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(1417 articoli)
  • Avviato 14 anni fa da Faust Cornelius Mob
  • Ultima replica da parte di big one
  1. zaphod

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    Un interessante articolo di Nicola Lagioia sull'attualità di William Faulkner:
    http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2014/12/28/viviamo-nel-mondo-inventato-da-william-faulkner

    Pubblicato 9 anni fa #
  2. A.

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    Qualcuno di voi ha letto Luciano Bianciardi?

    Che mi dite, merita?

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    Pubblicato 9 anni fa #
  3. k

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    Bianciardi è un grande. Legga intanto La vita agra, poi deciderà lei.

    Pubblicato 9 anni fa #
  4. A.

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    Un mio amico mi ha detto che il libro di Brizzi, L'inattesa piega degli eventi, parla di cosa sarebbe successo negli anni 60 se Mussolini avesse vinto.
    Qualcuno lo ha letto?
    Questo mio amico, dice che è sorprendente. Ma io non ne so nulla.

    Pubblicato 9 anni fa #
  5. Io l'ho letto e, debbo dire, gustato. Il romanzo è ambientato in Africa, durante il campionato di calcio che vede protagoniste le squadre dei territori controllati dallo stato fascista. Che dire, più leggero e scorrevole di quanto ci si aspetterebbe, interessante nei suoi spunti. Il libro è il primo di una trilogia. Il secondo, "La Nostra Guerra", parla di come l'Italia si sia schierata con gli Alleati contro l'Asse. A mio avviso nettamente inferiore al primo, per quanto non male. Il terzo, "Loreno Pellegrini e le donne", sta nella massa, oramai tale da avere una gravità propria, dei libri che ancora debbo leggere.

    Pubblicato 9 anni fa #
  6. A.

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    Io disimparato a mettere le virgole, cazzo

    Grazie Ste'. Lo leggerò

    Pubblicato 9 anni fa #
  7. Questione di ritmo, amico mio. Pensa di star suonando le percussioni con la lingua.

    Pubblicato 9 anni fa #
  8. A.

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    Una questione privata, di Beppe Fenoglio.
    Che dire: un capolavoro

    Pubblicato 9 anni fa #
  9. k

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    Sì. Anche se dire "capolavoro" per Fenoglio è oggettivamente inesatto, poiché tutta la sua roba è quasi sempre a questo livello. Io restai folgorato da giovane - estate 1970, servizio militare - da I ventitré giorni della città di Alba.

    Pubblicato 9 anni fa #
  10. Secondo voi è "meglio" Pavese o Fenoglio?

    Pubblicato 9 anni fa #
  11. k

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    Eh no, cazzo, il gioco non funziona così:
    parli prima lei, se ha il coraggio.

    (E se, soprattutto, li ha ambedue letti.)

    Pubblicato 9 anni fa #
  12. Pavese lo trovo un po' noioso anche se scrive in modo inappuntabile. I suoi incipit sono strepitosi. Fenoglio mi pare più "vivace", dà più emozione. Ciononostante consiglierei a un giovane di cominciare dalla lettura di Pavese, il che è un paradosso.

    Pubblicato 9 anni fa #
  13. A.

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    Io preferisco Fenoglio. ma non saprei dire perché. Anche se hanno molti punti differenti.

    Pubblicato 9 anni fa #
  14. k

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    Pavese è un intellettuale che cerca di razionalizzare l'angoscia della sua estraneità al reale. Fenoglio invece è un mitopoieuta che canta il sentimento del reale, standoci con tutti e due i piedi affogati dentro.

    Io - anche ai giovani - continuerei a consigliare prima Fenoglio.

    Pubblicato 9 anni fa #
  15. A.

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    Grazie
    Io lessi il Partigiano Johnny l'anno della maturità, anzi proprio nel maggio, mentre la preparavo. Mi perdevo nel ritmo di quel libro. Assai poco "italiano"...
    Invece Pavese confesso che lo leggo esattamente come dice lei, come un intellettuale, quasi un filosofo. Ma non riesco a farmelo piacere.

