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Pensare la politica

(4 articoli)
  1. A.

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    «La filosofia che desidero fare è una filosofia che ha una rilevanza per i rivoluzionari. Una filosofia che non soltanto non li contraddice ma li aiuta a cambiare il mondo». Il tono è dato. Incontro con un giovane uomo di 85 anni.

    Nel 2012, fare una conferenza sulla rivoluzione, non è un anacronismo?

    Alain Badiou: In un certo senso, questa parola è sempre anacronistica perché in fin dei conti, ciò che caratterizza le rivoluzioni, è in generale che nessuno le ha attese, né previste. Sono delle rotture. La difficoltà, è che questa parola ha molti sensi finali (finalement). Quel che io credo, è che se si intende per «rivoluzione», un evento collettivo che produce una rottura nell’ordine stabilito e che ha come strascico delle conseguenze sull’organizzazione della collettività, non ci sono ragioni di pensare che questa parola sia meno appropriata all’ordine del giorno, all’attualità che ai suoi precedenti. Se ne vedono oggi giorno delle sorte di sintomi. Io penso che le rivoluzioni della primavera araba, il movimento degli indignati, i piccoli gruppi che tentano di fare qualche cosa sulle questioni della regolarizzazione dei sans-papier o i tentativi a livello statale in America Latina, indicano che non c’è alcuna ragione per disperare.

    I liberali presentano la democrazia e il libero mercato come andanti di pari passo…

    Alain Badiou: Non sono affatto d’accordo con ciò e ciò mette in causa la definizione che si dà di democrazia. Apparentemente, la democrazia in seno allo Stato rappresentativo, con un governo eletto, funziona piuttosto nel contesto dell’economia liberale. E’ un fatto. Ma è una definizione molto ristretta. La democrazia vuol dire «potere al popolo». Nelle nostre società ha il popolo un grande potere politico? Se ne può dubitare. Si ha anche l’impressione che sia veramente un piccolo gruppo di persone ad avere il potere politico. E’ in questo gruppo, alcuni sono eletti, ma non tutti. O, allora, da dei consigli di amministrazione. E ci sono quelli che hanno un grande potere finanziario per essere in ogni modo influenti. Ci sono quelli che comprano la stampa. Alcuni dei media non sono indipendenti, essi dipendono tutti da gruppi influenti.

    La mia tesi radicale, è che noi non siamo in democrazia, ma in una «oligarchia moderata». Essa non ha bisogno di esercitare un terrore visibile. Ma è un gruppo ristretto che detiene il potere, i mezzi di informazione. Dopo, c’è una rappresentazione politica di tutto ciò. Dunque, è del tutto falso che l’economia liberale di mercato e la democrazia vanno assieme se si prende la parola «democrazia» seriamente. Ciò che va assieme, è «economia di mercato» e «regime oligarchico moderato». Questa connessione riposa sul consenso che non rimette in questione questi dispositivi economici e politici che io chiamo «capital-parlamentarismo».

    Un’altra «tesi radicale», è che il capitalismo è un sistema finito. Può illustrare ciò in maniera concreta?

    Alain Badiou: Quando si dice «finito», ciò può intendersi in due sensi. Esso è alla fine, esso è limitato. La fine di qualcosa di tale ampiezza può durare a lungo. Io non sono prossimo ad annunciare la fine del capitalismo per domani. Io penso che esso abbia esaurito le sue risorse di creatività propria e che sia prossimo ad arrivare fino alla fine di se stesso (involuzione). Secondo, peraltro, le previsioni marxiste le più rigorose. Rendiamoci conto del fatto che Marx parlava del mercato mondiale nel 1850. Che cos’era il mercato mondiale in tale epoca in rapporto ad oggi?

