A. Pennacchi
QUESTIONI DI FAMIGLIA, QUESTIONI DI NAZIONE:
IL VENETOPONTINO
(In memoria di Gianni Pennacchi)
C’è il primo dei miei nipoti – figlio d’una mia sorella e d’un campano, primo dei nostri nati della terza generazione qui, anche se poi vissuto a lungo a Santa Maria Capuavetere (Ce) – che dopo avere letto Canale Mussolini ha posto alcune questioni che sembrano esulare dal mero ambito familiare.
Riporto il suo messaggio per intero.
“Ciao Zio, non sono bravo a esternare sentimenti e quindi proverò a scriverteli anche se non sono bravo neanche in questo. Mannaggia a te! ho pianto e riso come un disperato. A piangere non ci vuole molto, visto che appartengo ad una famiglia di piagnoni. Ma a ridere e a commuovermi ce ne vuole un po’ di più. Tu sei riuscito nell'intento e ti devo ringraziare. Io non so se perchè alcune storie mi ritornano dalla memoria di racconti di famiglia, però sono sicuro che hai scritto la storia di un popolo con tutta la mitologia che si porta dietro. Concordo con tutto quello che ti ha scritto Marco Spal (d'altra parte l'ho scelto come amico dell'anima tanto tempo fa); non saprei esprimerlo meglio. Ho da farti soltanto una domanda: Ma secondo te, posso appartenere ad una sottoclasse sociologica, quella dei Napo-venetopontini? Mi piacerebbe molto se fosse possibile. Sento che questa è la mia storia, anche se con alcune varianti. Ti lascio con una piccola proposta: "Benedeti i Zorzi-Vila". Senza di loro noi non saremmo qui. Francamente son contento così. Firmato: Salvatore Omobono dei Benassi Peruzzi”
Questa invece è la mia risposta:
1° – Grazie dei complimenti, ma non ti pigliare meriti che non sono tuoi. Marco è un dono che dobbiamo tutto ad Allesandra. Va bene che sei il primo, ma mo’ le vuoi togliere anche questo?
2° – Gli Zorzi Vila scòrdateli. E’ il comandamento dei padri. Maladéti i xè e maladéti i resta. Insieme a Pascale.
3° – E veniamo al punto più dolente: ho la strana sensazione che pur con tutta la buona volontà, con te non ci sia proprio niente da fare. Io ve l'ho sempre detto che ogni volta che da giovane venivo a trovarvi, come passavo il Garigliano era un’ira di Dio a schivare i cammelli che attraversavano la strada, e non hai idea delle cagate di scimmia sul cofano della macchina, quando mi fermavo a un bar (a Cascano una volta ho messo sotto un nosbari). Tu hai il Mal d'Africa, nipote mio, chi te lo cura più? E stai pure in fase acuta. Vatti a far fare un esorcismo dal parroco di San Marco. E' l'ultima possibilità che hai. Non lo fare per me, ma fallo per tuo figlio, almeno.
Tu devi difatti sapere che perfino sotto il fascismo, il razzismo in Italia non era inteso in senso puramente “biologico” come i nazisti – almeno sul piano teorico – bensì razzismo "spirituale". Ergo, anche per il fascio non era l'hardware che determinava l'appartenenza o meno ad una razza, una communitas o una nazione, bensì il software. A Roma – per farti capire – fanno imperatore Filippo l'Arabo che era nero. Era nero però era romano e romanista. E' questo ciò che conta, esattamente come il bambino nero figlio di congolesi immigrati che gira sulla metro “A” con la maglietta di Totti e parla romanesco e attiene quindi tutto quanto – anima e corpo – al mito fondativo e identitario di Romolo e Remo. Certo continuerà pure a portarsi qualche cosa che era specificatamente dei genitori congolesi suoi, ma questo qualcosa entra dentro anche lui sincreticamente nel mito di Dea Roma, modificandolo secondo il principio di Heisenberg – e quindi contaminandolo pure, per certi versi – ma caricandolo sempre più progressivamente di nuove ed ulteriori linfe e significati, e soprattutto di nuove potenze, energie e forze. E così è per il bambino ex congolese che sta a Cisterna di Latina. Tu li devi sentire, Salvato', come parlano cisternese e bestemmiano – qualche volta – pure san Rocco. Figurati a Latina.
