di Carla Benedetti, 16/07/2010
Le lamentele sulla mediocrità degli scrittori di oggi e sulla prepotenza dei grandi editori? Servono a coloro che per paura di perdere il potere non vogliono vedere il nuovo che nasce tra le macerie.
In un Paese distrutto, la rinascita viene anche dalla cultura. Nella patria di Gramsci si potrà capire al volo cosa intendo. La cultura è un terreno cruciale che può risvegliare energie, seminare sentimenti etici, riaprire le menti e i sogni. In mezzo alle macerie, nella Milano bombardata alla fine della seconda guerra mondiale, l'apertura del teatro di Paolo Grassi fu come l'accensione di una piccola luce nel buio. A maggior ragione nel Paese moralmente distrutto di oggi. Eppure sembra che dalla cultura oggi ci si aspetti ben poco in Italia. È soprattutto nell'area detta di sinistra che si concentra il maggior numero di "operatori culturali" rassegnati, che portano annichilamento, traendo cinicamente il proprio status dal generale ribasso. O che usano la loro intelligenza per analizzare le ragioni per cui, stando alle nozioni "classiche", nient'altro sarebbe più possibile. E per dimostrarlo meglio, cancellano dal quadro quello che di inaspettato si alza ancora, non si sa per quale miracolo, da questo nostro Paese sorprendente. E a volte persino si mostrano ostili alle idee nuove, alla radicalità artistica e di pensiero, quasi avvertite come un pericolo. So che sto affermando una cosa grave. Ma è difficile negare che nell'ultimo decennio gran parte della sinistra sembra aver fatto di tutto per consegnare la vita culturale a una mediocrità di mera sopravvivenza.
Di ritorno dagli Usa, dopo tre mesi passati a insegnare all'Università di Chicago, e a notare con dolore la differenza tra la vita culturale più libera che c'è lì e tutti gli impedimenti (non solo economici) che invece da noi la soffocano, mentre ero ancora sull'aereo ho aperto di nuovo, dopo tanto tempo, un giornale italiano su carta. Mi è venuto incontro il Paese malato di prima, ma ancora più straziato da predatori, con la democrazia ridotta a paravento, l'università pubblica ancora più smantellata, politici che continuano a fomentare la paura e l'odio razziale, un clima che spreme fuori il peggio da ogni uomo. Ma in prima pagina di "Repubblica" (del 17 giugno) leggo qualcosa che che mi ridà animo. Un'analisi che va in profondità, oltre il già noto, che forgia concetti nuovi ed è mossa da un percepibile amore per il proprio oggetto. È una riflessione di Gustavo Zagrebelsky sulla democrazia e su ciò che la sta divorando dal di dentro nel nostro Paese. Parla di una forma "nostrana" di oligarchia, che agisce nascondendosi, e che egli chiama "oligarchie di giro". "Intendo con questa espressione - il giro, esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi ha giro, e chi non ce l'ha". E continua dicendo che questa "struttura del potere", che distrugge l'ethos e le basi culturali necessarie alla democrazia, non è mai stata così "estesa, capillare, omnipervasiva come oggi: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell'economia e della finanza, dell'università, della cultura". Sì, anche della cultura. Gli invisibili giri, che ognuno però avverte, e che trasformano gli individui liberi in servi di chi in cambio gli darà privilegi o carriera, corrodono anche lì. Questo male però non viene quasi mai messo nel conto. Quando si parla dello stato della letteratura, del teatro, dell'arte, della ricerca, si è subito pronti a additare le logiche di mercato e di profitto che sono penetrate nella produzione culturale, ma qui ci si ferma.
Sullo stesso giornale, leggo qualche giorno dopo un articolo intitolato "Dove è finito lo scrittore". Si parla di un documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, prodotto dalla Rai, "Senza scrittori". La tesi è che nel mercato della letteratura, dominato dagli interessi dei grandi gruppi editoriali, "non ci sono più opere o scrittori o critici o riviste ma solo produzione industriale". A fianco, c'è un'intervista a Alfonso Berardinelli. Anche lui parla di "scrittori che si adeguano", di "riviste sparite", della grande editoria che "oggi è la retroguardia", e che "ruba gli autori sui quali i piccoli editori hanno rischiato". Eppure Berardinelli, quando era editor della Bollati Boringhieri, rifiutò "Gli esordi" di Antonio Moresco, che invece pubblicò Gabriella D'Ina della Feltrinelli, e che nel 2006 vinse il premio Lipsia per il miglior libro tradotto in tedesco, concorrendo assieme a autori come Vollmann, Pessoa, Erofeev. Perché allora questo manicheismo semplificante?
