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Discussioni di teoria letteraria

(67 articoli)
  1. k

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    Membro

    La spiegazione di Sca non solo mi convince, ma mi induce anche a guardare con molta più simpatia sia all'articolo che a chi l'ha scritto. Faust, però, potrebbe pure entrarci direttamente in contatto e capire magari meglio, se interessa.

    Rispetto invece alle storie che sarebbero "già state scritte tutte", non sono d'accordo né con lei né con A: tutti e due troppo apodittici, credo. Nella realtà le storie non sono già state scritte tutte, poiché esse sono infinite, o almeno sono tante quante le singole esistenze che si sono affacciate e si affacceranno al mondo. Ergo, esse sono le facce o i nomi di Dio (e "infiniti sono i nomi di Dio", mi pare dicano i Veda) nel suo disvelarsi e divenire nel reale. Quindi, però, in un certo senso esse sono pure state già scritte tutte, o quanto meno "determinate" nello stesso e preciso istante in cui Dio s'è fatto materia. Per altro verso, se anche è vero che nel nostro reale - quello a sole quattro dimensioni che sembriamo noi abitare adesso - tutte quelle storie, esattamente come tutte le esistenze, non si sono ancora date, è pure vero però che le strutture di fondo e l'intero catalogo di tutti i temi delle narrazioni umane sembrano proprio essere gli stessi da sempre. Tutte le storie conosciute, cioè, vertono sempre sugli stessi temi che noi troviamo tutti già espressi nella letteratura d'età classica che - dobbiamo presumere – essa stessa aveva preso evidentemente da quella arcaica e soprattutto dalla tradizione orale ancora più antica. Io credo sinceramente che anche l'uomo di Neandertal, quando si riuniva intorno al fuoco la sera, raccontava storie d'amore e di morte, di eroismo e di viltà, conflitti tra padre e figlio, bambini che diventavano adulti, viaggi nei mondi lontani od in sé stessi, chi siamo, dove andiamo, che cazzo stiamo a fare qua. Tutto il resto - tutto quello che facciamo oggi - non sono che variazioni sul tema. Ma proprio questo è il bello (e proprio questo credo sia ciò che voleva dire, secondo la spiegazione di Sca, l'articolo postato da Faust): che ogni variazione sul tema, se è originale e autenticamente poietica – ossia se nasce dall’anima e dalle viscere, ossia dalla ‘natura’, ma se viene poi pure plasmata nel cervello dal mestiere e dalla tèkne, ossia dalla ‘cultura’ (forma e contenuto, si sarebbe detto una volta) – ogni variazione sul tema può anche fornire approcci, vedute, emozioni e discoperte ogni volta nuove, sul quel tema non tanto ‘antico’, ma quanto eterno e metastorico. Proprio perché “infinito è il numero dei nomi di Dio”. Ciao.

    (Mo’ però non lo so se anche qua non si capisce un cazzo…)

    Pubblicato 11 anni fa #
  2. Voglio discuterne stasera al laboratorio di scrittura, poi entrerò in contatto.

    Pubblicato 11 anni fa #
  3. A.

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    Moderatore

    K, bene.

    Pubblicato 11 anni fa #
  4. k

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    Grazie.

    Pubblicato 11 anni fa #
  5. k

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    Membro

    Credo che anche questa, in un certo senso, sia una questione di teoria letteraria:

    http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/la-denuncia-del-filmaker-moon-e-copiato-da-me/116548/114978?ref=HREV-3

    Pubblicato 11 anni fa #
  6. zaphod

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    Fondatore

    Oddio, a un certo punto ho avuto la sensazione che tutti e due copiassero dagli stessi originali... (Sicuramente 2001, ma anche credo Atmosfera zero, Blade Runner, etc.)
    A me una volta un amico chitarrista fece sentire una sua composizione, "Senti che attacco..." mi fa, tutto orgoglioso. "Ma è para para People are strange, dei Doors," gli rispondo. Lui i Doors non li aveva mai sentiti, e io ci credo, ma sicuramente tanti dei gruppi metallari a cui lui si ispirava, con i Doors avevano le stesse basi. Adesso lavora nell'informatica, per dire.
    Nel caso specifico per avere un quadro completo bisognerebbe vedere integralmente le due versioni.
    E, adesso che ci ripenso, sempre nel campo musicale, sorse tempo fa una questione simile tra Agnese dolce Agnese di Ivan Graziani e una canzone di Phil Collins. Se non ricordo male andarono a finire in tribunale e i giudici sentenziarono che entrambe le canzoni si rifacevano un brano tradizionale scozzese, o gallese, o giù di lì.

    Pubblicato 11 anni fa #
  7. Un po' come succede a Zucchero, ma in maniera realmente casuale.

    Pubblicato 11 anni fa #
  8. big one

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    Membro

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    succede...

    Pubblicato 11 anni fa #
  9. Basta andarsi a studiare come nasce un acaro per avere la prova che le storie non sono state scritte tutti, ragazzi. E non è una battuta.

    Pubblicato 11 anni fa #
  10. A.

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    Moderatore

    mo' ce la devi spiega'
    (sono seriamente incuriosito)

    Pubblicato 11 anni fa #
  11. A.

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    Moderatore

    Zaph, era Clementi. (ma forse anche lui l'aveva orecchiata, magari in Scozia, chissà )

    Get the Flash Videos

    Pubblicato 11 anni fa #
  12. zaphod

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    Fondatore

    E infatti avevo detto "se non ricordo male". Sennò che vi ci tengo a fare qui sopra se poi devo fare tutto io...