Ma non li vedi tutti questi figli di moldavi in giro, di magrebini, pakistani, ucraini, rumeni arrivati appena l'altro giorno, che la prima cosa che imparano è la barzelletta sui sezzesi? Sono loro i primi a dire, quando vanno alle elementari o a scuola calcio: “Olim Palus! Qua stava tutto sott'acqua e avemo fatto un Giardino”.
Questa è la nazione venetopontina, quella di mille razze e mille colori che s’è creata da sola il suo territorio e che oggi lo vive e popola con sempre nuovi afflussi in grazie ancora di quel fatto, di quel primo colpo di vanga che dato la stura all’acque. E’ è quel fatto lì che le dà il Genus, l'imprinting e la pulsione vitale a non fermarsi mai, a crescere ed ampliarsi ancora. Nella storia dell’umanità – Salvato’ – sono tante le genti che arrivate in un posto e visto che era bello e vivibile, ci si sono fermate divenendo man mano un tutt’uno con quel posto, divenendo popolo e nazione. E’ il territorio che li ha resi tali (si chiama determinismo storico-geografico). Noi invece era un inferno e il paradiso ce lo siamo fatti da soli: è il popolo – la nazione – che ha creato dal nulla il suo territorio: “Fiat Ager Pomptinus”. Va’ a vedere un po’ in giro per la Storia e per il Mondo quanti ce ne stanno come noi.
E come in Australia o in America per esempio (in cui non si sentono americani e partecipi del mito del Mayflower e di John Piantadimele solo i discendenti diretti dei primi Wasp, ma anche tutti quelli arrivati dopo, esattamente come i cugini nostri dalla parte di Cristina e di Liliana), così in Agro Pontino è nazione venetopontina tutta quella che s’è formata, vive, procrea e genera – progressivostoricamente determinata – a partire da quel primo incrocio di masse bastarde, che violentando la natura si cementavano autogenerandosi. Nel mito arcaico di Gea è lei – la Terra, Dea Tellus – che sola al mondo lancia dietro di sé le pietre e queste, ricadendo lungo la sua strada, divengono uomini viventi. Qui invece – man mano che per la prima volta dalla nascita del Tempo, questo stuolo di nani diseredati affondava nell’acqua sotto il segno del Leone di San Marco le sue vanghe, portandone alla luce del sole ogni zolla ed asciugandole tutte una ad una espellendone ogni e quasivoglia umore d’acqua – man mano rinascevano nuovi essi stessi ad ogni rivoltare di zolla. Da nani – sotto il segno di San Marco – ad ogni rivoltar sorgevano Titani e Giganti. Padri, non figli della Terra. Figli di sé stessi e della loro dominatio. Ubris – adýnaton – su tutto l’Agro Pontino da Pomezia fino a Terracina, dal mare di Anzio e del Circeo fino ai Monti Lepini e ai Colli Albani, fino sopra alla Semprevisa. Pure i coresi, i normiciani, i calabresi, i velletrani, i pipernesi, gli iuventini. Chiunque sta qua e lavora, chiunque arriva e si ferma – “Qua stava tutto sott’acqua, mo’ ci vengo pur’io” – come si ferma rinasce. Rinasce venetopontino. Se no se ne restava a casa sua.
Dice: “Ma pure i sezzesi?”
Pure i sezzesi, Salvato’. Loro non lo sanno, ma so’ venetopontini pure loro oramai. Neanche Martufello gli può levare sta fattura. Bisogna che se la tengono. Certo l’opposizione resta e resterà per sempre come a Roma la Lazio. Sono il nemico interno, il contraltare storico. Incarnano il concetto di differenza e distinzione che è necessario ad ogni gruppo – come pre-condizione appunto – per poter costruire al suo interno un minimun di sentimento e massa critica di unità/identità. L’unico modo di unirsi – da che mondo è mondo – è unirsi contro qualcun altro. E’ per questo che ci servono come il pane, a noi, i sezzesi. A parte che gli piace. Più so’ sezzesi e più gli piace. Però – mi devi credere – questo vale solo quando siamo qui, a casa nostra. Quando andiamo fuori non vale più. Fuori prevalgono le differenze fra noi e tutti gli altri (dice Polibio che era questa la forza dei Romani: la ferocissima divisione interna fra di loro in patria, ma che diventava titanica unità quando erano tutti loro contro tutti gli altri. I fratelli Benassi, fatti conto. I Peruzzi). Tu ricorderai di quella volta che in giro per Parigi con tua zia, a un certo punto sentimmo parlare in sezzese. Mi volto sul marciapiede e a una ventina di metri – quello strilla pure quando bisbiglia – non ti vedo Lidano Grassucci e un amico suo che se la chiacchieravano tranquilli (si credevano loro) sotto braccio? “Fratello!” gli ho strillato allora io, e lui – mi devi credere – è scattato come un matto, pareva Mennea per venirmi ad abbracciare. “Fratello mio!”, mi faceva Lidano Grassucci in mezzo a Saint Germaine De Près: “Ma i sì visti ssi cazzo de francesi? Littoria uber alles, Penna’, Littoria uber alles!”.
