Prima di staccare la spina, posto a richiesta il racconto di a.p. in questione:
a.pennacchi
IL PRESIDENTE
(da: "Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni", Mondadori 2006)
“Giovedì m’impicco”, dice da trent’anni, ogni sera, il Presidente, quando facciamo il turno di notte. A dire la verità prima non si chiamava Presidente, ma Spaccalegna, perché da ragazzino, coi calzoni corti, insieme al padre portava la legna in giro per le case, che nessuno aveva i riscaldamenti ed il metano, e c’erano soltanto le stufe economiche che ci si faceva da mangiare anche d’estate. In fabbrica poi – quando dappertutto è arrivato il gas ed il benessere, e lui s’è messo i calzoni lunghi – è rimasto per tutti Spaccalegna, fino al giorno che lo hanno eletto presidente degli Ultras della Fulgorcavi e allora è diventato, di diritto, il Presidente.
Lui è fissato con il giovedì. A tutti, normalmente, piace il sabato o la domenica, perché stai a casa e non vai a lavorare. C’è qualcuno, come me, che gli piace il venerdì, perché è l’ultimo giorno di lavoro e già pregusti i sollazzi della festa. Poi, magari, la festa non fai che romperti le palle ed esce fuori che tutto il gusto stava appunto nel venerdì, ad aspettare che la festa arrivasse. Ma qualcuno che gli piacesse il giovedì non s’era mai trovato. Cos’ha di tanto strano il giovedì? E’ una rottura di scatole come gli altri. Quasi come il lunedì, che cominci a lavorare. Anzi per qualcuno – i contorti come me – il peggiore è la domenica, perché la passi tutta quanta a pensare che domani è lunedì.
“Giovedì m’impicco” dice sempre, e si mette a ridere, quando timbriamo l’orologio all’entrata. E all’uscita, il mattino dopo: “Mo’ passo in ferramenta, compro tre metri di corda e giovedì m’impicco”.
“Ma impiccati subito”, gli rispondono sempre tutti quanti, “che aspetti a fare? La corda te la do io”. Oppure, il giovedì, tutti lo accolgono: “Com’è: ‘nte sei impiccato?”.
“No, oggi non m’andava. Giovedì prossimo”.
“Anzi”, aggiunge poi, quando s’arriva al parcheggio delle macchine e ognuno se ne va per conto suo: “Impicchiamoci tutti insieme, setto o otto, al carroponte. Così alla fine lo capiscono che bella vita che facciamo. Pensateci su, e giovedì mi date una risposta. La corda ce la metto io”.
E’ uno che ride. E’ uno che scherza. Ma è anche uno polemico, e abbastanza attaccabrighe; è per questo che lo hanno fatto presidente degli ultras. E’ nato, logicamente, di giovedì, ma quando è nato stava per morire. Impiccato. Appena uscito dalla madre aveva tre giri di cordone ombelicale intorno al collo. Sembrava andato. Era già tutto paonazzo. Ma la levatrice è stata svelta: l’ha rigirato come una trottola e s’è salvato. Lo ha spiccato. Ma tutte le volte che, da ragazzetto, gli andava la polizia a casa la madre gli diceva: “Non era meglio che mi restavi impiccato quella volta?”. “Non ti preoccupare, ma’” rideva, mentre i questurini lo portavano via: “M’impicco giovedì”.
Quando giocava a pallone avrà collezionato più espulsioni lui che tutto il resto della squadra messa insieme. Ma è un generoso. Più d’una ventina d’anni fa – quando la Fulgorcavi giocava in serie D e l’allenatore era Fascetti – ci fu, al campo nostro, una partita col Porto d’Anzio. Quelli sono tutti scaricatori e vennero in massa. Era una partita di recupero e si giocava di giorno feriale – ma non era giovedì – per cui i nostri erano tutti a lavorare. Con quelli invece c’era anche Giulio Rinaldi, che era stato da poco campione d’Europa dei mediomassimi. Un amico nostro – il Sezzese, che è un provocatore peggio di lui – capitò proprio nella tribuna dei portodanzesi e cominciò a stuzzicarli in tutti i modi. Quelli hanno retto il primo tempo, poi al secondo tempo non ci hanno visto più e lo hanno messo in mezzo. Dal campo però, palla al piede e mentre alzava la testa per indirizzare il passaggio – Fascetti lo chiamava Suarez per la precisione di questi lanci – lo ha visto il Presidente, che lavorava da dieci anni insieme a lui. Non se l’è sentita di lasciarlo prendere tutte quelle botte da solo: ha scavalcato la rete e s’è buttato in mezzo alla tribuna. “Chi è sto matto?”, hanno detto i portodanzesi e si sono dedicati tutti a lui. Gli hanno fatto fare quaranta giorni d’ospedale. Al Presidente. Che ancora adesso dice: “Quello che mi rode però è che quando ero per terra, sopra le gradinate, e quelli menavano zampate come disgraziati, con la coda degli occhi ho visto il Sezzese, figlio di mignotta, che quatto quatto se la squagliava”.
