Come avevo promesso. Ho riordinato le idee.
CANALE MUSSOLINI E I CHIERICI VAGANTI.
Berardinelli, Baricco e la minaccia della letteratura 'volgare'.
Ad ogni presentazione di Canale Mussolini a cui ho assistito, Antonio Pennacchi ha sempre sostenuto che la sua scrittura è “simile al parlato”. Nel libro emergerebbe la lingua “dei suoi compagni, della fabbrica e del bar”. Non è l'italiano letterario standard, il toscano colto tanto per intenderci. Proprio quello che si è inventato Manzoni, nel 1840, quando andò a “sciacquare in Arno” i panni dei Promessi Sposi e che poi è diventato l'italiano insegnato in tutte le scuole perché lui e il ministro Broglio erano pappa e ciccia. Lo stesso italiano che il linguista Graziadio Isaia Ascoli ha definito non essere mai esistito. Il linguaggio di Pennacchi è semplice, poetico, s'innalza e s'abbassa in base alle circostanze della narrazione. E' strutturato in base a modelli letterari classici che ordinano il magma del parlato e lo trasferiscono senza sbavature sulla pagina. Il testo risulta scorrevole dall'inizio alla fine, con una musicalità determinata dai numerosi endecasillabi sparsi qua e là. Casuale? Manco per niente. Parola per parola, s'avverte la mano del cesellatore. Mica è la trascrizione di un dialogo o di un monologo. Più di qualcuno ha provato a disprezzare l'opera, e la vetta l'ha raggiunta un editore – mi pare sia stato Fazi – parlando di utilizzo dello slang, veneto-pontino per la precisione. Un termine più sparato per impressionare il lettore che per dare un senso alle proprie critiche. Proprio in quanto slang o gergo o argot (in francese), avremmo dovuto assistere a mutamenti semantici, a specificità terminologiche che non avvengono e che non ci sono. E' un parlato strutturato, ma forse in Italia abbiamo dimenticato cosa significhi.
Il toscano parlato non è altro che una lingua volgare che, nel XVI secolo, si è deciso di elevare a lingua letteraria per eccellenza. Petrarca su tutti, seguito a distanza da Boccaccio con Dante ultimo classificato con ignominia. Ma come è nato il toscano? Dicono i linguisti che alla fine dell'Impero romano è sembrata evidente la tendenza a parlare un latino diverso zona per zona, a seconda delle abitudini delle singole comunità o in base ai substrati (tipo l'osco nelle zone centrali dell'Italia, su tutte l'Umbria). Una tendenza che s'è andata accentuando anche in base alle continue invasioni a sud, nord, est e ovest che la Penisola ha subito senza soluzione di continuità. Da centro dell'Impero a groviera il passo è stato breve. Ognuno parlava a modo suo, sembrava di stare a Babilonia. E non che i parlanti avessero coscienza di questo. Ludovico il Pio e Sant'Agostino erano convinti tutti e due, a secoli di distanza e in due posti diametralmente opposti dell'ex Impero Romano, di parlare lo stesso latino di Cicerone. Eppure non era così. Nemmeno se si mettevano a scrivere, lo facevano più come prima. Già nell'813, al concilio di Tours, la Chiesa si rese conto che il popolo dei fedeli recitava le preghiere a pappagallo, storpiandone le parole, senza comprendere i testi. “Figurati alle omelie” avrà detto qualche vescovo, alzandosi e facendo riflettere tutti i suoi colleghi. “Vabbè, le prediche facciamole in volgare” hanno deciso tutti insieme, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutta la Ecclesia.
Sempre i linguisti parlano di situazione diglottica totale, prima della definitiva affermazione dei volgari. Da un lato c'era la lingua ufficiale, quella dei documenti e delle opere letterarie, e poi c'era il volgare che veniva parlato tutti i giorni. I commercianti, quando dovevano tenere un promemoria per quello che s'erano comprati o per quello che gli era stato ordinato, lo scrivevano in quella che era diventata la loro lingua madre. Pure i preti – mica erano tutti preparati allo stesso modo – s'erano organizzati coi glossari. “Quando trovate scritto nefas o crimen, sempre di peccato si tratta”. E pure a scuola, i maestri, continuavano a ripetere che si scriveva OCULUS e non OCLUS. Matita rossa e matita blu a rotta di collo. A fare la parte di chi le sapeva tutte c'erano i chierici, quelli studiati, asserragliati in monasteri mastodontici, da cui iniziavano a dominare le valli sottostanti. Copiavano opere su opere, scartando – e facendo perdere per sempre – tante satire, parecchia letteratura erotica e tutti quegli autori che non erano giudicati abbastanza bravi da essere perpetuati. Però quando andavano dal giudice, probabilmente parlavano pure loro il dialetto e lo facevano trascrivere pure. “Sao ko kelle terre...” chi non se lo ricorda? Per prendersi un pezzo di terra in più, sottraendolo al signorotto laico locale, avrebbero parlato pure la lingua del diavolo.
