Complimenti a mio cugino Bernardo che mostra notevole personalità scrivendo quanto segue:
Il ragazzo e il clan Ciarelli-Di Silvio
Accade sempre così. Da anni. Le azioni si compiono, la storia avanza, ma noi cittadini di Latina, in politica e in società, siamo ancorati ai soliti triti e ritriti battibecchi da cortile: la zona a traffico limitato, le pene del giovane Werther Di Giorgi, la crisi di pubertà perenne del Partito Democratico, l’apparire dello struscio nei locali alla moda.
Gli organi d’informazione pontini (non tutti, per fortuna) si scervellano sul successore del sindaco, o sull’ultima bega interna del PD già proclamato vincitore della contesa amministrativa a furor di Renzi, come se ciò bastasse a risollevare le terrificanti sorti e regressive.
A latere di tale inutile sbrodeghezzo, quest’estate è avvenuto un fatto importante per la città di Latina. Un fatto storico. Dopo le sentenze emesse nell’ambito del processo Caronte, il clan Ciarelli-Di Silvio ha subito alcune condanne che ne hanno minato le radici. Colpite, di certo, ma non estirpate. Circa due secoli a personaggi dalla città conosciuti, temuti e, purtroppo, rispettati: Carmine Ciarelli, Patatone, Patatino e Porcellino Di Silvio, Macù Ciarelli, Mario Esposito e tanti altri.
Nomi e soprannomi che hanno da sempre echeggiato in molti discorsi svolazzanti nei bar, davanti alle edicole, nelle aule dei Tribunali, tra giovani e meno giovani di buona famiglia che sanno tutto, perché chi conosce le storie criminali non è uno sprovveduto, e, magari, il sapere (mutuato da pettegolezzi e falsi miti) consente loro di risultare persino à la page. Se poi li conosci personalmente, sei dotato addirittura di una certa autorevolezza: puoi permetterti tutto perché loro se la comandano come dicono da noi, io li conosco, guarda che quello conosce quell’altro, lascia perdere: in un vorticoso giro di valori denudati e cambiati di segno dove a farla da padrone è la prepotenza omertosa contro la cultura, l’essere amico del più malavitoso contro le relazioni civili imperniate sul rispetto dell’essere umano.
Nomignoli, quelli di Patatone o Sapurò ecc., sovente menzionati a sproposito, con confusione, senza distinguere i sinti, i rom, Al Karama (un caso completamente diverso), i Casalesi. Tutto compresso in una immonda pattumiera dove la mafia si avviluppa al mondo zingaro e non v’è più distinzione tra i clan camorristici e il nostro clan, quello che ha caratterizzato per anni l’enclave pontina dei Ciarelli-Di Silvio.
Sì, Latina si è distinta anche per questo: avere una zona franca, custodita dai Ciarelli-Di Silvio e tollerata dai forti clan del sud pontino e, ancor più forti, del casertano.
Si legge negli atti del processo “Anni 90” che, nel 1996, i Ciarelli furono avvicinati da Ettore Mendico e da un altro emissario del clan dei Casalesi che si presentarono da Carmine in via Andromeda a Pantanaccio, a pochi metri dal luogo dell’attentato del 2010 al medesimo Carmine da cui si originò la cosiddetta guerra criminale latinense (vi furono diversi tentati omicidi – Marchetto, Fiori, Santucci, Savazzi, Annoni – di cui due riusciti: “Bistecca” Buonamano e Moro) e i conseguenti processi Andromeda e Caronte (i fatti contestati riguardano un periodo temporale che va dal 2004 ad oggi e coinvolgono oltre 10 vittime che hanno sporto denuncia). Nel ’96, dunque, Mendico e la camorra volevano una tangente sull’usura dal capo incontrastato del clan, Carmine Ciarelli. “O ci paghi o ti ammazziamo un figlio al giorno”, fu il diktat di Mendico a Carmine, il quale si rivolse ai carabinieri: quattro esponenti del clan dei Casalesi furono arrestati, ma era evidente che un affronto del genere avrebbe dato il via in futuro a terribili strascichi. E pensare che le convergenze parallele avevano funzionato fino ad allora: in altre carte del processo, si fa riferimento a una mediazione trovata tra i Casalesi e i Ciarelli-Di Silvio, tramite i Casamonica, noto clan mafioso, anch’esso di origine rom, protagonista della mala romana.
Nel processo al clan Mendico, il colonnello Vaccari che si occupò dell’indagine raccontò ai giudici: “Il clan Ciarelli era il gruppo più forte a Latina dove chiunque conosceva i membri della famiglia rom. Ricordo che le donne giravano in gruppo, andavano nei negozi, anche piccoli, e nessun commerciante si tirava indietro: tutti davano dei soldi sapendo che un rifiuto sarebbe stato pericolosissimo”.
