racconto, non verrebbe bene tra tanti scheletri anche se custoditi solo a scopo di studio, e dopo essersi teneramente amati, restano abbracciati a guardare il cielo seminuvoloso ma non minaccioso, e il mezzo gatto è solo il riflesso di un cartellone della pubblicità, che sta in cima al grattacielo giù in città e a intervalli regolari viene investito dal fascio di luce di un potente faro. Logicamente questi sono solo due possibili finali, e soprattutto sono solo dei finali e qualche spunto, in mezzo possiamo metterci tutto quello che vogliamo, tipo uva soda, hamburger, cetriolini sottoaceto, patatine fritte, uno strappo muscolare, qualche amico che vuole scoparsi Luna, qualche amico che si scopa Luna insieme a lui al quale non abbiamo ancora dato un nome definitivo, così ne viene fuori una bella ammucchiata, ma solo nel caso scegliessimo il primo finale, e tante altre cose ancora. L’importante è restare in tema con la macchia, cioè con l’idea che ci siamo fatti della macchia (tanto più che la macchia rievoca una sirena accovacciata tra le gambe di lui, o una sirena accasciata contro un sofà disastrato, segno che la stessa medesima cosa può dirci cose diverse, tipo pace e serenità o angoscia e tormento, e noi siamo liberi di scegliere), e adesso a me viene l’idea che è il momento di smettere, e restare in attesa della prossima macchia. Vedremo se mi ispirerà il proseguo del racconto, ma anche se me lo ispira, quasi quasi vi invento qualcos’altro, uno, perché di storie come quelle le leggiamo sui giornali, due, perché fa caldo e il caldo è infernale quando è veramente caldo e non si adatta a creare l’atmosfera per scrivere una storia bella pulita secondo le regole, tre, perché al mio paese da stanotte abbiamo il nuovo sindaco e questo con c’entra niente con le macchie, ma una serie di barzellette potrei anche raccontarvela, a incominciare dal fatto che uno spende sessantamila euro per la campagna elettorale e chiede il voto perché, giura su dio, vuole solo il bene del popolo, quattro, perché al posto di raccontare qualcosa potrei anche scrivere una poesia, ma non vi aspettate la rima, e non è una promessa, è meglio dirlo subito, altrimenti ricomincia la storia delle cose dette e non mantenute e io non ho sessantamila euro, cinque, ho notato anche l’assenza di Barbara tra i macchiaoli di maggio, o forse è solo il mio computer incapace di aprile il collegamento?, e questo mi preoccupa, sia per il mio computer, sia perché la pattuglia si assottiglia, e poi la Barbara mi stava simpatica, come simpatico mi sta tutta la truppa dell’anonima e compagni, che mi sembra libera e abbondante, e senza comandanti che vogliono salvare il mondo e le anime racchiuse dentro i corpi, per condurle nelle sfere alte del celeste impero. Di celeste amo il cielo e il mare e gli occhi delle donne. Ciao, divertitevi in vacanza e non spellatevi il naso sotto il sole. Usate la crema protettiva. Ci risentiamo a luglio. Forse.

- In una lepre entrerò gemendo …….affanno e dolore patirò e nel nome del demonio andrò . Si finchè a casa non tornerò. –

Crocifissa canticchiò queste parole che aveva sentito chissà dove, ignorandone il significato e guardando intensamente un surfista abbronzato che scivolò poco dopo. Era sdraiata sul suo stuoino di cocco sistemato ai limiti del bagnasciuga ,godendosi in santa pace la domenica ventosa.
Era di buon umore dopo la serata passata a cena con quel tenero interista di Silvano, che con i suoi modi gentili le aveva chiesto scusa per averla trascurata durante le serate degli europei di calcio. Lei, le partite le aveva seguite a casa con suo padre ed ancora una volta si era concentrata a far perdere l’Italia, dunque non aveva più dubbi nel aver contribuito personalmente alla debacle degli azzurri.
Era una maledizione che aveva sin da piccola, era dotata di leggeri poteri magici che potevano incidere sul destino agonistico altrui, si allenava di continuo e le sue vittime privilegiate erano i partecipanti ad eventi sportivi che era costretta a seguire , questa sua natura di porta-jella la teneva tutta per se, a volte non si schierava volutamente perché temeva che la compagnia avrebbe scoperto che immancabilmente la squadra che prendeva in antipatia era destinata a fallire miseramente. Era stato così quando seguiva controvoglia il suo migliore amico Ermes alle partite di baseball e rimaneva delle ore in balia di tutti gli insetti attirati dai grossi fari del campo , sia che simulasse di tifare urlando ,sia che stesse lì impalata a farsi spiegare per l’ennesima volta lo svolgimento del gioco dai vicini birraioli seduti in gradinata , il risultato non variava ,forze negative spiccavano il volo dal suo inconscio annoiato ed il team non vinceva mai in casa.
Non bastavano tutti i riti scaramantici eseguiti ad arte negli spogliatoi ed i copiosi sputi di tabacco masticato a rompere quella barriera di sfiga che aleggiava durante le partite .
La formula uno l’aveva seguita a casa di amici solo una volta ,troppo pericolosa, per fortuna l’effetto soporifero aveva fatto capolino dallo schermo e si era addormentata dopo la partenza , svegliandosi indolenzita poco dopo l’arrivo altrimenti non voleva neanche immaginare gli eventi nefasti che sarebbero potuti accadere sulla pista bagnata .
Scrutando il mare, gli sembrò di vedere un gatto nero sul surf , che cavalcava le onde e pensò che forse era rimasta troppo esposta ai raggi solari senza protezione e che per rimediare all’insolazione in atto l’unico modo era trovare refrigerio all’ombra del baretto.
Mentre sorseggiava una spuma, il telefonino diede cenni di vita e sperando in un messaggio amoroso lesse invece che un tale presdelcons la invitava a votare, in quell’istante capì che era tempo di lasciare in pace gli sportivi e cominciò a concentrarsi sul simbolo della croce e la sua scarogna nera venne attratta da una parola astratta che da sola era infinitamente affascinante ma se usata a sproposito…..

Il nostro corpo riceve la vita dal profondo del nulla. Esistere dove non vi è nulla è il significato della frase: "La forma è vuoto". Il fatto che tutte le cose traggono sostentamento dal nulla è il senso del motto: "Il vuoto è la forma". Sarebbe errato pensare che si tratti di due concetti distinti. (HAGAKURE; II, 31)
 
Si era spogliato anche lui ed ora si stava dirigendo verso il bagno, aveva chiuso gli occhi e cercava di dilatare i pori della pelle per sentire il più intensamente possibile i profumi, il calore e l'umido che stava proveniendo dalla vasca fumante ed odorosa. Profumi di malva e di timo lo rendevano il protagonista di fiabe esotiche, che bella idea e quel delicato profumo di cocco, che bei ricordi.
Lucio lacrimava di una disperata felicità, oltre la soglia del del bagno c'era il suo deiderio. Passo dopo passo sentiva nelle sue mani crescere energia era una potenza incontrollabile così univocamente forte da miscelare istinti killer ed istinti suicidi, istinti creativi ed istinti generativi: era energia d'amore.
Il suo adorato amore era finalmente tornato e non appena aveva incrociato il suo sguardo aveva, in un istante, ripercorso quei sette mesi di cinque anni prima in cui si era scoperto, in cui aveva ricostruito se stesso, in cui aveva liberato e conosciuto il vero Lucio.
Mentre stava camminando lungo il corridoio riviveva quegli splendidi momenti passati, trascorsi con il suo amore. Nonostante i tanti anni la memoria non aveva concellato neanche il minimo odore e la più insignificante immagine.
Il ricordo allora lo riportò in dietro nel tempo e si trovò di nuovo seduto in quel pub così affollato immerso nella contemplazione di una figura, di una voce e di un suono che lo aveva catturato non appena era cominciato il concerto. Riusciva addirittura a sentire ancora una volta il delicatissimo profumo di cocco che quel corpo sprigionava e che si faceva spazio fra l'odore di fritto e di fumo del locale. Il suo amore, quello che -al tempo- súbito si rese conto sarebbe stato il suo amore, indossava, lo ricordava benissimo, dei pantaloni neri e stretti, che tuttavia si allargavano leggermente alle estremità ed un'attillatissima maglietta nera con delle imprecettibili strisce bianche che ne sottolineavano la longilineità delle forme. C'erano volute ben due canzoni, dieci minuti circa, un'eternità, poi finalmente era riuscito ad incrociare il suo sguardo e da lì in poi non avevano più smesso di attrarsi.
Il pub, in quell'ora e mezza di suoni e melodie, era diventato il loro mare, il loro sole, la loro aria, il loro spazio infinito: solo loro due. Era lì che ammirava il suo splendido amore che ballava ed ancheggiava, che si strusciava all'asta del microfono, che si avvolgeva in quell'allettante boa di pelo fucsia e rosso cantando parole che man mano uscivano da quella splendida bocca e gli si conficcavano nella testa, definitivamente.
Lucio stava camminando lungo il corridoio dell'appartamento, ricordava e sognava.
Poi era finito il concerto, quella divina figura amorosa era scesa dal palco senza mai distogliergli lo sguardo con i suoi occhi profondi, quegli occhi parlanti gli dicevano che loro due erano uguali, erano nati ed erano stati creati per vivere insieme.
 
Quando si è determinati, l'impossibile non esiste: allora si possono muovere cielo e terra. Ma quando l'uomo è privo di coraggio, non può persuadersene. Muovere cielo e terra senza sforzo è una semplice questione di concentrazione. (HAGAKURE; I, 144)
 
