Anonima scrittori


Lo sciopero del compagno Paolo

Categoria: Narrazioni
Postato da: Torquemada

[piccolissima prefazione dell'autore (Graziano Lanzidei): «i fatti e i personaggi raccontati in questo scritto sono puramente casuali. Però forse qualcosa di vero c'è».]

Ci vedevamo tutti i giorni alla Federazione del Pds di Latina. Rimanevamo lì fino a tarda notte a ragionare di politica, a preparare nuove iniziative o, più semplicemente, a giocare a carte o a fare feste a base di alcol e fumo. Avevamo tra i 18 e i 20 anni. Studiare si studiava – poco e male – e di lavorare non se ne parlava proprio. La politica era la nostra missione ma ci sbagliavamo, di grosso. Era l’epoca di Mani Pulite – mi iscrissi a Giurisprudenza proprio per fare il magistrato – e delle tangenti rosse che non uscivano fuori. Ogni giorno una tortura, con obbligatorio giro nell’emeroteca per andare a controllare se pure ‘noi’ c’eravamo zozzati in qualche maniera. Alla fine di tutto, quando i giochi sembravano fatti e noi ci apprestavamo ad andare al potere con tutta la gioiosa macchina da guerra, arrivò Berlusconi e fu come una tempesta. O un coitus interruptus. Non ci volle molto tempo per capire che, noi compagni, non andavamo più di moda. Non eravamo più gli estremisti di un tempo, c’eravamo democraticizzati ma eravamo rimasti senza potere. Basta coi Soviet, ormai credevamo nelle sorti mirabili e progressive a cui ci avrebbe portati il maggioritario. Niente rivoluzione ma una lenta riforma dello Stato per eliminare le ingiustizie. Se una volta ci si riempiva la bocca con citazioni di Marcuse o Che Guevara o Mao Tse Tung, ora non ci rimaneva che Dahrendorf e qualche altro tedesco socialdemocratico. Il bello è che non serviva leggerli. Tu dicevi una cosa, che magari ritenevi importante, e poi non ti serviva che anteporre la formula: “come dicono i compagni in Germania”, oppure “come dice Darhendorf o Cohn Bendit o Pinen Radiolinen”. Nessuno sarebbe andato a controllare. Triste dirlo, ma eravamo intellettuali verbosi senza il fascino dell’azione. E se qualcuno pensava di fare a botte coi fasci, la scoperta fu amara. Non erano più quelli di una volta. Ora, a Latina e in tutta Italia, stavano al potere. “Che vi meniamo a fare?” ci dicevano quando ci incrociavamo ad attaccare i manifesti.

Ai macroproblemi sopra descritti e alle beghe che dovevamo affrontare per far andare avanti una sezione giovanile di un partito, sommavamo le esigenze di ogni ragazzo o ragazza della nostra età. Per noi che perdevamo tempo la sera in sezione, il problema era: quale ragazza ti si poteva avvicinare con tutta la tristezza che emanavamo? Vivevamo nella speranza di poter partecipare ai raduni dell’ECOSY, la gioventù socialista europea. Tutti, dal nazionale al regionale per arrivare fino agli ex giovani comunisti, parlando di questi raduni internazionali ci strizzavano l’occhio in cerca di complicità. “Non potete capire cos’è successo l’anno scorso a Lisbona”. Quando ci arrivò la comunicazione che erano aperte le iscrizioni per il raduno di Berlino, penso che la Federazione di Latina abbia battuto tutti i record. 15 persone prenotate il minuto successivo. E da quel momento, per 4 mesi, pensammo solo a quell’appuntamento. Nel corso delle settimane se ne imbucarono altri e alla fine arrivammo a 27 partecipanti. Diciamo 26 più uno perché Carlo decise di portare un amico suo di Cisterna. E fu l’unico a destreggiarsi in mezzo a quella marea di persone. Saltava tutte le riunioni, la mattina e il pomeriggio, per conservare le energie. E la sera la faceva da padrone. Dopo due o tre giorni, cercammo di adeguarci al suo comportamento. “Porterà bene”. E invece no, il nostro limite era antropologico. Noi ci credevamo, all’amico di Carlo non gliene fregava niente. La dimostrazione pratica ci fu la penultima sera. Partenza del gruppo spagnolo e grande festa. Carlo e il suo amico riuscirono ad avvicinare due greche. Un po’ di ballo, qualche cocktail e poi la passeggiata. Ci raccontò poi Carlo che si mise a parlare, in un inglese rabberciato, di socialismo e ideali e del fallimento del mondo comunista che comunque era poi solo il fallimento del socialismo reale, non delle teorie di Marx ed Engels. “Communism is another thing”. Guardandosi intorno, per non cogliere lo sbadiglio della greca diventata sua amica, Carlo non trovò più il suo amico. Solo la mattina dopo ha scoperto che s’era appartato con l’altra ragazza greca. Anche se nell’inglese rabberciato col cisternese, era riuscito a fare colpo. Dice Carlo che gli erano bastate tre parole.