Nell’indifferenza sciocca e devastante della politica latinense, i Casalesi, dalla fine degli anni ottanta, si occupavano di rifiuti; accanto ad essi, in un caos calmo di incompetenza e omissione, nella città pontina si sviluppava, negli anni novanta (e prima ancora), l’era del clan di origine rom dedito, perlopiù, all’estorsione e all’usura con qualche inclinazione verso lo spaccio di stupefacenti. La macchina militare casalese non perse mai di vista i ribaldi Ciarelli e Di Silvio: diversi collaboratori di giustizia hanno confermato che a presidiare il clan rom furono inviati i Baldascini, famiglia campana trasferitasi nel pontino. Matteo e Paolo Baldascini, altri due che a Latina dettavano legge in petto ai Ciarelli-Di Silvio, sono entrambi finiti in carcere: l’uno col 416bis (associazione per delinquere di tipo mafioso), l’altro per l’omicidio di Giorgio Soldi: lo ha ammazzato come un cane per un debito, in Piazza della Libertà, al centro di Latina, nella piazza dove dovrebbe essere presente lo Stato – la Prefettura – e in cui si erge anche la stazione dei Carabinieri.
È stato un processo tortuoso, il Caronte. Nel corso di un’udienza, un testimone dei traffici di droga di Pradissitto (uno dei condannati insieme ai Ciarelli e ai Di Silvio) non si presentò costringendo gli organi di giustizia a predisporre l’accompagnamento coatto. Un episodio come tanti si dirà, ma tra i tanti che hanno colorato di tenebra la vita processuale del Caronte, costellata di improvvisi vuoti di memoria dei denuncianti, difficoltà a trovare i giudici che esprimessero la sentenza (sono stati sette i rinvii per varie incompatibilità, fino alla decisione dell’ex presidente del tribunale pontino D’Auria di nominare un esterno romano), reticenze di ogni tipo da parte degli imputati e dei loro famigliari.
Alla fine, i tre giudici – Salari (Roma), Cavaceppi e Giannantonio – hanno quasi in toto confermato l’impianto dei pm Giancristofaro e Miliano. Sentenze che hanno visto condannare i protagonisti del Caronte a reati di usura, estorsione, detenzioni di armi, copertura di latitanti e associazione per delinquere (416), non di stampo mafioso (416bis), sebbene osservatori di legalità regionali e numerose informative cristallizzino, sulle mappe criminali, Latina come feudo dei Ciarelli, dei Di Silvio, dei De Rosa.
Un processo, il Caronte, venuto dopo il flop dell’altro processo scaturito dalla guerra criminale, l’Andromeda, che vide assolvere, tra gli altri, anche Samuele Di Silvio che, alla fine di questa storia, tornerà prepotentemente protagonista.
Come tutti a Latina sanno, ma sia ribadito a scanso di equivoci, il clan è di origine rom ma poco ha a che fare con gli zingari di Kusturica o i derelitti cantati in poesia da Fabrizio De Andrè e la sua splendida Khorakhanè. Né tanto meno con i nomadi di Al Karama, alcuni dei quali certamente in limine con la microcriminalità ma non associati in una cosca strutturata e aggressiva come la Ciarelli-Di Silvio (da cui, va detto, alcuni parenti, con i medesimi cognomi, prendono le distanze e provano a vivere una vita normale).
Eppure, nell’associazione criminale del Ciarelli-Di Silvio, accanto all’avidità dei beni materiali, alla crudeltà sanguinaria, al sopruso per il controllo del territorio cittadino (elementi tipici di ogni associazione per delinquere), vigono ancora alcuni archetipi che al mondo rom rimandano. E ne rimandano in un senso deteriore e distorto del termine. Non c’è il nomadismo o l’apolidia – figli di nessun mondo e allo stesso tempo del mondo intero -, ma vi è il nomadismo o l’apolidia declinati come arrogante rifiuto e mancanza di rispetto nei confronti delle Istituzioni e dell’ambiente cittadino. Dove Zagaria, il superboss casalese, si congratula con i poliziotti che ne hanno scovato il bunker, al contrario, qui, ci sono gli insulti dei componenti del clan rivolti ai magistrati e alle forze dell’ordine senza complessi anacoluti o velate minacce, ma colpendo dritto come cani randagi di fronte al pericolo di soccombere.
Il nomadismo (delle regole civili) anarchico e totalitario contro uno Stato che non si vuole riconoscere: gli uomini del clan di derivazione rom sono razzisti nei confronti degli abitanti di Latina, considerati come bestie rammollite da sottomettere, vilipendere, denigrare a razza fasulla e debole. Carmine Ciarelli, condannato a ventuno anni nel processo Caronte, ras di Pantanaccio e capo del clan, ebbe a dire anni fa, nell’ambito di un altro processo (il summenzionato “Anni 90”): “Presto denaro a chi lo sperpera al gioco o con la droga. Gente che non merita di essere aiutata, perciò se mi chiedono soldi glieli presto, ma alle mie condizioni: prendere o lasciare. Non troverete mai una persona che ha avuto bisogno di denaro da me e di averlo restituito con gli interessi”. Il vizioso va taglieggiato, il povero cristo non si tocca. Come nelle migliori tradizioni di padrini reali e cinematografici, il Carmine cerca di darsi un tono, alla maniera di un protettore degli ultimi e un angelo vendicatore dei vizi privati. Fosse vero!