Quella galassia amorosa, Lucio era già chiaramente certo di aver disvelato e trovato il vero amore, si avvicinava, più la distanza diminuiva più l'adrenalina cresceva. Quando furono vicinissimi si baciarono. Si erano già detti tutto.
Fu il bacio più appassionato, più intenso, più coinvolgente che chiunque avesse mai provato o anche solo cercato di immaginare. Per un secondo anche tutti i clienti del pub furono costretti a non muoversi, senza capire il perchè sentirono una potenza energetica che per un istante li colpì e che per quell'istante non gli permise di parlare e di respirare.
Lucio finalmente raggiunse la porta del bagno, la aprì: che splendore!!!
Dopo cinque anni poteva di nuovo ammirare ed adorare quel corpo, quella pelle delicatissima e luminosa; poteva celebrare le stupende forme del suo amore; poteva assaporarne il sapore e sentirne il profumo.
Il suo amore era lì, Lucio si avvicinò, si ingionocchiò ponendo i gomiti sul bordo della vasca cominciando, così, ad osservare quella fantastica creatura con lo sguardo che solo un dio ha il diritto di ricevere. Solo dopo quel breve istante di ebbrezza trovò la forza di cominciare una lenta e lussuriosa carezza: il suo naso, le sue labbra e quel magnifico petto. La pelle era così liscia ed il corpo così ben modellato e proporzionato da lasciare chiunque senza fiato. Dolci, dolcissime carezze che si prendono ogni minuscola parte del corpo; Lucio ne voleva sempre di più: quelle cosce così sode, i piedi perfetti, le caviglie sottili.
Quando arrivò a toccare il sesso. Lucio ebbe un fremito...quasi un orgasmo. Gli passarono davanti agli occhi le mille e mille volte che avevano fatto l'amore, le mille carezze, i mille baci. In piena estasi, ma recuperando un po' di controllo Lucio sfiorò quello strumento di piacere, con un movimento felino si chinò e lo baciò: era profumato e saporito. Voleva magiare quel frutto di lussuria così tirò fuori la lingua che si avvilupò, si inserì, si soffermò e poi riprese vorticosa la sua opera. Sentiva tutti i brividi che ogni sua azione riusciva a stimolare in quella fonte del suo desiderio e ad ogni contrazione Lucio provava a sua volta un piacere centuplicato.
L'eccitazione stava raggiungendo i culmini che ben ricordava. Mentre si dedicava con passione a quell'opera di sopraffina lussuria riusciva anche ad immaginarsi dall'esterno come se fosse un terzo spettatore: lui inginocchiato di fianco alla vasca che dava e prendeva piacere, con quell'acqua profumata da sali indiani che tiepida gli carezzava il volto e gli allargava le narici.
Il solo pensiero di quella scena permise alla sua eccitazione di trasformarsi in orgasmo. Tuttavia, allo stesso tempo, si  rese conto che ancora una volta quello statuairo fisico  e l'immenso piacere di erotismo sensoriale che gli si diffondeva lungo tutto il suo corpo lo stavano facendo soccombere, quel pene lo stava ancora una volta ammansendo. Lucio ebbe finalmente chiaro, come mai lo aveva avuto, che quel membro era lo specchio dell'anima di Antonio: era affabile, ma potente.
Continuò quella masturbazione così felina, aggrazziata e allo stesso tempo violentemente ed eroticamente pornografica. Nonostante i pensieri che gli si stavano ammucchiando nel cervello non avrebbe mai potuto fermarsi, non era in grado di arrestare quel piacere che si stava concedendo. La mano destra che fino a quel momento aveva cercato di apprezzare tutti i lineamenti del torace e dell'addome di Antonio, delicatamente si sollevò e andò a carezzargli il capo.
Finalmente Antonio aprì gli occhi ed i due amanti si guardarono. Lucio comprese, allora, che il suo rancore non era più semplicemente la ragione per quello che i suoi stimoli celebrali gli stavano suggerendo di fare, quel rancore, adesso, era una necessità di sopravvivenza. I capelli di Antonio vennero afferrati e chiusi nella presa decisa di Lucio.
Il braccio era forte, il braccio spinse giù: uno, due, tre, quattro, cinque, sei  secondi.
Antonio scosso dal repentino e deciso movimento del suo amante e nell'impossibilità di respirare si dibatteva maldestramente dentro la vasca, anche perchè la mano sinistra di Lucio continuava, dopo il gesto d'affondo, a cercare l'orgasmo del compagno. Poi finalmente il braccio gli permise di riemergere.
 -Mah!!!-
-Zitto!!!- gli impose Lucio, -Ti ricordi quello che mi dicevi? "Un ragazzo ricevute le appassionate lodi del suo compagno si trasforma in un narciso sognante, tu lo sei per me ed io lo sono per te". Ricordi?-
Giù: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici secondi. Respirare.
-Ed io ti rispondevo, ti ricordi cosa ti rispondevo? "Sei il mio angelo che distrugge ogni differenza tra carne e spirito. Sei la mia teologia orientale, la cosmologia Maya, sei le divinità nativo-americane, sei Dio. Sei la mia sensualità religiosa".-
La mano carezzava il pene che pur nello sconquasso psicologico e fisico di Antonio non accennava a sparire, pretendeva sempre più il suo orgasmo e la sua felicità. Quegli stimoli passarono dal sesso nerboruto di Antonio direttamente nella mano di Lucio che essa stessa era ormai divenuta sesso. La bocca allora si mosse automaticamente e cominciò di nuovo a baciare, leccare e assaporare quel lussureggiante cibo; pian piano quella fameliche labbra si scostarono e vollero di nuovo baciare il petto ed i capezzoli del loro amante giungendo infine alla bocca di Antonio dove vi si soffermarono solo per un repentino istante.
Giù: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici secondi. Respirare ancora.
-Dopo aver fatto l'amore sognavamo che la nostra unione sarebbe stata il fuoco della rivoluzione, della battaglia finale nella quale l'assioma che l'uomo ama l'uomo avrebbe spodestato il vecchio assioma per cui l'uomo ama la donna-.
Specchio dell'anima di Antonio, il membro tra le dita di Lucio ormai sembrava miglia e miglia distante dalla tragedia che si stava consumando in quel piccolo bagno, continuava a desiderare solo di essere felice. L'attività lussuriosa della mano-sesso di Lucio continuava delicata e determinata, come se comprendesse a pieno i desideri che gli venivano comunicati; metodica ed emotiva continuava il suo lavoro-piacere automaticamente senza necessità che il cervello, occupato ad elaborare ben altro, dovesse indicare ai muscoli come e quando muoversi.
La scena che si stava svolgendo in quell'appartamento era la trasfigurazione pratica dell'insanabile conflitto interiore che era scoppiato all'interno del corpo e della mente di Lucio il quale stava vivendo l'Amore, l'unico vero amore della sua vita e l'Odio, l'unico vero odio della sua vita.
....dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette secondi. Respirare, respirare.
-Amore mio, mio dolcissimo amore, ricordi? Ci saremmo sposati, contro tutto e contro molti. Mi addormentavo sul tuo petto vigoroso mentre mi raccontavi la favola della nostra vita-.
 Lucio, quasi catapultato in quella situazione che la sua mente stava disegnando davanti ai suoi occhi sognanti,  sorrise per un attimo e arrossì. -Ricordi talvolta che mi accadeva? Nell'udire quella splendida favola il mio pene cominciava a crescere e allora tu me lo accarezzavi dolcemente e rivolgendoti a lui come se fosse una persona continuavi allegramente il racconto, il romanzo della nostra vita-
Di nuovo il braccio si irrigidì, contrasse i muscoli e spinse verso il basso e intanto la mano sinistra continuava la sua amorosa opera di passione.
....sedici, diciassette, diciotto, dicannove, venti secondi. Respirare ancora.
La testa venne risollevata e fatta emergere dall'acqua per l'ennesima volta. Lucio questa volta non aprì bocca, non fiatò. Il respiro affannosso di Antonio dominava la stanza da bagno, rimbombava come se tutto il mobilio fosse stato portato via. Antonio guardò negli occhi il suo amante, osservò bene quelle luci che ora non riuscivano ad esprimenre più nessun sentimento determinato: non odio, non rabbia; non paura, non vendetta; non tristezza, non felicità. Forse, riuscì a pensare nonostante lo stato confusionale in cui si trovava e quasi alle soglie di un inconcepibile ed incomprensibile orgasmo tanto testardamente voluto dal suo pene e tanto caparbiamente cercato da Lucio, quegli occhi riuscivano a comunicare impercettibilemente uno stato di rassegnazione. Anche Lucio cercava di ossevare lo sguardo del suo amore e comprese che oltre quegli occhi si celava un'immensità d'amore. Solo lui aveva conosciuto un sentimento così forte, quell'amore che non poteva essere controllato, non poteva in alcun modo essere nascosto, che non poteva essere dominato. Quell'amore che se ti colpisce non gli puoi più sfuggire, puoi solo violentarlo.
 
L'amore più profondo è l'amore nascosto. La poesia dice: "Alla mia morte dal fumo conoscerai il mio amore, mai espresso e tenuto celato nel mio cuore". Chi esprime il suo amore prima di morire, non ama profondamente. Solo l'amore che rimane celato fino alla morte è infinitamente nobile. Sono convinto che sia sublime amare fino alla morte. (HAGAKURE; II, 33)
 
In questo turbine di pensieri così potenti e devastanti che quasi si stavano incidendo sui muri del bagno Antonio nel suo stato confusionale, con poca aria che riusciva a giungere al cervello e con molta tristezza nell'anima, riuscì a muovere le labbra: -Cosa vuoi fare di me adesso, vorrai picchiarmi? Vorrai forse uccidermi?- quella voce usciva senza esprimere una particolare intonazione, un suono che fosse classificabile in una qualsiasi categoria espressiva e comunicazionale; a stento era in grado di mostrarsi come un pensiero unico e continuo -In fondo posso capirti...amore mio, posso capire quello che questi anni hai potuto soffrire...posso capire. Sei tu che non capisci me.-
Le labbra di Lucio si mossero, quasi a voler replicare a quell'epitaffio, per formulare una frase che nessuno poteva sentire. Probabilmente neanche lo stesso Lucio il quale guardava il suo amante cercando di semplificarlo, trovandosi invece di fronte a qualcosa, che lui percepiva chiaramente avere un senso, ma sapendo anche di non poterla decifrare.
Ad un tratto di nuovo sentì le mani piene di energia amorosa e mortale.
...venti, ventuno, ventidue secondi; tre, quattro...trenta minuti; una, due, tre ore.
Lucio finalmente fu in grado di lascire la presa, ora aveva anche la forza di uscire dal bagno, si trovava in uno stato di felicità confusionale, ma anche di ipnotico dolore.
Si alzò dalla sua posizione ed osservò il corpo di Antonio riemergere. Ancora una volta lo amò con lo sguardo e fu affascinato dall'immenso splendore di quel dio che aveva baciato e che aveva permesso di essere baciato e goduto.
Quella persona lo aveva fatto soffrire.
La giovane fronte si corrugò, la bocca si contrasse ed i muscoli si irrigidirono. Aveva sofferto come mai nessun'altro e la cosa non voleva che si ripetesse più, non sarebbe stato in grado di affrontarla e non la voleva affrontare.
Si sentì felice perchè finalmente si sentiva libero, non aveva più nessuno...nessuno che lo legasse, che gli impedisse di prendere qualsivoglia scelta e decisione senza che si tenesse conto della presenza di un'altro e soprattutto delle scelte e delle decisioni di questo.
-Finalmente una piena libertà emotiva. Che sensazione stupenda, che rinascita!!!- pensò.
Riuscì anche a rilassarsi mentre si dirigeva verso il balcone di casa per respirare un'aria nuova, un'aria pura. Uscì ed ammirò lo stupendo panorama che gli offriva la sua città. La vita si estendeva ai suoi piedi, tutte quelle strade e quei vicoli che vedeva ed intravedeva erano un'interminabile brulicare di vite, scelte, incontri forutiti e voluti.
Lucio raccolse, sulla sdraio di vimimi nella quale spesso si sedeva a sognare osservando la città, il piccolo taccuino su cui annotava  pensieri e sensazioni. Pensò un attimo ad occhi chiusi poi raccolse la minuscola penna che era lì vicino:
<<Sono libero.
Odore di ciliegio in fiore.
Questo profumo mi consola
e mi annebbia la mente di felicità.
Non trovo più il Tempio,
non vedo più il mio Signore.
Non posso restare oltre.
Sarò anche io petalo di ciliegio.>>
Lucio sorrise e saltò.
 
Ho scoperto che la Via del samurai è la morte. Quando sopraggiunge una crisi, davanti al dilemma fra vita e morte, è necessario scegliere subito la seconda. Non è difficile: basta semplicemente armarsi di coraggio ed agire.
E' quasi impossibile compiere una scelta ponderata in una situazione in cui le possibilità di vita e di morte si equivalgono. Noi tutti amiamo la vita ed è naturale che troviamo sempre buone ragioni per continuare a vivere...
L'essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata.
Quando un samurai è pronto a morire, padroneggia la Via. (HAGAKURE; I, 2)