    Pubblicato 11 anni fa #
  13. zaphod

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    Fondatore

    E poi Clementi in Inghilterra ci ha vissuto parecchio, e pare che il pezzo in questione riprenda una ballata popolare svizzera, senza che prendete tanto per il culo...
    Ma la cosa più straordinaria è che Ivan Graziani - proprio mentre il sottoscritto veniva al mondo - decide di cambiare il nome del suo gruppo in Anonima Sound...

    (Oh, tutte le informazioni qua sopra le ho prese da Wikipedia, quindi da accettare con beneficio di inventario)

    Pubblicato 11 anni fa #
  14. Sull'articolo postato da Faust: d'accordo su tutto, tranne che su questo

    La trama è morta, l’intreccio va ucciso, le sperimentazioni proibite, le intuizioni salvate, lo stile protetto. Il desiderio del lettore va ignorato e gli va dato in cambio dello sgomento.

    Pubblicato 11 anni fa #
  15. Woltaired

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    Membro

    Siamo il prodotto dei nostri avi e della continua ricontrattazione narrativa delle nostre storie e del nostro ambiente. La realtà non esiste di per sè, ma si crea e si modifica con il nostro agire. Siamo influenzati da un ambiente su cui noi stessi agiamo e le note non sono sette, come non sono ventisei le lettere dell'alfabeto. Abbiamo una conoscenza e una capacità conoscitiva talmente limitate da rendersi ridicoli nel significare tutto al tutto. Come un canarino in gabbia che parla delle varietà di miglio. Ma che ne sa?
    Ogni sputo è come un fiocco di neve, come un tentacolo di polpo, come un istante. Qualcuno s'assomiglia, ma i più non sono ancora nati.
    Sono solo i limiti che ci spingono a lasciar cadere le braccia ( parafrasi di un ricordo di una canzone di Bennato) , che ci incitano a costruire gabbie e venerare inesistenze rassicuranti.

    Pubblicato 11 anni fa #
  16. A.

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    Moderatore

    Per superare il blocco dello scrittore
    Chuck Palahniuk

    --------
    Vent’anni fa, sotto Natale, camminavo con un’amica nel centro di Portland. I grandi magazzini: Meier and Frank… Frederick and Nelson… Nordstroms… Le loro grandi vetrine avevano tutte una scena semplice e carina: un manichino vestito o una bottiglia di profumo adagiato su della neve finta. Ma la vetrina del JJ Newberry – diamine – era strapiena di bambole e lattine e spatole e cacciaviti e cuscini, aspirapolveri, appendiabiti, roditori, fiori finti, caramelle… Avete capito, insomma. Ognuno di quelle centinaia di oggetti aveva il suo cartellino rosso con il prezzo. Camminandoci davanti la mia amica, Laurie, guardò a lungo quella vetrina e disse “il loro vetrinista dev’essere convinto che se la vetrina non sembra abbastanza bella, bisogna metterci ancor più roba”.
    Fece il commento giusto al momento giusto, e io me lo ricordo ancora due decadi dopo perché mi fece ridere. Tutte quelle altre belle vetrine… Sono sicuro che fossero eleganti e piene di gusto, ma non ho nessun vero ricordo di come fossero.

    Per questo saggio, il mio scopo è di metterci ancor più roba. Di mettere insieme una specie di calza natalizia di idee, con la speranza che qualcosa vi possa essere utile. Un po’ come fare un pacco regalo per i lettori, mettendoci dentro delle caramelle e uno scoiattolo, un libro, dei giocattoli e una collana, sperando che ci sia una sufficiente varietà di oggetti che anche se qualcosa sembrerà totalmente stupido, qualcos’altro potrebbe invece essere perfetto.

    Numero Uno: Due anni fa, quando scrissi il primo di questa serie di saggi, scrissi del mio “metodo del cuociuova”. Voi quel saggio non l’avete mai visto, ma ecco in cosa consiste il metodo: quando non avete voglia di scrivere, settate il timer che usate quando cucinate su un’ora (o anche mezz’ora) e mettetevi a scrivere fino a quando il timer non suona. Se continuate a non aver voglia di scrivere, siete liberi per un’ora. Di solito, però, ora che il timer suona siete talmente assorti nel vostro lavoro da non avere nessuna voglia di smettere, e allora andate avanti. Invece del timer della cucina potete fare il bucato e usare la lavatrice come timer. Alternare il mentalmente pesante lavoro di scrittura con compiti come lavare i piatti o fare il bucato, in cui non c’è molto da pensare, vi darà l’intervallo di cui avete bisogno per farvi venire nuove idee o arrivare a nuove intuizioni. Se non sapete come andare avanti con quello che state scrivendo… pulite il cesso! Cambiate le lenzuola del letto. Per Dio, ripulite la tastiera del computer. Vi verrà un’idea migliore.

    Numero Due: I vostri lettori sono più intelligenti di quanto pensate. Non abbiate paura di fare esperimenti con le forme narrative o con i flashback. La mia teoria personale è che i lettori più giovani leggono poco non perché loro siano più stupidi dei lettori delle generazioni precedenti, ma perché sono più svegli. I film ci hanno resi più sofisticati, riguardo alle storie che ci piace sentirci raccontare. E i vostri lettori sono molto più difficili da colpire di quanto possiate immaginare.