È ovvio, invece, che non esiste alcuna morale nelle loro azioni, nei loro legami interni dettati da imposti intrecci pseudo-patriarcali: nessuna storia da costruirsi su evocazioni mitiche (come ha fatto Pennacchi con la bonifica pontina), c’è solo soverchieria e anodina violenza, sommate alla penosa indifferenza, finanche collusione, di noi cittadini e della politica partitica legittimata dai voti sempre uguali.
Succede, però, che qualche settimana fa un ragazzo, che di Latina non è, denuncia alcuni giovani virgulti del clan Ciarelli-Di Silvio, tra cui quel Samuele Di Silvio di cui si accennava. Dopo che gli hanno spaccato la testa con una mazzetta da baseball, dopo che lo hanno massacrato di botte nella via dei pub, la zona dove i ragazzi pontini si recano per vivere l’adolescenza e la giovinezza, li ha denunciati. Ne ha denunciati cinque e, tra questi cinque, c’è solo un corpo estraneo al clan: Salvatore Sparta Leonardi di Firenze, figlio dell’ex pentito catanese di Cosa Nostra, Carmelo Sparta Leonardi, uno capace di inguaiare persino Dell’Utri con le sue testimonianze, prima di ricadere nuovamente nella malavita, questa volta, da raccatto: arrestato ancora per alcune rapine in banca.
Che cosa ci faccia il figlio di un affiliato a Cosa Nostra, a spasso per Latina, a fendere colpi contro poveri cittadini, in compagnia dei Di Silvio, è un particolare che non può lasciare indifferenti. Al contrario, è un elemento che atterrisce ed esige la verità per la città intera.
Mentre lo picchiavano brutalmente, un giovedì di una sera di settembre, il ragazzo non vedeva niente. Dopo essere stato colpito alla nuca da uno dei minorenni della banda – così avrà meno guai con la giustizia, poiché questi, quando colpiscono, sanno come agire -, il ragazzo si è ritrovato con la testa sanguinante e un taglio di almeno dieci centimetri che solo per miracolo non è stato letale.
La sua colpa è stata quella di chiedere spiegazioni. I giovani del clan gli avevano puntato in viso un laser, di quelli che si vedono allo stadio per disturbare il portiere della squadra avversaria. Il ragazzo aveva chiesto di smetterla; in cambio: il pestaggio brutale e l’ancor più stentorea effigie verbale. “Porta rispetto”.
Perché ai Ciarelli e ai Di Silvio si porta rispetto, loro sono i padroni, mentre i giovani della zona pub si guardano bene dall’intervenire. Perché un latinense non denuncia – il ragazzo, come detto, non è di Latina, è fuori da questa logica mafiosa che vede tutti noi coinvolti -, un latinense sopporta, cerca di farseli amici, ride delle loro astrusità verbali, minimizza come i sindaci e i personaggi noti di questa città: Zaccheo disse che Latina è una città sana, Nasso dopo alcune sparatorie nella fresca estate del 2014 parlò di semplici bravate, Pennacchi bollò i latinensi che discorrono di mafia come fighetti de sinistra.
Troppi gesti non confessati sono avvenuti in questa città. Da anni. Troppe prepotenze, troppi ragazzi e uomini, e donne, di Latina trattati come un cane a cui si dice di andare a cuccia. Perché i Ciarelli-Di Silvio se la comandando e tu, latinense, devi fare pippa.
Al massimo ti iscrivi nelle palestre della città dove insegnano ai componenti del clan a picchiare ancora più forte, prima che facciano il grande salto nel mestiere dei più grandi. I due marchi di fabbrica della ditta-famigghia: l’estorsione e l’usura.Tutti noi li conosciamo, sono cresciuti con noi. Chi ha tra i trenta e i quaranta anni oggi, vede quelli che facevano le stesse cose di Samuele in galera o gambizzati, o scampati alla giustizia, ricchi e pasciuti. Perché funziona così: quando fai parte di un clan devi farti le ossa, e la tua palestra è la strada di Latina frequentata dai borghesucci della città da vessare, intimidire, trattare come nullità. Tutti stanno zitti, tanto non v’è pericolo. Fino a quando non ne ammazzano qualcuno a sangue freddo come nel 2010. Fino a quando Samuele, scampato dai processi Andromeda e Caronte, non ne farà una talmente grossa da beccarsi trent’anni o, alla peggio, da uccidere un uomo, taglieggiare un padre di famiglia, costringere una donna. Fino a quando non avrà più quello sguardo beffardo con il cappotto firmato Armani mentre entra nel carcere. Lì non ha paura come un qualsiasi latinense, lì, lui, ha i suoi amici che non gli torceranno un capello. Lui è uno del clan. I Ciarelli e i Di Silvio: la storia di Latina è stata scritta anche da loro.
Ora, chi ha denunciato, subirà la gogna del solitario, senza più amici e vita: scappa via, non farti più vedere, l’hai fatta grossa. Questa sarà la reazione più probabile del complesso ambientale e sociale della città. Questa non deve più essere la risposta della città di Latina.
Bernardo Bassoli
da http://www.latina5stelle.it/il-ragazzo-e-il-clan-ciarelli-di-silvio/