 
Tutto iniziò con una grossa faccenda da risolvere. Dopo un'altra faccenda che era solo rimasta in sospeso. Dribblai la fascia e scivolai via con la macchina a vedere che si potesse fare per quella faccenda. Due , tre semafori e poi il curvone finale, prima di parcheggiare. Dopo l'angolo a gomito un tipo faceva lo stop.
Rallentai
"Dove vai?"
"Alla stazione..." interrompendosi dondolante a pensare.
"Ehi! Ma la stazione è dall'altra parte"
" Ma come lo sempre preso qua.."
La ragazza si avvicinò di più alla macchina .. Si quel cappellino in testa con la scritta Cuba e i pantaloni militari aveva dato l'idea di essere un maschiotto di periferia. Era assai fatta.. si un po' più che semplicemente ubriaca. Proprio smorfinata.
"La direzione giusta è dall'altra parte. Ti conviene fare lo stop da un altro punto. Si perché il bus fa il giro e da questa parte le macchine che passano non vanno certo alla stazione. Dai su ti ci porto."
"Grazie.."
La voce spenta e lo sguardo trasognato, perso. Barcollando sale sulla macchina.
"Fino alla stazione mi dispiace non posso, ho davvero poca benzina".
Cosi il percorso riprese per un'altra faccenda....
La macchina finì il curvone  ma proseguì, tornando quindi nella direzione opposta.
"Ma sei sicura che l'hai preso qui il passaggio altre volte?"
" Si.. Si."
A stento. La sigaretta danzava nell'aria al ritmo del suo sguardo muto ma pieno, affollato. Nell'altra mano una bottiglietta di birra che faceva fatica a portare alla bocca per bere.
" Ehi bellina stai bene?"
" Si.. so un po' stanca . scusa ..veramente" .
" Sei sicura? A me non sembra. Come ti chiami?"
"Mira.."
"Mira? E' un bel nome non l'ho mai sentito. Che sei di Napoli?"
" No io so della Basilicata.. però abito a Sezze"
"Alessandro piacere.Ci stai con i tuoi?"
" No abito da sola.."
Arrivati alla fermata in direzione stazione fermo la macchina.
"Oh grazie! Ma allora qua si prende il bus per la stazione?"
"Si. Però non sbagliarti. Da questa parte della strada."
Scendo anche io dalla macchina mentre lei ancora dondolante non riusciva a chiudere lo sportello.
"Speriamo che passa.."
"Eh a dire la verità non te lo so dire, qui i bus fanno un servizio d'ammenga".
 Lei si siede sulla panchina della fermata. La vedo piegarsi all'indietro fino quasi sdraiarsi del tutto. "Ottimo per gli addominali" pensai. "Ma il fatto è che sta proprio storta. Poverina mi fa un sacco pena".
" Ok mi sa che è meglio che aspetto insieme a te".
" Speriamo che passa.. ma sei sicuro che e da questa parte e non di la?".
" Si. Ehi ma che stupido a non pensarci. Ti va un caffè?".
"Si." e mi passa la birra.
" E però qui i bar so tutti chiusi. Fumiamoci una sigaretta va.. hai da accendere?".
Inizia a smucinare nella borsetta alla cieca. Caccia fuori l'accendino.
"Come ti chiami.." Mi richiede
"Alessandro".
La vedo appoggiarsi quasi alla mia spalla. 
"Ehi stellina non mi piace come stai sai".
"No.. No.. sono solo un po' stanca".
Le osservai le braccia, per vedere se ci fosse qualche segno che mi desse la conferma che si fosse bucata. Apparentemente nulla tranne una crosticina sul dorso della mano, ma niente lividi. Ne ho visti di tossici ed alla fine pensai che si fosse soltanto presa una roipnol o qualcosa del genere. Poi intuì che si era fatta un bel pò di ketamina.
"Certo che a Latina c'è il coprifuoco a quest'ora. Non passa nessuno. Va bè dai su ti accompagno io alla stazione."
Avevo veramente la luce arancione fissa sul quadrante e solo 5 euro che in realtà avrei speso volentieri al Paradise Lost  per una birra, mentre intanto risolvevo quell'altra  faccenda.
"Dai alla fine credo di potercela fare ad accompagnarti, che mi sa che così come stai non riesci manco a salirci sul treno."
"Uè grazie." Risaliamo in macchina
"Così magari un caffè ce lo prendiamo li" Lei non mi rispose e restò con gli occhi socchiusi seduta affianco a me. Dopo un bel po'
"Si.. si.. mo ce vole un caffè..".
"E' tanto che stai a Sezze?"
"No sono stata a Firenze e a Bologna .."
"Dai anche io ho vissuto per un po' a Bologna" e mi venne da pensare a quanta gente in quei mesi avevo visto fatta e strafatta.
 
 
Gioventù affrante 
Sul tempo assente
Volti spenti ed inconsistenza
Ai margini dell'incoscienza 
Al margine del mondo
Ai margini del sogno
Cercando i nostri cari anni
Cercando tra vaghi minuti
Gli ultimi barlumi di ragione
Di speranza e di passione 
Rimbalza questo spettro
Rimbalza di soppiatto
Tra i vicoli di ogni città
Raccoglie anime
Le porta con se
Le porta dove non c'è più dolore.
Dove non c'è dolore?
Nelle macchine nuove?
Tra i vestiti stirati?
Nei locali più In?
Nel sesso e basta?
No.
Qui ora dove il cuore
Si apre ad ascoltare
Qui non c'è più dolore
Dove c'è condivisione
Non c'è più dolore
Dove non c'è ..
Dove non c'è più dolore.
 
Arrivati così alla stazione mi accorsi che il bar era chiuso a quell'ora, ed il treno era arrivato da un pezzo. Ed infatti Mira non riuscì a prenderlo.
"Va bè dai ti tocca aspettare il prossimo. Intanto arrivo al bar dell'albergo qui di fonte e ti prendo un caffè" .
Tornai col caffè dentro il bicchierino di plastica.
"Tu non l'hai preso per te.." mi chiede
"No io a quest'ora non lo prendo"
"Dai su facciamo a metà."
"No grazie"
" Ma quanti anni hai?"
"Indovina un po'!" Scherzai.
Scendendo le scalette non rispose. Barcollava sempre più.
"Ok te lo dico ne ho 27. Tu. Quanti anni hai?"
" Venticinque." Volevo farla parlare il più possibile cosi magari non perdeva del tutto il contatto con la realtà.
" Senti ma insomma che fai lavori?"
" Si faccio la cameriera.."
"Dai anche io speso lavoro come cameriere." .
"Ma non ce l'hai la ragazza?"
"No." la domanda un po' mi spiazzo, aprendo in me degli intimi varchi tra i ricordi di qualche mese prima e qualche altra situazione presente. Ci andammo a sedere sulla panchina di marmo sulla banchina del binario.
"Ma come mai.. sei un bel ragazzo.. sei sicuro che poi non ti vede nessuno che stai qui con me.." Riusciva a dire qualcosa di più compiuto. Presi il bicchiere col caffè.
"Su bevilo che si raffredda. Basta una sola bustina di zucchero? O ne vuoi due" No mi rispose.
"E no! La ragazza non ce l'ho.. Tu ce l'hai il ragazzo?" .
Fa un gesto con la mano " Una volta.."
"Ed ora?" le porgo il bicchierino. Lei a mala pena lo reggeva dritto, ed avevo paura che lo rovesciasse.
"Ehi chicca! Ce la fai?" le ressi la mano.
"Si si ce la faccio.." A poco a poco provò ad avvicinare il bicchiere alla bocca. Poi un goccino dopo l'altro lo bevve quasi tutto.
"Ehi aspetta qui cosi chiudo la macchina".
Feci una corsa fino all'auto che avevo lasciato con i finestrini aperti. Tornai da lei e mi ci sedetti affianco. Ancora non aveva finito quel caffè.
" Ma quanti anni hai?" mi chiede di nuovo
"Te l'ho gia detto. 27. Insomma hai degli amici a Latina?"
"Bah. amici. si ."
"Lo sai Mira che mi piacerebbe riparlare con te. Magari quando sei più lucida. Ti lascio il mio numero"
"Si lasciami il numero.. però ho il cellulare rotto.. si è fatto come dell'inchiostro sul display.."
"Va bè te lo scrivo. Ce l'hai un foglio di carta ed una penna?".
"Si ." si rimette a smucinare nella borsetta. Caccia fuori un rossetto.
"Ma .. perché non hai la ragazza?".
"Ma dai lascia perdere. Magari si ho un'amica con cui mi vedo ogni tanto perchè sta a Roma. Ma non sono fidanzato. Invece tu il ragazzo hai detto che non ce l'hai più.".
"Ehh .. ma io ho avuto un'incidente.."
"Hai avuto un' incidente Mira?! Dimmi che ti è successo?" rimase a pensare senza dire nulla, poi "Scrivilo qua il numero.." E mi porse il fazzolettino del bar. Rimase con l'ultimo goccino di caffè in bocca per un po'.
" Brava l'hai finito tutto!".
Mugugnò qualcosa facendomi capire che se potesse mi avrebbe lasciato un pò di quello che ancora teneva in bocca. Credeva che ne volessi.
"No. Grazie."
 "Ma allora quanti anni hai?"
" Dai te l'ho già detto"
"No mi hai detto di indovinare."
" No poi te l'ho detto. 27 anni. Ehi cerca di non addormentarti mo che stai sul treno. Ecco qui il mio numero. Spero si capisca. Ti ho scritto anche il nome. Va bene Alex? Lo capisci che sono io?".
" Si .. si .. mi ricordo." Restammo un po' zitti. Lei ogni tanto faceva quasi per cadere. Solo io interrompevo quel silenzio per ridestarla.
"Ehi chicca! Che dici forse ti vuoi distendere?" e cercavo col braccio e la spalla di sorreggerla.
"No.. No ce la faccio..".
"Guarda che se ti vuoi sdraiare e poggiare la testa qui sulla mia coscia non c'è problema. Magari se ti riposi un po' adesso, eviti di ritrovarti a Formia".
Non rispose. Restammo li seduti provando a comunicare. Io le facevo qualche domanda su lei e la sua famiglia. Lei farfugliò un pò facendo capire alcune cose vaghe sul fatto che la madre avesse avuto cinque anni prima una bimba e che lei aveva altre tre sorelle, di cui due più grandi. Poi farfugliò ancora del suo ragazzo. Parlò di un' incidente sul treno.
"Questo fa tutte le fermate vero?".
"Si. Sezze romano , Priverno - Fossanova, Monte San Biagio, Fondi , Formia.".
Glie le dissi tutte.
"Eh li è stato l'incidente.. Monte San Biagio..".   
 Provò a spiegarmi che c'era stato un litigio sul treno con il controllore e che il ragazzo non si sa come fosse caduto dal treno. Lei stessa si era fatta molto male rompendosi il femore.
"Due mesi in ospedale sono stata per sto cazzo di femore.. da novembre fino a gennaio." "Minchia" pensai "che cazzo di storia" . rimasi zitto, quello che aveva detto mi aveva rattristato ancora di più. Poi lei " Dai dimmi un po' di te.." Allora io dissi un paio di cose che riguardavano la mia vita: lo studio, il lavoro che non c'è, la voglia di partire, la musica.
 