    Numero Tre: Prima di sedervi a scrivere una scena, pensateci a lungo e cercate di capire quale sia l’utilità di quella scena. Come l’avete preparata nelle pagine precedenti? E a cosa porterà nelle pagine seguenti? Come farà progredire la trama, questa scena? Fatevi in continuazione queste domande mentre lavorate, mentre guidate o mentre siete in palestra. Prendete anche appunti, quando vi vengono delle idee. Solo quando avete finalmente deciso l’ossatura della scena, solo allora sedetevi e scrivetela. Non mettetevi davanti a quel vecchio computer senza avere in mente qualcosa. Ed evitate ai vostri lettori di dover leggere una scena in cui succede poco o niente.

    Numero Quattro: Sorprendetevi. Se potete portare la storia – o farvi portare dalla storia – in un luogo che vi stupisce, allora potrete stupire anche i vostri lettori. Perché se preparate troppo bene la vostra sorpresa ve ne accorgerete, e ci sono buone possibilità che se ne accorga anche il vostro sofisticato lettore.

    Numero Cinque: Quando siete bloccati, tornate indietro e leggete le scene precedenti. Cercate personaggi che avete lasciato da parte o particolari che potete riprendere come fossero delle pistole nascoste sotto il cuscino. Quando stavo finendo di scrivere “Fight Club” non avevo idea di cosa avrei fatto del palazzo dove si trova Tyler Durden, ma rileggendo le prime scene ho trovato quell’indicazione sul mescolare nitroglicerina e paraffina e farci dell’esplosivo al plastico. Al di là del commento che avevo fatto all’inizio del libro (“…la paraffina con me non funziona mai…”), quella era una “pistola nascosta” perfetta per salvarmi il culo.

    Numero Sei: Usate il fatto di essere uno scrittore come una scusa per organizzare una festa ogni settimana – anche se poi la festa la chiamate “incontro di lavoro”. Ogni volta che avete la possibilità di passare del tempo con persone che apprezzano il vostro lavoro vi rifarete delle ore che avete speso da soli, a scrivere. Anche se un giorno riuscirete a vendere i vostri scritti, non esiste cifra al mondo che vi ripagherà delle ore che avete passato da soli. Quindi prendetevi questa specie di “anticipo”, fate in modo che la scrittura sia una scusa per stare in mezzo alla gente. Quando sarete alla fine della vostra vita – credetemi – non sarà ai momenti passati da soli cui ripenserete.

    Numero Sette: Fate in modo di rimanere nell’Ignoranza. Questo è un consiglio che è passato attraverso centinaia di persone importanti, e da Tom Spanbauer è arrivato a me ed ora a voi. Più tempo permettete alla storia di prender forma, migliore sarà il risultato. Non affrettate le cose, e non forzate il finale di una storia. L’unica cosa che dovete conoscere è la scena successiva a quella che state scrivendo, o comunque le scene successive. Non avete bisogno di avere in mente ogni singolo risvolto dall’inizio alla fine. In effetti, se così fosse sarebbe un lavoro tremendamente noioso.

    Numero Otto: Se avete bisogno di maggior libertà con la vostra storia, versione dopo versione, cambiate i nomi ai personaggi. I personaggi non sono persone reali, non sono come voi. Cambiando i loro nomi in maniera arbitraria prenderete la distanza giusta per poterli torturare liberamente. O peggio, per cancellare totalmente un personaggio, se è questo ciò di cui la storia ha bisogno.

    Numero Nove: Ci sono tre tipi di dialogo – in realtà non so se questo è vero, ma l’ho sentito ad un seminario e mi sembrava avesse un senso. I tre tipi sono Descrittivo, Istruttivo ed Espressivo. Descrittivo: “Il sole splendeva alto…”, Istruttivo: “Cammina, non correre…”, Espressivo: “Ahia!”. La maggior parte degli scrittori ne usa soltanto uno – al massimo due. Voi cercate di usarli tutti e tre, mescolateli. È così che la gente parla.

    Numero Dieci: Scrivere il libro che vorreste leggere.

    Numero Undici: Fatevi fare la foto per la quarta di copertina adesso, quando siete giovani. E fatevi dare i negativi e i diritti della foto.

    Numero Dodici: Scrivere delle cose che veramente vi interessano. Sono queste le cose che vale la pena scrivere. Nel suo seminario intitolato “Scrivere pericolosamente”, Tom Spanbauer disse che la vita è una cosa troppo preziosa per sprecarla scrivendo storielle convenzionali e trame per le quali non abbiamo nessun interesse. Tom parlò di un sacco di cose, durante quel corso, ma io me ne ricordo appena la metà: l’arte della “manomissione”, cioè l’attenzione che ci vuole per far muovere il lettore da un momento all’altro della storia; e la “sotto convenzione”, che da quello che ho capito indica il messaggio nascosto al di sotto di una storia apparentemente ovvia.