A fare la differenza non è la grande o la piccola editoria (entrambe soggette alle logiche di mercato), ma la lungimiranza e la capacità di rischio di singoli individui, che persino dentro ai grandi gruppi editoriali riescono a costruire qualcos'altro. Per esempio a pubblicare un giovane scrittore di Casal di Principe, Roberto Saviano, il cui "Gomorra" ha risvegliato virtù civili con un effetto rigenerante sul Paese. In questi mesi sono usciti quattro libri carichi di uno sguardo nuovo e umanissimo: "Gli incendiati" di Moresco (Mondadori), "Le rondini di Montecassino" di Helena Janeczek (Guanda), la raccolta di poesie "Bestia di gioia" di Mariangela Gualtieri (Einaudi), i racconti "Foravia" di Dario Voltolini (Feltrinelli). I primi tre sono pubblicati da grandi gruppi editoriali. E, guardando all'indietro, i libri di Mari, Siti, Scarpa, Busi, Pariani, Evangelisti, non sono forse usciti presso Einaudi e Mondadori? E così anche poeti come Mario Benedetti e Ivano Ferrari. Sappiamo che le concentrazioni editoriali, come già mostrò Schiffrin in un libro di dieci anni fa, impongono profitti alti e rapidi, rendendo difficile la sopravvivenza in libreria dei libri "di cultura". Ma perché, per illustrare questa verità si fa sparire dal quadro l'esistenza del conflitto, di comportamenti virtuosi, che andrebbero lodati e alimentati, non cancellati. Che differenza c'è tra queste sintesi pressappochiste e il qualunquismo di chi dice "tanto rubano tutti"? E quanto alle riviste scomparse, cosa falsa (basta vedere l'articolo di Umberto Eco sul primo numero di "Alfabeta 2"), mi sento io stessa punta sul vivo, visto che collaboro alla rivista "Il primo amore" di cui in questi giorni esce il numero 7, "Tribù d'Italia". Dentro ci sono gli atti di un incontro, tra persone, impegnate in attività culturali di volontariato e in progetti di ricostruzione, nel campo del teatro, della letteratura, della medicina, della psichiatria, dell'immigrazione. C'è un gap tra la cultura visibile di cui si parla nei media e la reale vita culturale del Paese, dove si muove anche altro, e di più potente e proiettivo. In Italia ogni voce che ha spessore viene accusata di essere di destra. Alessandro Dal Lago lo ha detto di Saviano. Argomenti simili sono stati usati contro Pasolini. Moresco lo definirono "criptofascista".
Continuo a stuprimi di ostilità della sinistra per il nuovo. Si parla, ancora, di "impegno", di "scomparsa degli intellettuali" e di altre polverose categorie del passato, rimasticate in discorsi asfittici, ingombri di "idee ricevute" dal Novecento. Per fare un esempio: Cortellessa, critico e editor della piccola editoria, quando loda qualcuno degli scrittori odierni, si affretta a precisare che "nessuno di loro è Dostoevskij". Ma perché usare la grandezza del passato per fissare la misura ridotta a cui può giungere il presente? Cos'è questa volontà di lavorare al ribasso, di tagliare via gli alberi più grandi per poi regnare nel sottobosco? Leopardi scriveva amaramente che gli italiani sono "più filosofi di ogni filosofo", che si erano cioè spinti tanto oltre nella percezione della vanità di ogni cosa, da reagire a tutto con un cinismo diffuso. Perciò in Italia non si sono mai sopportate le figure grandi, e quando si manifestano si fa loro la guerra. Così successe a Leopardi, a Pasolini e oggi a altri scrittori. È come se si dicesse loro: "Perché sei venuto a disturbarci?", come chiede il Grande Inquisitore a Cristo ritornato sulla terra, nei "Fratelli Karamazov". Dunque, perché mai in questo Paese la profondità e il coraggio devono subire queste difficoltà aggiuntive, queste guerre tese al controllo del territorio e all'eliminazione della "concorrenza"? Una rigenerazione del tessuto lacerato della democrazia non può non passare anche da qui.
L'espresso - Cultura