La stazione intanto si popolava di gente che andava a prendere gli ultimi treni disponibili per le due direzioni fondamentali, Napoli e Roma. Soprattutto stranieri. Una donna africana sulla piattaforma del binario uno, sembrava stesse ascoltando le nostre chiacchiere. Un gruppo di bengalesi si dirigeva verso il fondo del binario, portando in spalla dei bustoni celesti pieni di roba. Una volta arrivati a Roma si sarebbero trovati più vicini alle uscite.
Due ragazzi marocchini si avvicinarono a noi " Amico.. dove il binario cinque?"
"Ma il binario cinque non esiste!"
"Ma come .. capo stazione detto binario cinque! Dove è il binario per Formia".
"Il capo stazione è uno stronzo che devi mannà  a fanculo! Ci sono solo tre binari in questa stazione.." Dissi " Per Formia, da questa parte.."
"Grazie amico!".
Mira ancora dondolante non diceva più nulla.
Io intanto mi perdevo al pensiero di quella stazione così viva di gente! Quasi in netto contrasto con il coprifuoco serale della città, che se non vai in un locale non trovi nessuno in giro. Che merda! "Quasi quasi un giorno vengo qui a passare la serata. Incontro qualcuno di questi e mi ci metto a parlare!". Il mio pensiero si disperdeva così.
"Allora" Ruppi quel silenzio "Che musica ascolti?" Le chiesi.
"A me piace un sacco Capossela..".
"Figo Vinicio!"
"A si piace anche a te?"
" Si! Che cosè l'amor.. chiedilo al vento." cantai una strofa poi non ricordai più le parole. Lei allora continuo con il ritornello quindi assieme " Ahi permette signorina sono il re della cantina...." cantammo tutto l'inciso.
"Bob Marley ti piace?" Mi chiese
"Si! aivoglia! Get-up stand-up, stand-up for your rights!".
I due ragazzi marocchini, che si erano appoggiati al pilastro affianco alla panchina, a quel punto si avvicinarono " Ehi amico.. hai una cartina?" disse a bassa voce.
Feci un cenno indeciso, poiché non mi aspettavo quella domanda e poi ero sprovvisto di papelle .
" Si ce le ho io" disse Mira ridestandosi magnificamente. "Sta sballona" pensai. Poi quello a me "Dai su falla tu"
"Va bene.." E mi porge quel tocco di fumo. Saranno stati più di un grammo ed allora io lo spezzai " Ma che la faccio tutta?"
"Si si! Noi Marocco fuma così" "Ok!" . Così mi cimentai in quell'opera dando prova della mia destrezza. Mira, infatti, aveva solo cartine piccole e quindi chiesi a quello che mi si era seduto affianco di incollarle. Mi ritrovai però con la cartina incollata nel verso sbagliato, ma non mi persi d'animo e così la tagliai e passai la colla sulla parte in cui mi serviva. Ne usci fuori un capolavoro balistico. Nel frattempo ci presentammo.
"Alessandro piacere. Voi come vi chiamate?" chiesi
"Giovanni piacere!" disse quello che avevo affianco "anche lui si chiama Alessandro" e mi indica l'amico che stava in piedi e che mi aveva dato il fumo.
"Dai su fatela finita ditemi i vostri nomi veri. Lo so che vi chiamate diversamente!"
"No ma sai qui la gente non capisce.."
"Ma che cazzo ti frega della gente.. se devono imparà a fa l'orecchio"
Allora quello che si era fatto chiamare Giovanni " Io mi chiamo Jahalel" E l'altro che stava in piedi "Io Bahrros"
"Embè  che so difficili da pronuncià?" Allora iniziammo a chiacchierare fumando quel joint. Anche Mira si presentò nonostante ci stesse poco. Parlare con loro mi distrasse da lei. Fra un po' avrebbero preso tutti e tre il treno e ci saremmo salutati. Bahrros era tornato da poco dal Marocco, parlava bene l'italiano. Stava facendo gli studi presso un'istituto alberghiero ed era tornato per un po' a casa per sapere come andavano le cose al suo paese. Era interessato alla politica e gli chiesi della guerriglia nel Sahara. "No ma non c'è guerra mo.. loro solo poca gente che vuole .. come si dice.. dipendenza.. ma loro marocchini, hanno diritti come noi". Quando passai la canna a Jahalel  mi accorsi del libricino giallo che aveva appoggiato sulla panca di marmo. Lo presi e mi soffermai a leggere "H'asshis: Storie di vita marocchine". Era un  libro di racconti tutti incentrati sul consumo di hasshis .
"Dalla teoria alla pratica eh!" Scherzai. Loro risero.
"Come amico sto fumo?"
"Bono.. ammazza!"
"Eh. questo fumo de marocco! Io fiero de esse marocchino!"
Raccontai di due amici che erano stati sulla montagna del Ketama e proseguimmo la chiacchierata su una cifra di altre cose: i pericoli a fumare in Marocco, il concerto di Alfa Blondi al Villaggio, su quanto tempo c'avesse messo Bahrros ad arrivare alla fontanella sul primo binario se si fosse messo a correre.   
"Com'è sto fumo.." Chiese Mira che fin'ora era rimasta olma avendo io passato la canna prima a loro che me l'avevano fatta fare.
"No preoccupa bella mo te arriva.." le disse Bahrros.
Passarono così quegli ultimi dieci minuti. Interminabili ed inconsueti, ma cosi magici. Avevo passato la serata con tre persone che mai avevo conosciuto prima. Mi sentivo io in viaggio, lontano da casa. Un forestiero di passaggio che non ha fretta di raggiungere nessuno e che non aspetta nulla. Il treno giunse in orario. Mira mi salutò affettuosamente " Oh allora poi ti chiamo!"
"Si mi raccomando chiama!" Salutai Jahalel e Bahrros con delle belle schioccate di mano
"Mi raccomando svegliatela se dorme, quando arrivate a Sezze!".
"Ok amico..".
Mi allontanai. Più alcuna faccenda ora si imponeva alla  mia attenzione. In macchina pensai di fare una capatina al Paradise, ma mi senti così sazio di vita che ritornai a casa.                         
 