    La tesi che l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante è ben vera. Ma una classe dominante, è una classe che allo stesso tempo, in una fase ascendente, produce una cultura che ha una certa universalità. Marx stesso riconosceva che noi siamo ancora interessati dalle tragedie greche, il grande romanzo francese, ecc. Io penso che questa capacità creativa delle classi dominanti è oggi esaurita. E’ una classe troppo cinica, molto occupata dagli affari propri, a mio avviso sempre più autoritaria perché precisamente l’ambito parlamentare stesso la può generare. E’ il segno che dal punto di vista intellettuale, politico, ideologico e economico, il grande dominio imperiale non può più conquistare che delle cose già esistenti ma non crearne di nuove. E’ ciò peggiorerà ulteriormente: devastazione del pianeta, contraddizioni incontrollabili, disastri finanziari e guerra, alla fine.

    In termini di speranza, il comunismo è ancora un’alternativa?

    Alain Badiou: Lo dirò al contrario: il comunismo è il nome che io dò all’alternativa. La questione di sapere quel che è il comunismo è complicata. Il comunismo significa il nome generico di un’alternativa al capitalismo, al momento stesso della sua costituzione. C’erano i comunisti utopici, i marxisti, anche delle correnti anarchiche. Cosa vuol dire il comunismo? Vuol dire che è possibile necessario organizzare la società su un’altra base che non la proprietà privata dei mezzi di produzione, l’egoismo di classe, la concorrenza e la guerra internazionale. Ecco.

    Io penso che bisogna tornare a ciò facendo il bilancio di questa specie di passaggio accanto che è stata l’esperienza del XX secolo, passaggio accanto, che io penso, è stato l’ossessione della vittoria insurrezionale. C’è stata una militarizzazione dell’idea comunista, una militarizzazione dell’idea organizzativa. Se ne vede bene la ragione: c’è stata lo schiacciamento della Comune di Parigi che ha avuto un effetto non immaginabile. Ciò ha portato all’idea che, a meno di essere ben organizzati, ci si faceva schiacciare e eliminare.

    Bisogna ripartire e fare un passo indietro verso il significato profondo dell’idea comunista e vedere cosa se ne può fare politicamente nelle situazioni concrete di oggi. Ecco perché io difendo questa parola. Questa vecchia parola. L’abbandonarla non sarebbe un bene. Se qualcuno ne inventa un’altra altrettanto formidabile, io me ne rallegrerò.

    Come vede il fatto che un filosofo, Berbard Heny-Levy arrivi ad incitare un paese a lanciarsi nella guerra in Libia?

    Alain Badiou: Ciò ha funzionato soltanto perché Nicolas Sarkozy voleva coinvolgersi in tale guerra. Ma è inquietante. BHL ha un ruolo importante di ideologo reazionario. Egli ha, inoltre, preso i suoi galloni da tanto tempo. Egli ha dietro di se più di trenta anni di esercizio di questo genere. Ma vorrei raccontarvi un passaggio al di là dell’azione personale di BHL. C’è stato un consenso molto diffuso in Francia di questa spedizione militare. Così è stato fino a quando Jean-Luc Mélenchon si riprendesse subito dopo. Ma sono obbligato a constatare che, nei primi giorni, egli si dichiarava a favore. Mi sono sentito molto isolato. Sono stato sorpreso io stesso di essere tanto contro corrente. Ho scritto praticamente nell’immediatezza che il risultato inevitabile di tale intervento sarebbe stato la devastazione della Libia. Pura e semplice. Un paese sconfitto, consegnato alla guerra civile, alla mercé delle forze armate. Un paese annientato. Al momento, si può sostenere la tesi che tutti gli interventi militari occidentali in questo genere di situazioni distruggono i paesi. Anche l’Irak è stato distrutto. Se si spinge alla guerra civile in Siria, anchela Siria sarà distrutta e a lungo. E dopo? I petrolieri se ne disinteressano purché possano rendere circoscritte e sicure le regioni petrolifere. E’ ciò che succederà in Libia. Gli Occidentali vogliono dare delle chiusure di sicurezza alle regioni petrolifere. Negozieranno con le differenti bande armate e, siccome non ci sarà uno Stato, si sarà ben più tranquilli.

