GIULIO E QUEL GRAN GENIO DEL SUO AMICO
di gabriele santoni
Amavano tutti e due il vino. Quello buono, fatto da se. Quello che magari, a confronto con i Chianti o le Barbera, non sa di nulla. Ma per chi lo ha fatto con le proprie mani, ha un sapore diverso. Conserva il profumo della terra del vialetto di casa, del bucato al sole d’estate. Ha il colore dei coppi bagnati della cantina, il sapore di un fiore in bocca. Facevano a gara davanti al bicchiere, per gioco. Lo guardavano in controluce, leggendo chissà che cosa in quei riflessi rosso vermiglio. Avevano imprecato con le stesse parole durante la grandinata di settembre, ci potrei giurare. L’uva era la stessa, il sole che l’aveva scaldata pure. Avevano vendemmiato insieme, pur dividendosi i grappoli al confine col filo a piombo. Da anni erano amici Giulio e Lucio. Avevano la stessa passione per la natura, il lavoro duro non faceva paura a nessuno dei due. Eppure, la loro amicizia si interruppe così, all’improvviso. Come la grandine di settembre. Si sono voltati le spalle proprio lì, sul confine della loro vigna per colpa di un tombino rotto.
“Lo devo aggiustare io?”, aveva chiesto Giulio “ma se sta dalla parte tua!”.
Fu prima Lucio, per la verità, a voltare le spalle. Giulio era più vecchio, era più saggio.
“Tanto ora mi richiama”, avrà pensato Lucio in quel momento. “Io torno indietro, faccio come per dargli un cazzotto, lui mi promette che me le darà di santa ragione, e ce ne andiamo dentro a bere un bicchiere”. Questo avrà pensato Lucio. Figurarsi se potevano litigare per un tombino! Ma non andò così. Giulio a quel gesto non ha battuto ciglio. Dietrofront e chiss’è visto s’è visto! Non si sono più parlati. Dopo anni di vita insieme, lavoro e vendemmie quella fu l’ultima volta che Giulio e Lucio si videro. Fuori da un tribunale intendo. Sì, perché la storia del tombino al confine delle due vigne andò avanti per anni, avvocati, ingiunzioni e giudici.
Lucio era partito dal suo paese, alle porte di Roma, con pochi spiccioli in tasca. I soldi per il treno li aveva racimolati qua e là. Il padre, Alfiero, non voleva saperne nulla.
“Ma come ti viene in mente di abbandonare la tua famiglia!”, ripeteva ogni volta. “Ma per andare dove, poi! E a fare cosa?!”
Agli occhi di Alfiero, Lucio avrebbe lasciato tutto per un sogno che valeva poco. Avrebbe lasciato tutto per una lira. Sognava per il figlio un posto da impiegato, magari alle poste. Stipendio sicuro, le ferie, la cassa mutua. Nei giorni liberi lo avrebbe aiutato con l’orto, le viti, le bestie da governare. I nipoti, a colmare quel vuoto lasciato dal suo primo figlio, morto troppo presto. Gli anni ‘50 avevano visto le famiglie stringersi a cercare la forza di ripartire, di ricostruire. Tutti insieme. E Alfiero non riusciva a capire questa voglia di Lucio di abbandonare tutto per cercare fortuna al nord. Voleva inseguire un sogno, cercare la felicità. La sua felicità. E questo fece, un biglietto di sola andata per Milano. Quella Milano vista solo in fotografia, la Milano raccontata da quelli che, pochi per la verità, c’erano già stati. Militari perlopiù. Dal paese Milano era lontana, sfocata. Milano era New York.
I primi furono tempi difficili. Il lavoro era poco, saltuario e malpagato. Una chiamata qua e là, e settimane senza far nulla.
“Ma sai che c’è?”, ha pensato spesso Lucio, “ora butto quei quattro stracci nella valigia e me ne torno al paese mio!”. La tentazione era forte nei momenti di solitudine. Ma avrebbe significato, per l’ennesima volta, dare ragione al padre, che già lo aspettava con la zappa in una mano e la vanga nell’altra.