Adesso è vecchio. Ha una cinquantina d’anni pure lui. Da un po’ di tempo – da quando il benessere ha dato alla testa alla gente ed anche i coglioni che abitano all’ottavo piano si sono presi la moda di farsi il caminetto in salotto – ha ricominciato a fare, nel tempo libero, lo spaccalegna. Porta appunto, nei sacchi, i pezzi di legna belli tagliati a quei coglioni di cui sopra. Gliela fa pagare a prezzo d’oro. Più cara del prosciutto. Gli dice che la fa venire dalla Svezia. S’è fatto l’Ape-car ed una motosega, e butta giù le piante del demanio sulle fasce frangivento. Tanto da noi non ci guarda nessuno. Guadagna più con la legna che in fabbrica, e se non fosse per quei pochi anni che gli mancano alla pensione si sarebbe pure licenziato.
Però è sempre generoso. Quello che gli chiedi ti dà. Anche una mano sul lavoro. E sul lavoro è una scheggia. Non ha mai fatto un giorno di mutua, eccetto naturalmente quella volta al campo e quell’altra – una decina d’anni fa – che gli è scoppiata l’appendicite in fabbrica, di notte, di lunedì. Era una settimana oramai che se la portava appresso, ma veniva a lavorare uguale, piegato in due: “Ciò un doloretto qua”, faceva. Poi quella notte non ce l’ha fatta più e s’è buttato per terra nel bel mezzo della pausa alla macchinetta del caffè: “Chiamate l’ambulanza” diceva, ma gli veniva da ridere. Era peritonite e, mentre lo imbarellavano, a noi che eravamo tutti preoccupati disse: “Mica è giovedì”. Tornò dopo un mese – “Giovedì m’impicco”, comunicò all’orologio a tutti quelli che lo salutavano festanti: “Ciao, come stai?” – ma voleva tornare pure prima, il dottore lo tenne a casa a forza. E si rimise subito a lavorare come un picchio.
Giovedì scorso era una bella serata – una serata di maggio – ma lui era raffreddato perché doveva avere preso una brutta sudata a buttare giù un eucalyptus. Aveva mal di gola e quando ci siamo visti alla macchinetta del caffè aveva una sciarpa di quelle lunghe gialloverdi degli ultras della Fulgorcavi arrotolata intorno al collo. Come al solito qualcuno ha guardato l’orologio: “E’ mezzanotte, è venerdì oramai: ‘nte sei impiccato manco stavolta”, e siamo tornati a lavorare. E nessuno ha pensato all’ora legale.
La sua macchina doveva avere qualcosa che non andava. Le bobine uscivano non avvolte bene, il filo si ammucchiava tutto da una parte. S’è messo a sistemare. Ha smucinato un po’ col guidafilo – col regolatore di velocità – attraverso i comandi a distanza. Poi è tornato in testa, a controllare gli aspiratori ed i sacconi della resina. Intorno all’una meno un quarto è riandato al cavalletto di raccolta, a ritoccare il guidafilo. Con lo scotch ha bloccato il microswitch di sicurezza, ha aperto la griglia di protezione e s’è chinato sulla bobina. Gli penzolava, al petto, un lembo della sciarpa. S’è accorto che, dietro, s’era allentato un fermo del guidafilo. Dev’essersi sporto per bloccarlo. Un piccolo lembo di sciarpa s’è impigliato nella vite a farfalla del fermobobina sul mandrino. Ma quello se lo è mangiato subito. Se lo è inghiottito, come Giona e la balena: ha continuato a girare ed ha arrotolato tutta la sciarpa. Lui ha spinto, con la mano, il bottone rosso dell’arresto di emergenza. Ma era rotto. Non ha funzionato. Il mandrino ha continuato a girare a tutta velocità. Stringendo la sciarpa. Come una morsa. Ne aveva tre giri – proprio come il cordone di sua madre – intorno al collo. “Ma è venerdì”, ha pensato all’inizio, poi subito: “L’ora legale!” e non ha avuto più tempo di pensare ad altro. E’ morto. Appiccato alla macchina. Di giovedì.
Noi siamo arrivati di corsa, messi in allarme dal rumore che cessava. L’avvolgitore s’è fermato sotto sforzo. E non c’era proprio niente da fare. Solo un segno di croce, mentre l’orologio elettronico, alla parete, segnava l’una meno dieci, di venerdì. Ma ora legale per l’appunto, non l’ora vera per il Presidente.
Si era sposato pure di giovedì. La moglie si era messa a piangere: “Tutti sposano di sabato e domenica, perché io debbo fare una cosa strana? Sei un dittatore”. “Non è vero”, rideva, “io sono democratico, mica ti obbligo, hai perfino due scelte: o ti sposi giovedì oppure ti sposi un altro”. E a noi, sulla porta della chiesa, mentre aspettavamo che arrivasse la sposa, aveva detto piano piano: “Visto che sto giovedì m’impicco per davvero?”