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Discussioni di teoria letteraria

(67 articoli)
  1. A

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    Allego, tratto qui
    Il feticcio del romanzo

    Si ripropone l’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il 30 agosto col titolo Se il romanzo è un feticcio. Del letterato è rimasto il fantasma di un prestigio sociale, in cerca esso stesso di conferma. Alla forma-romanzo è dedicata gran parte della produzione saggistica di Cordelli – raccolta al momento in quattro libri: Partenze eroiche (Lerici 1980), La democrazia magica (Einaudi 1997) e il dittico La religione del romanzo (volume dedicato ai romanzieri stranieri, Le Lettere 2002) e Lontano dal romanzo (sul contrastato rapporto, con la forma romanzo, degli scrittori italiani; ivi 2002). Disperso resta invece lo sterminato repertorio a tema teatrale (migliaia di recensioni e saggi pubblicati dalla fine degli anni Sessanta ad oggi).

    di Franco Cordelli

    Due o tre note in margine alla discussione sullo stato attuale della letteratura prodotta dai meno che quarantenni. Penso a due articoli, uno di Nicola Lagioia e uno di Alessandro Piperno, questo secondo non già un «intervento» ma pur sempre una più o meno deliberata dichiarazione di poetica. A sé e ai suoi coetanei Lagioia rivendica il compito di restituire dignità ad un’Italia politicamente e moralmente devastata. Per ogni letteratura un senz’altro nobile e auspicabile proposito, ma comunque, nel quadro da lui delineato, una mera sollecitazione nei confronti di eventuali contenuti, ossia una gabbia. Nelle parole di Lagioia si coglie un’idea di romanzo che confina con l’indagine sociologica. Allora ci si chiede: cosa dividerà, sul piano della scrittura, la sociologia dalla letteratura, ovvero dalla poesia? A questa altezza entrano in gioco due parole chiave corse nella discussione: letterato e stile. La parola letterato, ormai impronunciabile, l’ho introdotta io stesso, con una punta di provocazione (quale scrittore non fu un letterato?). La riprende Piperno con evidente insofferenza, rilevando una moralistica demonizzazione dell’idea di felicità da quando i «letterati hanno spostato la loro austera attenzione su sediziosità sociologiche, miserabili constatazioni strutturali, facinorose dispute politiche». Qui siamo agli antipodi di Lagioia. Ma, in modo implicitamente generazionale, entrambi appaiono «uniti nella lotta», nei confronti di veri e propri feticci. Insomma, mi sembra riduttivo credere che il tema della felicità sia appannaggio di alcuni romanzieri, quelli citati da Piperno, ovviamente moderni. Di cosa parlava Platone nel Simposio? E di cosa Seneca nelle Lettere a Lucilio e Rabelais nel suo Gargantua? E poi: quelle che Piperno chiama «constatazioni» strutturali, addirittura miserabili, sono gli unici, veri rilievi degni di un’analisi critica per qualsivoglia opera. Il significato (il senso, il sentimento, la postura reale e inconfondibile di un autore, la possibilità dell’identificazione, tanto cara ai lettori trentenni, infine l’emozione che scaturisce dalla comparsa in scena della felicità ma anche del malessere) nasce dalla forma peculiare di un testo, non da ciò che esso dice, o in modo più o meno diretto ritiene di dire. In questo contesto di discorso rientra la disputa politica: uno scrittore che non abbia della comunità idea o sentimento, sia pure negato, che razza di scrittore è? Già san Francesco, nel suo Cantico, prefigurava una comunità – quella tra tutte le creature e Dio. Da ultimo la questione dello stile. Certo, se si nutre un’idea «autenticista», che quindi il letterato sia un individuo separato dalla vita vera, la parola stile apparirà come bello scrivere e non c’è dubbio che lo stile per lo stile è retorica, manierismo, risibile produzione di effetti locali. Scriveva Roland Barthes nel Grado zero della scrittura (1953): «Le immagini, il lessico, il periodare di uno scrittore nascono dalla sua natura fisica e dal suo passato e diventano gradualmente le stesse componenti automatiche della sua arte (…). Qualunque sia il suo grado di raffinatezza lo stile ha sempre qualcosa di bruto, è una forma senza uno scopo, il prodotto di una sollecitazione non di una intenzione». Ma poco dopo aggiunge: «Ogni forma è anche Valore; per questo tra lingua e stile c’è posto per un’ altra realtà formale: la scrittura. In qualsiasi forma letteraria è richiesta la scelta generale di un tono, di un ethos se si vuole: ed è appunto dove lo scrittore si individua con chiarezza perché è dove si impegna». Il vero stile dunque è là dove si manifesta come scrittura, cioè assunzione di responsabilità – nei confronti di se stessi e dei propri temi e contenuti. Là dove esso è congruo all’oggetto: là appare ciò che in un altro intervento chiamavo potenza, un aspetto della quale è il suo (apparente) opposto, la sottigliezza. Sono qualità che, io credo, si vanno diluendo in ragione delle cattive intenzioni che le precedono, un’altra delle quali, corollario ed effetto delle prime, è la perdita di memoria – del luogo dove si è, o si vuole essere: la storia della letteratura e, più pacatamente, il «letterario». Perché tanti scrittori tutti insieme? Perché tanti autori di romanzi che nella propria vita (ma anche no) si sono dedicati a tutt’altro che alle lettere? Perché, mi sembra, il romanzo da molto tempo ha esaurito il suo ciclo vitale, come la sua stessa inflazione attesta. Non c’è più come arte. Ne è rimasto il fantasma del prestigio sociale. Ma quando tutti avranno scritto la propria memoria o (più affascinante) il proprio romanzo, quando tutti saranno stati promossi, toccati da quel prestigio, che ne sarà del prestigio? Dietro quale nuovo feticcio ci si mostrerà adoranti?

    Pubblicato 13 anni fa #
  2. zaphod

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    Fondatore

    Questo è peggio di mauz...
    Nicola Lagioia l'ho conosciuto e mi è sembrato persona simpatica e preparata. All'epoca gli ho sentito leggere dei racconti che mi erano piaciuti e la curiosità di leggere un suo romanzo prima o poi me la toglierò.
    Per il resto, passo oltre.

    Pubblicato 13 anni fa #
  3. k

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    Membro

    Senta A, io la ringrazio per gli auguri che formula da un'altra parte, ma non le era stato già detto anche dal Torque di farla finita, con questo continuo aprire nuovi topic a cazzo? Secondo lei non c'era un altro posto in questo forum - o sufficienti occasioni di discussioni teoriche - per venire a sbattere in prima pagina ste stronzate?

    Ma lei lo ha capito bene cosa ha scritto quello? Quello - mentre il mondo reale e la vita dell'uomo pullulano di romanzi continuamente scritti, vissuti, ed ancora da scrivere - quello dice che il romanzo è morto e che sono dei fessi tutti coloro che provano a scriverlo.
    Quello è un povero coglione, A, un fico sterile. Vada a fare in culo lui e lei, che ogni tanto ci deve per forza rompere le palle con le cacciate sue.

    Pubblicato 13 anni fa #
  4. Ripeto l'invito: ti prego basta con l'aprire nuovi topic. Già ce ne abbiamo in abbondanza. Io vado a nanna che domani ho l'esame.

    Pubblicato 13 anni fa #
  5. k

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    Membro

    In bocca al lupo, Tor. Faje i bozzi!

    Pubblicato 13 anni fa #
  6. [premesso che l'esame - almeno lo scritto - l'ho fatto oggi. 5 pagine protocollo di filologia romanza, un risultato che non sarei mai riuscito ad immaginare soltanto due settimane fa. Adesso aspetto il responso - atteso per lunedì - e non mi rimane che incrociare le dita, sperando che quelle 5 pagine vengano valutate almeno da 18]

    Teorie e tecniche, si chiama questa parte del Forum. In genere noi mezzi studiati non è che siamo capaci di teorizzare chissà cosa e nemmeno siamo in grado di indagare tra le varie tecniche così come farebbero quelli che studiati lo sono completamente. Un po' di coraggio lo prendiamo ogni volta ci mettiamo a leggere cose come l'articolo scritto da Franco Cordelli. Un articolo che non può essere classificato di critica letteraria - dov'è l'analisi al di là delle citazioni - e che va appunto classificato come 'cosa'. Unidentified Narrative Object, direbbero i Wu Ming. In realtà di narrativo c'è ben poco. Rimane solo l'oggetto non identificato, e polemico. Un mio collega, gran lavoratore e dalla mente semplice ma affinatissima, quando gli viene spiegato qualcosa con paroloni difficili, magari inglesi, cerca di andare sempre al sodo. <<Magari non mi sono spiegato bene>> gli dicono, e lui risponde: <<no, no, ti sei spiegato bene e ho capito, ma tu che cazzo hai detto?>>. M'era venuta la tentazione di rispondere così al post di A che riportava l'intervento di Cordelli. Però ho cercato di andare a fondo alla questione. Ed è uscito questo.

    LETTERATI SI NASCE, E IO MODESTAMENTE LO NACQUI

    Cordelli, per demolire quello Lagioia e Piperno, li mette l'uno contro l'altro dal punto di vista estetico per poi affermare che a tutti e due - pur partendo da due punti di vista opposti - non arrivano a nulla, non valgono a niente, chissà perché si sono messi a scrivere, che è gente come loro che rovina la piazza, che poi che ciavranno da scrivere tutti sti romanzi... di che si occupavano? Ecco, tornassero a fare quello che la letteratura va lasciata a gente che ne mastica, a gente che ne capisce, a gente che ci sa fare. <<E io modestamente lo nacqui>> sembra affermare Cordelli, imitando involontariamente Totò.