    Pubblicato 9 anni fa #
  16. Sto leggendo il racconto lungo "E fu sera e fu mattina" di Daniela Rindi. Il titolo non mi piace ma è un noir davvero sorprendente che stanotte mi ha tolto il sonno. Brava Daniela.

    Pubblicato 9 anni fa #
  17. "E fu sera e fu mattina" dell'autrice Daniela Rindi (Intermezzi Editore) è il pretesto narrativo per una riflessione sul dolore, sullo smarrimento dovuto alla perdita, sulla potenza orrorifica della morte che stravolge i nostri destini con una violenza che lascia basiti, sul senso di impotenza che ciascuno di noi è destinato a provare ad un certo punto della sua vita, amplificato dall'intensità quasi patologica dei legami, che purtroppo non garantisce un futuro ai nostri figli.

    La trama - In questa breve ma intensa storia la piccola Irene vivrà un'esperienza drammatica e surreale al tempo stesso. Uno dei peggiori incubi di una bambina è destinato a diventare realtà, toccando il cuore del lettore in modo sorprendente, per lo sviluppo inatteso di una vicenda minimalista. "E fu sera e fu mattina" ben fotografa la solitudine postmoderna dell'uomo contemporaneo, privo di punti di riferimento, al punto da inseguire improbabili vie di fuga che spesso si rivelano velleitarie, cercando costantemente di comunicare con persone lontane perché incapace di dialogare col vicino di casa, visto come "diverso" a prescindere, nell'ambito di quartieri-ghetto dove c'è tutto quel che serve per soddisfare le esigenze materiali, a patto di avere un bel conto in banca, ma resta molto poco per nutrire lo spirito: non è un problema da poco.

    Il condominio dove abitano Marta e la figlioletta Irene, morbosamente legate anche per l'ennesimo fallimento sentimentale di questi tempi, è appunto una sintesi della crisi di socializzazione di un'epoca di deflazione non solo economica. La crisi e il disorientamento degli indifesi è ben rappresentato dalla bimba in questione, che sostituisce il suo bisogno d'amore, esasperato dall'assenza della figura paterna, con la classica fuga nei mondi paralleli dei cartoni animati e con richieste d'acquisto compulsive, come se riempire il carrello di "ovetti", "fruttoli" e altri prodotti ben reclamizzati fosse garanzia di poter essere un giorno felici, come se bastasse il "mitra ad acqua" tanto desiderato da Irene in apertura per difendersi dalle mille insidie del vivere.

    Riflessioni sull'opera - In un mondo reale dove perfino l'acqua è avvelenata e l'universo dei sentimenti è in evidente disfacimento non poteva mancare in questa storia un climax, che trasforma definitivamente la vita di Irene in un incubo. "Cosa hai cercato di dirci con questo libro?" ho chiesto a Daniela Rindi. "Racconto un malessere grave umano e sociale. La madre abbandonata a se stessa si imprigiona da sola nelle sue idiosincrasie e frustrazioni. Muore lei è passa il testimone alla figlia, che vivrà il resto della sua vita come il peggiore incubo..." ha spiegato l'autrice, mettendoci in guardia dai rischi dell'isolamento eccessivo, che spesso è solo il sintomo di una malattia mentale più o meno latente. Oggi, del resto, chi può dirsi davvero sano e al riparo dal male di vivere?

    http://it.blastingnews.com/cultura-spettacoli/2015/05/libri-e-fu-sera-e-fu-mattina-un-noir-di-daniela-rindi-00384743.html

    Pubblicato 8 anni fa #
  18. zaphod

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    Una vecchia conoscenza anonima - il professor Marco Romano - su Eutopia Magazine:

    L'Europa delle città

    Sono uscito dal liceo con un quadro delle vicende storiche europee, a partire dal Mille, tutto scandito dalle guerre e dalle paci tra gli Stati, le cui rispettiva date sono forse ancora in grado di ricordare.

    Solo che quello non era il vero quadro dell’Europa.

