Riporto un articolo di Romano Luperini dal Corriere della Sera del 19 luglio che analizza le critiche dei letterati a Roberto Saviano. E' interessante anche perchè si analizza quello è diventata la letteratura italiana negli ultimi anni.
"Ferisce il livore con cui molti critici formatisi negli anni Ottanta e che ora hanno fra i 35 e i 50 anni parlano di Roberto Saviano. Lo accusano di essere «un fenomeno mediatico», di avere ceduto alle lusinghe dell’industria culturale, di scrivere male. Nella prefazione a La bellezza e l’inferno (Mondadori) Saviano parla degli «addetti ai lavori » che lo criticano perché vorrebbero che uno scrittore si limitasse a «limare le parole». Costoro «non hanno più nulla per cui valga la pena di lottare», «vivono nel privilegio delle loro vite disilluse e protette» e nell’attività di scrittore di Saviano «vedono solo una manovra furba » per avere successo. Il fatto è che la vita e la scrittura di Saviano rappresentano una smentita non solo della loro concezione della letteratura, ma della intera loro esistenza. Costoro sono dei letterati, mentre Saviano è un intellettuale. Sono narratori-narratori o critici-critici, concepiscono l’attività letteraria come settorialità specifica e separata. Saviano invece è un narratore- saggista, che fa sempre un discorso sul mondo; è ancora un intellettuale, un erede di Pasolini e di Sciascia, anche se ormai, di necessità, nella nuova situazione storica, non gode più del privilegio della centralità di cui gli intellettuali hanno usufruito sino agli anni Settanta. Saviano è un intellettuale delle periferie. Se ha accesso alla Tv, è come «personaggio » e come «esperto» della camorra; non come intellettuale complessivo. Lui lo sa, e accetta la sfida (perché non dovrebbe farlo?). Costoro sostengono che ormai si vive in una società in cui il trauma è impossibile o perennemente differito a causa della mediazione massmediologica. Dicono che la realtà non esiste più e che si vive nella post-realtà: scambiano un effetto ideologico, la derealizzazione, con la scomparsa della realtà. Si raccontano una loro storia vittimistica e autoconsolatoria. Trasformano la vicenda di una generazione di abitanti privilegiati dell’Occidente in ideologia e in visione del mondo complessiva. Non importa se accanto a loro ci sono i migranti che attraversano il Mediterraneo o le famiglie travolte dalla crisi economica. Loro appartengono alla razza di chi non conosce il trauma. Non possono che detestare Saviano, che il trauma glielo sbatte in faccia. Costoro si sono formati in anni di ilare nichilismo. Saviano è venuto dopo: appartiene alla generazione dei precari, dei giovani disperati senza futuro, che hanno molto in comune con i marginali e i migranti appena giunti nel nostro Paese. Come possono capirlo quanti si barricano dietro una cultura italica da anni Trenta e ripetono nei confronti di Silvio Berlusconi e del berlusconismo le stesse posture che i letterati italiani misero in campo contro Benito Mussolini e il mussolinismo? Ripropongono il vecchio strumentario di sempre del letterato italiano: la protesta politica ridotta a battute di spirito (fatte circolare, ora, via internet), la chiusura in piccole cricche, il formalismo, la difesa di una vecchia idea di letterarietà, la torre d’avorio di una presunta purezza che eviterebbe qualsiasi contaminazione con il mondo dei media. Sono dei provinciali."