Dopo le ripetute e pressanti richieste di un caro amico che voleva a tutti i costi che chiamassi con il suo nome uno qualunque dei personaggi del romanzo che sto tentando di ultimare - "Pure il più scalcagnato", diceva, "anche il più infame e malvagio, va bene qualunque cosa" - sottopongo al giudizio dell'Anonima il seguente brevissimo stralcio (è un'assoluta anteprima) della parte finale di 'Canale Mussolini'. Attendo naturalmente il vostro giudizio, con la premessa che si tratta ancora di una sola seconda scrittura. Altre revisioni dovranno venire. Nella prima, per esempio, c'era anche la moglie di questo personaggio, ma avendo poi pensato che la moglie vera non m'aveva di fatto chiesto niente, ho ritenuto che non meritasse questo onore e l'ho quindi sostituita con una fantomatica sorella. Decidete voi però. Ecco qua:
... un bel giorno dei primi del 1935 il Duce ha detto: “Basta! Mo’ i me gà roto i cojón tuti e trì”. E ha cacciato seduta stante Acerbo e Serpieri dal ministero dell’agricoltura e Cencelli dall’Opera nazionale combattenti: “Fòra da ‘e bale tuti quanti”.
All’Opera ci ha messo Araldo di Crollalanza e al ministero dell’agricoltura, a fare proprio il ministro, indovini chi? Il Rossoni. Ci ha messo l’Edmondo Rossoni nostro.
Mio nonno era contento come una Pasqua. Non quanto lui, naturalmente, l’Edmondo. Lui non si poteva proprio reggere, ci volevano i picchetti fissati a terra per non fargli prendere il volo come un aerostato: “At fàsso védere stavolta, no dìso per mì Peruzzi, dìso per tuti quanti: stavolta agh fémo un culo acsì” – e allargava le braccia larghe larghe – “agli agrari”. E a inaugurare Pontinia bella che finita il 18 dicembre 1935 – nel terzo mese di guerra in Abissinia e nel trentunesimo giorno esatto dall’inizio dell’iniquo assedio delle sanzioni imposteci da un‘Europa ingiusta e da un ancor più ingiusta Società delle Nazioni, come dicevano i miei – sono venuti il Duce e Rossoni. Cencelli si stava a rodere oramai il fegato a Magliano Sabina. Poveri maglianesi, chissà che hanno dovuto passare. Comunque come le dicevo e anche se lei non ci crederà, in giro per il podere ci deve essere ancora una copia del Mattino di Napoli che diceva come, dopo tutta l’acqua che aveva fatto ininterrotta dalla sera precedente e il cielo tutto nuvoloso e coperto di nubi, appena è arrivato lui è uscito il sole: “Era tutto nuvolo, s’è detto, ma in questo preciso momento una frustata di tramontana ha spinto la bruma verso i monti Lepini sbiancati di neve. E’ apparso anche nello strappo un po’ di celeste, e Mussolini vi ha puntato gli occhi, prima di guardare la folla”, controllare per credere. Quello era un Uomo le ripeto, come dicevano i miei zii: “Se nol xè bòn de mandàr gnanca via un fià de piova e de far sortìr el sol, che càsso de Omo sarìa se no?”