    40ENNI - TROMBONI 0-0

    La diatriba tra quarantenni e vecchi tromboni, a dir la verità, sembra un tantinello stucchevole e, fino ad oggi, non ha prodotto nulla. A livello letterario o più generalmente estetico, non mi sembra siano stati fatti passi avanti, se non con qualche sporadica eccezione - vedi Canale Mussolini -. E se sul piano della produzione qualcosa sembra muoversi, sul piano della critica tutto rimane fermo e immobile. Come se i concetti espressi in passato da Bachtin, Croce, Barthes, Eco, Auerbach, Gorni ecc. ecc. subissero la condanna di dover essere ripetuti all'infinito. Non c'è evoluzione del pensiero, non c'è analisi critica dei loro testi, non vengono forniti nuovi strumenti per capire la produzione artistica in un mondo che, solo rispetto a 20 anni fa, è completamente rivoluzionato.
    Sembra che l'agone politico - io da una parte e tu dall'altra, in una incomunicabilità estrema - si sia impadronito anche dell'agone letterario. Gli scontri ci son sempre stati, questo è vero. Ma erano scontri su nuove idee, non su chi ce l'aveva più lungo nel citare i grandi critici. <<Barthes? Te lo sei dimenticato?>>, <<E invece tu Croce dove lo hai lasciato?>>, <<io preferisco il gruppo 63 ed Eco, prima del suo pentimento>>.
    Mi rendo conto che, dal punto di vista della teoria della letteratura, la nuova generazione, almeno quella che si riconosce nei Wu Ming, non è che ci faccia così tanto bella figura. Già solo chiamare New Italian Epic la nuova epica italiana è errore da segnare col blu e il rosso assieme. Però è un tentativo di andare oltre, anche se solo di marketing e protetto dalla potenza di Roberto Santachiara - che se lo scrivevamo noi quel testo, parola per parola, col cazzo che ce lo avrebbero pubblicato - è comunque un tentativo. La maggior parte della critica ha risposto con gli sputi ma, alla fine, cosa ha prodotto au contraire? Niente.

    ATTILA FLAGELLO D'IDDIO (remake)

    Ognuno pensa a difendere la sua posizione. Dice Baricco che stanno arrivando i barbari. Lui s'è già iscritto e ha previsto che nel 2026 avranno già vinto e che il mondo sarà tutta superficialità. <<Non si sta male, anzi>>. Scalfari riprende il suo concetto di fine della modernità e dice: <<ciai ragione, saranno i barbari a definire una nuova modernità>>.
    A me sta cosa dei barbari non mi convince. Ogni sconquasso del mondo esistente arriva da una rivoluzione o da una guerra. Il progresso, però, c'è solo in tempo di pace. La regola è che chi vince impone tutto: dall'idea di modernità allo stile estetico imperante. E scrive pure la storia, per non lasciare nulla di intentato. Ora, di guerre non se ne vedono più e il problema vero è che Scalfari, così come Baricco per altri versi, sono un po' come il tenente Dogo nel Deserto dei Tartari. Aspettano all'infinito - ormai sono anni - l'arrivo di queste orde che scompagineranno tutto, magari con la faccia truce e i modi bruschi. Ho l'impressione che attenderanno invano. A differenza di sempre, e a meno che non arrivi la rivoluzione o una guerra, siamo in presenza di un continuum, seppur tra mille differenze. Ergo: ciò che viene dopo di noi non può che essere un nostro prodotto.
    Lo stesso Cordelli, con le sue iniziative anni 70, quando il romanzo non andava più di moda e invece la faceva da padrona la poesia, e si organizzavano grandi festival dove tutti leggevano a tutti gli altri, ha prodotto - o meglio, ha contribuito a produrre - quello che c'è oggi. Senza alcuna soluzione di continuità. Se alla gente gli dici: <<scrivete, scrivete, scrivete>> e quelli si mettono a scrivere le poesie e poi, però, attaccano a scrivere romanzi a più non posso - perché nel frattempo è passata la moda della poesia ed è tornata la moda del romanzo, anche grazie ad Eco - che gli dici? <<Contrordine compagni?>>. No. Gli dici che sono dei barbari.
    E poi la vogliamo finire con sta storia che la letteratura è solo roba per pochi eletti? Ma non sarà n'idea un po' elitaria e snobistica ormai superata dalle diverse e più complesse stratificazioni sociali, dalla democraticizzazione del sapere e dalla riforma dell'università in seguito al '68 che permette a tutti di potersi iscrivere a lettere?
    Che fa Cordelli, si rimangia le battaglie fatte in gioventù? Vuol mettersi lui a dare le patenti di chi è letterato e di chi no? E chi cazzo è sto Cordelli?

    Pubblicato 13 anni fa #
  7. A

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    Membro

    Innanzitutto compliementi per l'esame.
    Indubbiamente mi persuade più la tua contro-critica, e anche l'idea di Pennacchi secondo cui la forma romanzo è fondamentalmente chanson de geste, e siccome le gesta dell'uomo sono virtualmente quanti sono gli uomini, da quanto sono scesi dal ramo e hanno sterminato - primo genocidio - i neandhertaliani - il romanzo non avrà fine.
    Chiedo scusa se ho aperto un topic apposta, in effetti stavo appunto cercandone uno con questo titolo, nella sezione teorie e tecniche, ma non lo avevo trovato. La figura del tenete Drogo affascina anche me, attende qualcosa che mai arriva. Un po' come Yu nel romanzo che stiamo cercando di scrivere. Sul quale , forse, dovremmo parlare. Ma certo non qui, nel forum apposito.

    Pubblicato 13 anni fa #
  8. Troppi romanzi uccidono la critica
    di Alfonso Berardinelli sul Corriere della Sera

    Se solo potessero, gli editori darebbero il nome di romanzo a tutti i libri che pubblicano. Sembra ormai che ogni tipo di libro spaventi il lettore: il romanzo no. I libri di storia li leggono gli storici. I libri di filosofia li sfogliano i filosofi. I poeti non si leggono neppure fra loro. Le scienze sociali interessano poco: di società si parla sui giornali e la prosa sterilizzata dei sociologi respinge il «lettore comune». Dunque le librerie traboccano di nuova narrativa, ma i recensori, anche i più solerti, riescono a digerirne solo una parte. I teorici della letteratura e i narratologi sono ammutoliti da tempo. Gli storiografi sono soffocati dall' «angoscia della quantità», formula ripetutamente usata da Giulio Ferroni (si veda il suo pamphlet Scritture a perdere). Sta di fatto che il romanzo, genere oggi più editoriale e merceologico che letterario, monopolizza un' opinione pubblica letteraria certo più estesa, ma anche meno colta. Il romanzo, così, trionfa, ma per poco. Quale critico saprebbe fare a memoria l' elenco dei libri di narrativa migliori usciti tre o cinque anni fa? Dopo la stagione dei premi, la nuova narrativa circola al massimo fino alla stagione seguente, quando nuove liste di candidati allo Strega e al Campiello cominciano a comparire sulle pagine dei giornali. Che il romanzo è un genere di consumo e di intrattenimento «per tutti», lo si è sempre saputo (il romanzo d' avanguardia è stato un episodio, o un controsenso). Ma il consumo è diventato più veloce e distratto e l' intrattenimento lo si trova in abbondanza altrove. Quanto a qualità artistica, valore conoscitivo e documentario, la maggior parte dei romanzi che si pubblicano non sembrano nascere da nessuna memoria letteraria; anche quando funzionano non provocano riflessioni e interpretazioni critiche, «non fanno storia». Se si eccettuano gli autori già in attività negli anni Ottanta, mi pare che recentemente sia emerso un solo narratore pienamente consapevole della tradizione del romanzo: Walter Siti. Ma Siti è (o era) un intellettuale e un critico. Come trappola acchiappa-lettori, comunque, il romanzo resta la forma più efficace anche per diffondere informazioni e idee. L' ultimo esempio è Gomorra di Saviano. Non è un romanzo, ma «si legge come un romanzo». Quando l' inchiesta si allea con una serie di immagini forti e con il mito di un personaggio (che può essere anche l' autore) allora succede qualcosa che un libro di sole idee non riesce più a provocare. La lotta alla camorra e alla criminalità organizzata ha oggi il volto di Roberto Saviano. Del resto, Raffaele La Capria notò che se la nostra letteratura non ha saputo inventare molti personaggi memorabili, sono gli scrittori stessi i personaggi più riusciti: da Cellini e Casanova fino a Malaparte e Pasolini. Nel 1983, quando si chiudeva l' epoca della «politica al primo posto», Goffredo Fofi fondò una rivista, «Linea d' ombra», che si proponeva di accompagnare la giovane generazione dall' ideologia alla narrativa. «Ciò che soprattutto vogliamo - si diceva nella prima pagina del primo numero - è uno spazio nel quale la giovane narrativa italiana possa conoscersi e farsi conoscere». Ma già dieci anni dopo, all' inizio degli anni Novanta, ricordo che un protagonista dell' editoria italiana come Giulio Bollati constatava sconsolatamente che, «da quando gli italiani si sono messi a leggere romanzi», la storia delle idee, la storia sociale e la migliore saggistica non riuscivano più a trovare un pubblico. Così, però, anche il romanzo entrava in mutazione. Si impoveriva culturalmente, perdeva consistenza intellettuale. L' attuale sovrapproduzione di narrativa credo che sia un segno di patologia piuttosto che di salute. Non ho fatto calcoli precisi, ma come eventuale recensore ho l' impressione di ricevere in omaggio uno o due nuovi romanzi al giorno. Eppure qualche calcolo bisogna farlo. Secondo i sei critici (solo sei) consultati da Stefano Salis sul «Sole 24 Ore», i narratori promettenti sotto i quarant' anni sono ben cinquanta. Se a questo numero se ne aggiungono altri venti (dimenticati) e almeno altri cinquanta fra i quaranta e i settant' anni, arriviamo a centoventi romanzieri. Dopo questa aritmetica, mi chiedo chi riuscirà a conquistarsi la qualifica di esperto in narrativa italiana contemporanea. Conosco bene diversi divoratori instancabili di romanzi italiani appena usciti. Leggono tutto e recensiscono brillantemente. Non so come facciano. Calcolando che per leggere un romanzo bisogna prevedere mediamente un giorno, chi segue la produzione di centoventi autori ha bisogno di altrettanti giorni, un terzo dell' anno. Vogliamo prevedere un altro giorno per recensirne uno a settimana? Siamo a centosettanta giorni. Difficile calcolare i tempi della riflessione e del giudizio. Ma dobbiamo ipotizzare che il recensore-divoratore legga i giornali, legga sia romanzi stranieri sia non romanzi, nonché qualche autore del passato: e soprattutto che ogni tanto pensi ad altro. Cosa dedurne? Che nessuno ne sa abbastanza. La quantità è soverchiante. Siamo a un bivio: la critica «giornaliera» come la concepiva Geno Pampaloni, è o impossibile o inattendibile. La democrazia letteraria di massa, potenziata dall' uso del computer, vanifica l' autorità della critica e crea una letteratura senza forma e confini, che nel suo insieme si sottrae a ogni definizione. Smettiamo perciò di processare i critici e di stilare piccoli canoni. Legga chi vuole quello che vuole. Un' altra epoca si chiude: l' epoca dei giudizi. Ma sto anch' io per pubblicare un libro sulla narrativa. Il suo titolo sarà: Non incoraggiate il romanzo.