    Forse una trentina di anni fa – insegnavo da decenni urbanistica nelle facoltà di architettura – ho incominciato intravedere un altro punto di vista, perché dopotutto l’Europa che mi attraeva da sempre era quella delle città, quelle città che tutti visitano con ammirato fervore mentre dei domini territoriali protagonisti di quelle vicende era rimasta in fondo ben poca cosa, magari grandiosa come le regge del Seicento e del Settecento a Versailles o a Caserta, ma solitaria.

    Così emergerà presto che quella stessa società nella quale radichiamo oggi i nostri progetti di vita, è nata proprio nelle città, in quei Comuni sorti dovunque intorno al Mille, quando la credibilità dell’organizzazione militare ereditata dall’impero carolingio era andata disfacendosi nella sua incapacità di contrastare le incursioni degli arabi dalle coste del Mediterraneo e le invasione degli ungari dalle steppe dell’Asia, e gli abitanti dei villaggi e delle modeste cittadine di allora prenderanno a organizzare la propria difesa da sé medesimi.

    Questa nuova società europea era costituita dai cittadini delle migliaia di civitas aperte a nuovi arrivati in fuga dalle campagne o da altre città- perché poi chiunque dopo un anno avrebbe potuto chiedere di farne parte alla condizione di rispettarne le consuetudini e di possedervi una casa - ma anche poi anche socialmente mobili, perché la loro organizzazione interna era fondata sull’avvento, come ha sottolineato Max Weber, dell’homo oeconomicus e delle gerarchie del suo mercato.

    La radice di questa rivoluzione era poi lo stesso cristianesimo, che aveva diffuso il principio che tutti gli uomini fossero eguali, ma per allora soltanto dopo la morte, quando il Signore avrebbe giudicato la competenza con la quale ciascuno aveva assolto al compito assegnatogli dalla nascita, i guerrieri dell’aristocrazia – ma anche quanti per vocazione s’erano fatti religiosi – e i contadini che con il modesto surplus del loro lavoro avrebbero assicurato il loro mantenimento.

    Ma i cittadini delle città saranno ora, in una società democratica, tutti eguali nella loro vita, sicché avranno un diritto di accesso ai beni che li rendono in qualche misura felici, di una felicità tutta terrena, beni prodotti poi da ciascuno con il proprio lavoro secondo la propria vocazione e la propria competenza.

    Qualità e costo di questi prodotti verranno giudicati ora dal mercato, che costituisce il fondamento della nostra società, un mercato che premierà quanti eserciteranno al meglio la capacità nel proprio mestiere, acquistando per questo credibilità anche nella sfera politica e dando luogo così al governo delle gilde e dei mercanti.

    La Weltalschauung della civitas sarà ora sotto il segno della la razionalità strumentale, una accurata e quotidiana valutazione delle capacità di ciascuno di commisurare con rigore - almeno in linea di principio - vantaggi e costi di ogni iniziativa, un’etica della parsimonia quasi opposta all’etica dello spreco che continua a pervadere la sfera del mondo aristocratico.

    La città sembra – secondo Le Goff – uno straordinario cantiere, dove tutti sono impegnati a contribuire al progresso nei più diversi ambiti, dai giuristi che elaborano un nuovo diritto mercantile e politico, ai costruttori delle cattedrali, ai contadini dei villaggi che razionalizzano le colture agrarie.

    E questa società è fondata sul desiderio, sul proliferare di nuovi desideri che artigiani e mercanti procureranno di esaudire, come quelle donne fiorentine che, ai tempi di Beatrice, vestivano un casto saio bigio e che trent’anni dopo diffonderanno la nuova moda gotica della vita alta con le maniche larghe e con il petto quasi scoperto, vestite ora con quei panni colorati che faranno la fortuna europea dei mercanti fiorentini, quelle ricorrenti novità della moda che non mancheranno di far arricciare il naso a Giovanni Villani ancora nel Trecento come ai critici contemporanei del consumismo, quel consumismo da mille anni motore della straordinaria efficienza tecnica della nostra società.

    Rimaneva peraltro lo sfondo del dominio territoriale, perché non era pensabile che non sopravvivesse la traccia della monarchia originaria, quella stessa di Carlomagno, seppure con competenze reali irrilevanti, perché poi i diritti giurisdizionali di cui era in teoria titolare erano stati di fatto erosi dai privilegi concessi col tempo alle singole città o da loro stesse riscattati o dimenticati.