    In Belgio, abbiamo un Primo ministro socialista. La social-democrazia ha ancora una ragion d’essere, una utilità?

    Alain Badiou: Il parlamentarismo non può funzionare senza che ci sia un principio di differenziale minimo. In fin dei conti, tendenzialmente, ciò è in linea con il genere di opposizione che c’è tra i Repubblicani e i Democratici negli Stati Uniti.

    Ma io penso che la social-democrazia non rappresenti più granché. Potrebbero chiamarsi Partito Democratico e penso che questa differenza si manterrebbe pur restando molto affabile. Nell’azione reale la differenza è molto labile. Si è visto con Zapatero, con Papandreu, così come si era visto con Tony Blair, che era il primo, che non soltanto questi partiti non sono fondamentalmente diversi dagli altri, ma anche che fanno avallare delle cose che gli altri non arrivano a far assimilare.

    Come vede gli ecologisti, francesi, belgi o europei che sognano un’economia verde restando nel capitalismo? Lei ci crede?

    Alain Badiou: Neanche per sogno. E’ la ragione per la quale non ho alcuna simpatia vera per il movimento ecologista organizzato. Sono convinto che la capacità di devastazione del capitalismo esista. La legge del profitto è spietata. Se l’industria farmaceutica continua a vendere una medicina nociva perché fa guadagnare molto, lo farà. Esse arrivano a corrompere chi occorre. Alla fine, è quando della gente cerca anche di vendervi del veleno se ciò conviene loro, di armare delle bande criminali in Africa con armi pesanti, ecc. per della gente che andrà a uccidere e violentare, semplicemente perché è business, o semplicemente perché vogliono mettere in sicurezza una regione dove ci sono dei minerali. Dunque, io non nego che il capitalismo scatenato faccia pesare sull’ambiente una minaccia pesantissima, ma penso che le cose vadano prese alla radice. E, dunque, alla mitologia del capitalismo moderato, amabile.

    L’ecologia ha due vantaggi per il capitalismo. Primo se si vuole fare dell’energia rinnovabile su grossa scala, ciò aprirà dei mercati colossali, e lo Stato li finanzierà. E, d’altro canto, dal punto di vista delle rivalità tra capitalisti, ciò rallenta il processo di sviluppo dei paesi emergenti, perché si cerca di costringerli a rispettare delle regole, che noi, noi non abbiamo rispettato. E, dunque, con ciò li metteremo nella merda, fissando delle norme, ecc. Ciò contribuisce alla disuguaglianza nel mondo. Gli ecologisti non sono altro che dei social-democratici di nuova generazione. E’ il vecchio dibattito «un capitalismo regolato, normato, gentile, non è praticabile?» che nega i fondamenti stessi del capitalismo. Se il capitalismo è feroce, spietato non è perché è «cattivo»: E’ la sua propria natura. Non si può immaginare che qualcosa che funziona sulla norma assoluta del profitto massimale si preoccupi del benessere dell’umanità. Se essere verde, equivale ad essere pitturati di verde, non ci sono speranze: si pitturerà di verde.

    Guardando la resistenza del popolo greco, guardando i sollevamenti popolari nei paesi arabi, gli indignati un po’ ovunque in Europa, Occupy Wall Strett, ecc. ciò le da un po’ di speranza?

    Alain Badiou: Assolutamente. Ci sono dei segni, dei sintomi, delle cose che succedono. Partiamo da ciò piuttosto che contemplare costantemente gli orrori del capitalismo e rientrare a casa terrorizzati. E’ molto più importante cercare di conoscere bene l’insieme delle esperienze positive che ci sono nel mondo. Ce ne sono. Bisogna interessarsi a ciò che succede e partecipare.