    Pubblicato 13 anni fa #
  9. Critica e qualità uccise dal mercato
    di Giulio Ferroni sul Corriere della Sera

    D iscutendo dell' affollata generazione dei narratori under quaranta, Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli sul «Corriere della Sera» hanno messo l' accento, pur se in modo diverso, sulla costipazione dei numeri, sulla plateale impossibilità, per la critica, di fare davvero il punto della situazione, di «leggere tutto» per dare giudizi motivati, per stilare classifiche e definire canoni. Di fronte alla loro riflessione certe indicazioni critiche (come quelle della recente inchiesta del «Sole 24 ore») appaiono inevitabilmente inaffidabili, sorte da incontri, rapporti, occasioni di lettura, e non certo da una adeguata (e impossibile) cognizione dell' intero panorama. Ed è vero che l' elefantiasi della produzione uccide la critica, la condanna all' «angoscia della quantità» (formula semplice e in fondo banale, che mi è capitato di proporre già in un libro del 1996, Dopo la fine, ora ripubblicato da Donzelli). La cosa però non riguarda solo la narrativa e la critica che dovrebbe occuparsene, ma l' intero sistema della cultura e della comunicazione, l' accumulo sterminato di messaggi entro cui siamo presi: tutti pretenderebbero di catturare la nostra attenzione, ma finiscono per perdersi nell' evanescenza e nella velocità dei media che li veicolano, nella frenesia inarrestabile della nostra vita quotidiana. Viene il capogiro se si pensa a tutto ciò che è scritto e detto in questo momento nel mondo, a tutti gli archivi di memoria che attendono di essere interrogati, a tutta la virtualità che attende di essere attualizzata, a tutte le forme di comunicazione che percorrono le reti molteplici dell' universo e che sollecitano uno zapping illimitato. Le difficoltà in cui sono prese quasi tutte le attività intellettuali trovano qui una delle loro ragioni. Ma non si tratta di cedere all' angoscia, né di ignorarla per tentare l' impossibile, né di rinunciare alla critica e al giudizio: piuttosto c' è bisogno di una critica (e di una teoria della comunicazione) che sappia confrontarsi con questa costipazione, che ne scavi fino in fondo le ragioni e le condizioni. Insomma si tratta di comprendere fino in fondo (pochi ci aiutano a farlo) la novità rappresentata dall' eccesso in cui siamo presi: eccesso che vanifica l' esperienza, che rischia di rendere vano lo stesso processo della lettura. Solo nella piena coscienza di questa nuova condizione si potrà avere il coraggio di discriminare, di cercare testardamente l' emergere di parole e scritture davvero essenziali. Per la letteratura e per la narrativa non è certo questione di generazioni: chiediamoci piuttosto come sottrarre i libri alla condizione di meri oggetti di consumo, come condurre battaglie per lo «stile» (che non significa «bello stile»), per un linguaggio della responsabilità, capace di interrogare il nostro destino (un destino che è anche inscritto nel nostro passato, in una tradizione dell' antico e del moderno che oggi è troppo spesso disinvoltamente dimenticata). Esiste oggi una critica capace di farlo? Non succede che i giudizi correnti (e gli stessi canoni proposti) siano basati su schemi e modalità di gusto e di lettura spesso degnissimi, ma che non tengono più?

    Pubblicato 13 anni fa #
  10. Manca la buona narrativa, inutile incolpare il mercato
    di Angelo Guglielmi sul Corriere della Sera

    S o che il titolo non è opera dell' autore dell' articolo ma della redazione che lo impagina. Ma il titolo messo in testa all' articolo di Giulio Ferroni uscito sul «Corriere» giovedì scorso non so se interpreta le intenzioni dell' articolista, ma comunque non rispetta la verità dell' enunciato. Non è vero che il mercato uccide e la qualità e la critica: il vero è che la qualità non c' è, senza che nessuno abbia bisogno di sopprimerla; la critica è distratta, non si interroga sul suo ruolo e non si pone le domande giuste. Che la qualità nella narrativa non ci sia, lo dimostrano i prodotti che dovrebbero testimoniarla; perché poi sia scomparsa è difficile dirlo e ci costringe a considerazioni troppo generali per essere sufficienti. Possiamo azzardarci a dire che è un fenomeno che riguarda in questo momento l' intera Europa, l' Italia come la Francia, la Germania e perfino l' Inghilterra (nonostante vi si parli una lingua che altrove - vedi gli Usa - qualche risultato lo ha garantito). Dunque non è stato il mercato a ucciderla: semmai il mercato ha fatto di necessità virtù, ha di fatto capitalizzato la non qualità spingendola verso modelli, alla stregua delle sue possibilità, commercialmente interessanti (il giallo, il noir, il romanzo inchiesta, l' autobiografia e/o biografia. Tutti generi che non sono mai stati nelle corde degli italiani, più inclinati alla lirica e alla prosa di pensiero). Dunque, più che ucciderla, l' ha aiutata a servire a qualcosa. A servire anche agli autori che si stanno impratichendo in qualcosa che non hanno mai saputo fare e chissà che domani qualche risultato vistoso lo raggiungano (speriamo in un Simenon italiano o in un Littell di casa nostra). Quanto alla critica, piuttosto che lamentarsi (come fa Berardinelli) che escono troppi romanzi per poterli leggere tutti e consentire di organizzare l' ipotesi di un canone, perché non si chiede quale è il suo attuale ruolo e quello decide di esercitare? La critica non serve più al pubblico: è finito il tempo in cui era sufficiente un articolo di Emilio Cecchi sul «Corriere» per determinare la fortuna di un libro. Oggi sono altri i parametri che contano e tutti hanno a che fare con la televisione, che non sa nulla del libro di cui parla e tutto della possibile seduttività dell' autore. Ma se non serve più al pubblico a chi serve? Non scandalizzatevi: serve all' autore. Gli dà la coscienza della situazione in cui sta operando, confortandolo nel suo progetto ma anche indicandogli gli inganni in cui può cadere, gli smarrimenti cui è esposto. E poi chi ha detto che, non potendo leggere tutti i romanzi che escono (nell' anno appena passato sembra siano stati oltre cento), il critico non sia in grado di ipotizzare un abbozzo di canone o almeno di tratteggiare una indicazione di direzione e di indirizzo? Del canone il romanzo è il destinatario ma per la sua elaborazione (o semplice ipotesi) vale di più la riflessione sulle caratteristiche del tempo, le modalità dell' attualità e, ancor più, le opportunità che la situazione culturale in quel momento offre. Il canone a posteriori è mestiere del professore, non del critico. A lui (al critico) si chiede di dirci non quel che siamo stati, ma quel che stiamo tentando di essere, senza ovviamente la certezza del buon esito o della giustezza della strada inforcata. Così io (critico) suppongo di sapere dove il romanzo sta andando e so anche perché l' autofiction (come la definisce Gabiele Pedullà) è oggi (e lo sarà per qualche tempo) la dimensione (o la pratica) vincente: è che c' è un grande bisogno di caricare di materialità le parole (che ci sfuggono da tutte le parti) e l' unico modo per fermarle, se pure provvisoriamente, è agganciarle a qualcosa di incontestabilmente accaduto o che sta accadendo, quale è una vita umana e gli accidenti in cui si sviluppa o, meglio, può svilupparsi... E allora quando Ferroni lamenta negli scrittori di oggi la mancanza «di stile (che non significa bello stile)» e pretende «un linguaggio della responsabilità, capace di interrogare il nostro destino» non posso non essere d' accordo con lui, ma so che sta formulando un auspicio, non offrendo una pur labile indicazione. E credo che di indicazione (nel più semplice senso di assistenza) i narratori oggi hanno bisogno.

    Pubblicato 13 anni fa #
  11. zaphod

    offline
    Fondatore

    A me pare - ma lascio a più eruditi commentatori il compito di dimostrarlo - che per tutte queste affermazioni possa valere il discorso portato avanti da Antonio Pascale in Scienza e sentimento (Einaudi) per confutare l'affermazione di Citati su "quanto erano buoni i pomodori di una volta".
    Anche questo racconto del Torque dà un bell'esempio di "mitizzazione del passato".
    Per contribuire al dibattito io vorrei semplicemente sottolineare come le categorie interpretative utilizzate - in special modo da Berardinelli, ma anche gli altri non ne sono immuni - per analizzare la situazione sono risibili e obsolete.
    Senza stare a scomodare il "principio di indeterminazione" della fisica quantistica consiglierei a questi eruditi di andare a consultare (vado a memoria su studi risalenti al secolo scorso abbiate pietà) i lavori sulla "razionalità limitata" di Herbert Simon.
    Simon studiava la teoria dei processi decisionali e dimostrò come gli attori sociali non prendono mai "la migliore decisione possibile" in un dato momento. Questo perché non hanno a disposizione tutti i dati, non sono in grado comunque di elaborarli appieno, non hanno tempo, non sono d'accordo su quello che vogliono, ecc. ecc. Con questo concetto di Razionalità limitata Simon (premio Nobel per l'economia) ha smantellato il tradizionale concetto delle teorie economiche che vedeva gli individui che prendevano decisioni in grado di massimizzare i profitti e ridurre le perdite.
    Ma che significa tutto questo?
    Significa che la scusa del "ci sono troppi libri" è una minchiata. Un falso problema. Tu (critico) tutti i libri non li hai mai letti, pure quando si pubblicavano di meno. Facevi le tue scelte in base a quello che ti capitava in mano. Perché te lo eri andato a cercare. Perché te lo avevano messo in mano. Perché comunque c'era un editore che a monte aveva selezionato tra tutti i manoscritti che riceveva. E tu ci hai messo la tua sensibilità, i tuoi studi, le teorie che porti avanti, ecc. ecc.
    Sei tu che sei inadeguato al reale. E allora fa tutto schifo. Pure Saviano perché "eh sì, è fico, è bello, è importante, ma non è un romanzo, peccato perché c'era proprio arrivato a un pelo, mannaggia la miseria."
    Poi Guglielmi, arriva lui, e dice: "contrordine compagni! E' perfettamente inutile che ci sbattiamo. La critica non serve. Basta la televisione. Fa tutto lei. Non ci piace, ma è così. Inutile sbattersi, il nemico è troppo forte."
    Mo' io gli vorrei chiedere: "Ma com'è che tutti sti spot del Codice Da Vinci io in televisione non li ho visti? che il premio Strega lo danno di straforo all'una di notte? che nessuno dei libri che pubblicizza Striscia la notizia rimane nell'immaginario collettivo?"
    Non sarà che prima di scrivere un qualsivoglia articolo uno un minimo di riflessione la deve fare?