“Ma che t’avrà detto quella capoccia!”, così lo avrebbe salutato Alfiero vedendolo tornare, con la faccia di chi ha lavorato per tutta la vita e si sente in diritto di abusare della propria saggezza sporca di terra.
Dopo qualche mese, l’incontro con Giulio. Così, per caso, in un giorno qualunque. Giulio lavorava in quell’azienda ormai da anni. Lucio gli sembrò un bravo ragazzo, con tanta voglia di fare e la giusta dose di umiltà. “Vuoi lavorare per noi?” gli aveva chiesto Giulio “Guarda che è una cosa seria! Non sarà un’avventura!”. Capirai, Lucio non se lo fece ripetere la seconda volta. Il giorno dopo era già lì, pronto a rubare con occhi e orecchie e a fare tesoro degli insegnamenti di Giulio. L’azienda si fidava di Giulio. “Guardate che questo ragazzo è forte, sa il fatto suo!” diceva ai suoi capi quando mostravano perplessità sulle capacità di Lucio. Per anni andarono avanti, sembravano una coppia organizzata e oleata come un motore pulito. Alla fine divennero talmente bravi, insieme, che decisero di mettersi in proprio. “Ma perché dobbiamo regalare i soldi a questi, se possiamo farcela da soli?” Si misero d’accordo sulla divisione dei proventi e partirono nell’impresa. Per molti anni le cose andarono bene, anzi benissimo. Fin quando alla fine, un po’ per la storia del tombino al confine, un po’ perché la divisione dei soldi non stava più bene a nessuno dei due, litigarono. Dietrofront e chiss’è visto s’è visto.
Dopo il lavoro spesso si trovavano Giulio e Lucio. Si sedevano davanti al giradischi. Giulio puliva la puntina, passava il velluto sul vinile, abbassava con cura il braccetto meccanico. Ascoltavano la musica americana. Giulio puntava l’orecchio verso la cassa per provare a capire cosa dicesse Dylan. Allora Lucio staccava la chitarra dal chiodo e gli diceva “Giulio, senti questo!”, e improvvisava un riffetto blues. Non aveva mai studiato musica Lucio, aveva imparato a suonare da solo. Erano piccole cose sì, ma parte di un grande insieme. Il vino, la musica, la loro amicizia, il loro lavoro. Emozioni.
Dopo qualche anno Lucio morì. Se ne andò così, senza dire nulla. Un male incurabile, dissero i dottori. Giulio non se ne fece mai una ragione. Per anni continuò a chiedersi dove fosse finita la loro amicizia. Andò a cercare la risposta proprio lì, al confine delle loro vigne. Pensò che la vita di entrambi non avrebbe avuto senso se non si fossero incontrati. Spesso guardò quel tombino Giulio, maledisse quel giorno quando invece di tornare indietro e promettere di dargliele, voltò le spalle a Lucio e chiamò l’avvocato. Per molti anni continuò a cercare Lucio nelle cose semplici, nel vino, nei profumi, nelle canzoni. Lo andò a cercare perfino nell’arcobaleno. “Te ne sei andato via così, all’improvviso”, pensò spesso. Una volta lo scrisse pure. Un giorno la rabbia lo fece schizzare dalla sedia, andò con gli attrezzi al confine e buttò giù i pali e la recinzione. Li strappò via dal terreno, li accatastò da una parte e gli diede fuoco. Ora il confine non c’era più, ora finalmente erano di nuovo vicini Giulio e Lucio. Sapeva che Lucio dall’altro mondo lo guardava. Finalmente Giulio era sereno “Ora la nostra amicizia non ha più confini”, aveva detto guardando verso il cielo. Iniziò a piovere. Grandine. La pioggia confondeva le lacrime e un sorriso gli rigò il volto.
È così che andò. Almeno credo. È così che me l’hanno raccontata questa storia ed è così che voglio raccontarvela. Mi chiedo solo, perché mai Giulio avesse deciso di farsi chiamare con quello strano nome, Mogol.