    Siamo molto più vicini al 1840, al capitalismo nascente, era potente…Ma c’era un brusio, delle sommosse operaie qui e là, c’erano dei comunisti, c’era Marx, c’erano delle scuole… Quelle persone non erano veramente nella scena pubblica, non erano nei media dell’epoca. I media dell’epoca non parlavano di ciò. Qualcuno come Victor Hugo, che è anche una figura importante, che ha attraversato tutto il XIX secolo, non ha pronunciato una sola volta il nome di Marx, non lo conosceva. Erano delle persone al di fuori dei media, ciò non ha impedito loro di esistere e di divenire importanti alla fine del secolo, conosciuti, pericolosi, ecc. Dunque, anche in questi casi, non bisogna dirsi che non si è nulla del tutto, non è vero.

    Al momento in Francia, da quel che vediamo in Belgio, l’elezione presidenziale sembra ridestare il gusto della militanza di una certa sinistra.

    Alain Badiou: E’ vero e penso che sarà un’ironia dell’elezione, cioè che sarà servita a qualcosa d’altro oltre che a se stessa. E’ lo spazio militante che è risorto. L’idea che si possa fare qualcosa. Ed è largamente sintetizzato da Mélenchon, al momento, che si è dedicato all’impresa di resuscitare il partito comunista che era morto, perché sono comunque i militanti del PCF che fanno il grosso del lavoro. E’ per questo che alcune persone si riavvicinano ora, perché hanno visto che succede qualcosa. La capacità di Mèlenchon è stata di alzare il tono. I suoi nemici gli rimproverano la sua retorica, ma ha ragione perché nella situazione in cui è, se vuole essere un candidato, se vuole risvegliare qualcosa, bisogna andare, bisogna parlare, far riapparire e risentire qualcosa che non si diceva più. L’idea, anche, che non si parte battuti in partenza.

    testo originale: http://www.ptb.be/nieuws/artikel/alain-badiou-le-communisme-est-le-nom-de-lalternative.html

    traduzione di Consuelo Diodati

    Alain Badiou (Rabat 1937) ha studiato filosofia e matematica all'École Normale Supérieure di Parigi. Dopo anni di insegnamento all'Università di Parigi viii Vincennes-Saint Denis, è oggi direttore dell'Istituto di filosofia dell'École Normale. Politicamente molto attivo, è stato tra i fondatori, nel 1967, del "Cercle d'Épistemologie" dell'École Normale, che diede vita a una rivista fondamentale per il dibattito culturale in Francia, i "Cahiers pour l'analyse". Tra i suoi libri tradotti in italiano: Manifesto per la filosofia (Feltrinelli, 1991), L'etica. Saggio sulla coscienza del male (Pratiche, 1994; Cronopio, 2006), L'essere e l'evento (il Melangolo, 1995), Metapolitica (Cronopio, 2003), La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica (Cronopio, 2004), Deleuze. Il clamore dell'Essere (Einaudi, 2004), Il secolo (Feltrinelli, 2006), Sarkozy: di che cosa è il nome?(Cronopio, 2008), Heidegger. Il nazismo, le donne, la filosofia (Il Nuovo Melangolo 2010), L'ipotesi comunista (Cronopio, 2011).

    Pubblicato 12 anni fa #
  2. llux

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    Bella pagina. Non mi intendo di filosofia, non conoscevo Badiou. Di mio non sono così ottimista, ma è bello leggere parole che lasciano aperto uno spiraglio alla speranza, è bello trovare chi resiste, chi riesce a dare ad un’idea impulsi e significati nuovi. Grazie per averla postata qui, A.

    Pubblicato 12 anni fa #
  3. A.

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    Grazie

    Pubblicato 12 anni fa #
  4. A.

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    Moderatore

    L’oligarchia del capitalismo finanziario

    di Guido Rossi, Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2012

    Nulla sembra cambiato da quando Aristotele, all'inizio della Politica, scriveva che in democrazia i poveri sono re e la volontà del più gran numero ha forza di legge e mai i ricchi sono stati più numerosi dei poveri, tuttavia hanno sempre governato il mondo e manovrato le fila di coloro che governano.