    Pubblicato 13 anni fa #
  12. Interessante come le riflessioni di Cordelli, Berardinelli, Ferroni e Guglielmi sul ruolo della critica e lo stato della narrativa si intreccino con quelle di Baricco e di Scalfari sui barbari e la modernità.

    Sarà che stavo studiando Filologia Romanza e di barbari, volgari e latino ne ho sentito parlare fino a sopra le orecchie, sarà che pure lì, mutatis mutandis, si sono venute a creare per un periodo le stesse contrapposizioni che si stanno creando oggi (cultura ufficiale e cultura non ufficiale) ma qualche riflessione volevo buttarla giù pure io.

    Datemi solo qualche giorno per riordinare le idee.

    Pubblicato 13 anni fa #
  13. Come avevo promesso. Ho riordinato le idee.

    CANALE MUSSOLINI E I CHIERICI VAGANTI.
    Berardinelli, Baricco e la minaccia della letteratura 'volgare'.

    Ad ogni presentazione di Canale Mussolini a cui ho assistito, Antonio Pennacchi ha sempre sostenuto che la sua scrittura è “simile al parlato”. Nel libro emergerebbe la lingua “dei suoi compagni, della fabbrica e del bar”. Non è l'italiano letterario standard, il toscano colto tanto per intenderci. Proprio quello che si è inventato Manzoni, nel 1840, quando andò a “sciacquare in Arno” i panni dei Promessi Sposi e che poi è diventato l'italiano insegnato in tutte le scuole perché lui e il ministro Broglio erano pappa e ciccia. Lo stesso italiano che il linguista Graziadio Isaia Ascoli ha definito non essere mai esistito. Il linguaggio di Pennacchi è semplice, poetico, s'innalza e s'abbassa in base alle circostanze della narrazione. E' strutturato in base a modelli letterari classici che ordinano il magma del parlato e lo trasferiscono senza sbavature sulla pagina. Il testo risulta scorrevole dall'inizio alla fine, con una musicalità determinata dai numerosi endecasillabi sparsi qua e là. Casuale? Manco per niente. Parola per parola, s'avverte la mano del cesellatore. Mica è la trascrizione di un dialogo o di un monologo. Più di qualcuno ha provato a disprezzare l'opera, e la vetta l'ha raggiunta un editore – mi pare sia stato Fazi – parlando di utilizzo dello slang, veneto-pontino per la precisione. Un termine più sparato per impressionare il lettore che per dare un senso alle proprie critiche. Proprio in quanto slang o gergo o argot (in francese), avremmo dovuto assistere a mutamenti semantici, a specificità terminologiche che non avvengono e che non ci sono. E' un parlato strutturato, ma forse in Italia abbiamo dimenticato cosa significhi.

    Il toscano parlato non è altro che una lingua volgare che, nel XVI secolo, si è deciso di elevare a lingua letteraria per eccellenza. Petrarca su tutti, seguito a distanza da Boccaccio con Dante ultimo classificato con ignominia. Ma come è nato il toscano? Dicono i linguisti che alla fine dell'Impero romano è sembrata evidente la tendenza a parlare un latino diverso zona per zona, a seconda delle abitudini delle singole comunità o in base ai substrati (tipo l'osco nelle zone centrali dell'Italia, su tutte l'Umbria). Una tendenza che s'è andata accentuando anche in base alle continue invasioni a sud, nord, est e ovest che la Penisola ha subito senza soluzione di continuità. Da centro dell'Impero a groviera il passo è stato breve. Ognuno parlava a modo suo, sembrava di stare a Babilonia. E non che i parlanti avessero coscienza di questo. Ludovico il Pio e Sant'Agostino erano convinti tutti e due, a secoli di distanza e in due posti diametralmente opposti dell'ex Impero Romano, di parlare lo stesso latino di Cicerone. Eppure non era così. Nemmeno se si mettevano a scrivere, lo facevano più come prima. Già nell'813, al concilio di Tours, la Chiesa si rese conto che il popolo dei fedeli recitava le preghiere a pappagallo, storpiandone le parole, senza comprendere i testi. “Figurati alle omelie” avrà detto qualche vescovo, alzandosi e facendo riflettere tutti i suoi colleghi. “Vabbè, le prediche facciamole in volgare” hanno deciso tutti insieme, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutta la Ecclesia.

    Sempre i linguisti parlano di situazione diglottica totale, prima della definitiva affermazione dei volgari. Da un lato c'era la lingua ufficiale, quella dei documenti e delle opere letterarie, e poi c'era il volgare che veniva parlato tutti i giorni. I commercianti, quando dovevano tenere un promemoria per quello che s'erano comprati o per quello che gli era stato ordinato, lo scrivevano in quella che era diventata la loro lingua madre. Pure i preti – mica erano tutti preparati allo stesso modo – s'erano organizzati coi glossari. “Quando trovate scritto nefas o crimen, sempre di peccato si tratta”. E pure a scuola, i maestri, continuavano a ripetere che si scriveva OCULUS e non OCLUS. Matita rossa e matita blu a rotta di collo. A fare la parte di chi le sapeva tutte c'erano i chierici, quelli studiati, asserragliati in monasteri mastodontici, da cui iniziavano a dominare le valli sottostanti. Copiavano opere su opere, scartando – e facendo perdere per sempre – tante satire, parecchia letteratura erotica e tutti quegli autori che non erano giudicati abbastanza bravi da essere perpetuati. Però quando andavano dal giudice, probabilmente parlavano pure loro il dialetto e lo facevano trascrivere pure. “Sao ko kelle terre...” chi non se lo ricorda? Per prendersi un pezzo di terra in più, sottraendolo al signorotto laico locale, avrebbero parlato pure la lingua del diavolo.

    Ad un certo punto, però, col Convivio, Dante spariglia.

    Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura dipinta, è inclinabile a la sua propria perfezione […]. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito di scienza. [...]

    Qual'è l'impedimento si capisce subito dopo, perché Dante lo dice chiaramente: “lo latino”. Lo sanno solo i letterati, ma i non-letterati che hanno voglia di sapere? Dice: “lo potrebbero capire i letterati di altre lingue, i tedeschi ad esempio o gli inglesi”. Si, ma pure lì, in Germania e Inghilterra, in proporzione, questi letterati quanti sono? Alla domanda che faceva Dante, si stentò per parecchio tempo a trovare una risposta. I chierici facevano finta di non capire.

    Sempre Dante:

    Ché la bontà de l'animo è in coloro che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non letterati

    C'è tanta gente, dice l'Alighieri, perché dobbiamo rivolgerci necessariamente ai soliti noti che stanno lì solo per farci i soldi alla facciaccia nostra? Poi uno si chiede perché sono dovuti passare quasi cinque secoli prima che a qualcuno dei chierici venisse in mente di dire: “bravo sto Dante”. L'odio era ancora forte, viscerale. Si sentivano massacrati da sto nasone fiorentino e il peggior dispetto che gli potevano fare era non considerarlo. Sia in vita che da morto. Lui era stato costretto a scappare in ogni dove, Petrarca invece dovunque andava trovava sempre qualcuno disposto a dargli un Laurea. Dante aveva avuto il torto di riconoscere una verità sotto gli occhi di tutti, una verità che era uscita fuori dalle altre parti – in Francia, in particolare in Provenza con i trovatori e la lirica cortese – e che in Italia non si riusciva più a contenere visto che già in Sicilia, alla corte di Federico, a qualcuno era venuto in mente di fare poesie in lingua volgare. La lingua, ormai e con buona pace di tutti, era un'altra. Al latino potevano essere lasciate altre sfere del sapere – la medicina e la giurisprudenza ad esempio – ma la letteratura, quella che doveva far sognare, che doveva far ridere e piangere, non poteva essere scritta in una lingua morta. Doveva essere scritta in volgare. Affinché tutti – rivoluzionario il nostro Dante – potessero usufruirne. “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”. Mica cazzi. Però c'era chi resisteva, chi diceva “mannò, guardate che vi sbagliate, ma che andate facendo”. Erano i chierici. Che cedettero solo quando iniziarono a capire che quelli che potevano copiare, latino o volgare che fosse l'opera, erano comunque e sempre loro. Semplice tutela degli interessi a rischio, oggi come allora.

    Dire che l'italiano letterario – quello dei capolavori e delle grandi opere – è ben diverso dal parlato, non è un'eresia. La differenza non è forse quella che c'era allora tra latino e volgare, ma ci va molto vicina. Scriviamo in un modo, pensiamo e parliamo in un altro. Siamo più diretti, non facciamo troppi giri di parole, abbiamo modificato le espressioni, i modi di costruzione delle frasi, anche i modi di dire o i proverbi. I gerghi ormai sono generalizzati, i prestiti dalle altre lingue quasi non si riesce più a contarli tutti. Basti pensare alla differenza del mondo in cui viviamo: Manzoni andava in giro a piedi, noi voliamo da un continente all'altro; lui doveva consegnare i suoi manoscritti agli editori, adesso Pennacchi glieli invia via email. Noi non è che non scriviamo come Manzoni – ma nemmeno come D'Annunzio, Pirandello, Moravia e i tanti altri che vi vengono in mente – noi pensiamo, viviamo, respiriamo, parliamo e scriviamo in maniera completamente differente. Siamo andati avanti, ringraziando Iddio. Il mondo è un posto più piacevole di prima e c'è più gente che ha tempo, soldi e istruzione per potersi godere un libro.