    E quando Luigi XIV sosterrà che “la Francia sono io” non alluderà a un suo dominio di fatto invece parecchio incerto: un decreto reale doveva venire approvato dal parlamento di Parigi, con il diritto di respingerlo due volte, mentre i parlamenti regionali semplicemente lo ignoravano. No, Luigi XIV intendeva sottolineare che le giurisdizioni territoriali esistevano in quanto esisteva un loro sovrano, e questo sovrano, e quindi gli stessi Stati, erano poi l’esito di politiche dinastiche, come il regno di Spagna che nascerà dal matrimonio dei due sovrani d’Aragona e di Castiglia.

    In queste città matura la nostra civiltà, i cittadini – che erano tali proprio per il possesso della casa – mostreranno lo status conseguito nella mobilità sociale esito del mercato decorandone variamente le facciate e contribuendo così a fare della città intera il manifesto di una diffusa volontà estetica – anche oggi la leggiamo nelle strade delle nostre città – mentre i medesimi cittadini come civitas affideranno la manifestazione della propria dignità nel contesto europeo erigendo quegli spettacolosi temi collettivi che conosciamo, cattedrali immense e palazzi municipali fastosi, e in seguito archi trionfali, teatri, biblioteche, musei, e quant’altro, fino ai giardini pubblici e agli stadi di oggi.

    E poi le città europee verranno rese magnifiche dalle piazze tematizzate, la piazza principale e poi quella del mercato, la piazza conventuale e quella della chiesa, la piazza monumentale e la piazza nazionale, gli squares a giardino e le piazze di quartiere, piazze legate a loro volta dalle strade tematizzate – la strada principale, la strada monumentale, la passeggiata, i boulevards - che copriranno la città intera di una rete continua dove verranno esaltati i temi collettivi, disposti a sottolineare quelle straordinarie sequenze che riconosciamo se appena vi prestiamo attenzione: un paesaggio che, volendo, il lettore potrà approfondire leggendo un mio esile libro, La città come opera d’arte.

    Che la civiltà europea fosse maturata nelle sue mille città sarà poi, qualche secolo dopo, una consapevolezza diffusa, e che a proteggerle dovesse risorgere una sola e pacificata giurisdizione, erede naturale del Sacro Romano Impero e di Carlomagno invece che un mosaico di Stati in lotta tra loro, sarà il progetto di Carlo V con le consuete strategie matrimoniali di quei tempi – suo figlio avrebbe dovuto maritare Maria Stuart annettendo così l’Inghilterra e intrecciando analoghe parentele con Francesco I - ma sappiamo che i conflitti religiosi lo faranno rimanere soltanto un sogno, nonostante l’effimera vittoria sulla lega di Smalcalda a Mülberg.

    Così gli Stati rimarranno tali e quali, il Seicento e il Settecento coinvolti in guerre dinastiche finanziate dalle ricchezze prodotte dalle città e dai prestiti dei loro banchieri – solo di rado questa prosperità sarà messa in forse dalle vicende di codeste guerre – ma tutto era destinato a peggiorare con l’irrompere dell’idea di nazione con la rivoluzione francese, perché ora nelle guerre non saranno più in gioco le famiglie regnanti con i loro eserciti assoldati ma quel soggetto mistico che sarà la nazione.

    In che cosa potesse consistere lo spirito di una nazione nessuno lo sapeva né lo sa ancora oggi – “un plebiscito quotidiano” insinuava Renan – ma queste nuove nazioni si daranno daffare per inventare le radici della propria identità, e così quella magnificenza architettonica che era stata l’orgoglio delle città diventa ora un’espressione della tradizione nazionale, e i cittadini di quelle città, che pure sono i legittimi eredi della loro grandiosità, ne verranno espropriati da ministeri e da sovrintendenze con un procedimento autoritario che, se lo vedessimo altrove, scatenerebbe la nostra indignazione: perché poi noi correntemente riteniamo che la più grave azione di una pretesa di dominio sia poi quella di appropriarsi delle manifestazioni dove è radicato il sentimento di un popolo della propria identità.

