Anonima scrittori


(r)esistenza 2010 - Se solo cambiassero i tavoli

Categoria: (r)esistenza, Narrazioni, Progetti
Postato da: Torquemada

[Iniziamo la pubblicazione dei migliori racconti arrivati per (r)esistenza 2010. Da ben cinque anni, Anonima Scrittori raccoglie storie di resistenza quotidiana per testimoniare come, ancora oggi, ci sia la necessità di lottare, di cadere e rialzarsi, di schierarsi. Iniziamo la pubblicazione sul web con uno dei nostri autori preferiti, Marco Berrettini, che al concorso (r)esistenza ha già partecipato con 'Dammi quattro diamanti', scritto che arrivò secondo nell'edizione del 2007 e che è stato letto durante il concerto lettura al Teatro di Terra di Velletri.]

SE SOLO CAMBIASSERO I TAVOLI
di Marco Berrettini

Le stelle dubbiose s’inerpicano sulle mura creando penombra.

Pensavo che i cd non gracchiassero e invece, eccomi qui, seduto nella mia nuova auto, contemplando le luci della pianura, assordato da un’inascoltabile Lura con Eclipse davvero mal masterizzata.
Ormai da molto tempo fatico ad addormentarmi  ed è perfettamente inutile stare nel letto a rigirarsi.
A volte mi ammazzo di televisione e blu-ray, altre m’intrufolo in età non più mie bevendo chupitos di rhum e pera e scartando la pera che ho sempre odiato; questa volta ho deciso di testare le potenzialità fuoristradistiche del mio ultimo acquisto e mi sono ritrovato quassù.
Intorno a me percepisco solo sagome, mentre in lontananza distinguo chiaramente alcune vie, l’aeroporto, il casello autostradale, il parcheggio del Kilometro Rosso, le piscine, gli edifici dell’ospedale e poi luci sempre più piccole e lontane che costruiscono un mare.
Immaginario e privo d’acqua.
Estraggo il cd e sintonizzo Radio Alta, musica notturna, jazzata, sbadiglio, forse dovrei rincasare e provare a dormire quelle tre o magari quattro ore che mi separano dall’inizio della giornata.
Riavvio, abbasso il finestrino e mi accendo una sigaretta. L’aria briosa, invadente e zuppa di pioggia, mi provoca un brivido, ma anziché chiudere il vetro li abbasso tutti, lunotto compreso.
Non è stato il freddo a colpirmi, ma l’odore.
Inusuale, un misto di polvere pirica, melanzane fritte e canfora, non avevo mai sentito questo miscuglio e poi… poi c’è qualcos’altro in mezzo, qualcosa di non chiaro.
Bah… il poco sonno mi sta arruffando l’olfatto, chiudo tutto e scendo in città sognando Cuba sulle note di Raul Paz.
Mi fermo nel bar di Alfredo, all’alba è l’unico aperto in città, prendo un croissant salato e ordino un cappuccio, come  fossi un normale pendolare in procinto di calare sulla city, ma mi tradisco con un bel: - Buonasera! –
Ludovica sorride e mi disegna una faccina sbadigliante col cacao.
- Beato lei che se ne va a dormire, io sono uscita mezz’ora fa dall’Istéria e ho dovuto fare apertura, fino a mezzogiorno non mi schiodo da qui.-
- Almeno così avrai una mezza giornata colma di certezze…-
- Ne farei volentieri pasto per pesci.-
- Fallo.-
- Sì certo e poi a fine mese che mi mangio?
- I pesci.-
Lascio ottanta centesimi di mancia, almeno un caffè ci sarà sempre; i miei jeans sono luridi, mi abbasso ad annusarli, no possono resistere ancora un po’.
Loro sì, ma io?
Lascio il pick up nel cortile interno, non si potrebbe lo so, ma non ho voglia di cercar parcheggio.
Salgo le scale di corsa avendo prima avuto cura di chiamare l’ascensore a terra, la porta è socchiusa come l’avevo lasciata, entro, la sbatto, mi verso un dito del primo liquore che mi capita a tiro e  trangugio. Forte, torbato, brucia, mastico della Citrosodina e conto venti gocce di Lexotan nell’acqua, perdo il conto, ne metto altre venti e bevo.
Semino i vestiti lungo il percorso verso il letto come se stessi inseguendo un’amante sguaiatamente eccitata, mi affondo di faccia sul materasso e cerco di non respirare.
Maschere di feltro m’impediscono visioni di sangue racchiuso in fiale sottili assimmetricamente ordinate sull’asfalto, mi alzo da una sedia in rattan che lentamente si sta incendiando, compio uno sforzo atroce, mi muovo verso la striscia bianca di mezzeria, ma sprofondo in un palco sabbioso.