    C'è anche chi non è d'accordo. Berardinelli, in un articolo recente sul Corriere della Sera, diceva pubblicamente, rivolgendosi ai suoi colleghi: “ma l'avete visti quanti libri escono all'anno? Come si può anche solo pensare di leggerli tutti?”. Altri sostenevano che il romanzo è ucciso dal mercato. Altri ancora, invece, pensano che siano i romanzi che ad uccidere il mercato. Non c'è nessuna novità sconvolgente. Nessuno minaccia nessun altro. Siamo solo in presenza del normale evolversi delle cose.

    Perché se Dante diceva “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, ho l'impressione che non intendesse proprio tutti tutti. E credo che, dopo lui, tutti l'hanno pensato – ma pure prima, visto che l'espressione è di Aristotele – ma ogni volta mancava qualcuno all'appello. “Leggo anch'io?”, “No, tu no” si sentivano dire tutte le classi sociali più deboli. Poi sono arrivati Marx, Lenin e Mao Tse Tung e il termine 'tutti' ha assunto un significato diverso: quello di oggi. Chiaro che se uno si mette a leggere, anche solo Topolino, poi gli viene in mente una storia e la vuole scrivere. All'epoca di Dante non sapeva come fare, al massimo la raccontava in giro col rischio che se qualcuno la sentiva poteva fregargliela tranquillamente. “Immagina se mi ritrovo all'Inferno, ma mica perché so' morto, solo per fare un viaggio a vede' tutti quegli zozzoni che stavano a Firenze fino a poco tempo fa” potrebbe aver detto qualcuno, in una taverna. E Dante: “Racconta, racconta” sforzandosi di tenere tutto a mente. Oggi, con l'alfabetizzazione – o la semialfabetizzazione, come dicono i chierici – se a uno gli viene in mente una storia, la butta giù e scrive. E poi, col benessere, si segna gli indirizzi delle case editrici, compra un bel po' di francobolli e spedisce una copia – già impaginata – del suo romanzo ad ogni possibile editore.

    Se vogliamo dare al tutto un accezione negativa, potremmo dire che è il prezzo della democrazia e dei diritti. “Che ci vuoi fare Bernarde'?”. Se a leggere eravate solo in 10, come ci campavi da critico? Chi ti poteva dare retta? Ti saresti dovuto sbattere, così come ha fatto Boccaccio per tutta la sua vita, a cercare un protettore, un signorotto che ti dava da campare e da lavorare. “Scrivi quanto sono bello e forte”. E tu giù a scrivere. “Adesso fammi una favola” e tu giù a inventare una favola. Pregando Iddio che non ti chiedesse nient'altro. E invece oggi ti metti a pontificare sul Corriere – che, nonostante si dica che i giornali non vendono più, il suo milione di copie lo piazza ugualmente, come Repubblica – e poi va a finire pure che ti legge uno stronzo come me. E che loro ti pagano profumatamente, cosa più importante.

    Ci dev'essere qualche altro motivo, se ogni anno ci tenete tanto a fare lo stato dell'arte della Letteratura Italiana. L'ho capito dopo tante peripezie. Si tratta della conservazione della vostra specie. State nel castello e buttate pece e olio bollente in quantità, affinché a nessuno venga in mente di assediarlo. Per capire la consistenza della minaccia, basta fare un conto della serva. Su un milione di persone che legge, 500 mila saranno quelli che scrivono pure, 100 mila saranno quelli che lo fanno bene, 50 mila saranno quelli che hanno uno spirito critico, 25 mila saranno quelli che sarebbero in grado di scrivere un saggio, 12 mila quelli che lo scriverebbero bene, 6 mila quelli che magari lo scriverebbero pure meglio di voi. 6 ogni mille. 6000 ogni milione. Pochi in proporzione alla popolazione dei lettori, tantissimi se valutati in valore assoluto. “Fermare con pece e olio bollente, come se piovesse”. L'ordine categorico si materializza.

    Quando arriva uno che viene dalla fabbrica, che ha studiato e che s'è impegnato parecchio per recuperare il tempo passato in gioventù a fare altro, che magari ha pure il dono della scrittura e che sa raccontare le storie - che s'inventa uno stile tutto suo, per giunta nuovo e innovativo, dove il suo parlato, quello dei suoi compagni, della fabbrica e dei bar, entra di diritto nella storia della letteratura italiana – allora è chiaro che sembra si stia aprendo un pertugio. Come a Porta Pia. Le mura vacillano, l'olio e la pece sembrano non far più paura a nessuno, non c'è tempo di prendere la roba e scappare. E allora si tira fuori la storia che il romanzo è finito, che la scrittura non è corretta e ordinata, che la forza è nella casa editrice e non nella scrittura.

    Eppure Canale Mussolini è forse la prima dimostrazione organica e letteraria di come la lingua scritta stia cambiando, di come dal magma di un parlato ormai sedimentato da decenni, si sia levata questa struttura quadrata, letterariamente valida, pensata fino al dettaglio.

    Baricco è ottimista quando indica il 2026 come data di vittoria dei barbari. In realtà hanno già vinto. E lui non sta dalla loro/nostra parte.

    Pubblicato 13 anni fa #
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    Nella rete della stroncatura
    di Riccardo Chiaberge. Il fatto quotidiano 28.11.10

    Mentre i libri dei mostri sacri della scrittura scalano le classifiche e producono lenzuolate di encomi, le comunity online dei lettori bistrattano e maltrattano le opere dei venerati maestri
    Gli antipatizzanti di Umberto Eco, che non hanno digerito le lenzuolate di encomi in mondovisione per il suo Cimitero di Praga (unica voce fuori dal coro, l’Osservatore Romano) e si rodono a vederlo svettare nella lista dei best-seller, possono trovare conforto nelle recensioni dei lettori su Internetbookshop (www.ibs.it). “Finalmente ho finito di leggerlo – si sfoga per esempio Giorgio G. – è una sensazione di sollievo. Dopo una prima parte abbastanza accettabile, almeno per quanto riguarda la spedizione dei Mille, il lunghissimo periodo parigino ha destato in me un moto di repulsione. È mai possibile che uno scrittore colto e preparato si lasci andare a scrivere simili fandonie (anche se lui dichiara che tutti gli avvenimenti sono accaduti realmente)? Fandonie che sfociano nel cattivo gusto più becero, come la descrizione della ‘messa nera’? Avevo apprezzato alcuni dei libri di Eco, ma questo mi ha proprio dissuaso dal comprarne altri, se mai ne scriverà” (voto: 2 su 5 punti complessivi, quindi insufficiente).

    Riccardo confessa: “È la prima volta che non riesco a finire un romanzo di Eco. Peccato, perché l’inizio sembrava interessante… Se non si è proprio lettori onnivori, lo sconsiglio” (2/5). Guglielmo parla di “operazioni di montaggio da inserire, magari un gradino più in su, nella stessa categoria di Dan Brown”. Ancora più drastico uno che si firma, nientemeno, Alexandre Dumas: “Ennesima riproposta, noiosa e stiracchiata all’inverosimile, di una storia presentata da Eco nel volume Sei passeggiate nei boschi narrativi nel quale, fra tanta confusione di fatti e situazioni, collegava lo sterminio degli ebrei a una scena del Cagliostro di Dumas” (voto 1). Naturalmente ci sono anche gli entusiasti come Enrico (“Formidabile!”, 5/5) o Roberto (“Grazie, professore! Un capolavoro!”), ma non bastano a risollevare la media, che resta bassina: 3,21. Molto al di sotto del suo diretto competitore Giorgio Faletti (Appunti di un venditore di donne, Baldini Castoldi Dalai) che sia pur presso un’audience forse meno esigente raccoglie un autentico plebiscito: 4,4. Un bello smacco per la Bompiani, con gran giubilo di Alessandro Dalai.

    Più diviso il pubblico di un’altra star delle classifiche, Niccolò Ammaniti (Io e te, Einaudi). Non tutti sono d’accordo con Antonio D’Orrico che su Sette ha sparato la consueta iperbole: “Mi fa schifo tanto è bravo”, paragonandolo a Manzoni. Accanto all’orgasmo dei fan più acritici, “Un gioiellino che ti cattura dalla prima all’ultima pagina. Grazie AMMA!” (Mikarlo), “Letto in meno di due ore… stupendo e commovente” (Ianì Valastro), spuntano parecchie voci dissonanti. Come uno che si nasconde dietro il nickname Saxsoul: “E così anche Ammaniti, dopo aver scritto una serie di romanzi di qualità, si è ridotto a fare le marchette per il periodo di Natale”. O il perfido Maurizio, che pur lodando il libro mette il dito su una castroneria indegna del figlio di uno psicoanalista: “I bambini delle elementari non si stendono sul lettino per le psicoterapie, ma giocano con il terapeuta”.
    O il più spietato di tutti, tale Rupert: “Racconto stiracchiato fino a diventare libretto, caratteri giganteschi, spaziatura che un tir ci può fare inversione di marcia in una sola manovra, prezzo (10 euro) del tutto immotivato. La quarta di copertina, inspiegabilmente, parla della irruzione di una ‘sconosciuta’ nella cantina dove il protagonista Lorenzo si è rifugiato: salvo poi scoprire che si tratta della sorellastra del protagonista (quindi tanto sconosciuta non è, ma di certo fa più Hitchcock parlare di ‘sconosciuta’ al posto di sorellastra). Nell’ultima pagina del libro, quattro righe di nota esplicativa di cui non si sentiva assolutamente la mancanza: ma evidentemente Ammaniti ritiene così stupido (e giustamente) un lettore che sgancia dieci euro per questo suo nuovo libro, da sentirsi in obbligo di spiegare anche l’evidenza. ‘Io e te’, ovvero ‘You and me’, come le tariffe promozionali per i cellulari. E infatti, più telefonato di così…”. In ogni caso, l’ex ragazzo prodigio riesce a portare a casa un eccellente 4 di media.