Ora – dopo tutto questo – io che ti debbo dire più, nipote mio? E’ vero, tuo padre era napoletano – anzi peggio, mezzo casertano come l’agronomo Pascale; secondo il comandamento dei padri, noi gli avremmo dovuto sparare appena lo abbiamo visto la prima volta sul cancello, proprio come Maradona ai giornalisti, grande Maradona; ma a tua madre gli era piaciuto, che ci potevamo fare’? le fregnacce che ci raccontava quando eravamo ragazzini non ne hai un’idea – però tua madre era dei Peruzzi, anzi meglio, dei Benassi, e tu sei nato il 31 marzo del 1959 in via Benvenuto Cellini numero 20 allora (adesso è 30), a Latina, quando la strada non c’era proprio. Davanti casa nostra c’erano solo i campi e la vacche di Molon che pascolavano. I fossi d’inverno si riempivano d’acqua e straripavano. Tuo zio Fernando andava a rubare le porte al palazzo Emme o il legname sui cantieri per costruire le barche e navigarli. Con tutti i fratelli più piccoli sopra. Tu non hai idea di quante volte che ci ha mezzo affogati. Ma dove sta adesso via Guido Reni – proprio sull’angolo di casa nostra, la casa dell’Iacp dove sei nato tu – lì finiva la città e cominciava la palude.
Via Guido Reni non c’era ancora e non c’era neanche l’Ospedale. Non c’era un cazzo. C’era solo uno stagno enorme lì davanti all’angolo di Zoe e della signora Nora – lì da Lidia – e le ranocchie, Salvato’, un mare di ranocchie che gracidavano notte e giorno. E quanto ci piaceva a noi, quel coro continuo e costante – costante al pulsare del cosmo – del canto infinito di infinite ranocchie. E ce le mangiavamo pure le ranocchie e mangiavamo pure i gatti a quel tempo, perché c’era la fame.
Tu non sei solo un figlio dei Giganti, non sei solo il primo nipote maschio di Giovanni Pennacchi Bonificatore dell’Agro Pontino – tuo nonno, mio padre – tu sei in specie Gigante te stesso, perché nato in palude quando la palude circondava ancora tutta la nostra casa. Era il 1959, la nostra era “la casa in mezzo alla palude” e non erano passati neanche due anni che tuo nonno aveva avuto gli ultimi attacchi di malaria.
Ora sono vent’anni che sei tornato ad abitare lì, nella “casa in mezzo alla palude”, dentro la stanza dove sei nato, e ci stai con la moglie che ti sei andato a prendere a Sermoneta (sì, è vero: sermonetana, te possin’ammazzà, terra dei Caetani; ma che ci posso fare? oramai ce la teniamo, ce la tenevamo pure se era di Sezze Scalo) e mo’ mi vieni a dire: “Scusa, zio, mi potresti mettere una buona parola? potrei per caso per cortesia, con una raccomandazione tua, un po’ di carte false magari, farmi passare ed essere considerato pure io un po’ napoletano-venetopontino pure io?”.
Ma tu ti sei bevuto il cervello, Salvato’. Qua bisogna dire alla sermonetana che ti dia una fraccata di botte. Ma questo è l’8 settembre, la morte della Patria, alto tradimento, violata consegna, diserzione sul campo, connivenza col nemico. Ma manco i Savoia, te possin’ammazzà. E vaffanculo va’: tu sei Gigante e ti credi nosbari? Al muro! A processo a Verona devi anda’! Fucilazione alla schiena. Oppure fatti la valigia e torna in Africa di corsa. Tu, però. Non tuo figlio. Tu figlio no.
