Io purtroppo dovrei lavorare ad altro e non ho quindi molto tempo per starvi dietro. In verità, avevo capito che questo lavoro lo avrebbero fatto Zaphod - che lo aveva promesso - e Mauz, che intanto ci si era accinto. L'idea di un saggio teorico a scrittura collettiva mi piaceva ed ero pure tutto speranzoso: "Vediamo un po' che cazzo mi spiegano di me? Hai visto mai...". Invece pare che tra i due non sia scattato il feeling. Mo' vediamo come va.
Intanto però alcune brevi chiarificazioni.
PREMESSA
Quando parlo di uomo, sia chiaro che qui parlo di Homo sapiens come specie, sia maschio che femmina quindi. Anzi, prima la femmina e dopo il maschio. Va bene, Magda?
E adesso procediamo.
1) - Il finalismo
No, io non sono esattamente convinto che la mia interpretazione dell'essere, del non essere e del divenire sia giusta. Anch'io ho fortissimi dubbi sul finalismo positivo, la mia non è un'adesione totale o fideistica, di tipo religioso. Che cazzo ne so di come stanno di là le cose per davvero? Che ne so se l'essere e la vita abbiano un senso? Anzi, tutto - secondo ragione - lascerebbe pensare che non abbiano senso alcuno, se non il puro, casuale e loro essere. Però io ci sto - e questo è un dato di fatto - sto nel mondo. E a questo punto un senso alla mia vita - anche ammesso che non abbia senso alcuno - a questo punto un senso alla mia vita sono io che debbo dargliela. Non m'importa che ce l'abbia o meno, io ci sto e glielo do, e cerco di darglielo tentando di trovare un filo che leghi me a tutti quelli come me, sia che siano venuti prima o che vengano dopo. E questo filo si chiama Storia. E' l'unica cosa di concreto che ho in mano, per poter tentare di capire qualche cosa. Quindi, ripeto, io non lo so se c'è una finalità nell'essere o nel divenire, e non so nemmeno se questa finalità sia positiva, ma quello che so è che se io voglio stare degnamente nel mondo (degnamente rispetto alla mia natura di "uomo nella Storia"), io debbo comportarmi come se questa finalità ci fosse e ci sia e – se c’è – non possa essere che positiva. Poi so' cazzi sua - dell'essere o del divenire – come stanno le cose. Io la partita e il dovere mio li ho fatti.
2) - Il bene, l'uomo e il male
Certo, se questo cosmo è significato dal male (cioè dalla violenza), è evidente che il male non possa non essere anche nell'uomo. Anzi, era od è già nel Dio eventualmente creatore di questo cosmo. Era ed è in lui, non si scappa (questa cosa - che avevo in parte ripreso da Umberto Eco - sta già nella parte finale dell'Autobus di Stalin, che, se volete, domani vi posso pure postare), ed è in ogni e qualunque manifestazione della vita del cosmo. Quando sostengo quindi che "l'uomo è l'unico agente del bene", non intendo dire che in lui non ci sia il male. Anzi, lui è portatore come tutti gli altri esseri di tutto il male del cosmo. Intendo però dire che lui è l'unico - rispetto a tutti gli altri esseri ed al cosmo stesso - che ha in sé anche il germe del bene, la sua consapevolezza, la "conoscenza", ed agendo questa conoscenza lui è l'unico che può agire il bene (la non violenza) fino a risvegliare il Dio dormiente e mutare il corso generale dell'essere e del divenire.
Il mio povero fratello Gianni che ora non c'è più e che aveva amato molto però l'India e l'induismo, diceva che tutti noi, ossia il reale, non siamo che un sogno di Dio. Lui sta dormendo (durante l'eternità ogni tanto si stanca, e allora s'addormenta) e nel sonno e nel sogno lui non governa con il suo Io tutto il suo Es, ed il suo Es - ossia ogni parte di lui, compreso il male - se na va in giro libero e giocondo e si fa i suoi sogni, i suoi giochi, la materia. E noi - il nostro cosmo - siamo questo: un suo sogno, o parti d'un suo sogno, se non d'un incubo. Sta a noi svegliarlo, unici agenti del bene e del suo Io.