    Ben più misera la pagella del meno giovane Andrea De Carlo (Leielui, Bompiani) che non raggiunge la sufficienza (2,47 su 5), sommerso da un diluvio di giudizi negativi e a volte ingenerosi, come il seguente di tale Sonim: “Questo sarebbe un libro per cui spendere venti euro? me l’hanno prestato e nonostante ciò mi vergognavo nell’approfittare dell’ingenuità di chi l’ha acquistato. Definirlo bellissimo, coinvolgente, commovente, il migliore di Andrea, significa aver capito zero della letteratura che ci circonda e di quanto De Carlo ha composto fino al 2002, anno del suo ultimo libro decente I veri nomi. Mi insospettisce il ritmo di autori troppo prolifici (tipo 3 libri in 4 anni) a meno che non si tratti di Philip Roth o King (che pure qualche granchio lo prendono), perché le storie che propongono sono troppo raffazzonate e compilate in fretta. In questo caso allungate pure di almeno 200 pagine inutili, giusto per garantire il prezzo pieno di copertina. Consiglio ad Andrea De Carlo un amaro esame di coscienza al di là delle vendite e un riposo rigenerante per le idee con un arrivederci almeno al 2013. Questo libro vende e venderà perché titolo, copertina e sinossi richiamano il pubblico degli adolescenti o dei consumatori avidi di film sentimentali di serie b che cercano storie rassicuranti e calde in vista dell’inverno. Chi vuole leggere un autore italiano con una bella storia da raccontare, si rivolga a Piperno o Veronesi”.

    Mah, io non ne sarei tanto sicuro. Dì la verità, Sonim, non è che per caso sei amico di uno dei due citati? O peggio, non sarai tu stesso un loro pseudonimo? Peraltro, se andiamo a vedere le pagelle, XY di Veronesi (Fandango) riesce a racimolare un magro 3,2 e il bravo Piperno (Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi, Mondadori) lo supera di poco con una media del 3,4: “Non ho aspettato cinque anni il tuo nuovo libro per poi ritrovarmi a leggere una sorta di compitino”, scrive un certo Slapsy che si professa suo ammiratore.
    Più che una grande rete, il Web è un gigantesco mattatoio che non risparmia neppure gli animali sacri. Ma è anche un sismografo che registra gusti e sbalzi d’umore del pubblico ben più fedelmente delle classifiche di vendita. La domanda è: in che misura possiamo e dobbiamo affidarci a questo strumento, per capire se un libro merita di essere comprato e letto? I recensori online sono per lo più anonimi o schermati da un nickname.
    Come si fa a distinguere i lettori autentici da quelli fasulli? Chi ci garantisce che certi commenti non siano dettati dall’editore, o dall’autore, o dai suoi rivali? Come possiamo smascherare le zie premurose, gli amanti delusi o le ex mogli vendicative?

    Nel suo seguitissimo blog Pierre Assouline, critico letterario di Le Monde, parlava giorni fa di “morte della prescrizione, nascita della raccomandazione e agonia del critico”.
    Lo spunto, un’inchiesta del sito Nonfiction.fr che ha cercato di far luce su chi orienti oggi le scelte dei francesi in libreria: al primo posto resta l’inserto letterario per eccellenza, Le Monde des livres, seguito dal settimanale Télérama e da alcune trasmissioni radio del mattino. Ma cresce l’influenza di blog, siti multimediali e librerie online come Amazon. La “raccomandazione” numerica, il clic del mouse, il passaparola elettronico sta soppiantando la “prescrizione” del critico tradizionale. Calma però, avverte Assouline: è troppo presto per annunciare la Rivoluzione Culturale, espressione peraltro che fa rizzare i capelli in testa a chiunque abbia un po’ di memoria. Ve li immaginate gli intellettuali col cappello dell’asino mandati a zappare la terra, e le Guardie Rosse degli uffici marketing che arringano le folle dei lettori imbestialiti al grido di “morte alle élite, viva la democrazia letteraria”?

    Se l’unica alternativa alle conventicole accademico-editoriali è il populismo del click, stiamo davvero freschi. Certo, finché nelle pagine culturali i romanzi di Eco o di Ammaniti raccolgono solo applausi, è inutile poi lamentarsi che il mercato abbia ammazzato una critica già defunta.

    Pubblicato 13 anni fa #
  15. L'altro giorno avrei voluto fare un pezzo dal titolo 'Nessuno tocchi (la) Dante Alighieri'. Perché i tagli del governo hanno ridotto di 648 mila euro (il 53,4%) il budget a disposizione dell'Istituto di Lingua Italiana all'estero. "La cultura non si mangia" ha risposto Tremonti a chi gli chiedeva notizie in merito. Da tutto il mondo i 220 mila soci studenti si sono sollevati e hanno iniziato a fare la colletta per poter permettere alla Dante Alighieri di rimanere in vita. La cosa, debbo essere sincero, ha indignato anche me. Anche perché il confronto con le altre società simili e che promuovono le altre lingue è davvero imbarazzante. Il British Council ha a disposizione 220 milioni di euro, il Goethe Institut arriva a 218 milioni di euro, il Cervantes a 90 milioni, il Camoes a 13 milioni, l'Alliance Francaise a 10,6 milioni mentre in Italia, così come abbiamo detto, siamo arrivati a 600 mila euro). Sul sito de La Dante c'è anche il riferimento alle parole di Claudio Abbado che, intervenuto alla trasmissione 'Vieni via con me', ha commentato così la politica del governo: "La cultura arricchisce sempre, permette di superare tutti i limiti, è lo strumento che consente di giudicare chi ci governa, è libertà di espressione e di parola. Con la cultura si sconfigge il disagio sociale delle persone. La cultura è un bene primario come l’acqua".
    E la Dante, come la chiamano i suoi soci, dovrebbe essere uno dei punti massimi della cultura italiana. Nel 2003 ha organizzato, a Firenze, la prima grande mostra della storia della lingua italiana, 'Dove il sì suona. Gli Italiani e la loro lingua', curata dal professor Luca Serianni e visitata da 1 milione e 300 mila persone. Nel 2005, invece, in concomitanza con il 77° Congresso Internazionale della Società Dante Alighieri, è stato presentato l'Annuario della Dante. 'Il Mondo in italiano, analisi e tendenze della diffusione della lingua e della cultura italiana' a cura di Paolo Peluffo e dello stesso professor Serianni.
    Iniziative importanti, curate dal massimo conoscitore della lingua italiana - cioè il professor Serianni - che fanno della Società uno (o l'unico) dei punti di riferimento linguistici.
    Solo che a dare un'occhiata a tutta la truppa della Dante, si può anche storcere un po' la bocca. Il presidente è Bruno Bottai (ambasciatore), e fin qui niente di male, ma tra i vicepresidenti forse, non si è scelto solo in base alla conoscenza della lingua italiana: Marella Agnelli, Alberto Arbasino, Gianni Letta e Paolo Peluffo. Pure tra i consiglieri generali, mi sembra che i criteri siano i più vari. Tra gli altri, infatti, troviamo: GIUSEPPE DE RITA, BARBARA PALOMBELLI, MIRKO TREMAGLIA. Tra i consiglieri emeriti, invece, troviamo: OSCAR LUIGI SCALFARO, ALESSANDRO CORTESE DE BOSIS (ambasciatore), GHERARDO LA FRANCESCA (ambasciatore), FRANCESCO MERLONI (industriale), ALESSANDRO VATTANI (ambasciatore).
    Per il resto, giustamente, i componenti sono tutti professori ordinari di letteratura italiana nelle varie università. L'unico scrittore è Alberto Arbasino. L'unica giornalista è Barbara Palombelli.
    Chissà perché, dopo aver visto la composizione, l'indignazione ha lasciato il posto alla razionalità. E magari i tagli non dico che sono stati voluti - ci mancherebbe altro! - ma è stato considerato un sacrificio 'sopportabile' non solo dal Governo ("la cultura non si mangia", "fatevi un panino e metteteci in mezzo la Divina Commedia" come dice Tremonti), ma per la stessa Società Dante Alighieri. Qualcuno deve aver pensato che gli 'amici' all'interno della società, prima o poi, riusciranno a ridurre a ragione gli altri sodali. "E' la crisi".

    Pubblicato 13 anni fa #
  16. A.

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    «Trentenni, fatevi avanti
    tocca a voi portarci nel futuro»
    di Giancarlo Liviano
    Intervista a Sandro Veronesi: dal rapporto con gli scrittori più giovani e 'impegnati' alla sua ultima ossessione, il lusso, fino al romanzo che sta cercando.

    Secondo te la letteratura può ancora incidere sui mutamenti? Perché lo scrittore è costretto, oggi, a ritagliarsi i suoi spazi come giullare di corte o come intrattenitore, per dirla alla maniera di Ferruccio Parazzoli?
    «Ho grande fiducia nella nuova generazione di scrittori trentenni. Mi sembra che moltissimi scrittori giovani, con grande preparazione letteraria e filosofica, molti di più che in passato, si dedichino al racconto della realtà, ognuno con il proprio stile. Non è un caso che raccontare la realtà sia un’ossessione dei più giovani. Quando uno scrittore ottiene riconoscimenti, spesso il meccanismo lo estrapola dalla battaglia, gli fa firmare contratti a scadenza per libri che ancora non sono nemmeno stati concepiti, rischia di trasformarlo in scimmietta ammaestrata. Quello che mi aspetto dagli scrittori giovani “impegnati”, è anche coraggio. Nonostante la situazione di Mondadori, mi riferisco al conflitto d’interessi, solo tre scrittori sono andati via (uno dei tre è proprio Sandro Veronesi, ndr). I giovani scrittori devono capire che Einaudi non è più Pavese e Vittorini. Oggi è Marina Berlusconi».