    Numero Tredici: Un’altra storia sulle vetrine natalizie. Quasi ogni mattina faccio colazione nello stesso bar, e questa mattina un uomo stava dipingendo sulla vetrina le decorazioni natalizie. Finti pupazzi di neve, fiocchi di neve, campane, Babbo Natale. Se ne stava sul marciapiede gelato a dipingere, con il respiro visibile nel freddo ad alternarsi a colpi di pennello di questo o quel colore. All’interno del bar, i clienti e i camerieri lo guardavano spennellare di rosso, bianco e blu. Alle sue spalle, la pioggia ha cominciato a diventare neve. I suoi capelli erano grigi, e la sua faccia era piena di rughe e pieghe quanto il sedere dei suoi jeans. Tra un colore e l’altro, si fermava per bere da una tazza di plastica.
    Guardarlo dall’interno del bar, mangiando uova e toast, lo si sarebbe detto triste. Un cliente disse che probabilmente si trattava di un pittore fallito, e che probabilmente nella tazza di plastica c’era del whisky. Che probabilmente il suo appartamento era pieno di dipinti invenduti e che ormai era costretto a decorare vetrine per vivere. Una cosa triste, triste, triste.
    Il pittore continuava ad aggiungere colore su colore. Prima tutta la “neve” bianca, poi un po’ di rosso e di verde. Quindi alcuni bordi neri che diede ai colori la forma di alberi di Natale e di calze appese al camino. Un cameriere, camminando vicino alla vetrina per portare del caffè ai clienti, disse “è così bravo, vorrei saperlo fare anch’io…”. E che noi si invidi quell’uomo o che lo si compatisca, lui continuava a dipingere, aggiungendo un dettaglio dopo l’altro. E non saprei dire esattamente quando è successo, ma ad un certo punto lui se n’è andato. Le immagini che aveva disegnato erano così ricche da riempire benissimo la vetrina, i colori erano così brillanti che il pittore se n’era andato. Che fosse un fallito o un eroe. È semplicemente scomparso, andato, e l’unica cosa che noi potevamo vedere era il suo lavoro.

    Pubblicato 11 anni fa #
  17. certe volte, forse - e lo dico da ex fan - sarebbe stato meglio se Palahniuk non avesse vinto il blocco dello scrittore. Ultimamente, in particolare.

    TIFIAMO BLOCCO, CHUCK

    Pubblicato 11 anni fa #
  18. A.

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    Moderatore

    perché? dimmi dimmi, mi interessa il tuo giudizio

    Pubblicato 11 anni fa #
  19. A dixit: mo' ce la devi spiega'
    (sono seriamente incuriosito) [:?:]

    Oggetto: La nascita dell'acaro (scusate il ritardo)

    Per farla breve gli acari nascono divorando la propria madre dall'interno. Se la mangiano poco a poco. L'acaro nasce nutrito dalla madre nel senso letterale della parola. Non è finita. Il maschio neonato ha in genere solo sorelle. Cinque, sei. Le feconda tutte e muore. Riassumendo: l'acaro nasce mangiando la madre, si scopa le sorelle e muore. Le sorelle fecondate vivono con la condanna di venire in seguito divorate dai figli in una ruota dell'orrido senza fine.

    Pubblicato 11 anni fa #
  20. A.

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    Moderatore

    tu fumi canapa indiana, Fer?

    Pubblicato 11 anni fa #
  21. k

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    Membro

    No, no. Questo fuma canapa pontino-babilonese andata a male.

    Pubblicato 11 anni fa #
  22. Non lo sapevate? Informatevi sulle cocciniglie piuttosto. La natura riserva molte sorprese.

    Pubblicato 11 anni fa #
  23. A.

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    Moderatore

    comunque ho riletto, fer, sei veramente un genio

    Per farla breve gli acari nascono divorando la propria madre dall'interno. Se la mangiano poco a poco. L'acaro nasce nutrito dalla madre nel senso letterale della parola. Non è finita. Il maschio neonato ha in genere solo sorelle. Cinque, sei. Le feconda tutte e muore. Riassumendo: l'acaro nasce mangiando la madre, si scopa le sorelle e muore. Le sorelle fecondate vivono con la condanna di venire in seguito divorate dai figli in una ruota dell'orrido senza fine.

    Pubblicato 11 anni fa #
  24. k

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    Membro

    12 giugno 2013.
    Sono andato a votare per la cinquina dello Strega. Ho votato Aldo BUSI, El especialista de Barcelona, perché al di là del personaggio il testo è come sempre pregno di intuizione lirica. Di tutti i dodici libri in gara avevo comunque fatto - se non sempre una lettura completa - almeno un significativo e prolungato assaggio.
    Dopo quello di Busi, la mia personale classifica vedeva ai primi posti, in ordine alfabetico: Gaetano CAPPELLI, Romanzo irresistibile della mia vita vera; Matteo CELLINI, Cate, io; Paolo COGNETTI, Sofia si veste sempre di nero. In questa mia personalissima classifica, che avevo stilato per potermi orientare meglio nella scelta, i loro voti andavano da 7 a 7½ a 8.

    Nessuno dei quattro è però entrato in cinquina - pure Busi è fuori - mentre sono entrati alcuni che la mia valutazione fissava tra 4 e 4½. Poi dice de gustibus.

    Pubblicato 10 anni fa #
  25. A.

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    Moderatore

    Le regole dello scrivere bene secondo Umberto Eco
    Sabato, 09 Novembre 2013 16:55 Scritto da Enrico Tallarini
    Siccome ci teniamo a fare le cose per bene, e visto che il "saper scrivere" non passa mai di moda, abbiamo deciso di rispolverare queste 40 regole tratte dal libro di Umberto Eco "La Bustina di Minerva", edito da Bompiani nel 2000.

    Dateci un taglio con tutto il resto e cominciate da qui.

    Parola di Umberto Eco, che a proposito dice:

    "Ho trovato in internet una serie di istruzioni su come scrivere bene. Le faccio mie, con qualche variazione, perché penso che possano essere utili a molti, specie a coloro che frequentano le scuole di scrittura."

    1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

    2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

    3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

    4. Esprimiti siccome ti nutri.

    5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

    6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

    7. Stai attento a non fare... indigestione di puntini di sospensione.

    8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

    9. Non generalizzare mai.

    10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

    11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”

    12. I paragoni sono come le frasi fatte.

    13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

    14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

    15. Sii sempre più o meno specifico.

    16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

    17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

    18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

    19. Metti, le virgole, al posto giusto.

    20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

    21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso e! tacòn del buso.