    Ora noi dobbiamo sperare che le nazioni, ereditate nelle loro forme moderne dal principio giurisdizionale dell’impero carolingio ma frantumato nei loro artificiosi confini, finalmente scompaiano tornando a sciogliersi di nuovo nella giurisdizione unitaria di un’Europa unitaria – dopotutto sono vecchie soltanto di un paio di secoli – con quelle poche competenze necessarie a uno Stato, la moneta e la guerra, che riconosca poi di essere quella stessa Europa nata mille anni fa, fatta di città: città, loro sì, esito di una volontà di bellezza e di democrazia che vorremmo veder rifiorire.

    - See more at: http://www.eutopiamagazine.eu/it/marco-romano/issue/leuropa-delle-citt%C3%A0#sthash.n8RUDbEC.dpuf

    Pubblicato 8 anni fa #
  19. Oggi su fb ho letto questo (bacheca di Morena Virgini):

    "Il gioco dell'impiccato ci insegna fin da piccoli che, dicendo le parole sbagliate, si può uccidere qualcuno..."

    Pubblicato 8 anni fa #
  20. Se un giorno dovessi muggire: oceano e capodogli

    Un’ombra nata da quella che, a prima vista, sembra essere una luna calante nel buio di un lago; un’ombra che, avvilita, compie il primo passo lontano da quell’utero di luce pura, irradiata da un alone di sangue; un’ombra priva di fisionomia, la cui anonimia viene a mancare nella proiezione della stessa di un’altra ombra, una mucca colta nell’atto di muggire, una mucca che è insieme destino e morte, che è, in definitiva, individualità.

    Questa la copertina – in particolare, nell’originale, un acrylic on canvas 15×25 cm – realizzata dall’artista perugino Giovanni Biscontini per la raccolta di racconti Se un giorno dovessi muggire, edita dalla SENSOINVERSO Edizioni, un insieme di quarantasei racconti di altrettanti autori emergenti, insieme – come spesso accade in questi casi – non omogeneo e a livello stilistico, e per spunti tematici, ma che, in ragione di questa differenza, aderisce perfettamente alla chiave di lettura proposta: Oceano di carta – oggi alla sua VI edizione.

    Oceano è, infatti, nella sua piattezza, θεῶν γένεσις, origine degli dèi, e γένεσις πάντεσσι, origine delle individualità, inesauribile potenza generatrice del tutto, nella cui massa ha origine la vita; e talvolta, nella panthalassa/calamaio, tra cobitidi dormienti su un fianco e marlin eclettici, emergono dai fondali sabbiosi capodogli di China, quali Se un giorno dovessi muggire – racconto da cui la raccolta trae il titolo – o Invasione.

    Il primo, nutrendosi di reminescenze camussiane – in particolare, l’apatia di Meursault dinnanzi alla bara della madre -, propone il rapporto antitetico tra una donna in stavo vegetativo, morte-nella-vita, e il figlio, vita-nella-morte, rapporto in cui la componente affettiva madre/figlio si tramuta presto in costrizione – il figlio non lascia quasi mai il letto della madre, nonostante le ammonizioni dei medici; con grande abilità, l’autore dipinge, in una climax crescente, il paradosso del capovolgimento dei ruoli, portando il protagonista nella condizione atipica di assistente/manichino alla malattia della madre, precipitando egli stesso in uno stato di pre-morte, oscillando tra il conscio – l’uomo si analizza continuamente, traendo dai piccoli cambiamenti della sua vita quotidiana, come ad esempio il fatto che improvvisamente egli trovi piacere nel cucinare, un ultimo appiglio allo stato-di-vita – e l’inconscio – come per esempio nell’esplosione lirica del finale, un monologo interiore indirizzato alla moglie, nel quale il protagonista si vede come altro rispetto allo stato-di-morte della madre, paragonata ad una mucca muggente, ignorandone apparentemente la propria condizione psichica egualitaria emersa in modo conscio in altre parti del testo, raccomandando alla moglie, in maniera grottesca, di assisterlo in altro modo rispetto al tipo di assistenza che lui stesso prestava alla madre nel caso in cui, in futuro, si fosse trovato nella stessa condizione, concependo l’Amore come perenne stato-di-vita in eterna tensione.
    La copertina di Se un giorno dovessi muggire.