Se eravamo partiti per la riunione plenaria dell’ECOSY con il morale alle stelle, tornammo depressi. Ci buttammo nella politica, raccogliendo firme per qualsiasi causa. Iniziò a circolare più gente. Le donne che entravano erano sempre preda di quelli più grandicelli, a metà tra l’organizzazione giovanile e il partito. Loro andavano avanti coi dischi dei Clash, dei CCCP, con i libri alternativi – quelli di Curcio su tutti – e riuscivano quasi sempre nel loro intento. Noi no. Noi stavamo lì con la musica sconosciuta e un po’ più intimista e il massimo della protesta civile erano i Litfiba, quelli dei primi dischi. Impiegammo settimane a capire cosa c’era che non andava.

“La sezione… tu dovevi vedere… quella volta di qua… quella volta di là… non ci si riesce a credere… il mondo è proprio cambiato” ripetevano tutti i compagni che avevano il doppio dell’età nostra. E anche se cercavamo di fare come gli altri prima di noi, di dire che a Berlino erano successe cose turche, quello ci fermava e ripeteva: “non potete capire”. Visto che sapevamo tutti com’era andata a Berlino, non proseguimmo oltre con la pantomima. Avevamo individuato un’età dell’oro a cui fare riferimento: gli anni 70. E volevamo tenercela stretta. Così anche noi prendemmo a dire: “magari ad averci pure noi gli ideali degli anni 70. Lì sì che succedevano cose inenarrabili”. Andammo avanti un bel po’ con questo ritornello. La domanda più frequente dei nostri incontri era diventata: “ma come mai non ritorna quella militanza degli anni 70?”. Per dare una risposta a questo tormento, organizzammo anche degli incontri a tema.
Fino a che, nell’ultimo o nel penultimo di questi appuntamenti, un compagno ci svelò la verità, che poi leggemmo ne ‘Il fasciocomunista’.
“Certo che c’impegnavamo nelle sezioni, non ciavevamo un cazzo di altro da fare. Mica come oggi che ci sono i pub, le discoteche, i ristoranti. Poi le donne, era la scusa per uscire. Metti che nascevo mo’, chi me lo faceva a farmi fare due palle così?”
Una rivelazione, l’ennesima. Eravamo tedeschi dell’Est il giorno dopo la caduta del muro. Avevamo scoperto che la protagonista di quell’epoca, più della musica, della coscienza civile, della voglia di cambiare il mondo, era stata la noia. La noia li aveva tenuti tutti inchiodati alle sedie a parlare per ore, con linguaggi astratti. Non avevano nessun altro posto dove andare, chiaro che potevano nascere gli amori, che alla fine ci si arrivava a scambiare i ragazzi o le ragazze. Stavano tutti lì, dove altro potevano succedere ste cose?
La costante era la stessa: la noia. Era sempre lei che pure a noi ci teneva lì a discutere di tutte le cazzate che ci venivano in mente. Non si contavano più le serate perse a parlare del conflitto tra Israele e Palestina, di come Berlusconi stesse portando alla deriva il Paese, del fatto che il compagno D’Alema era il migliore e che Occhetto era solo un pallido ricordo. Ripetevamo sempre le stesse cose, perpetuando sempre le solite divisioni. I movimentisti contro quelli dell’apparato.
Paolo non parlò per tutta la serata. Poi, quando tutti scendevamo le scale e ci davamo appuntamento per il pomeriggio successivo, lui se ne uscì: “non vengo più, sciopero”. E tutti a guardarlo strano. “E dove cazzo vai?” chiedemmo tutti quasi in coro. Mica era consentito che uno di noi si togliesse dal pantano. “Non lo so, ma entro in sciopero, in Federazione non vengo più”. Ripassammo mentalmente la serata, ci chiedevamo cosa avesse infastidito così tanto il compagno Paolo da fargli abbandonare la militanza politica. “E perché fai sciopero?” da segretario politico dovevo prendere in mano la situazione.
“Domani voglio smettere di non scopare”.
Ridemmo, ma di quel sorriso nervoso, a mezza bocca, che ti guardi pure intorno per cercare conforto.
“E come fai?”.
“Tanto provo a non venire più qui”.

2 Responses to “Lo sciopero del compagno Paolo”

  1. GabSan Says:

    Bravo. Un sorriso amaro.

  2. Faust Cornelius Mob Says:

    Molto vero, potenzialmente pedagogico. Bel colpo.

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