“Buongiorno a tutti, belli e brutti.” esordì Cianciarulo, entrando nell’Osteria a testa alta. Che sagoma! emozionato e compìto: un bimbetto che andava alla Prima Comunione. E invece era un uomo fatto.
“’Giorno.” tartagliò invece Nestore, facendo sniff-sniff! col naso, blandito e quasi stordito dai profumini che, grassi e suadenti, sortivano dalla cucina. Al solito, il localone era stracolmo peggio dello Stadio prima del derby. C’era la stessa aria di festa, la stessa attesa di qualcosa di magico che spazzasse via il grigiore di una vita sempre più noiosa.
“Tz! è un po’ che non ti fai vedé da ‘ste parti, Ne’ - salutò Spartaco, facendo gli onori di casa a modo suo, cioè stampandogli una pacca sulla spalla -. Che sei venuto a fà? non ciavèvi niente de mèjo, oggi?”
“So’ venuto a fà un pieno de pastasciutta, Mannaja bello… sennò chi me la dà la forza di andà avanti, in questa società di cannibali?”
“Tz! Me sorprendi, però: in mezzo a ‘sta tempesta ancora te porti appresso ‘sto coso moscio e puzzolento?”
“Sai bene che Ciancione è un amico.”
“Tz! Contento tu... i soldi per pagare ce l’ha, sì?”
“Offro io.”
“Tz! te pareva… sei un Ente de beneficienza, tu?”
“’Na specie… Me posso assettà al solito tavoletto numero 13? pare che porta bene.” tagliò corto Nestore, indicando un tavolino defilato, sul lato destro.
“Tz! Sièditi dove ti pare: per me te pòi sedé dove preferisci, basta che te spicci!” replicò Spartaco, più che mai imperioso ed autorevole in tutta la sua mole. I due amici presero dunque posto in un tavoletto a centro sala, baldanzosi e sghignazzanti. Come in ogni osteria verace, i tavolini avevano le tovaglie di carta. I clienti si divertivano a scriverci delle fesserie spacciandole per poesiole. Oppure facevano degli scarabocchi da bimbetti dell’asilo.
“Tz! che bello! Pe’ un paio d’ore non ci scassa nessuno - sospirò Nestore, adagiandosi sulla sedia che gli era toccata -. Per forza: quando ci beccano, nascosti qua dentro?”
“Chi ce dovrebbe beccà, scusa?” domandò ingenuo Cianciarulo, che era montato su una sediola stortignaccola, dato che aveva una gamba più corta delle altre tre. Si sistemò là sopra come se gli fosse toccato cavalcare un cavallo, allargando cioè verso l’esterno la gamba secca secca, senza muscoli, prima di farla roteare a mezz’aria, sopra lo schienalino.
“Come chi? – sbottò Nestore -. I cento rompiscatole che popolano ‘sto pianeta: donne di tutti i generi, ufficiali giudiziari, creditori vari, parenti squattrinati, Banche che chiedono i rientri...”
“Rientri? Che roba è?” replicò Cianciarulo, sinceramente incuriosito. Nestore lo guardò stralunato.
“Ma guarda un po’ in che mondo vive questo… capace che non è mai entrato dentro una Banca in tutta la sua vita.” pensò. E gli fece proprio pena. Anzi, forse per la prima volta, si sentì in qualche modo orgoglioso d’aver avuto a che fare con quelli che chiamava ‘gli strozzini autorizzati’ delle Banche: gli squali in giacca, cravatta e colletto bianco che infestavano le sale dei vari Istituti di Credito dove aveva bussato a quattrini. Rigorosamente invano, in un Paesaccio dove i soldi venivano prestati solo ai proprietari di beni immobili d’ogni genere o ai parenti di fideiussori padroni di mezzo mondo, in grado di prestare le famose ‘garanzie’, reali o personali che fossero. E in effetti una cosa è davvero garantita, quando si fanno dei debiti con una Banca: presto o tardi, i loro funzionari ti spezzeranno senza troppi complimenti. Nestore volle comunque togliersi uno sfizio.
“Dimme un po’ ‘na cosa: ci sei mai entrato, dentro ‘na Banca?”
“Come no. L’ultima volta... mercoledì scorso.”
“Ah, ecco. E che sei ito a fà?”
“Ho dovuto accompagnà mi’ madre: doveva fa un notifico a Padre Pio.”
“Un notifico? che notifico?”
“Doveva spedì dei soldi ai frati di San Giovanni Rotondo: quelli che mandano avanti l’Ospedale tirato su da Padre Pio... la Casa del Sollievo della Sofferenza.”
“Ah, un bonifico!”
“Sì, ecco: un bonifico. Sai, s’è un po’ agitata perché er dottore je ha fatto le analisi… je ha trovato l’azotecnia e il polistirolo alti. Speramo non sia niente di grave.”
“L’azotecnia?”
“Sì, e pure er polistirolo, pòra mammina bella.”
“Lassa perde Ciancione; nun ce pensà, che è mèjo. Pensa solo a sbafà: domani è un altro giorno.” lo consolò Nestore. Poi cambiò discorso, per farsi quattro risate, scacciando via i brutti pensieri.
“Ahò, Spartacone è talmente grosso che, quand’è nato, invece d’iscriverlo all’anagrafe, suo padre è dovuto andà al Catasto! Ah! ah! ah!”
“Eh, eh... er Catasto do’ se mette la legna?” tartagliò Cianciarulo. Stavolta l’altro si rabbuiò.
“Quale legna? er Catasto è il posto dove... lascia pèrde: mo pensamo a magnà... oggi proprio non riusciamo a capirci. È come giocà a pallone e passà la palla a uno che sta seduto in panchina. Stai fòri, tu!”
“Ma scusa, prima fai ‘ste battute complicate e poi te lamenti? Mica ripasso l’Enciclopedia Tre cani, quando me svèjo la mattina!”
“Sì, lo so: ciài ragione pure tu. Che vorresti ripassà, poi? non sai manco legge!” concluse Nestore; poi s’accese una sigarella, impugnando l’accendino con fare solenne. E decise che era venuto il momento di cambiare definitivamente discorso, pur di mettere fine a quel dialogo tra sordi.
“Anvedi Spartacone? è indaffarato! Qua dentro sì c’è gente che lavora – osservò poi -. Mica come te, che ti gratti tutta la settimana e la domenica dormicchi su un divanetto davanti alla TV perché non stai in piedi dalla debolezza.”
“Fai presto a sparlà de me… è facile criticà dall’alto, inguantato nella tua bella divisa...”
“Divisa? Questa è ‘na tuta da lavoro. Che ne sai, tu, delle divise... e soprattutto del lavoro?”
“Evito semplicemente d’affrontà er problema. Lo rimando a data da destinarsi.”
“Lo so, lo so: in Italia funziona tutto così... si rimanda sempre, ciài presente come vanno le cose in Tribunale? Però sarebbe pure venuto il giorno che cominciassi a porteli, ‘sti problemi! Te devi mòve, te devi svejà: per me sarebbe ‘na gioia per gli occhi vederti girà su e giù per Roma… ad allaccià amicizie nòve a destra e manca!”
“Allaccià amicizie? Che vòr dì?”
“Conosce gente che te pò esse utile in qualche maniera, no?”
“Non è mejo mettersi alla finestra e guardà il mondo da lontano, magari facendosi gli affari propri?”
“Noo... Sai che diceva mi’ padre? Chi va in giro qualcosa sempre lecca… se sta a casa, la lingua je se secca!”
“Già... ma se va in giro e non beve mai, la lingua je se secca uguale.” osservò Bigonzi.
“Non mi prende pe’ i fondelli: sai bene di cosa parlo. Te l’ho fatto cento volte, ‘sto ragionamento. Ci conosciamo da una vita: non capisci che sei... un fratello, per me?”
“Addirittura un fratello? cala, cala…” lo stoppò Bigonzi, un poco insospettito.
“Va be’, fàmo un cugino… Comunque sia, mo è ora che te piazzi in capoccia l’idea de trovà un posticino sicuro, tranquillo e redditizio…”
“Pure redditizio?”
“… per mette le mani su uno stipendietto a fine mese… redditizio, certo: sennò che lavoro è? Te fa tanto schifo, guadagnarti i soldi puliti tutti i mesi?”
“Sì, certo. Chi non lo vorrebbe, uno stipendietto da spende e spande a piacimento? Ma vorrei poté sceje un attimo... con la dovuta calma.”
“Pure? Ma calma de che? Sei il tipo che se pò permette il lusso de fà il prezioso, tu?”
“Qua non si tratta de fà i preziosi: vorrei solo beccà un lavoretto facile, leggero: di quelli tipo mezza giornata col sabato libero... e pure il lunedì mattina.”
“Hai detto nisba.”
“Be’, mica me vojo fà sballottà de qua e de là come un maschiottello alle prime armi. Lo so’ che c’è peluria de operai ma…”
“Penuria, penuria!”
“Penuria… Ma ormai ciò ‘na certa età, io. Oggi i lavori di fatica li fanno tutti gli stranieri… quelli so’ forti… animali venuti su allo stato ebraico!”
“Brado… quale ebraico? da quando gli animali so’ ebrei?”
“I lavori di fatica non mi piacciono, non mi so’ mai piaciuti. Mi piace lavorà de fantasia, a me.”
“Per forza: non ciài vòja de fà niente!”
“Anzi: mi servirebbe pure ‘na bella segretaria… bionda e tettona…”
“Ah, senti senti: quando si tratta de lavorà, sei vecchio. Quando invece c’è da cazzeggià, ciài sempre sedici anni.”
“No, è che ‘na bella tettona mi farebbe venì l’ispirazione.”
“Sì, e magari pure l’erezione.”
“Perché no?”
“Bel tipo, sei. E dimmi: ce stai tanto bene, nella bicocca dove tiri a campare con quella povera disgraziata de tu’ madre? Non ti vergogni? magnà addosso a quella poretta de Rosaria, all’età che ciài? quanti ne hai, mo? ‘na quarantaduina, ce la dovresti avé...”
“Trentotto.” rispose l’altro, come se niente fosse.
“Ecco: bella storia! A trent’otto anni suonati, non ti sei ancora stufato de ‘na schifezza del genere? ma… quando te corichi a letto, la sera, come te senti?”
“Un povero disgraziato che se mette a letto per passà la notte alla meno peggio... come tutti quanti gli altri.”
“E dormi? riposi?”
“Chi dorme più? Da mo... mi giro e rigiro fino all’alba con la radiolina ficcata dentro le recchie... sento le canzoni... oppure m’alzo e cammino su e giù per la camera finché non mi viene sonno.” fu la risposta. Seguì un mugghìo.
“Pure la tosse, ciài?”
“No, è solo che me s’è raggrumato un bruscolo de catarro in mezzo alla gola... se potessi, cioè... se ciavessi i soldi, m’andrei a fà visità.”
“Se avessi, se fossi e se potessi erano tre fessi che giravano il mondo.”
“Che vorrebbe dì?”
“Va a sgobbà per guadagnarti il pane: vedrai che te li trovi in tasca, i soldi per pagà il Dottore.” commentò Nestore, irrigidito come il padre che crede sia giunto il momento di dare una bella strigliata al figlioletto lavativo che fa i capricci e si finge febbricitante per non andare a scuola, pur di fargli capire come si deve stare a questo mondo. Per tutta risposta, Cianciarulo - che aveva raggiunto lo scopo di farsi portare al ristorante - s’irrigidì e tirò fuori lo sciocco orgoglio di un uomo troppo abituato a fare di testa propria per adeguarsi all’andazzo generale.
“Non ti pare d’esse un attimetto inacidito, Ne’? Non sarà che...” azzardò infatti, arricciando il naso, con un sorrisello smorfiosetto, ma in cuor suo realmente allarmato dall’inattesa durezza di Nestore.
“Che?”
“... te rode?”
“De che me dovrebbe rode? Spiegate mejo.”
“Del fatto che te tocca lavorà tutti i santi giorni, per esempio.” fu la frecciatina di Bigonzi, scoccata con aria strafottente.
“Compa’, quando fai quella faccia, ti darei foco col lanciafiamme, lo sai? Piuttosto che sgobbà per guadagnarti da vivere, preferiresti finì in galera a pane e acqua, ma ti devi mette in testa che qualcosa, prima o poi, lo devi trovà pure tu! Col lavoro ti sistemi per sempre: fai quello che ti pare e piace e non ti tormenti più! Guarda me: magari mi sfracello di fatica… però guadagno er pane onestamente… non sarò ricco ai livelli di Berluscon de’ Berlusconi, però... non mi posso manco lamentà, no?”
“Che ne so, io: pari incavolato…”
“Diciamo che, nell’ambiente mio, ciò ‘na certa credibilità.”
“Che vòr dì?”
“La gente mi stima, mi rispetta... se entro dentro ‘na Banca, mi stanno a sentì: mi fanno credito – chiarì l’uomo, anche se non era vero -. Io... modestamente... mi so’ sistemato!” concluse, alzando la voce di colpo. Tutti si girarono verso di lui, annuendo e lanciando occhiate piene di rispetto, manco avesse parlato Rockfeller. In quella, però, squillò il cellulare. Lo aveva posato al centro del tavoletto, perché fosse visibile a tutti. Si era però scordato di spegnerlo, così che nessuno scocciatore potesse mandargli il boccone per traverso.
“Chi sarà, mo? – si chiese, mentre lo portava all’orecchio -. Aho? Ah, Avvocato Volpone! salute a lei, che me racconta de bello? Ce sta l’affitto da pagà... Un’altra volta? Guardi che dev’esserci un qui-quo-qua: io, a mi’ fìja, gliel’ho dati, i soldi... L’ho appoggiati a lei: sa, sto in giro col tram tutto il santo giorno, ‘st’incombenze le scarico a chi nun cià niente da fà... regolare, no? Che sta a dì? nove mesi? Stamo addietrati di nove mesi? ‘Sta fìja de su’ madre! S’è fregata i soldi! Quando la becco, je dò ‘na lavata di capo che non se la dimentica più! Pure lo sciampo, je faccio! Je davo i soldi per l’affitto e quella se li andava a spende in discoteca o chissà dove... ma non si preoccupi, Avvoca’, mo ce penso io: lo sa come sono le ragazze di oggi! pure lei cià ‘na figlia, vero? Tutte zocc... Noo, mica sua figlia: non volevo dire questo... non mi permetterei mai… studia Legge, fa bene! Tutti 30 e lode, eh? Ah, tornassi indietro… me ne piglierei tre, de lauree. Come dice? Non servono più? Ce l’hanno tutti? Ah, le regalano? Vendono gli esami pure lì? annàmo proprio bene, in Italia…” annaspava Nestore, affannandosi per scegliere le parole che la situazione richiedeva. E parlava ad alta voce, avendo di colpo scordato di trovarsi in un locale pubblico. Cianciarulo stentava a trattenere le risate e scambiava strizzatine d’occhio coi vicini di tavolo.
“Che ha detto? Me vojono sfruttà? ah… sfrattà! Per nove mesate sotto? E che è arrivato, er Kaiser? Mortacci stracci! Je dica che se calmino: pagàmo subito, non ci sta problema. So’ quattro soldi, poi... Stia benone Avvoca’... Pagamo, pagamo, ho capito... Come torno a casa la fracco di calci, a mi’ fija. Ma noo... è solo un modo de dì... lo so, lo so che ci sta il reato de maltrattamenti in famiglia! e allora a mi’ padre che je dovevano dà? la pena de morte? Salutoni, Volpone, buon lavoro a lei... me saluti tanto quella brava ragazza di sua figlia.” concluse Nestore. Poi riattaccò.
“Che scassapalle, questo!” sbuffò poi. Cianciarulo gli rideva in faccia.
“E meno male che avevi appena finito di dire che… col lavoro pòi fà quello che ti pare e piace!”
“Uh, per così poco...”
“Pure tu’ fìja, però: che dritta! S’è fregata i soldi dell’affitto… Bella ladra!”
“Ma quale dritta, quale ladra? quella porèlla non c’entra niente: è ‘na brava pischella, invece. Non fregherebbe manco ‘no spillo. È solo ‘na balla che mi so’ inventato.”
“’Na balla?”
“Certoo: che ingenuotto, sei! Co’ ‘sta panzana de rifilaje la colpa a lei... ho guadagnato tempo fino al 27. Chiamame stronzo…”
“Perché? il 27 che succede?”
“Come che succede? Il 27 me danno lo stipendio e ce metto ‘na pezza.”
“Ah, il 27. E perché proprio er 27?”
“Perché s’è stabilito che quello è il giorno della paga.”
“Ah, ecco. E chi l’ha stabilito, ‘sto fatto?”
“Che cazzo ne so, io... i Sindacati forse...”
“Ma che fanno, di preciso, ‘sti Sindacati: ne sento parlare spesso, ma non ho ancora capito a cosa servono.”
“Per forza, non servono ad un cazzo!”
“Non servono? Davvero? Hai appena detto che hanno deciso che venerdì ti tocca la paga. Ti pare poco?”
“Venerdì? Ma che c’entra venerdì?”
“Il 27, no?”
“Ah, certo. Il prossimo 27 cade di venerdì... è vero. Come facevi a saperlo?”
“Perché venerdì 27 devo annà a Frattocchie a trovà mi’ cugina Germana.”
“Ah, ecco. Comunque i Sindacati... uff... è una storia troppo lunga; te la racconterò quando avrai trovato un lavoro! Puah! Lo vedi? vivi sulle nuvole? Ecco che succede, a campà a casa delle madri fino a quarant’anni.”
“Trentotto.”
“Trentotto... quaranta... sempre sulle spalle degli altri stai. Non sei più un bimbettino: questo è sicuro. Il mondo, poi, è dei furbi: scrivitelo e non te lo scordà più! È per questo che ho dovuto recità ‘sta buffonata; ma non crede m’abbia fatto piacere, perché se era per me, l’avrei mandato a farsi fottere, ‘sto rompicazzi di Volpone. Guarda un po’ che roba: pure mentre sto a magnà, me vengono a scassà le pal...”
“Io, comunque, c’ero proprio cascato. L’hai fatta bene, la parte: parevi un attore del Cinema, Ne’... sai che ti dico?”
“Che?”
“Ciài un certo talento… ‘na certa arte…”
“Sì: l’arte dell’arrangiarsi!”






*dedicato a Giovanni
 


POICHE' CIO' CHE E' SAREBBE ANCHE POTUTO NON ESSERE
-
C'è Giulia sdraiata sul letto. Sta quasi sempre ferma lì.  Stesa come se fosse lenzuolo e piega, talvolta si confonde così bene che sembra quasi non esserci. Ci sono volte in cui si lascia stropicciare come se davvero fosse lenzuola e pieghe. Arriva l'infermiera, senza dirle nulla, la solleva, con fatica, e lei la lascia fare. La sveste, la riveste, e lei la lascia fare. Il suo sguardo appeso a un invisibile filo, non riesce a sostenere il peso della sua coscienza. Così, tutte le volte, lei la lascia fare. Il suo corpo sembra non appartenerle, e forse non le è  mai appartenuto. Giulia è solo uno sguardo appeso a quell'invisibile filo: di lei non rimane altro che questo. Se qualcuno un giorno decidesse di recidere quel filo, lei forse potrebbe precipitare di nuovo nel suo corpo inanimato. Oppure volare via, leggermente. Ma per ora nessuno può negarle questa sua ostinata resistenza alla vita. Io la osservo dal vetro della porta di quella stanza bianca e disillusa. L'aria, si sente che è densa delle preghiere di sua madre, che ogni giorno viene a trovarla, le dà un bacio sulla fronte e le parla, tenendole stretta la mano. Pallida la mano tra mano pallide. Tra le due non si capisce chi è che stia davvero male: se la madre che nella sua consapevole presenza sorveglia le proprie illusioni, le scrolla, le rimpasta, e sempre più spesso le sgretola, o Giulia, che nel suo corpo anestetizzato e spudorato pare aver svuotato ogni barlume di donna. Sono sei mesi che il corso del suo tempo si è reciso. Colpa di un incidente, provocato da una disattenzione che non era la sua. Stava attraversando la strada, a piedi, ed è stata investita da un auto. La persona al volante dicono che non si sia fermata. Sull'asfalto non c'era traccia di pneumatici: forse non ha nemmeno frenato. E Giulia ha interrotto le sue ambizioni in un solo, estremo istante emorragico. E' entrata subito in coma. Io la osservo da sei mesi dal vetro della porta di quella stanza bianca e disillusa che separa me dal mio rimorso. Se mi fossi fermata, quando l'ho investita, forse ora sarebbe presente. Ma la paura ha premuto il pedale dell'acceleratore. E ogni giorno vedo la mia codardia incarnata in un corpo comatoso di una donna che tuttavia  appare ancora splendida.
 