Costellazioni oscene rischiarano la mia morte, un trillo di cellulare imprime una rotazione centripeta alle favole, annaspo e scavo nelle lenzuola giallo peste, il suono persiste, apro gli occhi, le nove e trenta.
- Pronto…-
- Ciao stronza.-
- Pronto?, ma … Enrico? Ciao bello, come stai?-
Enrico mi chiama sempre nei momenti più strani, ma questa mattina, in fondo, posso stare a parlare con lui. Ho ancor un po’ di sabbia del sogno che mi arriccia la voce, ma la giornata sembra luminosa e profumata, sorvolo su quegli accenni di outing che a sprazzi paventano un suo passo avanti verso la consapevolezza. Lascio galleggiare il cuore e chiacchiero con lui come il vecchio amico che davvero sono.
Molto spesso ho l’impressione che sia ubriaco, in altre occasioni mi convinco che, semplicemente, i suoi neuroni non abbiano mai ben superato i lavaggi dei centri di disintossicazione, ma la maggior parte delle volte torno semplicemente all’adolescenza fatta di giardinetti, motorini da cross e discoteche improvvisate sopra le celle frigorifere di una macelleria in brianza.
Dopo l’ennesima promessa sincera e mai mantenuta di andarlo a trovare al più presto mi risdraio e guardo l’ora, facendo una media degli orologi direi quasi le dieci.
Presto? Tardi? Tutte e tre le cose, compreso il perfetto orario, Serena arriverà oggi, ma non mi ha detto a che ora e il suo cellulare è morto.
Mi rado e preparo la vasca, inutile preoccuparsi, se dovesse atterrare prima che io sia lì mi chiamerà da un apparecchio fisso e la raggiungerò ancora prima che le abbiano restituito il bagaglio.
Chissà se la riconoscerò subito? Non la vedo da qualche anno, tre direi, tre anni in cui è stata sposata con quell’improponibile giapponese di cui non riesco mai a ricordare il nome. Qualcosa con in mezzo un paio di k ed una y, un nome da giapponese insomma.
L’ultima volta che l’ho avuta di fronte era in partenza per il viaggio di nozze in Toscana, era seduta sulla punta del mio divano nero, Makaky, o come diavolo si chiama, la stava aspettando nel taxi sotto casa.
Lei mi stringeva la mano e mi perdonava per il mio gesto inconsulto di tre sere prima. Io stavo subendo gli arresti domiciliari, come misura cautelare, inflittami per direttissima la mattina dello stesso sabato in cui lei, radiosa e orientaleggiante si era sposata con rito Indi nella sala ricreativa di un oratorio in Piazzale Frattini.
Aveva qualche cerotto sulle gambe, ma sorrideva e continuava a ripetermi che aveva capito troppo tardi di aver forse strafatto con le sorprese, ma che, in fondo, era stato meglio così, perché anche lei non aveva ben chiaro come si sarebbe svolta la cerimonia e quell’abito, quello finito in mille ritagli sotto la lama del mio coltello da cucina, sarebbe stato davvero inadatto.
La sua amica mauriziana, Sarjane, che le aveva presentato Kontyki, sì insomma… coso lì, le aveva prestato un preziosissimo sari sgargiante e tutto si era risolto e finalmente anche Serena aveva potuto sfoggiare quel pallino rosso in mezzo alla fronte che la collocava indiscutibilmente, almeno per quanti a conoscenza del suo significato sentimentalsemaforico,  tra le mogli.
Io ricorsi in appello e dopo qualche mese riuscii ad essere assolto, mi riconobbero il raptus e non mi ritennero pericoloso e la mia fedina ritornò immacolata, ma la mia anima era decisamente meno propensa al perdono e credo proprio siano cominciati in quel periodo i miei problemi di sonno.
Esco dalla vasca, mi accendo una sigaretta e lascio che il fumo si mischi al vapore, dopo quattro boccate la spengo disgustato lanciandola nel water; mi lavo i denti e vado a vestirmi.
Ieri, saranno state le otto di sera, stavo bevendo una mezza e mezza al Circolino intossicandomi di arachidi quando mi squilla il cellulare e compare un +41, ho pensato subito fosse Federica da Lugano e ho risposto con la voce di Yoghi.
Dalla risata  tagliente ho capito immediatamente, invece, di chi si trattasse, mi son cadute le noccioline nella birra e son rimasto lì a balbettare un c…c…ciao.