    La copertina di Se un giorno dovessi muggire.

    Nel secondo testo assistiamo, invece, all’antitesi di gusto pirandelliano tra personaggi fissi, bloccati ognuno nel proprio ruolo, e individui pensanti, dinamici. In particolare, la scena – che si svolge tutta in un unico luogo, la casa/palcoscenico dei protagonisti – vede contrapporsi una giovane coppia sposata, assorbita pienamente dall’apertura di un nuovo negozio, e i loro figli, spettatori che partecipano involontariamente alla non-azione, partecipazione descritta attraverso una costruzione stilistica meta teatrale. I primi vivono alienati dal pànta rèi, in una condizione atemporale dovuta alla speranza cristallizzata di un futuro successo dell’attività, come causa ovvia dei loro sforzi; i secondi vivono pienamente il proprio divenire di esseri umani, passando dal ruolo di aiutanti – nel momento in cui la casa diviene anche magazzino del negozio e i due figlioli trasportano senza sosta degli scatoloni dal portone alla casa -, a quello di critici – i due tentano in ogni modo di “risvegliare” i genitori dal loro stato catatonico di vana speranza -, a quello, finale, di individui, lasciando la propria casa d’origine e facendosi ognuno una vita propria. L’ironia, infine, dona quel tono di riflessività necessaria, riflessività il cui apice viene toccato dall’autore nel momento in cui i due coniugi cercano incessantemente il loro gatto tra gli scatoloni e, successivamente, per le scale del palazzo, ricordandosi/scoprendo poi dal figlio maggiore che l’animale era deceduto ormai da qualche anno.

    In definitiva, Se un giorno dovessi muggire si propone come un’operazione letteraria che nulla ha di pretenzioso, ma che tuttavia risulta interessante per l’emergere dal coro di alcuni testi che, nella loro riuscitissima individualità, si propongono come specchi delle nevrosi moderne e della fissità cui la società contemporanea lega il non-individuo.

    Antonio Merola

    http://www.letterefilosofia.it/2015/07/se-un-giorno-dovessi-muggire-oceano-e-capodogli/

    Con racconti, tra gli altri, mio (Alberto non era uno come gli altri) e di Bernardo Bassoli (Il Re)

    Pubblicato 8 anni fa #
  21. k

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    Mi auguro che il suo racconto sia diverso dalla presentazione.
    Lo posti e lo leggiamo - se le va e se non è troppo lungo, poiché purtroppo sto lavorando - insieme anche a quello di Bernardo.
    In bocca al lupo, comunque.

    Pubblicato 8 anni fa #
  22. zaphod

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    Pubblicato oggi su Il Fatto Quotidiano e Latina Editoriale Oggi:

    Funerale Casamonica e questioni derivate
    Antonio Pennacchi

    Leggo al volo stamane sulla stampa di Latina che un giovane del Pd, Matteo Palombo, si sarebbe azzardato a scrivere su facebook che il funerale di Vittorio Casamonica a Roma non costituisce niente di più che “un rituale canonico”. Subito dal Pd locale si sono levati gli scudi e i distinguo: “Quale Pd? Costui non c’entra un cazzo con noi, non ricopre alcuna carica”.
    Per quanto mi riguarda credo – anche se il ragazzo sembra piuttosto ondivago, forse addirittura più di quanto lo foss’io da giovane – che Matteo Palombo non abbia tutti i torti. Io non so se il fu Vittorio Casamonica sia stato per davvero – e fino a che punto – camorrista e mafioso. Quello che so però è che in uno Stato di diritto non basta sospettare qualcuno d’esserlo, per poterlo poi definire tale e definire tali – con lui – tutti quelli che vanno al suo funerale. “Ma se era davvero così fuori norma e aveva fatto quello che voi dite”, si chiede il parroco salesiano di Don Bosco, don Giancarlo Manieri, “perché non lo avete arrestato, lasciandolo invece a piede libero? Vi aspettavate che lo arrestasse da morto il suo parroco in chiesa? Io faccio il prete, non il poliziotto” e non mi pare che abbia tutti i torti, povero parroco messo dai giornali sulla croce.
    Dice: “Ma la carrozza, la banda, i fiori, l’elicottero?”. Ahò, ognuno i funerali suoi se li fa come gli pare. Mica sono – per ciò stesso – mafiosi. I funerali così, degli zingari sinti-rom Di Silvio e Ciarelli di Latina, con tanto di carrozza ad otto cavalli, banda musicale e tutto un manto di fiori sulla strada – l’elicottero no, l’elicottero è una innovazione tecnologica introdotta adesso – io me li ricordo fin da ragazzino, fin dagli anni cinquanta e sessanta, quando di mafia, droga e camorra, ancora non si sentiva proprio parlare.
    Gli zingari Di Silvio di Latina – imparentati pare con i Casamonica – commerciavano allora solo in cavalli e bestiame, qualcuno forse ogni tanto rubacchiava qualcosa e le donne, questo sì, rompevano i coglioni per strada a chiedere l’elemosina o a voler leggere per forza la mano alla gente. Ma niente più. E i funerali in quel modo facevano parte da sempre dei loro più innocenti riti e legittime tradizioni. Li fanno così anche in Camargue o in Andalusia. Perché non li dovrebbero più fare a Roma o Latina?
    A me pare di vedere in realtà – nella presente fattispecie e nel fracasso mediatico in atto – l’insorgere e riemergere d’un forte pregiudizio razziale antisinti, antizingaro, antirom. Si stima che a Latina i Ciarelli-Di Silvio – residenti e qui nati da oltre cinquant’anni, cittadini italiani a tutti gli effetti da generazioni e generazioni, progenie d’una migrazione indu che a metà del Seicento abbandonò l’India per trasferirsi in Europa: 350 anni quindi che stanno in Italia; molto più, forse, di tutti gli antenati del Salvini – a Latina siano oramai, nasci oggi nasci domani, oltre cinquecento.
    Può essere che siano tutti delinquenti mafiosi camorristi? Può essere che per noi, presunti latinensi-doc, questi siano solo – tutti e cinquecento – un problema d’ordine pubblico o criminale, ma mai una possibile risorsa? Anzi, ogni volta che nasce un nuovo bambino zingaro, subito – nel momento stesso in cui esce – secondo noi gli viene assegnata da un ineluttabile destino una cella a via Aspromonte? Be’ non può essere che sia così, in un Paese civile.
    È di pochi giorni fa la notizia che una bambina rom di 12 anni, Nicole Barr, che vive con la famiglia in un campo-roulotte ad Harlow in Inghilterra – anche se pure in Inghilterra gli zingari non li amano molto; anzi, normalmente li cacciano da ogni paese e città – è stata di recente ammessa all’esclusivo club mondiale dei geni, essendole stato riscontrato un quoziente intellettuale pari a 162 (la norma è 100), superiore anche a quello di Einstein o di Hawking. Chissà quante altre ed altri ce ne stanno.
    Quando riusciremo, a Latina, ad utilizzare anche questi inespressi serbatoi di energie ed intelligenze, e a vedere un giorno un Ciarelli o una Di Silvio ufficiali dei carabinieri o magistrato, professore universitario o – perché no – parroco di San Marco? Non dipende da loro. Dipende da noi.

    Pubblicato 8 anni fa #
  23. zaphod

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    Fondatore

    Pubblicato 8 anni fa #
  24. zaphod

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    Fondatore

    Mamma mia, quanto tempo che non scrivo niente qua sopra. Leggo, ma non scrivo. È ormai qualche mese che leggo solamente, e non scrivo una riga. Non solo qui sopra.
    E più tempo passa senza scrivere, più aumenta la responsabilità di dover scrivere qualcosa di memorabile: "Ma come, sei stato tutto sto tempo a pensarci e alla fine te ne esci con questa cazzata?"