    Oggi più che mai i sistemi democratici si confondono con il governo dei ricchi. E il governo dei ricchi ha adottato uno strumento di pericoloso sovvertimento dei valori delle democrazie: il denaro. Il riferimento ai recenti scandali italiani che riguardano l'uso personale dei rimborsi elettorali ai partiti, è troppo facile per essere qui richiamato. È invece il caso – perché il problema non è né nostrano né provinciale, ma di carattere generale – di citare il ponderoso recentissimo volume del grande giurista di Harvard, Lawrence Lessig (Republic, Lost, New York – Boston, 2012), che esamina con dovizia di argomentazioni come si è perduta anche la democrazia negli Stati Uniti, con la corruzione della classe politica.

    L'indagine sulla corruzione è impietosa e riguarda i tre tipi principali: il primo, quello attraverso il denaro dato in cambio di favori politici, che maggiormente disgusta e allontana i cittadini dalla politica e dà origine alle derive populiste; il secondo, quello della corruzione attraverso la cosiddetta gift economy, l'economia del dono, per cui non si dà denaro contro favori, ma semplicemente si donano beni, posizioni sociali ed economiche di prestigio, viaggi, stili di vita, contro nulla di preciso, ma che tuttavia legano donatore e beneficiario in una sorta di sodale comunità di intenti. Il terzo esempio di corruzione, che personalmente chiamerei corruzione culturale, contraddistingue al massimo grado l'elite globale emergente nel capitalismo finanziario, in cui i pochi ricchissimi si nascondono dietro i dogmi nebbiosi dei mercati globali, che hanno tuttavia una loro precisa identità nelle grandi banche e nelle multinazionali della finanza e della speculazione.

    Altrettanto recentemente Luciano Gallino, in uno straordinario saggio, La lotta di classe (editore Laterza 2012), ha identificato il disastro sociale e politico dell'attuale crisi delle democrazie attraverso l'antico paradigma della lotta di classe, dove quella vincente ha imposto, con una ormai scoperta regia della comunicazione, regole, dogmi e slogan che, istigando insicurezza e paura nella quasi totalità della popolazione, fanno di questa classe media la classe perdente, con una qualità della vita sempre più povera e disperata, imposta dalla élite vincente. Alla élite globale emergente e al modo di ragionare dei think tanks del pensiero neoliberale obbediscono ormai gli Stati, con politiche sempre più dichiarate e sempre meno attuate, dove la disoccupazione sembra essere l'ultimo dei problemi, che con tutti gli altri ha ceduto il passo all'ostinato rigore dell'austerità, a continuo danno della classe perdente.

    È bastato tuttavia il timore di un cambio della presidenza francese con una possibile vittoria del socialista Hollande per scatenare il nuovo slogan della crescita, finora privo di qualsiasi contenuto, come una sorta di futura solidarietà tra le classi sociali. Parla allora di crescita anche chi, tra i vertici dell'élite globale emergente, dichiarava lo stato sociale europeo morto o chi rivendicava il rigore e l'austerità come unica panacea per uscire dalla crisi, o chi ancora adottava solo slogan per salvare i paesi dal baratro senza peraltro tener conto che il baratro era quello creato dalla speculazione finanziaria e che quindi le prime riforma da fare sarebbero state quelle sul capitalismo finanziario e sulla corruzione della politica, a esso sempre più prona. È così che il sistema ha creato una massa abnorme di denaro in cerca di investimenti sempre più speculativi, ai danni esclusivi di una massa sempre maggiore di cittadini disoccupati e impoveriti.

    Se finalmente si scoprirà che l'austerità e il rigore fine a se stessi servono solo a creare una grande depressione economica, sociale e politica, c'è solo da augurarsi che ancora una volta dalla Francia parta quello spirito critico che dai Lumi ha creato le democrazie occidentali e che serva a riaprire in Europa un serio discorso, non solo a parole, sul ripristino e il consolidamento dello stato sociale democratico, che solo l'Europa unita può portare come esempio di possibile rinascita alla globalizzazione mondiale. Questa oggi è l'unica vera sfida della politica, tutto il resto è letteratura.

    (30 aprile 2012)

    Pubblicato 12 anni fa #

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