Leggere per conoscer-si. Le selte come specchio di sè. Si, ci sto.
VICTORIA NATA D’INVERNO
Me la ricordo la scena della nascita. Ora ve la racconto. Sento la madre dire che è madida di sudore. Spinge e dentro i piedi puntati e lanciarsi a più riprese. Nata in un giorno d’inverno. Di festa. Non una festa che le donne amano. La befana. Madre imbarazzata per questo, volle chiamarla Victoria. Padre, esperto di comunicazione, la chiamò sempre Vic. Il cognome, Brite, lo sorvolerei. Non fosse per un ex che disse era quello il colore degli occhi. Il giorno della venuta al mondo me lo ricordo. Feci una fatica boia ad uscire, che la mamma era stretta come non lo fu mai più. Dopo ore di andirivieni riuscii a mettere fuori la testa. Le spalle non ci passavano. Ovvio. Nello spingere però una spalla si incastrò e l’altra per reazione scivolò nell’apertura e sguisciò fuori. Allora venni completamente espulsa dal corpo in un attimo. Compresi solo successivamente che provare, cedere, riprovare, respirare, e dare la spinta finale era la metafora della RiUscita in ogni cosa. Ero fuori. Sentii che suonava il carillon che avevo ascoltato tante volte prima. Una bizzarra sensazione mi prese le spalle. Credo fosse freddo. E qualcosa mi strinse la pancia. Forse fame. Mentre nel mio torace accadde la cosa più anomala del mondo. Dell’aria vi entrò causandomi un’ incredibile sensazione che mi fece urlare follemente. In un attimo fui sulla pancia della mamma di cui riconobbi la voce. Presi ad ascoltarla ed ebbe l’effetto ninna nanna. Come già tante volte era successo mentre ero in pancia, Intenta a formarmi il corpicino che ora tutti vedevano, lì nudo. Sentii per la prima volta le mani della mamma sul mio microscopico culetto e le sue dita mi toccarono i piedini. Durò poco poi mi prese una signora mora con un largo sorriso e mi depose in una vasca di acqua calda. Oh si, quello fu un bel galleggiare. Sentii il corpo rilassarsi. Come era stato tante volte in pancia. Ora però potevo vedere. Ancora non lo avevo mai fatto. Immaginatevi. Stare concentrata nove mesi a darmi una forma. La più armoniosa possibile. Braccine e gambine, vabbè, ma poi pancreas, fegato e cuore! E con la consapevolezza che ogni errore l’avrei poi portato su di me a vita. La consapevolezza nasce prima del corpo. E’ un principio di vita. Che evolve. Un orologio a cucù che nel bel mezzo del tempo si affaccia alla tua vita. Io sapevo, nel mio dna, cosa sarei diventata. Dovevo solo agirla quella trasformazione da fagiolo di umano a umano completo. Poi nacqui. Mi guardai intorno e vidi un’infinità di presenze. Alcune si muovevano ed emettevano suoni e calore. Esseri umani. Altre erano presenze statiche. Immobili e silenti, che trasmettevano di sé attraverso il colore e la materia di cui erano fatte. Oggetti. Ero enormemente curiosa. Alzai la testolina per guardarmi intorno e solo dopo mesi capii che tutto ha un verso sulla terra. In braccio alla mamma sentii un odore attraente, lo seguii. Lo presi con la bocca quell’odore di latte materno. Era un seno, caldo e morbido. Il liquido mi scivolò in bocca, in gola e nella pancia. Mentre io scoprivo il mio corpo. Quel giorno fu tutta una scoperta in effetti. Arrivare in questo mondo, senza premesse. Ve lo dico, è uno shock. Talmente era tutto così strano che potevo solo osservare. Alcune cose non riuscivo proprio a metterle a fuoco. E improvvisamente i miei occhi venivano inondati di luce, mentre muovendo la testa scorgevo finestre. Stavo sdraiata accanto alla mamma quando arrivò un tipetto, mi mise una mano in faccia schiacciandomela e dicendo ‘cara’. Un corno! Compresi in breve da chi mi dovevo guardare. Feci il giro delle braccia quel giorno. Mi presero su in molti. Mio papà aveva un modo speciale di tenermi. Gli stavo tutta nelle sue grandi mani e quando mi appoggiò vicino al suo collo sentii un odore particolare, che poi scoprii essere bergamotto. L’essenza che lui traeva dai frutti per farne profumi. La mamma odorava di rosa, un odore fresco e antico. Mi misero indosso degli indumenti morbidi e caldi, e fui grata che fossero così confortevoli. Quando la gente se ne andò mamma e papà fecero una cosa di cui gli sarò grata a vita. Crearono una penombra e proiettarono sul muro delle immagini. Le vedevo un po’ sfocate ma riuscivo a distinguerle. Ero io in pancia. Sembravo un fagiolo e niente più. Un seme in ammollo. Comparvero nuove immagini e via via andavo delineandomi come corpo umano. Avevano registrato alcune fasi della mia crescita durante i nove mesi e con una nuova tecnologia avevano sviluppato i periodi non registrati. Sicchè ora potevo vedere in sequenza ogni cambiamento. Era strabiliante per me vedermi al lavoro mentre mi formavo. L’altro, il cucciolo di fratello che avevo, non apprezzò la proiezione. Cominciò a tirarmi per un braccino dicendo a mia mamma ‘butta, butta’ indicando il cestino gettacarte nella stanza. Capii cosa è nascere dopo un primogenito. E non è bello. Per nessuno dei due. Tuttavia, dopo molti furti di biberon da parte sua, imparammo a fare tesoro della reciproca presenza. E a giocare a birilli.