(Mi permetto per la prima volta di pubblicare un pezzo di racconto, in realtà una introduzione ad una storia dalla quale cerco di venire a capo. La vostra opinione mi interessa molto e quindi, con grave disprezzo del pericolo, ho aperto questo argomento)
Dopo il botto, un tonfo sordo seguito da un frastuono di vetri e di metallo piegato; fu di nuovo silenzio.
Il portiere del palazzo si voltò di scatto. Era preso dalla vana fatica di accumulare le foglie di un autunno ormai troppo stanco per trattenere l’arrivo prematuro dell’inverno. Un inverno freddo e grigio. E fu a quel cielo di un autunno che sembrava già inverno che, per sua lampante deduzione, il portiere subito dopo il colpo, rivolse lo sguardo, come se avesse sempre saputo quello che sarebbe successo.
Guardò la terrazza della signora Mazzarino all’ultimo piano, l’attico di un palazzo di una quindicina di livelli in tutto, da dove si vedevano agitarsi nel vento inquieto le bianche tende della porta finestra. Disegnò con gli occhi la caduta che arrivava nel parcheggio sottostante e che terminava la sua traiettoria dritta ed impietosa contro il tetto di un grosso fuoristrada.
La mano della Mazzarino sporgeva leggermente dal tettuccio sfondato, gli sembrava si muovesse. Lui lo aveva sempre saputo che quel giorno sarebbe arrivato ma nel suo animo aveva seppellito quel pensiero profondamente, rinnegandolo.
Eppure, ogni volta che incontrava lo sguardo di Anna, così si chiamava la signora, sapeva che era quello di una persona condannata a perire per sua stessa mano. Rimase perplesso quando gli investigatori che giunsero in sede per i controlli cominciarono a fare domande riguardo la situazione patrimoniale e sentimentale della famiglia della signora Anna; perché per lui, che la conosceva, di vista, da anni, in quei radi momenti di saluto e di congedo e in quelle poche chiacchiere, più con il marito della signora che con lei che era molto taciturna, la cosa era chiara. Tanto che, quando udì il tonfo, una voce dentro di lui disse “Anna”.
Forse l’amava, il portiere non sapeva spiegarlo nemmeno a se stesso. Vedeva in fondo a quella disperazione qualcosa di bello, di disperatamente vivo. Il corpo di Anna però in quel momento era riverso, quasi fuso con il metallo del tettuccio della macchina contro la quale si era andato a schiantare, le sue mani e i suoi piedi avevano come delle leggere scosse, tremavano a volte violentemente, ma sempre più piano.
Si avvicinò stringendo a sé il rastrello che gli era rimasto in mano come fosse uno scudo, una barriera tra lui e quella incontestabile realtà. Ma non c’erano barriere possibili in quel momento né fuori né dentro le anime dei protagonisti di quel frangente.
Inizialmente l’unica cosa che riferì il portiere, un uomo di circa quarant’anni che invecchiò di colpo in quel momento, fu semplice. “Cantava” disse “cantava una canzone mentre la vita se ne andava”.
Solo dopo riuscì a spiegare che nell’avvicinarsi al volto devastato della signora Mazzarino intravide, tra il sangue che si raggrumava rapidamente nell’aria fredda del mattino e che lasciava piccole nuvole di condensa, l’occhio rimasto miracolosamente intatto della donna, l’occhio sinistro che lo guardava di sottecchi. E gli parve sorridere. E infine cantò quella canzone che a lui sembrava strana “parlava di una bambina che doveva crescere e che diceva qualcosa alla mamma” disse il portiere. “Che sarà sarà” rispose Leon, uno degli investigatori giunti sul posto che fino a quel momento aveva taciuto mentre gli altri accerchiavano con un corteo di domande il portiere. E gli diede l’impressione che lo avesse detto più a se stesso che non agli altri, come per segnarselo nella mente.
Nel breve silenziò che seguì il portiere ebbe come un ripensamento utile alla sua sopravvivenza, un passo indietro dalla sua idea iniziale per salvare l’anima sull’orlo di un baratro di oscura tristezza. “Forse non amavo lei- pensò- ma la sua voglia di vivere senza il dolore. Amavo quella determinazione a ripudiare il male nella vita, tanto da non poterci convivere”. Era un pensiero strano in quel momento, che arrivava tutto insieme confusamente. Mai avrebbe saputo ripeterlo a voce.
Ma era l’unico pensiero che riuscì a formulare mentre il volto della Mazzarino gli spariva davanti agli occhi nel buio di un sacco da obitorio. E quando l’ambulanza partì e l’ultima pattuglia se ne fu andata nel cortile rimasero il posto vuoto dell’auto sulla quale cadde Anna, la segatura che avevano sparso per coprire pudicamente il sangue e il silenzio del freddo autunno morente. Quello stesso silenzio che aveva preceduto e seguito il forte botto, quel tonfo sordo e il frastuono del vetro. E in quel silenzio, da allora e per sempre, il portiere avrebbe udito una voce che diceva “Anna”.