    22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

    23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

    24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

    25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

    26. Non si apostrofa un'articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

    27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

    28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

    29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

    30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

    31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

    32. Cura puntiliosamente l’ortografia.

    33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

    34. Non andare troppo sovente a capo.
    Almeno, non quando non serve.

    35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

    36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

    37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

    38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competente cognitive del destinatario.

    39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

    40. Una frase compiuta deve avere.

    Pubblicato 10 anni fa #
  26. A.

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    Moderatore

    CULTURE
    Il decalogo del bravo scrittore
    Martedì, 6 aprile 2010 - 13:12:00
    Scrivere non è una vocazione, scrivere non è (e per fortuna) una professione. Scrivere è un mestiere, come mestiere è quello del ciabattino, dell’orologiaio o, appunto, del manovale che mette pietra su pietra, controllando continuamente (strenuamente) il filo a piombo sulla linearità del suo lavoro. Così, mentre la polemica contro un'editoria che permette sempre di più si fa sempre più acuta, Bruno Nacci, consulente per la narrativa delle Edizioni San Paolo offre il suo vademecum. Dieci punti, un decalogo (?) per chi vuole intraprendere la carriera dello scrittore.

    1. La scrittura non ha nulla a che vedere con la lettura, così come guidare un off-shore non ha niente a che vedere con il nuoto, anche se entrambe le attività si svolgono in mare.

    2. A nessuno verrebbe in mente, ignorando il pentagramma e non sapendo suonare alcuno strumento, di mettersi al piano e di eseguire l’ Hammerklavier di Beethoven. Molti si siedono al computer o alla macchina da scrivere e iniziano il capolavoro.

    2.1 Imparare a suonare il pianoforte non vuol dire diventare Arturo Benedetti Michelangeli, ma acquisire una tecnica che mette in grado di godere della musica in modo più intenso e consapevole, e si può correre con soddisfazione e profitto anche se non si va alle Olimpiadi.

    3. Costruire un racconto è come costruire una sedia.

    3.1 Prima di prendere un modello da imitare, chi vuole imparare a costruire una sedia deve conoscere le regole basilari della carpenteria.

    3.2 Prima di imitare una sedia Luigi XVIII, normalmente si esordisce con una umile sedia da mettere in chiesa o sul balcone di casa accanto al vaso di basilico.

    4. Si è mai chiesto a un falegname se costruendo sedie intende esprimere la sua concezione della vita? Oppure: che forma assumerebbe in una sedia la concezione della vita del falegname?

    5. Per prima cosa la sedia deve stare in piedi, per seconda cosa deve essere quanto più comoda possibile. La sua bellezza è un dato evanescente, mutevole, imprendibile e imprevedibile, storico, come quello mitologico della bellezza femminile (in una formidabile pagina di Nerval, viene descritto lo splendido doppio mento di una signora…), e che in ultima analisi non riguarda chi fa una sedia o chi scrive un poema.

    5.1 Qualcuno inizia fissando un dettagliato copione di quello che scriverà (i famosi 46 grandi fogli su cui Flaubert predispone ogni capitolo di Madame Bovary), altri naviga a vista senza sapere bene dove andrà a finire. In entrambi i casi la rotta va tracciata, in anticipo o durante la navigazione, perché in tutti i casi ci deve essere una rotta.

    5.2 Per rotta si intende che non basta un’idea, un sentimento, una vaga atmosfera, e tanto meno un’ispirazione o una profonda meditazione…. Il racconto si compone di personaggi, vicende, sfondi, e tutto deve stare insieme, comporre un mondo piccolo o grande che sia, ma un mondo visitabile e coerente, abitabile per tutta la durata della lettura.

    5.3 Un architetto potrà essere bizzarro o fantasioso finché si vuole ma non costruirà mai un palazzo senza scale o finestre, senza un tetto o un terrazzo di copertura, senza fondamenta.

    6. Chi scrive un racconto non può raccontare quello che vede o sente, ma deve rappresentare quello che vede, costruirlo, che è molto più difficile e serve tra l’altro per riflettere sulla propria capacità di vedere (quando il procuratore nel racconto di Kafka vede Gregor tramutato in insetto sono le sue labbra sporgenti – aufgeworfenen Lippen-, protese come un grido inespresso, che caratterizzano il suo sconcerto. Kafka avrebbe potuto semplicemente scrivere: Fu preso dal terrore. Ma allora non sarebbe stato Kafka e noi non ce ne ricorderemmo).

    6.1 La prima domanda di chi scrive è: sono capace di descrivere la mia camera? La seconda: sono capace di descriverla in modo che chi legge non si annoi o non pensi a un pieghevole di un’agenzia immobiliare?

    6.2 Uno scrittore vero non discute mai le impressioni che gli altri provano leggendo quello che ha scritto (dopo un lavoro durato anni, e dopo un giorno e mezzo di lettura, alla reazione drasticamente negativa degli amici, Flaubert accantona il suo progetto – La tentation de saint Antoine – senza dire una parola), perché quello che ha fatto è un lavoro, un’opera socialmente utile, non una proiezione del proprio desiderio di essere lodato.