POICHE' CIO' CHE E' STATO HA FATTO SI' CHE COSI' FOSSE -
 
- A cosa stai pensando?
- .
- Non ti va di dirmelo?
Sorriso d'occhi. Il tempo di un silenzio inevaso. Due anime che si scrutano senza smania di chiedersi del domani.
- Mi sento anestetizzata, non sento nulla. E la cosa mi spaventa.
- Se ti spaventa allora non è vero che non senti nulla.
Squarcio nella certezza di un sentimento. Poi, una nuova consapevolezza.
- Hai ragione, non è vero che non sento niente. Ma un cosa è certa: io sono monolitica.
- Monolitica???
Sorriso innevato.
- Non ridere: sono seria. Sono una donna monolitica.
- E cosa vorrebbe dire "monolitica"?
- Vorrebbe dire, anzi, VUOLE dire che sono l'incarnazione di un'unica grande esclusiva emozione.
Divertito, tra la complicità e la premura. Stringerla forte a sé, e domandarle:
- E quale sarebbe quest'UNICA GRANDE ESCLUSIVA SENSAZIONE?
- Non ho parlato di "sensazione". Ho parlato di "emozione".
- Scusa.
Abbraccio
- Allora, quale sarebbe questa emozione?
Serietà.
- La paura.
E lo dice anche col corpo, che si fa piccolo. Lui la sente rimpicciolirsi, e la stringe ancora più forte.
- .
- Ho paura di tutto. Tutto mi terrorizza. Sento che potrei essere annientata da ogni piccolo dettaglio e circostanza.
- .
- Sento che non sono equipaggiata a vivere. Ho paura di sperare perché potrei essere delusa, e ho paura che senza speranza non possa realizzare nessuna ambizione.
Occhi sgranati, che tremano e raccolgono lacrime a renderli lucidi.
- Ogni cosa mi fa male. Parlare e stare in silenzio. Ora che ti confesso le mie paure mi sento come se mi stessi svuotando e mi rendessi ridicola. Ma se tacessi tutto si amplificherebbe, e finirebbe col divorarmi dal di dentro. La paura è vorace, è capace di masticare persino le ossa. La senti dentro lo scheletro, nel sangue che si avvelena... E che ti avvelena. La paura rende tetraplegici e cerebrolesi. La paura è un mutante, che si trasforma in molteplici mostri. La paura è paura degli altri, è paura di me stessa, di sbagliare, di morire, di soffrire, di esprimermi, di confondermi, di non essere compresa, di essere fraintesa.
Nodo alla gola. La parole che si estinguono nel torace e risalgono più lente, quasi soffocano.
- Hai paura anche di noi?
Occhi giganti a guardare dentro. Capire cosa voglia dire. Capirla oltre il senso di ciò che appartiene all'apparenza.
- No, di noi no. Ma dell'amore sì. L'amore è la cosa che più di tutte mi spaventa.
Stupore. Angoscia. Lui intuisce, ma vorrebbe otturarsi le orecchie, il cuore, il cervello. Rendersi sordo.
(.quando sarò capace di amare vorrò una donna che ci sia davvero, che non affolli la mia esistenza, ma che non mi stia lontana neanche col pensiero.)
- Vorresti lasciarmi?
(.quando sarò capace di amare, vorrò una donna che non cambi mai, ma dalle grandi alle piccole cose, tutto avrà un senso perché esiste lei. Potrò guardare dentro il suo cuore, e avvicinarmi al suo mistero, non come quando io ragiono, ma come quando respiro.)
- .
- Dimmelo: vorresti lasciarmi?...non restare in silenzio, ti prego.
(.quando sarò capace di amare, mi piacerebbe un amore che non avesse alcun appuntamento col dovere, un amore senza sensi di colpa, senza alcun rimorso: egoista e naturale come un fiume che fa il suo corso.)
Dagli occhi Giulia comincia a traboccare lacrime. Non riesce più a trattenerle nella rete invisibile della volontà. A Marco si impallidisce lo sguardo.
Le parole cominciano a tacere. L'aria frigge di dolore. Di sottofondo, una canzone di Gaber contiene e sgretola quel rituale assassino.
(. Senza cattive o buone azioni, senza altre strane deviazioni,  che se  anche il fiume le potesse avere, andrebbe sempre al mare. Così vorrei amare.)
I loro corpi annodati e nudi si trattengono in un abbraccio denso, senza dispersione. Marco affonda il volto nel seno di Giulia, e comincia a singhiozzare. Sembra piuma, leggero com'è. Nel dolore Marco si fa respiro, e Giulia sangue.
 
POICHE' CIO' CHE SARA' NON SI PUO' SAPERE MA SOLTANTO VIVERE -
 
Ricordo quel giorno in cui mi dicesti che avrei dovuto iniziare a lasciarti andare. Mi lasciasti una poesia di Gibran sul letto, e compresi che era ora che l'arco scoccasse la sua freccia. Per una madre è sempre difficile riuscire a comprendere le necessità dei proprio figli, mentre i figli hanno la necessità che  le madri li comprendano. La vita si assapora attraverso le inversioni di rotta e le riconciliazioni, ma io giungo troppo tardi sulla tua direzione. Avrei desiderato comprendere quali corde reggevano il peso lieve della tua esistenza, migliorarmi attraverso la tua freschezza, sostenerti qualora ne avessi avuto bisogno. Ricordo quel giorno in cui mi dicesti che era ora che io mi rendessi devota alla mia vita. Ma la mia devozione sei tu, bambina mia. Tu sei la mia vita e la mia devozione. Una madre diventa paradigma dell'universo attraverso il proprio amore: crea, genera, trattiene, contiene, alimenta, perseguita, ostacola e talvolta purtroppo fagocita. In questi ultimi tempi ti vedevo sofferente, e ho visto la tua dignità nel trattenere il dolore nelle pareti di una camera solitaria. Ti sentivo piangere, di notte, singhiozzare, e ti immaginavo mentre ti contorcevi per quell'amore fallito. Una madre sa vedere attraverso le crepe dei propri figli. Avrei voluto dirti che non esiste soluzione al dolore, ma certamente esiste l'assoluzione al proprio dolore. Basta che ci si conceda la dimensione della vulnerabilità e la consapevolezza di avere sogni che conflagrano. Bambina mia, ora che ti vedo qui inerme, stesa su un letto che appesantisce la tua giovinezza, comprendo l'assurdità di certi insegnamenti, e l'illogicità delle mie pretese. Il dolore lo avresti potuto comprendere soltanto attraverso il dolore. Io non avrei potuto proteggerti. Ma forse avrei potuto proteggerti da questo sonno. Sarebbe bastato dirti che non potevi andare a parlare con Marco, quel giorno, che eri troppo dolorante per poter fare un scelta che ti sarebbe costata un gigantesco sacrificio. Ho letto la lettera che avevi lasciato sulla scrivania, e che forse hai dimenticato perché quella scelta non ti apparteneva realmente. Perché tra le poche cose cui sono stata capace di educarti c'è questa ingestibile necessità di sopprimere i propri desideri per amore dell'altro? Il tuo bene ti apparteneva più di ogni altra cosa, e invece hai preferito fingerti. E ora cosa ne rimane di te, bambina mia? Solo sogni ammassati. Un cumulo di amore di cui ora non sai più cosa fartene. E che rimane in circolo, a sostenere il tuo legame all'esistenza. Ma fino a quando ti potrà sorreggere?
 