Ad un certo punto, però, col Convivio, Dante spariglia.
“Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura dipinta, è inclinabile a la sua propria perfezione […]. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito di scienza. [...]”
Qual'è l'impedimento si capisce subito dopo, perché Dante lo dice chiaramente: “lo latino”. Lo sanno solo i letterati, ma i non-letterati che hanno voglia di sapere? Dice: “lo potrebbero capire i letterati di altre lingue, i tedeschi ad esempio o gli inglesi”. Si, ma pure lì, in Germania e Inghilterra, in proporzione, questi letterati quanti sono? Alla domanda che faceva Dante, si stentò per parecchio tempo a trovare una risposta. I chierici facevano finta di non capire.
Sempre Dante:
“Ché la bontà de l'animo è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non letterati”
C'è tanta gente, dice l'Alighieri, perché dobbiamo rivolgerci necessariamente ai soliti noti che stanno lì solo per farci i soldi alla facciaccia nostra? Poi uno si chiede perché sono dovuti passare quasi cinque secoli prima che a qualcuno dei chierici venisse in mente di dire: “bravo sto Dante”. L'odio era ancora forte, viscerale. Si sentivano massacrati da sto nasone fiorentino e il peggior dispetto che gli potevano fare era non considerarlo. Sia in vita che da morto. Lui era stato costretto a scappare in ogni dove, Petrarca invece dovunque andava trovava sempre qualcuno disposto a dargli un Laurea. Dante aveva avuto il torto di riconoscere una verità sotto gli occhi di tutti, una verità che era uscita fuori dalle altre parti – in Francia, in particolare in Provenza con i trovatori e la lirica cortese – e che in Italia non si riusciva più a contenere visto che già in Sicilia, alla corte di Federico, a qualcuno era venuto in mente di fare poesie in lingua volgare. La lingua, ormai e con buona pace di tutti, era un'altra. Al latino potevano essere lasciate altre sfere del sapere – la medicina e la giurisprudenza ad esempio – ma la letteratura, quella che doveva far sognare, che doveva far ridere e piangere, non poteva essere scritta in una lingua morta. Doveva essere scritta in volgare. Affinché tutti – rivoluzionario il nostro Dante – potessero usufruirne. “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”. Mica cazzi. Però c'era chi resisteva, chi diceva “mannò, guardate che vi sbagliate, ma che andate facendo”. Erano i chierici. Che cedettero solo quando iniziarono a capire che quelli che potevano copiare, latino o volgare che fosse l'opera, erano comunque e sempre loro. Semplice tutela degli interessi a rischio, oggi come allora.
Dire che l'italiano letterario – quello dei capolavori e delle grandi opere – è ben diverso dal parlato, non è un'eresia. La differenza non è forse quella che c'era allora tra latino e volgare, ma ci va molto vicina. Scriviamo in un modo, pensiamo e parliamo in un altro. Siamo più diretti, non facciamo troppi giri di parole, abbiamo modificato le espressioni, i modi di costruzione delle frasi, anche i modi di dire o i proverbi. I gerghi ormai sono generalizzati, i prestiti dalle altre lingue quasi non si riesce più a contarli tutti. Basti pensare alla differenza del mondo in cui viviamo: Manzoni andava in giro a piedi, noi voliamo da un continente all'altro; lui doveva consegnare i suoi manoscritti agli editori, adesso Pennacchi glieli invia via email. Noi non è che non scriviamo come Manzoni – ma nemmeno come D'Annunzio, Pirandello, Moravia e i tanti altri che vi vengono in mente – noi pensiamo, viviamo, respiriamo, parliamo e scriviamo in maniera completamente differente. Siamo andati avanti, ringraziando Iddio. Il mondo è un posto più piacevole di prima e c'è più gente che ha tempo, soldi e istruzione per potersi godere un libro.
C'è anche chi non è d'accordo. Berardinelli, in un articolo recente sul Corriere della Sera, diceva pubblicamente, rivolgendosi ai suoi colleghi: “ma l'avete visti quanti libri escono all'anno? Come si può anche solo pensare di leggerli tutti?”. Altri sostenevano che il romanzo è ucciso dal mercato. Altri ancora, invece, pensano che siano i romanzi che ad uccidere il mercato. Non c'è nessuna novità sconvolgente. Nessuno minaccia nessun altro. Siamo solo in presenza del normale evolversi delle cose.