- Sono felice che tu mi riconosca al volo, scusa se brucio i convenevoli, ma ho quasi zero credito e meno ancora batteria, parto tra poco da Praga, faccio scalo a Zurigo questa notte e domani mattina arrivo ad Orio. Ho lasciato Ashyro , sto tornando in Italia, ti prego, sei il più vicino all’aeroporto, da Milano in meno di un’ora ci sei e poi…un po’ sei ancora in debito, no? E, ancora una cosa, …ho pensato molto a …-
Credito, batteria e quant’altro finiti, ho provato anche a chiamarla sul vecchio numero italiano che non avevo mai cancellato, ma era disattivato.
Sono pronto, sul parabrezza il solito biglietto di protesta di quelli del secondo piano, lo getto nella cassetta della posta e mi avvio verso un passato che ancora odora di scompiglio.
Ce la farò a resistere alla tentazione di baciarla appena la vedo?
Ventiquattro metri di scheletro, col naso a Pinocchio e una lancia conficcata in un dito, sul pavé davanti a Palazzo Reale. Ma che ci faccio a Milano?
Sono le quattro del mattino e i celerini assonnati mi scrutano, mentre un gruppetto di ragazzi ubriachi  gioca a calcio sul sagrato con una palla di nastro adesivo.
L’aria è frizzante, comincio a sentir freddo, mi siedo sui gradini del Duomo e mi rimetto le scarpe senza allacciarle. Accendo una sigaretta e guardo il cellulare. Muto. Riprovo per la miliardesima volta a comporre i numeri di Serena. Niente. Entrambi spenti, ma che vada al diavolo! Lo penso e mi sento in colpa, così, così da più di quindici ore, anzi di più, dall’unica volta che l’ho sentita, l’altro ieri sera. Un altalenarsi di fastidio, rabbia, preoccupazione, lo so che da lei ci si può aspettare di tutto, ma questo non sapere scatena in me odio impotente, infantile ed esplosivo.
Sta albeggiando, torno in aeroporto, magari arriverà con i primi voli del mattino, può esserci stato un problema tecnico, un equivoco qualunque, forse ho addirittura capito male io, magari ha detto dopo domani mattina e non domani, le penso davvero tutte per donarle ancora la ragione di un alibi.
In fondo quello che ha detto è vero. Sono ancora in debito con lei. Mah…non so, forse è lei ad esserlo nonostante tutto.
Cosa conta di più il suo perdono o la mia dedizione?
La A4 è ancora abbastanza vuota, passo la barriera e il tanfo di ragù mi avvolge stomacandomi.
Accelero, incurante degli autovelox, sfioro i 220Km/h e piombo ad Orio che non sono ancora le sei.
Mi perdo nel parcheggio e mi rendo conto che ieri per me è stata la prima volta in questo aeroporto, controllo i voli in arrivo e decido una scaletta d’attesa.
Mi svacco su una poltroncina davanti all’ufficio bagagli eccedenti e mi perdo inventandomi le vite di chi mi sta attorno.
Palme e chinchorros tra la pelle e gli occhiali di una ragazza bruna, alta, magrissima, un seno grande e malcelato in una vecchia felpa volutamente abbondante; musica jazz e trekking sulla barba di un giovane padre con in spalla  un bimbetto biondo riccioluto immerso in conchiglie e gigabyte . Nel suo futuro un cranio rasato e una camicia da duecento euro, poca paura e fallimenti nordamericani.
Un ragazzo dall’aspetto pakistano si avvicina a grandi passi. Riallineo i neuroni che riuscirono, in perfetto inglese, a convincere Maureen a baciarmi e mi rendo conto che non saprò mai tradurre “funicolare” e in città alta lo farò arrivare a piedi.
Rimango fino a tarda sera.
Di Serena nessuna notizia.

7 Responses to “(r)esistenza 2010 - Se solo cambiassero i tavoli”

  1. Mamma78 Says:

    Per quanto possa contare un mio parere… bravissimo! Mi è piaciuto lo stile, la scelta delle parole ed il loro accostamento e, ovviamente, il contenuto. Bravo, bravo!! ^_^

  2. big one Says:

    Bravo Wolt! Oramai hai acquisito uno stile inconfondibile. La storia è intrigante e molto ben raccontata con una scelta linguistica di alta qualità. Un solo appunto sul finale che mi sembra un pò tirato via.
    A presto.
    S.

  3. Faust Cornelius Mob Says:

    Concordo, Wolt ha uno stile personale che è un marchio di fabbrica.

  4. 雼ロ劙 k 鞁犽皽 Says:

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    3위권에 자리하다 결승선 세 바퀴를 남기고 2위로 올라선 최민정은 아리아나 폰타나와 거의 동시에 결승선을 통과했다….

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