POINTBREAK - agguati e distorsioni di una realtà letteraria
 
A questo punto della storia uno potrebbe anche iniziare a tagliarsi le vene. Lo sconsiglio caldamente, perché per tagliarsi le vene spesso si fa ricorso a delle lamette, e le lamette potrebbero presentare degli inconvenienti, come essere poco pulite, contenere batteri nocivi alla salute e peggio ancora trasmettere il tetano, qualora fossero un po' arrugginite.
Nonostante il mio avvertimento, non sono riuscita a distoglierti dall'intenzione di suicidarti? Va bene, ma aspetta ancora un attimo prima di tagliuzzarti tutti i polsi (va beh, tutti: sono appena due.Ma non areniamoci con queste pignolerie, altrimenti finisce che ci si dilunga troppo). Ti dicevo, prima di tagliuzzarti le vene, parliamone. Se le lamette fossero arrugginite, ci sarebbe il rischio di prendersi il tetano. Orbene, la parola "tetano" deriva dal greco "tetanos", che vuol dire "tensione".
Ti domando: sai quali siano i sintomi principali del tetano? . Più o meno? .Dunque, "i primi sintomi [sott. "del tetano"; ndt] sono costituiti dalla contrattura dei muscoli masseteri con incapacità di aprire la bocca e comparsa di rigidità della nuca. In seguito appaiono contrazioni a carico di altri muscoli del viso (facies tetanica, riso sardonico), del dorso e degli arti. Manifestazioni tipiche sono anche la sudorazione, la difficoltà di respiro, la diminuzione della diuresi, l'insufficienza cardiaca e l'aumento della temperatura corporea fino a 45° C. La morte può sopraggiungere in 5-10 giorni" (dal "dizionario medico" dell'Istituto Geografico De Agostino. ??? cazzo c'entra ora un Istituto Geografico col dizionario medico??? Bah! ) Dunque, se questo racconto finora ti ha rattristato, ti sconsiglio di ricorrere a rimedi drastici quale potrebbe essere il suicidio. Dico, potrebbe essere un rimedio drastico, il suicidio, perché, se la vita è una beffa, la morte è un giullare di corte. Potrebbe infatti capitare che, letto questo racconto, ti cominci a chiedere chi cazzo te l'abbia fatto fare di sprecare il tuo tempo in questo modo, leggendo un racconto deprimente e che oltretutto nemmeno ti consentirà di affinare la tua cultura e di fare citazioni colte nei cenacoli letterari, nel tentativo di sedurre qualche persona lì presente e che ti piacerebbe portarti a letto con la scusa del "pessimismo cosmico" in Leopardi; ma in questo caso l'autrice del racconto è un'emerita sconosciuta e un' altrettanto emerita imbecille, che spesso si "diletta" (figurati che gran bel divertimento!) a scrivere cose strazianti, e intanto - ma guarda tu che coincidenza!- la stessa impiega il suo tempo nel tentativo di laurearsi in psicologia prima dei 40 anni, coltivando la segreta speranza che quella possa essere la sua professione futura e che con quella riesca a comprarsi e a mantenersi la seconda casa sulla Costa Smeralda. Allora, può capitare questo: che tu legga il racconto di questa tizia, ti salga la tristezza, e cominci a pensare che prima quella cospiratrice ha disseminato qua e là i bacilli della depressione con i suoi scritti, e poi magari viene da te, con aria subdolamente candida, e ti chieda:
- Mi sembri triste. Cosa è successo?
- Triste io? ,  ti chiedi basito. Tra te e te ti rassicuri, dicendoti che non è vero che sei triste, realmente triste, che sei una persona allegra, che stai bene. Ma pian pianino si insinua il dubbio, e inizi a pensare che, beh, sì, forse un po' triste ora lo sei davvero, e che prima di leggere quel cazzo di racconto che ti parla di dolore, amori disperati, suicidi, tragedie familiari, tradimenti, illusioni, malattie, incomprensioni, drammi epocali, stavi tutto sommato bene, e che il tuo unico problema era di ricordarti di prenotare un appuntamento dal dentista per farti fare una pulizia dei denti ingialliti per il troppo fumo. Sì, forse dovresti anche smettere di fumare. Ma stavi comunque bene, prima di leggere il racconto. Però, ora un po' giù di morale lo sei davvero, ti senti un po' frastornato, confuso, indolenzito, e così lei, la scrittrice terrorista, ti si avvicina ancora un po', ti guarda, ti dà una pacca consolatoria sulla spalla e ti dice:
- Non fraintendermi, ma secondo me ti occorrerebbe l'aiuto di uno specialista.
E tu allora la guardi sbigottito, e intanto pensi:
- Ma io mica sono matto che ho bisogno di un pissicologo!!!"
E lei, agganciandosi come fosse la liana di Tarzan a quel filo di terrore che percorre il tuo sguardo, ti dice:
- Guarda, non bisogna vergognarsi ad ammettere di aver bisogno di un aiuto. Uno va da uno specialista.
- (eufemismo infido utilizzato allo scopo di mettertelo in quel posto)
- . per imparare a conoscersi, per il suo benessere, per capire chi sia realmente e cosa voglia fare della propria vita. Lo psicologo serve proprio a questo: ad aiutarti a realizzare la tua vita. Chiunque dovrebbe andare dallo psicologo, perché chiunque ha bisogno di un aiuto. Non pensare che se vai da uno psicologo allora significa che sei matto.
E allora tu ti dici queste due cose:
(primo)
- cazzo, m'ha letto nel pensiero!
(e secondo)
- embé, ma se è così allora c'ho proprio bisogno di andarci da questo pissicologo!
Però cominci a chiederti se conosci un pissicologo, a chi eventualmente potresti rivolgerti... E lei, sfoderando un insospettabile sorriso mefistofelico, ti dice:
- Se non sai a chi rivolgerti, puoi sempre chiamare me: ho uno studio privato in via Eroi del lavoro numero 5. Questo è il mio biglietto da visita.
Sbalordita la tua Voce Interiore esclama:
- cazzo, m'ha letto di nuovo nel pensiero! Dev'essere proprio brava questa qui!
Però quella terrorista mica te lo dice che una seduta dallo psicologo costa sui 75 euro, e che in genere una terapia dura dai 3 ai 5 anni! No, lei prima scrive il racconto, tingendolo appunto di tragedia, disperazione, dolori lancinanti, tristezze abissali, strappamento di testicoli, e poi, vedendoti depresso, subdola come il serpente sull'albero che inguaiò per sempre quell'ingenuo di Adamo, ti viene a proporre una terapia!
Si sa che uno dei motivi più frequenti di depressione è l'indigenza economica, per cui pagarsi come minimo tre anni di terapia con sedute che abbiano cadenza bisettimanale, significa non solo restare poveri in canna, ma anche doversi rassegnare a una vita senza alcuna possibilità di gratificazioni personali: niente shopping per le donne, niente sigarette e giornaletti porno per gli uomini.
Per non parlare dell'amore, che diventa tabù, dato che, se è considerato romantico offrire un gelato a una donna in occasione del primo appuntamento, al quinto gelato offerto, per di più a metà gennaio, la donna in questione comincia a porsi delle domande, e a uscire col tuo migliore amico che il racconto non l'ha letto, che in realtà non legge mai niente di niente, (e che se gli parli di Beckett ti chiede se giochi ancora nell'Arsenal oppure se sia sposata con la tipa delle spice girls), però intanto lui s'è comprato un monolocale al mare, e lì ci porta tutte le donne cui tu finora hai potuto offrire una relazione sentimentale avviata da un gelato da 1.30 euro.
Ti stai chiedendo dove voglia arrivare con tutta questa fastidiosa logorrea?
Ricorda da dove siamo partiti, cosa ti stavo dicendo, ossia che se la vita è beffarda, la morte è un giullare (vd rigo 33. sì, lo so che non è lì.ma almeno per un attimo, mentre eri lì a cercare le righe, sono riuscito a distoglierti dalla tua depressione.).
Bene, pensi che il discorso lo abbia accennato così, disinteressatamente? Ah, allora non hai ancora capito che sto tentando in tutti i modi di persuaderti a non proseguire nella lettura di questo racconto?!? Immagina che continuando a leggere tu ti intristisca ulteriormente, inizi a pensare alle tue disavventure, i problemi di lavoro, l'ostilità dei colleghi, gli amici che ti cercano solo quando gli fa comodo, l'affitto da pagare, la macchina che ha il contachilometri rotto, la lite col partner che ti dice sempre che sei infantile e che dovresti "maturare"; e così cominci a domandarti cosa fare per poter risolvere queste situazioni, e, pensa che ti ripensa, giungi a convincerti che non esista soluzione alcuna, non solo ai tuoi "insignificanti" mali (insignificanti per gli altri, non per te che sai quanto sia grande e insaziabile il tuo dolore, quanto tu sia sensibile e sfortunato, e tanto più soffri tanto più sei costretto a scontrarti con l'incomprensione altrui) ma che non esista soluzione nemmeno ai problemi dell'umanità tutta, e del pianeta, fino comprendere l'universo sconosciuto.
- "Dove andremo a finire di questo passo?" - ti chiedi atterrito. "Quando finiranno le guerre? E la povertà? I bambini che muoiono di fame? Il razzismo?"
Dopo un paio d'ore trascorse in una riflessione fitta fitta con l'unica  persona che pensi abbia sempre ragione, ossia Te Stesso, ti metti a piangere e a singhiozzare, e appena riesci a dar tregua al pianto e a riprendere fiato, ti convinci che sia ora di farla finita.
Sì, farla finita: ma come? L'impiccagione di questi tempi è diventata impraticabile: pochi lampadari cui appendersi e gli alberi sono o troppo alti o troppo bassi. Pistole? E chi ce l'ha il porto d'armi? Hai solo una fionda costruita da ragazzino con cui facevi a gara coi tuoi amici a chi colpiva più passeri. Pasticche? Non pensi che l'aspirina sia molto efficace, e se sei donna al massimo puoi finirti la scatola di anticoncezionali. L'unica conseguenza probabile è che non ti venga più il ciclo per un paio d'anni. Niente male, ma tu vorresti qualcosa di più confortante. La tua angoscia è troppo intensa per poter trovare conforto in una semplice amenorrea. L'unica soluzione, allora, sono le care, vecchie lamette. E vai a cercarle in bagno.
- "Porcaccia della miseriaccia! Tutte finite!!!"
Per depilarti usi il rasoio elettrico, se sei uomo, o il silkepil, se sei donna. Uccidersi col silkepil non dev'essere facilissimo.
- "Eppure, eppure doveva esserci qualche lametta, da qualche parte. Eccola qui!!!" Miracolosamente ne trovi una, nascosta nel mobile del bagno vicino alle supposte del nonno. E' un po' arrugginita, ma meglio di niente! E ora, che fare? Ti ispiri ai film che hai visto in passato: riempi la vasca d'acqua, ti spogli, ti immergi nella vasca, e cominci a tagliarti le vene dei polsi. A fatica, perché la lama è poco affilata, e così ti tagli a zigzag. Ma tu sei una persona ostinata: alla fine ti recidi entrambe le vene dei polsi. Sfortuna vuole che qualcuno di trovi nel bagno e riesca a soccorrerti. Ti portano in ospedale, ti fermano l'emorragia, e ritorni a casa, tra l'affetto dei familiari e la felicità di essere comunque vivo. Pensi sia finita qui? Ti dimentichi della lametta arrugginita. Trascorsi 40 giorni dall' "incidente", cominci a sentirti parecchio "strano". Fai fatica a muovere la bocca, senti la nuca irrigidirsi, tuo fratello minore comincia a chiederti indispettito cosa cazzo c'hai da ridere (riso sardonico), le tue ascelle cominciano a sudare, il respiro si fa affannoso, e ZAC! ti ritrovi steso in una bara di rovere. Sì, è vero che era quello che comunque avresti voluto inizialmente, no, non la bara di rovere, ma farla finita, e lasciarti i problemi e i racconti tristi alle spalle. Ma non illuderti che sia tutto qui. Tu, è vero, ti sei preso il tetano, e sei morto. Sei morto per la maggior parte delle persone che sono vive. Ma chi può garantirti che dopo la morte non ci sia "dell'altro"?
Sei buddhista e credi nella reincarnazione? Il suicidio ti costa un bel po' di Karma: dopo una scelta del genere come minimo ti reincarni in un maritozzo con la panna destinato a essere divorato da Giuliano Ferrara.
Sei cristiano e credi nell'aldilà? Allora può darsi che il corpo muoia, ma che lo spirito continui a sopravvivere. E te ne andrai pure all'inferno, perché
- Sei stato tu che te la sei cercata. Io te l'avevo detto.
- No, ma io veramente non volevo, è colpa di quella lì, di quell'idiota depressa e delle sue cose tristi, se mi è venuta voglia di suicidarmi. Mi creda, prima di incontrarla io ero la persona più felice di questa terra!... No, non proprio di questa qui, volevo dire dell'altra Terra, di quella di sotto.Comunque, davvero, io non volevo suicidarmi, lo giuro su Dio!
- Qui non si giura, bestemmiatore!!!
- Mi scusi, San Piè,  mi scusi. Le dicevo: io non volevo! Mi faccia entrare in paradiso, san Piè: la supplico! Mi dia le chiavi, suvvia. Lo so che lei è buono, e che fa solo finta di non volermi fare entrare. Lei è davvero un gran burlone, lo sa San Piè?
E quando pensi di averlo finalmente persuaso a lasciarti entrare in paradiso, lui tira la leva, e cadi in una botola che ti spedisce dritto dritto all'inferno. E qualcuno lo dovrebbe informare quel Dante che nella sua Commedia s'era dimenticato di parlare del "girone dei racconti tristi", dove tutti i condannati sono costretti ad ascoltare storie avvilenti e scassaballe PER L'ETERNITA'.
 




Fabio Fabio Fabio
La rabbia mi esplode non dovevi andartene così
            La prima volta è stato proprio il giorno dopo, lì ho capito la mia rabbia da sfigato poteva trasformarsi.
E' sempre stato così, lo stomaco si chiude e preme sul diaframma manca il fiato le palle si lacerano la schiena si contorce un fuoco mi brucia dentro non respiro mi scoppiano i polmoni mi manca l'aria la carne si lacera non sopporto basta non respiro il sangue non scorre più il collo mi pulsa la rabbia mi divora e i miei occhi non vedono più, qualcuno parlerebbe di bava vomitata dalle viscere dell'inferno ma non è così è tutto qui dentro questo piccolo diavolo.
            Quel giorno chi sa perché no, io ero davanti a tutti e solo per te caro Fabio, un messaggio per tutti un saluto da tutti, e quel giorno ripeto e solo quel giorno tutti ci hanno rispettato e ti hanno onorato.
La mattina dopo no eri già dimenticato.
Mortirolo, stavo con la mia canna tra le gambe, quando vedo il nipote ricco del giro che ride, è lì, è stato proprio lì che sentii te Fabio che mi passavi il Tocco del Diavolo, cazzo ora gli spacco il culo a tutti, vaffanculo brutti stronzi vi sputo in faccia ad uno ad uno e poi venitemi a piglià      bastardi.
            Li ho schiattati tutti e dal quel giorno mi baciano tutti il buco del culo, bastardi non esiste più nessuno si parla solo di me, fatemi vivere, diavolo di un diavolo, ed il nipote ricco del giro rode.
 
 
Cazzo Fabio    Fabio Cazzo
Ora esisto solo io, scusa ma tutti ti hanno dimenticato,
ma domani no, Mortirolo di nuovo Mortirolo, fino ad oggi ho vinto di tutto, e tutti sanno che domani il diavolo scoreggerà fiamme d'oro per volare, ti ricorderò e per te arriverò fino in cielo, per te per me per tutti gli sfigati spaccherò il culo al mondo, domani sarà veramente il nostro grande giorno, domani vale molto di più di una vita, è tutto, farò volare tutta l'Italia con me, vi darò le ali e la gioia di vivere, sarà un'impresa che durerà secoli, cancellerò Bartali,Gimondi,Coppi e le sue bombe, io no, io ho il tocco del diavolo che mi trasforma la rabbia in energia.
Energia corre via energia si trasformerà
1 non sei più solo - 2 eleviti lo spirito - 3 esploderai
 
Mortirolo  Fabio  Cazzo  Diavolo
Il nipote ricco del giro ride
Il nipote ricco del giro ride
Mortirolo  Diavolo  Cazzo  Bastardi
Gli sfigati ritornino nella merda.
Fascismo e repressione
            Gli sfigati ritornino nella merda
Non esiste che un povero diavolo salga sulla cima del mondo.
Se è povero è anche drogato,
è fatta ci crederanno tutti sti stronzi
ciglioni abboccano sempre a tutto
povero è uguale a drogato e poi il padre vende piadine mica è avvocato
non diamo spazio a repliche che sia eclatante e davanti a tutti.
Nella merda nella merda e senza replica
Stavolta faremo le cose per bene, togliamo il sorriso a tutti.
Nessuno può alzare la testa, che sia di lezione a quei poveri bastardi, perché non vanno a lavorà?
Che so ste fantasie quello poi ha più miliardi di me  ma che stiamo a scherzà?
Eliminatelo
Prima lo spezziamo e poi poco alla volta lo famo sparì, sto stronzo.
Forza dai fatelo in televisione, avvisate i giornali, chiamate le guardie, così ci abboccano tutti.
Drogato drogato drogato
Basta una parola
Drogato lui come gli altri, per lui più degli altri,
o ragà fate le cose fatte bene e poi mandategli sotto i napoletani, così il cerchio si chiude, farà la fine di Maratona.
 