    7. Il racconto si svolge necessariamente nel tempo (dal fatto che la pellicola cinematografica è costituita da fotogrammi, il nouveau roman ha erroneamente dedotto che l’essenza del cinema è la fotografia. In ossequio a questo principio Claude Simon ha potuto impiegare una decina di pagine per descrivere un piccione sul davanzale della sua finestra… che ancora è lì e aspetta una mano pietosa che lo faccia volare via. Ma Brodkey ne impiegherà quaranta per farci assistere, estasiati, a una fellatio in Storie in modo quasi classico) e dunque chi scrive deve misurare attentamente la relazione tra il tempo della scrittura, il tempo narrato e il tempo della lettura: quasi mai i tre tempi coincidono. A volte sono necessarie più parole per descrivere un’azione, perché una descrizione più sintetica ha l’effetto di un movimento accelerato, ridicolo, anche se il significato è lo stesso. A volte il contrario. Se Pierino è a letto con Pierina e suona il cellulare, posso certamente scrivere: «Rispose immediatamente». Ma se voglio suggerire che rispondere è per lui faticoso o penoso in quel momento dovrò dire qualcosa come: «Guardò prima il cellulare che suonava sul comodino, poi allungò una mano, lo sentì vibrare e finalmente si decise a rispondere». Quello che non devo fare è scrivere: «Non aveva voglia di rispondere ma prese ugualmente la telefonata». Perché? Perché in questo modo ho tolto al lettore la rappresentazione, l’ho informato su un fatto, che è quello che l’arte non dovrebbe mai fare, perché molte altre forme espressive, compreso il linguaggio comune, lo fanno già meglio.

    8. Chi scrive non deve mai innamorarsi di un’idea. Il manoscritto dell’Infinito di Leopardi mostra soluzioni del tutto diverse via via scartate, perché quello che stava cercando era una forma compiuta e autosufficiente, non l’espressione di un sentimento. Non è il racconto che deve adeguarsi a ciò che voglio dire, ma ciò che voglio dire che deve adeguarsi al racconto. Questo è l’ostacolo più grande per chi inizia a scrivere, motivo per cui, almeno all’inizio, è meglio scrivere di cose che non interessano minimamente (il sogno di Flaubert: scrivere un romanzo su niente). Diceva Cardarelli: Ispirazione per me è indifferenza. | Poesia: salute e impassibilità. Si può essere appassionati lettori, e anche lettori ingenui, ma questo è proibito quando si scrive.

    8.1 Prima di scrivere un romanzo, cimentarsi in un romanzo o in un racconto di genere, perché lì le regole della retorica sono meglio definite (la retorica intesa come mediazione, luogo d’incontro tra le aspettative di chi legge e il mestiere di chi scrive) e si corrono meno rischi di naufragare nell’indefinito, lì s’impara il mestiere e ci si mette alla prova. Non è più facile scrivere un buon giallo o un racconto di fantascienza, ma richiede una stretta osservanza, un controllo sulla scrittura che educa alla disciplina letteraria.

    9. Chi ama la gloria e scrive per la gloria può ricordarsi che tra un miliardo di anni (se non succede niente prima) il sole avrà reso irriconoscibile l’intero sistema solare, oppure, come diceva quel tale, può trascorrere le sue giornate prendendo a schiaffi i tutti i bambini che incontra, si sarà procurato così una posterità che non lo dimenticherà mai. Meglio scrivere per soldi. Meglio ancora per il piacere di scrivere e d’imparare a scrivere.

    10. A volte anche i mediocri scrittori o i dilettanti hanno un’idea fulminante, come quell’amico che voleva iniziare un romanzo così: «La bambina, grazie a dio, era morta». Incipit splendido, ma come andare avanti? Una frase può suggerire un romanzo, può trascinarlo con sé meglio di una teoria o di un farraginoso schema morale (voglio scrivere sulla incomunicabilità della società, sulla povertà, sul potere, sul sesso, sulla vita di un artista ecc.), ma è solo un mattone. La fatica di mettere uno sull’altro migliaia di mattoni, di controllare continuamente il filo a piombo, di preparare la malta, di segare le assi ecc., questo è il duro lavoro dello scrittore, e a volte viene da chiedersi: chi glielo fa fare? Il contenuto e la forma di un romanzo o di un racconto sono inclassificabili e imprevedibili, si va dall’azione pura di Un manoscritto trovato a Saragozza di Potocki, all’Uomo senza qualità di Musil. Ma tutti hanno in comune la costruzione. Niente dovrebbe appassionare uno scrittore più della costruzione, non la lingua (con buona pace dei linguisti, che come i becchini vengono a esequie avvenute e mettono la cassa sotto terra), non il bello scrivere, non la bravura, non la cultura, ma la semplice costruzione. Infatti il lettore si innamora dei personaggi, si appassiona a quello che accade, patisce, spera o soffre, attende con ansia la pagina successiva. Oppure smette alla prima pagina. La magia della scrittura narrativa è tutta qui. Il resto, come direbbe il generale Patton, sono balle.

    da Samgha, la comunità dei lettori online

    Pubblicato 10 anni fa #
  27. A.

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    Pubblicato 10 anni fa #
  28. k

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    Bello, grazie. Niente da aggiungere od eccepire.

    Pubblicato 10 anni fa #
  29. A.

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    Trollope scrive nella sua “Autobiografia” che ogni giorno si alzava con il buio e scriveva dalle 5:30 alle 8:30 con l’orologio davanti agli occhi. Si era imposto una quota: 250 parole ogni quarto d’ora. E se finiva un romanzo prima delle 8:30, prendeva un foglio bianco e ne iniziava uno nuovo.

    Dopo la sessione di scrittura cominciava una giornata di lavoro all’Ufficio Postale. Poi, diceva, andava a caccia almeno due volte alla settimana. Osservando questa dieta, riuscì a produrre 49 romanzi in 39 anni. L’efficacia di questo metodo lo persuase a raccomandarlo a tutti gli scrittori: “Che affrontino il loro lavoro come gli impiegati e gli operai affrontano il loro lavoro di impiegati e operai. Non avranno bisogno di sforzi sovrumani. Non dovranno legarsi stracci bagnati attorno alla fronte o rimanere seduti trenta ore al tavolo senza muoversi – come alcuni hanno fatto o dicono di aver fatto.”