Tuo figlio è roba dei Peruzzi e resta qua (ma l’hai visto che faccia che cià? Vagli a di’ che non è venetopontino e vedi se non ti caccia subito il coltello sotto al collo peggio ancora di tutto suo zio Pericle. Vagli a brucia’ un pagliaio, se ciài il coraggio).
Tu – nipote mio – tu sei Gigante figlio dei Giganti che hanno bonificato l’Agro Pontino, sei nazione venetopontina ed io soffro e piango insieme a te, per la tua dissociazione psichica, per la tua crisi d’identità. Tu non sai chi sei? Tu sei Gigante – t’aripossin’ammazzà – tu sei Titano. Alzati e cammina, e sfida il mondo: c’è il Leone di San Marco dentro di te. Sta qua. Non sta più a Venezia. E’ venuto con noi quando ci hanno cacciati. Gli è rimasto stocazzo, mo’ a Venezia. Va’ a vedere se lo trovi. Se lo sono portati via i Peruzzi. Non ti ricordi quand’eri bambino, al podere 517, che zio Iseo ti strillava: “Non stà andar lààà” – dietro la baracchetta – “che ‘l lión ancora nol gà manzà, inquò” (non andare lì, che il Leone ancora non ha mangiato oggi)? Lui sta qua, su noi e sui sezzesi. Non lo senti ogni tanto – quando passi per piazza San Marco la sera se piove – che da dentro la chiesa fa: “Ròhargh”? Ma come avremmo fatto se no – pensaci bene – a respingere per oltre quattro mesi l’intero sbarco di Anzio? E mica penserai che ha fatto tutto tua zia Bìssola (lei sì ha fatto tanto, e vedessi che rispetto che le portava il leone, aveva quasi paura, bastava che gli dicesse: “Tàsi, sa?”, e quello le si accucciava a fianco buono buono e faceva le fusa. “Ch’at vègna un càncher” lo accarezzava allora zia Bìssola, e lui andava in giuggiole).
Io ti perdono quindi, figlio. Rialzati e vai in pace, nipote tra i nipoti.
Giustizia però è giustizia, è la legge di San Marco. Il tuo delitto – erga Patres, erga Patriam, erga Deos – quand’anche e pietosissimamente perdonato, non può essere cancellato o rimosso. Il diritto delle genti nol consentirebbe. All’8 settembre non può che seguire l’abdicazione. Un Primo cugino che fugge e che tentenna, non può più esercitare il ruolo storico di Pater familias della sua generazione.
Sei destituito, o – se vuoi – hai abdicato. Fai tu. Per noi è uguale.
Pur con tutto l’amore, la considerazioone e il conforto che continueremo tutti a darti, da oggi oggi non sei più tu il Primo cugino della vostra generazione. Non ti manderemo a Oporto. Resta pur tra noi. Nipote tra i nipoti. Ma l’auctoritas del Primo passa immediatamente sul tuo successore legittimo. Già dal prossimo pranzo, a capotavola dei cugini si insedierà lui e a lui – secondo i sacri e antichi riti – toccheranno i primi piatti e quando muoio io, il discorso in chiesa lo declamerà lui (non fate parla’ Zaccheo, che quello davvero è capace di morire dopo di me, per potersi levare sta soddisfazione. Non gliela dovete da’! Di’ che muore prima lui, e gli parlo io piuttosto. Attenti a Finestra. Finestra di sicuro parla sia al mio che a quello di Zaccheo. E’ una volpe, non lo riuscirete a fermare. Preparate solo un pacchettino di mischia e state buoni buoni, ma come lo sentite dire una sola volta “il destino beffardo” o “i ragazzi di Salò”, tutti addosso senza pietà, portatevelo via di peso. Non cercate di levargli il microfono, perché non ve lo molla. Se proprio state alle strette, fàteve da’ una mano anche dal figlio).