  
La storia
 
Il nipote ricco ha vinti più di me
Ha modestamente esagerato
Fanno finta di cercarmi e lui non vince più
Questa è la dura realtà.
 

Saluti e baci dall'aldilà  Marco Pantani






Guardate questa fotografia
quello che vedo io
è quello che vedete voi
e quello che io non vedo
non potete vederlo neppure voi.
Eppure c'è
c'è stato sicuramente
e ancora più certo è che ci sarà.
Solo che chi l'ha scattata era distratto
o stanco di aspettare soltanto.
loro due no
non si stancheranno mai.
Lui non può dire quando
il tempo
non gli dà tempo di avvisare tutti
nè me nè voi
nè il fotografo
neppure loro due.
Forse solo il gatto nero senza ali
sa che arriverà tra poco
è per questo che ha deciso di volare.
Lui non piange più
lei non parla più
e il gatto nero ci crede davvero.
quando il tempo è fermo
più di questa fotografia
caricate la macchina e restate a guardare
sembra che il bimbo abbia un brivido
sembra proprio che la mamma lo stringa pi forte.
Ecco adesso
guardate tra le nuvole
dietro la coda del gatto nero
pronti a scattare.....Ora!
Guardate questa fotografia
quello che vedo io
è quello che vedete voi
quello che aspettavano
lei per respirare
lui per sorridere
quello che aspettava il gatto per continuare a volare.
E' arrivato
il padre
il compagno
il vento.

Il cielo é terso, solcato appena dalle nubi bianche e cotonate di maggio. Non era sempre così; considerando che tornava ogni dieci anni a casa, capitava che accadesse in giornate terse come quella, oppure anche con la pioggia battente, che dalle nuvole nere si scaricava sul terreno accidentato e sulle pianure, in un rimbalzare di goccioloni, creando pozze fangose che, dopo poche ore, il vento seccava in sottili strati di fango chiaro solcato da piccole crepe.

L’ultima volta che era tornata a casa, sulla sua isola c’era vento: qualcuno potrebbe chiedersi come facesse a ricordarsi, dopo centoventi mesi, più di quarantamila giorni, che tempo facesse quel giorno. Eppure, ogni volta, ricordava. Il vento, teso e difficile, aveva ostacolato il suo arrivo, ma non lo aveva reso meno gioioso ed inevitabile. Era giunta dalla spiaggia, dove le onde si infrangevano rumorose, il mare color del fango tipico dei giorni di tempesta e di quelli immediatamente successivi.

La costa era cambiata poco, cambiava sempre poco da una volta all’altra; una roccia che scompariva, una spiaggetta di sabbia grossa, ciottolosa, che nasceva all’improvviso tra due piccoli scogli. Riconosceva quei luoghi, e li riconoscevano i suoi nervi, il suo corpo scosso dal fremito che solo la terra natale le suscita ancora, nonostante le mille peregrinazioni, nonostante le molte spiagge che, di anno in anno, di decennio in decennio, i suoi occhi colgono.

Appaiono i primi alberi, da lontano: gli abeti frondosi, che ora hanno sulla cima dei rami i ciuffetti verdi e teneri dei nuovi aghi annuali; il suo cervello attende, nonostante sia ancora distante, l’odore dei pini, della resina, di tutto il sottobosco in cui le piace fermarsi all’ombra. Ora, cominciano a farsi visibili le rocce delle colline irregolari di cui la sua isola è fatta: bianche, spigolose, a tratti riarse. Gli alberi verdi alla base, poi sempre più radi mentre si sale verso le vette. I cespugli prima verde scuro, poi giallastri e marroni, poi l’assenza di vegetazione, i sassi sotto i quali si annidano solitarie vipere ed insetti. Lì, il vento soffia forte, anche oggi porta gli odori del mare mescolati a quelli della terra, ai fumi dei camini dei villaggi acquattati tra le piccole montagne, gli aromi delle bestie nei recinti.

Ora li vede, sono tutti lì, radunati nel centro del villaggio, nel piccolo vuoto terroso che chiamano piazza, tutti insieme, stretti e silenziosi, come ogni volta, ad aspettarla.

Al centro un recinto di pali alti e spessi, chiuso da un cancello pesante; all’interno, una ragazza, coperta solo di un mantello bianco di piume sotto il quale si scorgono i nastri rossi ed azzurri che ornano il suo giovane corpo; é immobile, come sempre, in uno degli angoli della recinzione. E’ seduta o quasi, lo sguardo perso, le giovani membra confuse e tese, prigioniera nella sua tunica.

Sa quello che accadrà ora, quando punterà il capo verso il basso, quando le sue ali nere si spiegheranno per planare sulla terra battuta della piazza, sulla recinzione di legno: mentre la giovane comincerà a gridare ed a correre senza speranza e senza direzione all’interno del recinto: tutti resteranno immobili, chi piangendo, chi serrando gli occhi davanti allo spettacolo di quell’enorme rettile alato che strapperà al villaggio la predestinata, e la solleverà fino a percuotere il suo corpo sulle rocce del picco più alto, cibo per il suo ventre gravido della creatura che nascerà, pochi mesi dopo, su un’isola poco lontana.

Come ogni dieci anni.

."la scesa negli inferi e' un passaggio obbligatorio per il raggiungimento delle regioni piu' alte dell'essere"
F.W.NIETZSCHE


DI NOTTE LE GABBIE DEI COLORI SONO CHIUSE,
MA QUELLA NOTTE QUALCUNA ERA RIMASTA APERTA,
E UN CALDO SOFFIO GIALLASTRO ERA QUANTO DI PIU' BUONO
MI SERVISSE PER NON CEDERE ALLA PALLIDA CAMPANA DEL MARE.
CONCEDERSI AL MARE E' IL RISCHIO DELLA VITA,
CONCEDERSI ALLA PALLIDA CAMPANA DEL MARE E' IL RISCHIO DELLA NOTTE.
SOFFIAVANO GIALLE LE OMBRE GRIGIE DI VOIALTRI
SCRITTORI DI POCA FAMA MA CON ILLUSTRE VOLONTA' DI ESSERCI;
LE VOSTRE OMBRE ERANO BLOCCHI DI LUCE LASTRATA,
COI MORSI DI STELLE RAPACI SULLE OSSA FRESCHE D'ESTATE,
SPURGANTI IL DENSO BAGLIORE DELLA GIOVANE DISTANZA UMANA.
REGALE E' QUELL'AMORE CHE NON SA DI ESSERLO,MA
CHE FA DI TUTTO PER NON UBRIACARSI D'ALTRO.
ERA STATA UNA GRANDE E INGENUA FORTUNA CHE MI AVEVA ACCOLTO
ED IO CURIOSO CIECO VIAGGIATORE ERO INSORTO NEL SUO ITINERARIO.
IMBRATTATE LE MENTI D'ASSENZA BISTRATA,
SI RECISE L'UNIVERSO IN PARTI UGUALI E
LA COLMA SPERANZA INTRAPRESE SE STESSA.
ERO SCESO ,ALL'IMPROVVISO,
COME FA IL TEMPO QUANDO NEVICA SULLE TERRE LONTANE,
NEL BUIO MUTO DELL'EMOZIONE POETANTE,
E NON AVEVO NIENT'ALTRO CHE ME,
PERCHE' ORMAI AVEVO SENTITO SCANDIRSI IN FRANTUMI LE ROCCE STRANIERE CHE SFORMANO IL SUOLO.
LE NUCHE DEI FIORI SPESSO DIMENTICANO DI SENTINELLARE LA PROPRIA PUDICIZIA,
E CAPITA LORO DI RITROVARSI LADDOVE, CON OCCHI CONSCI E SCONCI, AVEVANO DERISO L'INVERNO,LADDOVE LO AVEVANO SEDOTTO AMMICCANDOGLI DINANZI I PETALI SEGRETI,
MA COL NASO ' GLI AVEVANO GIA' AFFIBBIATO SOPRANNOMI MALEODORANTI.
CADEVANO IMPURI ATTORNO A ME, E OVUNQUE VI FOSSE ANCORA SPAZIO, I FIORI MALSANI DELLA REALTA':ERO FINITO SOTTO DI ME,ERO NEL TURBINE DELLA POESIA. COMINCIAI A PERSUADERE I PADRONI DELL'IGNOTO STATO D'ANIMO.
"PER DIRLA TUTTA E PER NON FARLA BREVE INVITEREI VOLENTIERI UNA PAROLA QUALSIASI TRA QUESTE A TRADIRE IL SUO DISCORSO
MALIN-COMICO OFFRENDOLE UNA SERA ROMANTICA PER LE STRADE GIALLE DI PARIGI,DOVE BEVENDO VINO E URLANDO NOSTALGIE SECOLARI,
POTREI, TRA UNA BATTUTA E L'ALTRA,BRUCIARE LA BOBBINA DEL CUORE, E LANCIARLA LIBERA NEL SUO VAGARE ESISTENZIALE.
MA MI SENTIREI RISPONDERE ,DA CODESTO AGGLOMERATO DI LETTERE, CHE IL DISCORSO IN QUESTIONE NON E' SUO MA MIO,E CHE A PARIGI DEVO ANDARCI DA SOLO PERCHE ORMAI ESSA, IN QUANTO PAROLA , E' GA' STATA DETTA E NON HA NESSUNA INTENZIONE DI CAMBIARE DI SIGNIFICATO;FIGURIAMOCI CITTA'.
INSOMMA E INSOTTRAZIONE IO MI RITROVEREI SENZA NULLA DA DIRE SE DOVESSI FARE AFFIDAMENTO SULLE COSE CHE DICO,
ecco perche' di solito preferisco usare il linguaggio e non farmi usare da lui,
ecco perche' di solito mangio con gli occhi chiusi, senza guardare le pietanze,
ecco perche' di rado scelgo direzioni ai bivii,(distruggendo cio' che divide per creare varchi d'equlibrio)
ecco perche' non vedo le distanze come mostri da temere ma come sirene da raggirare,
ecco perche' non dico mai cio' che gia' so:
io immagino e fluttuo nel ventre del mio intuito.
Nient'altro."
"Parole grosse anche per un paroliere, e ancor piu' grosse sono lassu' da dove sei venuto,tenendo conto che non servono a nulla dove vivi".(cosi mi dissero ridendo i due arcani)
"E tu paroliere dove ti metteresti oggi, che la parola tua piu' bella,il nulla, e' senza cuore?"
"MA io ho ancora amore da inventare e potrei reinventare il nulla"(disse il paroliere,cioe io, chudendo gli occhi).
"Il tuo amore sia a te come tu sei stato per noi:nuovamente vero e semplicemente vivo!!!(dissero gli arcani piangendo).
"Sei venuto qui di notte,e ci hai costretto a fidarci di te e del sole,poiche' non vi e' bellezza che non sia da credere.
La tua bellezza e' stata creduta,la tua passione ardente per l'emozione riconosciuta.
Vai, prendi per mano la tua amata e portala con te dove potrete imbarazzarvi.
Ma ricorda bene devi risalire nel tuo mondo senza voltarti.
Il ricordo di chi ami e' la tua unica volonta'.
Non devi guardare chi ami per ricordarti di amare.
Porta su con te chi ti emoziono' tenendo gli occhi chiusi e il cuore sgombro.
Vai."
Salimmo verso l'alto.
Mentre salivamo la guardai per paura di perderla ancora una volta.
Cosi fu.
Da allora non la vidi piu'.
Il ricordo della sua voce pero' e' divenuto il suono dolce di una sera della mia vita.