    In un intervento di qualche tempo (Il Festival delle Letterature di Roma), hai raccontato della sua ultima ossessione, il lusso. Cos’è per te il lusso? Che sentimenti ti evoca?
    «Il lusso è una chiave per comprendere la nostra società. Lo trovo insopportabile. Il lusso è possibile solo mantenendo metà del mondo in un eterno medioevo, ma oggi non è più accettabile. Noi oggi viviamo di rendita rispetto al passato, con il reddito accumulato dai nostri padri quando il Pil cresceva del 12%. Oggi è chiaro che l’attuale meccanismo produzione – crescita - consumo è un modello terminato, il pianeta non lo tollera più, anche perché nella zona di mondo che produce mancano del tutto i diritti umani. Sai qual è un’altra forma di lusso collettivo? Una classe dirigente di sessantacinquenni che prende e basta, senza avere nulla da dare in cambio. Non è tanto una questione di privilegi: è giusto che un leader politico che è in grado di dare sotto il profilo delle idee ne usufruisca. Una volta, con Valerio Magrelli, scherzavamo sulla “sindrome della prima classe”. Per lavoro c’eravamo abituati a viaggiare in prima, e anche se il vantaggio di comodità era irrisorio, ci chiedevamo se saremmo mai riusciti a riabituarci alla seconda. Fortunatamente ci siamo riusciti, ma alla classe dirigete capita la stessa cosa. Sono abituati alle cinque stelle e non c’è niente da fare, non vogliono rinunciare nemmeno a una stella».

    Lusso vuol dire Capitale. Il Capitale, in forme diverse, è sempre esistito. E sempre ha condizionato le strutture delle società umane. Da un secolo a questa parte tuttavia, il capitale sembra essersi trapiantato nella vita degli uomini dominandola non solo attraverso i rapporti di forza reali che produce, ma a un livello più ipodermico, addirittura come paradigma spirituale completo, unico, della vita. Sei d’accordo? Quanto è più libero oggi, l’individuo, rispetto al passato?
    «Quando il capitale aveva una dimensione umana, si prefiggeva di creare benessere collettivo. Era un’ideologia materialista, certo. Ma anche il marxismo lo era. Oggi che il capitale è soprattutto finanziario, e quindi endemicamente speculativo, s’è inselvatichito. È diventato rapace. È troppo facile guadagnare enormi cifre attraverso meccanismi tecnici che sono oscuri alle persone. Prendiamo Grecia e Portogallo. Cosa vuol dire stanno per fallire? Come può fallire una nazione fatta di uomini che lavorano fisicamente su beni reali, cioè producono scarpe e vanno a pesca tutti i giorni all’alba? C’è una parola che è bandita dal dibattito pubblico. È decrescita. Nessuna forza parlamentare ha il coraggio di prendere per mano la gente verso l’unico futuro possibile, e proporre con forza un cambio di paradigma che richiederebbe nuove abitudini».

    In un tuo intervento di qualche anno fa, pubblicato su «Superalbo», fai notare come la letteratura non abbia ancora intercettato uno dei grandi temI della contemporaneità. Il denaro, unico motore del mondo. Secondo te la letteratura è in grado di raccontare il capitale?
    «Forse affrontare in modo diretto il capitale in letteratura non è il modo migliore. Anche perché nel migliore dei casi gli intellettuali più brillanti vincono il Premio Nobel, ma nessuno si prefigge di attuare il loro pensiero. È chiaro che esiste una netta discrasia tra la figura dell’intellettuale e la società. La base dei cambiamenti dev’essere politica, e in quest’ottica tocca ai giovani costruire il futuro che vogliono. In Egitto e Tunisia la rivoluzione l’hanno fatta i ventenni».

    «La forza del passato», «Gli Sfiorati», «Caos Calmo», «XY». In ognuno dei tuoi libri c’è un profondo rinnovamento dell’immaginario. A che libro stai pensando?
    «È un periodo molto fertile di letture, che non mi capitava da molto. Un tempo mi preoccupavo, avevo l’ossessione della non scrittura. Ora so che l’ispirazione arriva sempre, basta saperla indirizzare. Passerò molte mattine al “tredicesimo” sull’Aurelia, in un luna park di attività commerciali, negozi e uffici immerso nella campagna papalina che sembra nascondere una storia. Si tratta di un lusso ostentato. Basta pensare alla città Toyota, una cattedrale di fronte a piccoli bar e botteghe artigiane che sembrano provenire dal passato. Se lì c’è una storia da raccontare, la troverò».

    Ti sei trovato a operare da scrittore trentenne in pieno berlusconismo. Per te il berlusconismo è più una causa o un effetto della rabberciata, cinica, criminaloide, servile e individualista Italia attuale?
    «Berlusconi non è stato l’unico a lottare per i propri interessi in questi anni. Forse ha dettato il modello, ma da un certo punto di vista i sottoposti sono perfino peggiori. Quello che mi sorprende, e che all’estero non è che siano più morali che in Italia, ma quando un potente sbaglia c’è uno del suo stesso partito che lo sbugiarda per competizione interna. Così il meccanismo tende comunque all’eccellenza. Perché chi sta in seconda fila vuole il posto di maggior potere e privilegio. Da noi non accade nemmeno questo. Prendiamo Strauss - Kahn. È il prototipo del sessantacinquenne imbottito di Viagra cui accennavo prima. Un capo senz’alcun futuro in mente che prende e basta, con corti di servi che lo seguono passo dopo passo. È bastato abbindolarlo con la carne, una donna esotica. Ma è una questione biologica. Ripeto. Un sessantacinquenne imbottito di Cialis e Viagra che futuro può avere? Può solo prendere decisioni su un mondo di cui ignora tutto con gli ormoni scombussolati, e il suo unico futuro possibile è un eterno presente in cui illudersi di non invecchiare, grazie al potere».

    «I trentenni di oggi devono prendersi le loro responsabilità. Hanno gli strumenti per decifrare il mondo del presente e percepire un futuro, il futuro di cui hanno bisogno. Esautorando con le idee chi dalla società prende e basta, con bulimia di appropriazione, senza aver niente da dare. Altre strade, per produrre dei cambiamenti, non ne conosco».
    Fonte : Unità on lain 31 Luglio

    Pubblicato 12 anni fa #
  17. Dije a Veronesi che intanto può iniziare la decrescita evitando di pubblicà i suoi libri e rinunciando ai compensi.

    Pubblicato 12 anni fa #
  18. A.

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    Volevo un parere serio pro-veritate su questo libro, se per caso qualcuno di voi lo ha letto o studiato, grazie.
    A

    http://www.ibs.it/code/9788857501642/preparazione-del-romanzo/barthes-roland.html