    Se questo consiglio fosse stato elargito nel 1850, sarebbe stato accettato con gratitudine. Ma l’autobiografia di Trollope fu pubblicata nel 1883, l’anno della sua morte. Ormai la concezione romantica della scrittura si era diffusa nel pubblico. Ora molti lettori credevano che la letteratura fosse prodotta da persone acute e infelici che non andavano a caccia, e a questo tipo di platea le raccomandazioni di Trollope suonavano vuote e sciocche.

    — Joan Acocella, Why Do Writers Stop Writing
    The New Yorker 14/6/2004

    Pubblicato 9 anni fa #
  30. A.

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    La tendenza della narrativa contemporane, non per caso presente nel sottotitolo del Camerata Neandertal, è la autobiografia. Soprattutto ( ma questo non è il caso di Neandertal) l'auto fiction.

    Allego qui una intervista a una teorica di questo fenomeno letterario.

    ( proprio io fatto che anonima sia morta, può finalemnte aprire lo spazio alla riflessione narratologia ed estetica. Cosa che è sempre stata un po' latente , con sta fregola di scriver libri, di dirsi scrittori senza prima aver studiato. Cosa che Graziano ha capito laureandosi. )
    A.

    Mercoledì, 15 Gennaio 2014 09:18
    Sull'autofiction - Intervista a Isabelle Grell
    Scritto da Super User
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    poliakoff2di Giusi Alessandra Falco

    Isabelle Grell è una studiosa di letteratura e specialista di autofiction.

    Membro dell'équipe "Sartre" (ITEM-ENS, CNRS, Paris) e responsabile della collana "Le livre – La vie" presso la casa editrice Cécile Defaut, la Grelle co-dirige il sito http://autofiction.org, creato nel 2003 con l'obiettivo di approfondire lo studio di questa pratica letteraria. La nostra conversazione con lei si pone l'obiettivo di contribuire al dibattito sull'autofiction.

    1. Qual è la sua definizione di autofiction?
    Se dovessi formulare una definizione semplice, molto semplice, dell'autofiction, direi che è un racconto connotato da uno stile, socialmente riconoscibile e impegnato, interamente riconosciuto da un IO che è l'autore. Racconto, per evitare il termine del romanzo o di autobiografia, connotato da uno stile, perché è proprio lo stile, la sottile musica poetica che ogni autore percepisce quando scrive, che distingue l'autofiction dall'autobiografia classica, che si inscrive piuttosto nella cronaca di una vita. Socialmente riconoscibile e impegnata, perché in una autofiction non viene riportato il racconto di tutta la vita del protagonista, ma solo di una parte, che è "in situazione", se si vuole riprendere l'espressione di Sartre. Infine, "interamente riconosciuta da un IO", poiché lo scrittore porta lo stesso nome del narratore e ne assume la responsabilità fino a doversi difendere davanti alla legge, come abbiamo visto negli ultimi tempi, o a dover mettere a rischio la propria vita – penso, a questo proposito, a Abdellah Taïa, che potrebbe essere perseguito penalmente per crimine di omosessualità, in Marocco.

    2. I lettori confondono spesso l'autofiction con l'autobiografia: quali sono le differenze fondamentali tra queste due forme di scrittura?
    Come ho appena spiegato, un'autobiografia, per quanto possa essere scritta in modo straordinario, viene redatta, nella maggior parte dei casi, in maniera teleologica. Un determinato Essere scrive la sua vita, nella sua totalità e non per sezioni – non parlo di sezioni di vita cronologiche, i memorialisti redigono spesso le memorie in più tomi, per fasce di età o di periodi storici – ma di sezioni di vita separate, strappate alla vita vista come un intero. Nell'autofiction, l'autore estrae un filo dal tessuto che è la sua vita e, più che tagliarlo, lo segue, lo taglia, lo riattacca, lo sfilaccia, lo riannoda. Non tenta di mostrare al lettore, attraverso il racconto, un cappotto fatto del tempo passato, un abito che veste tutta la persona. L'autore di autofiction mostra allo sguardo di chi lo tiene tra le mani sotto forma di libro, soltanto una quadro generale, volontariamente, e non solo inconsciamente, alleggerita, consapevole del fatto che non potrà dire tutto di se stesso, poiché c'è stato di mezzo Freud, e poiché non arde dal desiderio di raccontarsi tutto, di raccontare tutto di sé, o, semplicemente, di raccontare tutto. L'autore di autofiction è un cacciatore. Di se stesso, ma anche - e questo vale soprattutto nei casi migliori - un un cacciatore dell'altro, che lo fa esistere.