Ora io adesso lo so che lei storce la bocca e dice: “Mito e propaganda”. Però quel giorno era il 18 dicembre 1935 e neanche cinque mesi dopo – il 21 aprile 1936, quindici giorni prima però che il maresciallo Badoglio e mio zio Adelchi entrassero in Addis Abeba alla testa delle truppe vittoriose e tra una coltre di calìps giganteschi, come peraltro già sappiamo – il Duce è venuto a fondare anche Aprilia. Lasciamo perdere che poi quelle sanzioni ce le hanno levate subito, questo non conta. Ce le aveva decretate la Società delle Nazioni a Ginevra il 18 novembre 1935 contro quella che loro ritenevano la nostra invasione immotivata dell’Etiopia – e questo sì che conta, o che almeno contava per noi – però poi ce le hanno tolte il 15 luglio del ’36, a fatti compiuti, quando l’impero oramai era già nostro, e hanno ricominciato a mandarci tutto quello che volevamo, ferro petrolio, carbone, caucciù, bastava che lo pagassimo ovviamente, poi se lo volevi pure regalato è un altro paio di maniche. Ma questo per noi è come se non fosse successo. La propaganda è andati avanti ancora a rotta di collo con la storia delle sanzioni e dell’iniquo assedio economico: ce l’avevano tutti con noi, nessuno ci voleva dare niente, eravamo accerchiati, nessuno riconosceva i nostri diritti, ci volevano strozzare. Tenga presente che a quel punto – nel 1936 – la propaganda aveva fatto passi da gigante. Il cinema poi non le dico. Adesso in ogni borgo la domenica c’era il cinema. A Littoria poi tutti i giorni – o meglio, le sere, subito prima o subito dopo d’essere andati al casino – lei entrava, pagava il biglietto e vedeva ogni sera un film diverso, banditi e indiani americani, commedie d’amore, quello che voleva, e prima del film c’era sempre il documentario Luce, dove le facevano vedere tutte le conquiste del fascismo, quello che avevano fatto la settimana prima il Duce, il re e il Principe di Piemonte, e soprattutto tutte le angherie che ci faceva il resto del mondo, che non voleva riconoscere il nostro sacrosanto diritto a quel famoso Imperium che noi reclamavamo, come si ricorda, non solo perché ci toccava di diritto ma soprattutto solo per poter imporre finalmente la pace nostra romana a questo mondo che ne aveva tanto di bisogno. E invece no, non ce lo riconoscevano quel diritto e in ogni discorso sia alla casa del fascio ma pure a casa nostra e all’osteria, prima o poi la gente quando parlava – e di qualunque cosa si stesse parlando – prima o poi s’arrivava alle sanzioni: “Maladèti lori e só sansión”.
“Ma còssa xèle de presìso ste sansiòn?”, chiese una volta mia nonna a zio Adelchi.
“Ah, mama: ‘na cosa pèzo de quota novanta”.
“Mariavèrzine!” fece mia nonna.
Comunque a noi che queste sanzioni ce le avessero già levate nemmeno un anno dopo – ossia il 15 luglio 1936 – non ce lo hanno mai detto. O almeno non lo abbiamo capito. Lei pensi che quando mio zio Iseo comprò una radio nuova nel 1954 – loro oramai già stavano nella casina nuova sulla strada di fianco al podere nostro Peruzzi, e io avevo sì e no una decina d’anni – e la portò a casa dicendo: “Spósa, agò catà l’aradio!”, mia zia Zelinda che era moglie era tutta contenta. La guardava di qua e di là proprio solo come oggetto questa radio, e non solo perché emettesse i suoni e le canzoni. Era una radio di queste nuove, marca CGE, piccolina – ossia grossa sì e no poco più d’una scatola da scarpe – e neanche tutta in legno o ferro, ma bianca di plastica e non un armadione di legno come quelle di una volta che parevano comò. “Che bel aradio!” faceva zia Zelinda. Poi però s’è messa a leggere anche quello che c’era scritto dietro lo chassis e allora ha detto, sopresa: “Ma dove ‘o ghètu catà st’aradio?”
“Da l’aradiàro” ha fatto subito zio Iseo. Era il 1954 ripeto. “Parché?”, ha chiesto poi: “Còssa gàlo che non va?”
“Ma xèo straniér!”
“E alora?” ha richiesto meglio lui a só fémena.
“E le sansión? Come ghètu fàto cóe sansión?”
Comunque quindicianni prima dell’aradio di mia zia Zelinda le sanzioni c’erano davvero ancora – anche se per soli altri 86 giorni, fino al 15 di luglio appunto – e il 21 aprile 1936 il Duce venne a fondare Aprilia.