Per quanto riguarda invece le più specifiche questioni legate alla successione, io avrei preferito designare Giannino come Primo cugino, perché si chiama appunto Gianni come suo zio e come suo nonno, ed è bello, intelligente, forte, audace e generoso come loro. Però è mio figlio e non volendo assolutamente fare nepotismi avevo ripiegato su Marcello. Mi dicono però che non sarebbe giusto, perché oramai il diritto delle genti va superando sempre più ogni discriminazione femminile. E’ il Tempo che avanza. Non ci si può fare più niente. Anche tra di noi è quindi giusto che la successione si trasmetta per linee assolutamente dirette. Così è giusto, così è deciso e così sarà.
Da oggi in poi l’auctoritas, l’imperium e la potestas di Primo Assoluto tra Tutti i Cugini passano interamente sulle capaci spalle di Allesandra. Lo Spirito degli Antenati cammina adesso insieme a lei.
Tu peraltro – Salvato’ – anche quando l’hai avuta e esercitata in pieno quell’auctoritas, tu non è che abbia dato grande prova di te. E’ tutta colpa tua se manca poco e fate cadere zio Gianni al suo funerale. Ma che si organizza così il trasporto di una bara? Invece di mettere gli alti di dietro, i mezzani in mezzo e i bassi più avanti – come t’avevo detto precisamente io – hai schierato tutti gli alti da un lato e i bassi da quell’altro. Ma che si fa così? C’era quella cassa sulle scale – quando siamo scesi dalla chiesa – che pareva sopra le montagne russe. Ballava su e giù. Di qua e di là. E tutta la gente che faceva: “Mo’ cade, mo’ cade”.
Il mio povero fratello da lì dentro – ti giuro che l’ho sentito extrasensoriale – mi diceva sconsolato: “Ma che cazzo de nipoti! Ma manco bòni a portà ‘na cassa?”
“E che cazzo vòi da me?”, gli ho dovuto rispondere extrasensoriale anch’io: “So’ i nipoti tua. Scendi e pòrtate da solo”. Ma intanto Giannino e Marcello – mentre insieme a sta cassa che tenevano in collo ballavano di qua e di là, su quella cazzo di scala ripida ripida, li mortacci sua, della chiesa di Montesacro, poi dice gli architetti; te la farei portare a te una cassa in collo, a tutti gli architetti a Valle Giulia, su e giù per quelle scale, prima di andare a far gli esami; le esercitazioni di Cad e di disegno? una cassa in collo te possin’ammazzà: famme vede’ come la porti, e solo dopo te faccio laurea’ – mi facevano a parole vere, loro, Gianni e Marcello, non extrasensoriali, in mezzo a tutta la gente che sentiva: “Mo’ cade, mo’ cade, mo’ cade”.
E allora tutta la gente – pure Pietrangelo Buttafuoco – s’è messa a dirmi tutta quanta pure lei a me, come se fosse proprio colpa mia: “Eh! Mo’ cade! Mo’ cade! Mo’ cade!”.
“Ma fatte l’affari tua, no?”, gli volevo dire a sto stronzo, “Ma che è, la cassa di La Russa?” quando avete ricominciato pure voi – da sotto quella cassa – “Zio, cade! Zio, cade!”. E’ lì che non ce l’ho fatta più, e pur con tutta la pazienza mia che come sapete non l’ho mai persa una volta sola in tutta la vita, m’è uscito de strilla’ in mezzo alla gente: “Ma che volete tutti da me? E se cade lo roccagliémo! Quanto male se potrà fa’, sto testadecazzi?”
“Mica gliel’avemo detto noi”, ha chiarito a quel punto a tutta la gente mio fratello Fernando, “de buttasse dall’albero de Natale… Anzi, ma voi chi siete? Chi cazzo v’ha chiamato? Ma andate un po’ affanculo tutti quanti!”
Lui rideva, dentro la cassa, e ci diceva extrasensorio: “Brutti fìdenamignotta! Tanto prima o dopo ve riacchiappo”.
Ciao Gia’, te possin’ammazzà. Saluta mamma e papà.
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P.S. – Così t’impari però, Salvato’, a votare ogni volta per lui allo Zio dell’Anno. Mo’ il vento è cambiato. Spoil system si chiama. Di’ che viene lui adesso a votare per te, se sei capace.
Anzi, a pensarci bene, quasi quasi faccio una piccola forzatura giuridica e nomino Primo Cugino Assoluto a tutti gli effetti proprio Marco Onorati detto Spal, e ve la pigliate in culo tutti quanti.
Antonio Pennacchi – 7 aprile 2010