3) - Il lavoro come punizione?
Non lo so, non sono d'accordo. Per me il lavoro è liberazione, poiché solo da un lavoro ben fatto - e soprattutto condiviso - nascono le poche occasioni di felicità vera (questa cosa credo sia esplicitata in quel piccolo testo Il piacere che sta in home e che trovate comunque sullo speciale di Limes, Stregati da Pennacchi, ma se volete si può ripostare. Un'altra breve cosa invece - sempre su questi argomenti - dovrebbe uscire su D, la Repubblica delle donne, sabato 4 settembre. Poi la posteremo).
Ora è anche vero che questa interpretazione del lavoro come felicità potrebbe pure essere una manifestazione masochistica di un mio eventuale “parossismo pionieristico”, però è anche vero che l'interpretazione che dà Mauz del lavoro come punizione, nasce esclusivamente sulla base delle fonti bibliche. Sì, nella Bibbia è scritto proprio così. Si tratta però di vedere qual è il Dio che parla nella Bibbia (dando pure per scontato, ovviamente, che lì sia davvero un Dio che parla, e non la pura e semplice raccolta di una serie di racconti e di leggende popolari, di creazione esclusivamente umana). Ma diciamo che è Dio.
Qual è il Dio che lì parla, però? Il Dio vivente, padrone del suo Io, o il Dio dormiente, creatore nel suo sonno di questo cosmo?
E se è il Dio dormiente, come sono da prendere le cose che dice? E' quello che veramente lui pensa, o è un'altra alterazione del suo sogno, un altro aspetto dell'incubo? Ora Mauz ricorderà che c'è un brano del suo Mann nella Morte a Venezia che dice proprio:
"Chi è fuori di sé non teme nulla quanto il tornare in sé".
Allora, Mauz, siamo proprio sicuri che il lavoro sia la punizione per l’aver mangiato il frutto della conoscenza, o che non sia invece il lavoro la conoscenza stessa? E il Dio che si incazza per questa nostra acquisizione della conoscenza (e qui è bene ricordare sia a Magda che a tutti noi, che questa ascquisizione la dobbiamo tutta ad Eva) è il Dio vigile e vivente, o è il Dio dormiente “fuori di sé”, terrorizzato che dal nostro lavoro e dalla nostra conoscenza possa essere determinato il suo risveglio, ed il ritorno alla ragione? Per quella che è la mia visione del cosmo e dei doveri dell’uomo – la mia “poetica”, come dice Zaphod – la scelta obbligata sta nella seconda: il lavoro è la conoscenza.
POSCRITTI
1) - Per Mauz
Kafka ci penserei due volte a metterlo in quella lista. In Kafka c'è racconto, c'è storia, c'è azione. La ricerca di sé non viene fatta guardandosi dentro attraverso l'ombelico, ma guardando fuori, cercandosi nel mondo e dentro gli altri, per tornare poi a sé, e da sé di nuovo agli altri.
Anche su Hemingway & C. (poichè basta pure un’opera sola, non sono necessarie tutte, per significare appieno un autore) ci andrei più piano. Ne Il vecchio e il mare, per esempio, lei non trova che ci siano tutte - e dette magnificamente - le cose di cui stiamo trattando qui? E ne La ciociara?
2) - per A
Non so cosa ne pensi lei, ma ci tengo comunque a precisare che tutto quanto da me detto qui, non ha nessuna pretesa di logica filosofica. E' solo estetica. "Poetica", come dice Zaphod. Ma del resto - nella storia dell'uomo - tutto quanto c'è di mito, di cosmogonia e di religio non è, esso stesso, che pura mitopoiesis?