    3. Potrebbe citare gli autori a suo avviso più significativi dell'autofiction?
    Serge Doubrovsky, Hervé Guibert, Camille Laurens, Philippe Forest, Annie Ernaux (anche se lei lo nega: la sua "socio-biografia", come lei la definisce, è una sorta di autofiction caratterizzata dalla divisione in parti, dallo sfilacciamento del tempo raccontato), Chloé Delaume, Dustan, certamente la Duras – oh, e ne dimentico molti!! Questi scrittori, in Francia, sono per me i più grandi, quelli maggiormente rappresentativi. Ma vorrei tanto aggiungervi Claire Legendre e Thomas Clerc, ultimamente i testi molto gradevoli di Monika Sabolo, la formidabile Catherine Millet e anche Hubert Lucot, il matematico degli autori di autofiction, Matzneff e Violette Leduc, impareggiabili, la Angot, chiaramente, Emmanuel Carrère, Catherine Cusset, i testi di Pajak, accompagnati dai disegni di Lea Lund, Yves Charnet. Poi, negli altri Paesi, ci sono grandi autori come Coetzee, Paul Auster, Philip Roth e altri per le Americhe, Abdellah Taïa, Leïla Sebbar, Assja Djebar, Nina Bouraoui, Maissa Bey per gli autori "sradicati" dell'Africa del nord o del sud, ma anche Alain Mabanckou e Laferrière per le Antille. In Brasile, ci sono Paolo Lins o Fernando Gaba, in Giappone, non si possono non citare Kenzaburô Oé e Tsushima, in Cina, Mian-Mian e Weihui. In Spagna, Vallejo, Borges, Unanumo, Villa-Matas. Nei Paesi germanofoni, non si possono ignorare scrittori come Martin Walser, alcuni eredi di Kafka, Thomas Bernhardt, Christa Wolf, Herta Müller, Paul Nizon. Si potrebbe continuare ad elencare autori per ore, ma, questa è la mia selezione più restrittiva, e dunque molto discutibile... Poi ci sono il fumetto, (Fred Neidhardt, Frédéric Boilet, Miss Tic, Ulli Lust...), i libri illustrati (l'autore più sorprendente è Jean-Pierre Marquet, col suo volume Autofictions) o le autofiction poetiche come Stilnox di Sylvain Courtoux, così come alcuni fumetti erotici come quelli di Aurelia Aurita o le performance poetiche, di difficile accesso, ma godibili, di Sandra Moussempes o di Chloé Delaume.

    4. In quali esperienze letterarie è possibile riconoscere le basi teoriche dell'autofiction?
    Oh, il termine autofiction è nato dalla penna di un professore universitario, che aveva come collega Robbe-Grillet, che frequentava Barthes, che aveva diretto convegni con Todorov, che aveva scritto i suoi primi articoli sulla Sarraute e su altri autori del Nouveau Roman. L'influenza strutturalista, il fatto che l'autore sia stato "condannato a morte", d'altronde, condannato e poi resuscitato da quegli stessi critici (La Chambre claire o Roland Barthes par Roland Barthes, il ciclo della Nouvelle Autobiographie di Robbe-Grillet ecc, già parlano da sole), ha avuto la sua parte nell'invenzione del termine da parte di Serge Doubrovsky. E, ovviamente, la psicanalisi. Cos'altro è, se non autofiction, l'Interpretazione dei sogni di Freud?

    5. Quali sono le più recenti tendenze estetiche dell'autofiction?
    L'autofiction mondiale si individualizza, si emancipa, rispetto all'autofiction francese, è evidente. Esiste anche un'altra tendenza, quella di integrare altri elementi, oltre alla scrittura, di partire da fotografie, di integrare anche l'arte nella scrittura, la musica. Di non partire unicamente dalla famiglia, dalla terra, dal Paese, ma di realizzarsi in quanto progetto artistico completo, il che permette una mise en abyme ancora più profonda di quella che ci offrivano le prime autofiction impegnate nella vita. Si vedono sempre più artisti non scrittori "autofictionalizzarsi" nella pittura, nella fotografia, nella scultura, nel cinema, nel teatro.

    6. È possibile ritrovare forme di autofiction in alcuni generi letterari del passato, come, per esempio, i diari, le memorie, le ricordanze?
    Terreno vasto. Ein weites Feld, direbbe il padre di Effie Briest. Per rispondere, occorre coinvolgere la critica genetica. I diari, anche ripuliti, rivisti, corretti, sono una cronaca scritta giorno per giorno, seguendo il tempo che passa. I diari possono diventare autofiction se perdono la loro forma di cronaca quotidiana e si integrano in un racconto assunto da un IO, che si pone l'obiettivo non di far seguire al lettore una sequenza cronologica, ma dalla quale scaturiscono uno o due fili che rappresentano il tempo nel quale l'IO si muove. Le memorie sono radicalmente opposte all'autofiction. Già il termine "memoria" insinua che si possa ricordare la propria vita e che, dunque, essa sia già, per la maggior parte, passata. Nell'autofiction, al contrario, si reinventa la vita in ogni momento, in ogni frase detta, in ogni immagine estratta dalla memoria, scelta per tal ragione o per talaltra, ed è a partire da questo, da questo riflesso, da questa corda, da questo filo della reinvenzione della propria vita, che partono gli autori di autofiction.

    7. Quale valore artistico è possibile attribuire ad un'auto-narrazione fondata su dati reali, senza mediazione?
    Non posso né voglio pronunciarmi su un qualunque "valore artistico", che si tratti di quello di un'arte praticata da scrittori, pittori o altri artisti. Sarebbe pretenzioso credere di poter attribuire un valore certo agli uni, e privarne gli altri. Ciò che posso dire, per contro, è che SEMPRE c'è una mediazione del reale, poiché solo il fatto di prendere una penna bic o di digitare su una tastiera, necessita, ipso facto, di un passaggio da qualcosa che è altro rispetto alla "pura realtà". È giustamente questo passaggio attraverso uno strumento di mediazione – la penna, la scrittura, la tastiera, la carta – che ordina già una selezione dei "dati reali". Il linguaggio è sempre più decisivo, il linguaggio che inserisce la vita in uno stile, in una musica, che fa sì che l'autore si distingua

    Pubblicato 9 anni fa #

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