    E allora rompo il ghiaccio e mi limito a consigliare due bei libri che mi sono capitati tra le mani ultimamente.
    Uno è Breve storia di sette omicidi di Marlon James. Ha vinto il Man booker prize qualche mese fa e in Italia lo ha pubblicato Frassinelli nella traduzione di Paola D'Accardi. Lui è giamaicano e racconta la Giamaica degli anni settanta, il ghetto, le gang, la politica, la droga facendo parlare direttamente i protagonisti delle vicende. Una specie di Romanzo criminale ma molto più letterario e sanguigno con "il cantante" a fare da sfondo alla storia. Siamo di solito abituati a pensare alla Giamaica come sfondo per la biografia di Bob Marley, questo libro rovescia la prospettiva: "il cantante" (non viene mai chiamato per nome) non è protagonista, ma giganteggia onnipresente durante tutto il romanzo.
    Anche il secondo libro lo pubblica Frassinelli (e così ho pure deciso che la mia prossima lettura sarà il libro che portano allo Strega sperando in un "non c'è due senza tre") e si intitola Alla fine di ogni cosa. Lo ha scritto Mauro Garofalo e racconta la storia di un pugile zingaro che nella Germania degli anni trenta viene defraudato del suo titolo meritatamente conquistato a favore di un pugile più ariano e consono alle spirito del tempo. Anche Dario Fo ha appena pubblicato un libro sullo stesso personaggio (si intitola Razza di zingaro) ma quello di Garofalo ti fa proprio sentire i rumori, gli odori, le sensazioni della palestra e del ring probabilmente perché pure Garofalo pratica il pugilato e si sente la passione per quello sport.

    Vabbè, volevo scrivere due titoli e basta invece mi sono allungato.

    Buonanotte.

    Pubblicato 8 anni fa #
  25. Sì non affaticarti troppo che ti sloghi il polso

    Pubblicato 8 anni fa #
  26. zaphod

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    Fondatore

    Ho appena letto queste misurate parole di Franco Cardini a proposito del Nobel a Dylan:
    FRANCO CARDINI SUL NOBEL A BOB DYLAN

    "Dove poi si è passato il segno quanto a provincialismo, a ignoranza, a cattivo gusto, ad assenza di qualunque tipo di cultura e di sensibilità, è stato nelle polemiche contro il Nobel assegnato a Bob Dylan. Siamo davanti a un vero, grande interprete del nostro tempo con tutte le sue miserie, le sue passioni, le sue illusioni. La sua musica è stata grandiosa, i testi di molte delle sue canzoni dei veri e propri capolavori di poesia. Gli scrittorucoli miracolati dai media e incensati da una critica pennivendola e mafiosa che si sono indignati affermando che la musica non ha nulla a che fare con la letteratura hanno offeso tutta un’altissima tradizione che da Omero attraverso la lirica arabo-persiana e i trovatori provenzali giunge fin a Lorca, a Brel, a de André, a Bowie e a Guccini. Ma di che cosa state blaterando, banda di livorosi analfabeti?".

    Pubblicato 7 anni fa #
  27. k

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    Sì, sempre misurato, il nostro amato Franco.

    Pubblicato 7 anni fa #
  28. Woltaired

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    Ho appena letto un dizionario e ho scoperto che si dice impermalire e non impermalosire come io sono stato convinto per quasi cinquantasei anni. Sfoglio un altro velo d'ignoranza e vado. Anonima, mi manchi.

    Pubblicato 7 anni fa #
  29. SCa

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    Membro

    Tranquillo Woltaired, non sei certo il solo. Già con me siamo in due, anche se io lo consideravo per lo più nella forma intransitiva. Comunque come lo metti lo metti, verbo orrendo.

    Poi ti volevo chiedere una cosa che non ho capito: perché Santoni su "sé stesso" commette un errore di giovanilismo?

    Pubblicato 7 anni fa #
  30. zaphod

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    Fondatore

    Oh, io l'unico Santoni che riconosco è il nostro Gabriele, sia chiaro.

    Pubblicato 7 anni fa #

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