    In un'epoca in cui qualunque editore ragionevole farebbe davvero di tutto pur di non pubblicare testi di critica letteraria, la casa editrice Mimesis decide di offrire ai lettori italiani gli appunti degli ultimi due corsi tenuti da Roland Barthes al Collège de France. Possiamo ora leggere in questa Preparazione del romanzo, tradotta e curata con amorosa precisione, quanto Roland Barthes fissò sulla carta e utilizzò in lezioni memorabili in un periodo che va dal dicembre 1978 al febbraio 1980. Come una delle curatrici non manca di precisare, due giorni dopo l'ultima lezione, Roland Barthes viene investito da un'auto (muore il 26 marzo). Il lettore di questo testo si trova tra le mani il resoconto di lezioni favolose: ai continui affioramenti di idee e citazioni brillanti si affianca una vera e propria libido docendi, nonostante un avvio in tono minore che alla fine si rivela un ottimo inizio per questo lungo romanzo, scritto e parlato, su quello che è necessario fare per dedicarsi alla stesura di un romanzo.
    Giunto nel mezzo del cammino di sua vita, così narra il docente scrivente, colpito da un grave lutto, l'eroe di questo racconto si trova davanti a un insabbiamento: rituali pronti a divenire meccaniche repliche, divisi equamente tra scrittura critica e didattica letteraria, sembrano aspettarlo al varco, rituali ormai privi di investimento affettivo che dovrebbero accompagnarlo quietamente alla pensione. Se il desiderio di scrivere (e di insegnare) è quasi svanito, non resta che scrivere (e insegnare) attorno a quella pulsione che è il "Voler-Scrivere". Barthes allestisce dunque un poderoso dittico sul fantasma del Voler-Scrivere, fantasma da intendere in senso strettamente psicoanalitico, come scenario composto da un soggetto (che è l'io) e da un oggetto, uniti da una relazione che produce piacere. La mossa consente a Barthes di non escludere dal discorso (didattico e critico) la propria impasse esistenziale, di parlare di due opere che ama – la Recherche di Proust e l'haiku, il "suo" haiku (ovvero l'haiku tradotto in francese in raccolte lette nel corso di una vita intera da un lettore che non conosce il giapponese) – e addirittura di mettersi in gioco in prima persona, attraverso il "come se", calandosi nei panni di "colui che vuole scrivere", identificandosi e non paragonandosi, con gli eroi del Voler-Scrivere, Flaubert, Kafka e Proust su tutti. Nessun narcisismo ingenuo ovviamente, ma pura e semplice e inevitabile identificazione di un lettore delle opere di quei giganti del canone occidentale, identificazione sperimentata con impeccabile correttezza , trattando l'io come quell'altro che è, teste Freud et Lacan cum Rimbaud.
    Se la presenza di Proust in un insieme di lezioni sul Voler-Scrivere va da sé, meno immediatamente comprensibile potrebbe riuscire il ritornare del discorso sull'haiku. Perché una lunga, mirabile fenomenologia dell'"entrata in scrittura" è preceduta da un altrettanto mirabile analisi dell'haiku, eseguita da un lettore ignaro del giapponese, con finalità "esistenziali" (il termine è di Barthes), al di fuori di ogni velleità filologica? Certo la spiegazione, diciamo così, narrativa non fa una piega; chi "entra in scrittura" deve piuttosto presto porsi la domanda: "Cosa scrivere? Cosa narrare?", ovvero: "Cosa annotare del mondo fenomenico?", e poi: "Cosa rielaborare in chiave romanzesca delle annotazioni contenute nei taccuini?". L'haiku è, per Barthes, l'arte della Notazione, al suo massimo splendore, e dunque, potrebbe costituire il miglior primo passo sulla via che porta all'Opera. Ma una visione così strumentale dell'haiku non avrebbe potuto probabilmente generare pagine tanto ricche di fascino. Il lettore, d'altra parte, non tarda a rimanere vittima di uno strano effetto di eco intertestuale: quelle lezioni sull'haiku sembrano un puntuale controcanto della Camera chiara, scritta peraltro in un paio di mesi, subito dopo la chiusura di questo corso. Le pagine sull'haiku si rivelano a poco a poco il lato letterario, se così si può dire, di quel capolavoro sulla fotografia che è la Camera chiara. "Comparazione dell'haiku e dello 'scossone mentale' (satori). → Si potrebbe anche dire: un (buon) haiku fa tilt → fa scattare, come unico commento possibile: 'È questo!' → Vorrei dire qualche parola su questo 'È questo!' (tilt) dell'haiku, dato che si oppone a delle attitudini occidentali – e quindi fa riflettere su ciò che, per noi, è altro (…)apparizione brusca del referente nel cammino (della vita) e della parola nella frase".
    L'haiku, la Notazione pura, assume qui le caratteristiche di una fotografia fatta con le parole. Forse una parabola zen, narrata dallo stesso Barthes in questo corso, può essere utilizzata come oroscopo: "In un primo momento: le montagne sono montagne; secondo momento (diciamo dell'iniziazione): le montagne non sono più montagne; terzo momento: le montagne ridivengono montagne → Si torna al principio, a spirale → Si potrebbe dire: primo momento: quello della Stupidità (ce n'è in ognuno di noi), momento della tautologia arrogante, anti-intellettualista, un soldo è un soldo, ecc.; secondo momento: quello dell'interpretazione; terzo momento: quello della naturalità, del Wu-shi, dell'haiku. Questo processo: in un certo senso, il ritorno della lettera". Il problema dell'ultimo Barthes sembra proprio il tentativo di riaprire i canali tra parola e referente che sembravano essersi seccati, quasi vene e arterie otturate e necrotizzate da eccessive dosi di metalinguaggio: ecco dove la foto e l'haiku sembrano trovare la loro più profonda ragione. Di questo ritorno del Reale, il riaffiorare dell'interesse per la biografia, dopo il radicalismo della Morte dell'autore (1968), non è che un episodio, come del resto la scelta preliminare di non "reprimere il soggetto": "Appartengo a una generazione", siamo alle prime battute della prima lezione, "che ha troppo sofferto la censura del soggetto".
    Questi due corsi sono interamente costituiti da un protratto confronto tra "Album" e "Libro", assai più che tra "haiku" e "Proust". Due visioni del mondo tra le quali deve scegliere colui che vuole scrivere; uno degli aspetti del Voler-Scrivere, fantasmato forse prima di ogni altro, è la forma, e dunque la scelta tra Album e Libro avviene assai presto, a un livello più o meno cosciente. Il Libro prevede la fiducia in un universo, unificato, strutturato, gerarchizzato, di cui il Libro sarebbe appunto una rappresentazione; l'Album rappresenta un universo "non-uno, non gerarchizzato, sparpagliato, puro tessuto di contingenze". Ebbene, colui che ha spesso dichiarato di considerare la Recherche di Proust il Libro dei Libri, opta qui, qualora la scelta dovesse rivelarsi necessaria, per l'Album. "Se c'è lotta tra il Libro e l'Album, alla fine è l'Album a essere il più forte, è lui che resta"; non solo: "Ciò che vive in noi del Libro è l'Album: l'Album è il germe; il Libro, per quanto grandioso sia, non è che il soma". Non solo l'Album è l'inizio (sotto forma spesso di quaderni di annotazioni) dell'Opera (o, se si preferisce, Romanzo), ma ne è anche la fine; nella nostra memoria l'Opera sembra quasi rismontarsi nei suoi componenti essenziali: solo schegge, scene, flash dell'Opera si salvano dall'oblio. Riprendendo una dicotomia che risale agli scienziati greci, Barthes osserva che l'Album è il futuro, il "germe", la parte immortale dell'organismo, le cellule riproduttive, mentre il Romanzo è il "soma", la sua parte mortale. E davvero il lettore resta sorpreso dalle numerosissime dichiarazioni di fine della Letteratura che punteggiano il secondo corso: Proust, viene ripetuto quasi in ogni lezione, è l'ultimo scrittore dell'"Assoluto letterario". Il tema dell'"arcaismo" della letteratura, della sua "desuetudine", della poesia come "ciò che sta per morire", affiora ovunque in questa seconda serie di lezioni, mentre è, mi sembra, del tutto assente nella prima. Paradosso che si insinua surrettiziamente pagina dopo pagina: ravvisare negli haiku, componimenti dalle origini lontanissime nel tempo e nello spazio, una promessa di futuro, e forse addirittura una maggiore contemporaneità, una maggiore vicinanza spazio-temporale al docente, ai discenti e a noi lettori, rispetto alla Recherche, l'opera definita senza mezzi termini, in qualche luogo di questo libro, come la più alta del XX secolo.
    Ciò che gli haiku (e le fotografie) sembrano assicurare è qualcosa che al linguaggio sembra sfuggire in eterno: il reale. Il reale resta lontano per il linguaggio, in un imprendibile orizzonte sempre alla stessa distanza dal viandante – dallo scrittore – che lo incalza. E, tuttavia, l'incontro tra la parola e la cosa, tra il segno e il referente, deve, a un certo momento, avvenire: senza oggetto è infatti impossibile il Desiderio, e, senza Desiderio, la scrittura – come qualsiasi altro linguaggio artistico – non può fare appello ad alcuna necessità. Se l'incontro avviene, si tratta di un incontro assolutamente individuale, di un accesso alla "Differenza", a ciò che differenzia una cosa da tutte le altre.
    È, in altre parole, "il 'sale' della contingenza", come precisa Barthes parlando di haiku, quel sale inimitabile che racchiude il deteriorabile, il mortale. Perché "la 'verità' è nella differenza"; "non ci può essere una verità generale". Certo colui che tenne queste magnifiche lezioni avrà fatto propria l'affermazione di Sainte-Beuve citata da Proust (vertigine delle metacitazioni, se così si può dire, negata, paradossalmente, dal contenuto stesso della frase): "Per me la realtà è individuale".
    Ferdinando Amigoni, L'indice

    Pubblicato 11 anni fa #
  19. Proust, scuole di scrittura e controsenso

    Che ne pensate? Io non sono del tutto d'accordo.

    Pubblicato 11 anni fa #
  20. zaphod

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    Potrei non essere d'accordo se avessi capito che cazzo voleva dire...

    Pubblicato 11 anni fa #
  21. k

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    Bellissima scrittura, anche se pure io non ho capito di che.

    Pubblicato 11 anni fa #
  22. Woltaired

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    Credo che, fondamentalmente, chi scrive contrappone scritture invernali a scopate estive e poi le accomuna nella non necessità di regole. Fottete al sole e raccontatelo nei bui pomeriggi di neve. Un po' Bukowsky, un po' Eternauta. Condire il tutto con qualche mutanda abbandonata nel frigo e ciao.

    Pubblicato 11 anni fa #
  23. A.

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    Io come sapete qui sopra non intervengo con cose serie, ma non condivido affatto quanto scrive la scrivente, anzi la penso esattamente al contrario.

    Pubblicato 11 anni fa #
  24. A.

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    Moderatore


    Pubblicato 11 anni fa #
  25. Intende, almeno io così l'ho capito, che al di là della tecnica e dello stile alla base della scrittura ci debba essere un'intuizione, qualcosa che lo scrittore ha capito e che ha urgenza di comunicare.

    Ora, di base mi va pure bene, se non fosse per la sconfessione netta di quanto di razionale ci possa essere in ciò. Ok scrivere di pancia, ma l'intuizione che sta alla base di un'opera può pure non essere irrazionale. Qui si rischia di scadere nella celebrazione dell'ispirazione come fattore divino e pure un po' fine a se stesso.

    Ora, la scrittura nasce certo da un'urgenza comunicativa e, sì, un sentire forte, qualcosa in cui l'autore creda fortemente ci deve essere se si vuole andare oltre la pura forma, l'esercizio di stile per certi versi, ma non vedo perché ciò non possa venire dalla ragione. Che poi debba essere sentito pure di pancia ok, ma l'intuizione è solo uno dei modi di arrivarci.

    Pubblicato 11 anni fa #
  26. k

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    Sì Faust, vabbè. Io però non sarei proprio così sicuro che volesse dire esattamente questo.
    E se lo voleva dire, poi, perché lo ha fatto in quel modo così oscuro, tutto di testa, con profusione di metafore: 'esercizio di stile' appunto, e basta? Dov'era l'urgenza sua?

    Pubblicato 11 anni fa #
  27. SCa

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    Forse aiuta leggere anche la recensione di un romanzo che le è piaciuto (qui) in cui ripete: "Le storie sono già state scritte tutte, si ha fame di una voce, di uno stile, di un pensiero che ferisce. E con questo romanzo ci si riesce a saziare."
    E' difficile per me capire esattamente cosa intenda nella parte finale dell'articolo, dove ho la sensazione che estremizzi via via il suo discorso; però credo che lei sostenga che un romanzo con un buon intreccio, scritto bene, non sia di per sé un buon romanzo, se non va oltre, se non produce sensazioni che vanno al di là delle parole, della razionalità del lettore.
    Non mi sembra un discorso sullo scrivere "di pancia" o meno, forse più sulla creatività e sul "mestiere".

    Pubblicato 11 anni fa #
  28. @K : conta che è un blog, un blog letterario per giunta. E' fastidioso vizio di chi scrive interventi su internet il darsi un tono a tutti i costi, il mettere in vetrina il proprio talento al massimo grado di espressione. In ambito letterario tutto questo è aggravato. Se poi mi sono confuso io, non so, accetto suggerimenti.

    @Sca: E' certamente quello il focus, creatività e "mestiere", ma la fa sembrare tutta una faccenda di pancia, cosa che sto verificando in prima persona non essere così. Tante delle soluzioni che adotti sono di testa, e a volte anche quello che c'è alla base. Poi lo devi sentire, con la pancia, ma è un'altra storia.

    Pubblicato 11 anni fa #
  29. A.

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    Moderatore

    «Le storie sono già state scritte tutte»

    Non è vero. Da un punto di vista filosofico, nulla di più banale e falso

    Pubblicato 11 anni fa #
  30. Forse è meglio: Le storie sono state scritte da tutti.

    Pubblicato 11 anni fa #

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