C’erano anche i miei zii naturalmente e lo hanno visto di persona salire su una trattrice Fiat ultimo tipo – un cingolato giallo-arancione nuovo fiammante dalla linea modernissima, hanno continuato a farli così almeno fino agli anni sessanta – mettersi alla guida, partire e tracciare il sacro solco di fondazione con l’aratro attaccato dietro. Anzi, se lei guarda le fotografie, quello che sta in piedi a fianco a lui con la tuta da meccanico e che lo assiste nelle operazioni, è proprio il povero sor Augusto Reali che era il caposquadra alla Motomeccanica di mio zio Benassi. Quello che si vede invece di fianco da quest’altra parte con la divisa nera ed il fez e che guarda di straòcio da sotto in su con l’occhio falso, quello è quel grandissimo cornuto di un siciliano – “sisiliàn” dicevano i miei zii, e cornuto sia perché proprio cornuto d’animo sia perché cornuto da parte della sorella, e allora valeva pure quella, che a’ xèra proprio un putanón – un siciliano che faceva sempre la spia a tutti quanti all’Opera combattenti, e poi prendeva mazzette dalle imprese e faceva ruberie su tutto. Io me lo ricordo ancora da ragazzo quando mi mandavano qualche volta a Aprilia dai miei zii Lanzidei e con i miei cugini andavamo poi qualche volta al cinema, lui era già un po’ anziano ma stava sempre dentro al cinema a dare fastidio ai ragazzini. Ti si metteva seduto vicino nel buio, ti diceva: “Dopo ti pago il gelato” e subito si metteva lì a tirarti una pippa. Lo avessero saputo mio zio Adelchi e il compare Franchini, di sicuro se lo sarebbero portato con loro sull’Amba Aradam. Si chiamava Gerardo Rizzo se non sbaglio, sto grandissimo cornuto. “Mi chiamo Gerardo Rizzo”, faceva: “Vuoi che te l’attizzo?”. Pare che il vizio gli sia venuto durante la guerra, quando nello sbarco di Anzio restò prigioniero per una settimana – lui e la sorella, che si chiamava anche lei Gerarda Rizza, perché all’anagrafe l’impiegato s’era sbagliato pure con la a del cognome, e quelle le era rimasta – prigionieri di un plotone di disciplina di neri americani rimasto isolato dalle parti del Carroceto. Sa quei reparti di punizione e disciplina dove mettono i peggio delinquenti? Be’, uno di quelli. E pure neri. Quello che gli hanno fatto passare a lui e alla sorella lei non ne ha idea. Uno all’inizio pensa che il peggio sia per le donne. La donna invece bene o male – se la sa pigliare con lo spirito giusto e con la giusta disposizione d’animo e di corpo – ci si può pure divertire, può trovarci, come si dice, una certa qual sua convenienza. L’uomo no invece, per l’uomo sono dolori e basta. E difatti lì pure, la sorella del grandissimo cornuto all’inizio s’era divertita. Ma dopo s’è stomacata, quando ha visto che il fratello invece, dopo avere strillato un po’ il primo giorno, man mano ha cominciato a divertircisi lui e tutte le volte che i neri pigliavano la sorella per far divertire anche lei, lui subito strillava: “No, no: a me, a me!”. E’ lì che poi lei s’è stomacata e appena è tornata la pace non ha voluto più restare col fratello e è scappata subito col notaio Notarfarinoli – un altro bel tipo pure lui – e lui Gerardo Rizzo s’è messo a fumare toscani. Solo che lei Gerarda Rizza dopo un po’ s’è accorta che il notaio, di nascosto da lei, si faceva anche suo fratello e allora s’è stomacata del tutto, è scappata in Marocco a Casablanca, s’è fatta operare, è diventata maschio e s’è fatta cambiare anche nome, e per non incorrere più in eccessive omonimie s’è fatta chiamare – se lei la cerca, o meglio lo cerca sull’elenco del telefono di Aprilia lo trova ancora – Gerardo Rizzo361.
(attendo giudizi, critiche e commenti. grazie)