Perché se Dante diceva “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, ho l'impressione che non intendesse proprio tutti tutti. E credo che, dopo lui, tutti l'hanno pensato – ma pure prima, visto che l'espressione è di Aristotele – ma ogni volta mancava qualcuno all'appello. “Leggo anch'io?”, “No, tu no” si sentivano dire tutte le classi sociali più deboli. Poi sono arrivati Marx, Lenin e Mao Tse Tung e il termine 'tutti' ha assunto un significato diverso: quello di oggi. Chiaro che se uno si mette a leggere, anche solo Topolino, poi gli viene in mente una storia e la vuole scrivere. All'epoca di Dante non sapeva come fare, al massimo la raccontava in giro col rischio che se qualcuno la sentiva poteva fregargliela tranquillamente. “Immagina se mi ritrovo all'Inferno, ma mica perché so' morto, solo per fare un viaggio a vede' tutti quegli zozzoni che stavano a Firenze fino a poco tempo fa” potrebbe aver detto qualcuno, in una taverna. E Dante: “Racconta, racconta” sforzandosi di tenere tutto a mente. Oggi, con l'alfabetizzazione – o la semialfabetizzazione, come dicono i chierici – se a uno gli viene in mente una storia, la butta giù e scrive. E poi, col benessere, si segna gli indirizzi delle case editrici, compra un bel po' di francobolli e spedisce una copia – già impaginata – del suo romanzo ad ogni possibile editore.
Se vogliamo dare al tutto un accezione negativa, potremmo dire che è il prezzo della democrazia e dei diritti. “Che ci vuoi fare Bernarde'?”. Se a leggere eravate solo in 10, come ci campavi da critico? Chi ti poteva dare retta? Ti saresti dovuto sbattere, così come ha fatto Boccaccio per tutta la sua vita, a cercare un protettore, un signorotto che ti dava da campare e da lavorare. “Scrivi quanto sono bello e forte”. E tu giù a scrivere. “Adesso fammi una favola” e tu giù a inventare una favola. Pregando Iddio che non ti chiedesse nient'altro. E invece oggi ti metti a pontificare sul Corriere – che, nonostante si dica che i giornali non vendono più, il suo milione di copie lo piazza ugualmente, come Repubblica – e poi va a finire pure che ti legge uno stronzo come me. E che loro ti pagano profumatamente, cosa più importante.
Ci dev'essere qualche altro motivo, se ogni anno ci tenete tanto a fare lo stato dell'arte della Letteratura Italiana. L'ho capito dopo tante peripezie. Si tratta della conservazione della vostra specie. State nel castello e buttate pece e olio bollente in quantità, affinché a nessuno venga in mente di assediarlo. Per capire la consistenza della minaccia, basta fare un conto della serva. Su un milione di persone che legge, 500 mila saranno quelli che scrivono pure, 100 mila saranno quelli che lo fanno bene, 50 mila saranno quelli che hanno uno spirito critico, 25 mila saranno quelli che sarebbero in grado di scrivere un saggio, 12 mila quelli che lo scriverebbero bene, 6 mila quelli che magari lo scriverebbero pure meglio di voi. 6 ogni mille. 6000 ogni milione. Pochi in proporzione alla popolazione dei lettori, tantissimi se valutati in valore assoluto. “Fermare con pece e olio bollente, come se piovesse”. L'ordine categorico si materializza.
Quando arriva uno che viene dalla fabbrica, che ha studiato e che s'è impegnato parecchio per recuperare il tempo passato in gioventù a fare altro, che magari ha pure il dono della scrittura e che sa raccontare le storie - che s'inventa uno stile tutto suo, per giunta nuovo e innovativo, dove il suo parlato, quello dei suoi compagni, della fabbrica e dei bar, entra di diritto nella storia della letteratura italiana – allora è chiaro che sembra si stia aprendo un pertugio. Come a Porta Pia. Le mura vacillano, l'olio e la pece sembrano non far più paura a nessuno, non c'è tempo di prendere la roba e scappare. E allora si tira fuori la storia che il romanzo è finito, che la scrittura non è corretta e ordinata, che la forza è nella casa editrice e non nella scrittura.
Eppure Canale Mussolini è forse la prima dimostrazione organica e letteraria di come la lingua scritta stia cambiando, di come dal magma di un parlato ormai sedimentato da decenni, si sia levata questa struttura quadrata, letterariamente valida, pensata fino al dettaglio.
Baricco è ottimista quando indica il 2026 come data di vittoria dei barbari. In realtà hanno già vinto. E lui non sta dalla loro/nostra parte.