Anonima scrittori

Forum Anonimascrittori » Anonima Scrittori

Scrittura e filosofia

(30 articoli)
  1. A.

    offline
    Moderatore

    Apro questo topic dopo aver chiesto e ottenuto autorizzazione dal grande inquisitore spagnolo. Non so se e quanto possa interessare. Metterò cose, sia prese sulla rete, che pensate (ahahah) da solo (ahahah).
    Ovviamente invitando al dialogo, anche cazzeggiante, purchè non banale.
    A.

    Pubblicato 12 anni fa #
  2. A.

    offline
    Moderatore

    Perché si scrive? per fugare la morte, così diceva un grande filosofo del 900, Jakie Derrida. E voi perchè scrivete?

    Innanzitutto J.d per questo dovere della memoria, riteneva necessario conservare ogni traccia di quanto scritto, vediamo cosa ne racconta il suo amico Maurizio Ferraris:

    Veniamo all’ansia fondamentale. Temeva di perdere i suoi testi, conservava tutto, fotocopiava. Era anche contento del fatto che Irvine, che aveva preso gli originali dei suoi scritti dal 1946 (teneva tutto: 47,8 piedi lineari, 116 scatole e 10 contenitori di formato più grande) e gliene aveva lasciato le fotocopie, gli avesse regalato una fotocopiatrice. Stesso discorso, amplificato, con i file del computer, all’inizio – lo racconta anche in una intervista – aveva perso dei testi, da quel momento salvava ossessivamente. A casa sua mi aveva mostrato – faceva fare il giro di casa agli ospiti, da buon meridionale – tre computer, diceva che salvava un dischetto su tutti e tre. Non è immaginabile il suo sconforto quando apprese (era un’ansia transitiva) che Alexander Garcia Düttman, suo amico e allievo, non aveva mai pensato di salvare i testi contenuti nel suo hard disk… E Adami mi ha raccontato che quando partiva da casa sua, a Meina, dopo qualche giorno di permanenza (e dunque di scrittura forsennata), gli lasciava i dischetti del lavoro svolto, non si sa mai… Era rimasto estasiato quando a New York, nell’ottobre 1999, gli mostrai uno zip, ignorava che esistessero, uno zip con cui potevo portare con me un pezzo importante del mio archivio, «ecco il mio corpus» (anch’io non scherzo, ma rispetto a lui sono rimasto in tutto e per tutto un dilettante). E quando, all’inizio di luglio del 2003, sono andato a trovarlo a casa, Jacques, scosso dalla certezza della malattia e prostrato dalla chemioterapia, non ha potuto trattenere un sorriso di ammirazione quando gli ho mostrato un memory stick, quello che ho nella tasca della giacca adesso, nel momento esatto in cui vi parlo, e in cui, ovviamente, è conservata la memoria che vi leggo. Tutte le pagine sul concetto di archivio con cui ha disseminato il mondo vengono di lì, voglio dire non dal mio memory stick, ma dall’ammirazione con cui lo guardava Jacques. Un maniaco, un collezionista (nel giardino di casa sua c’era anche il cimitero di tutti i gatti della sua vita, e il parco di tutti gli alberi di Natale trapiantati)?

    Ma poi soprattutto, la morte, discacciarla, dilazionarla, rinviarla.

    Un’altra volta, nel gennaio 1995, a Torino, avevo organizzato una conversazione a tre, lui, Vattimo e io. Vattimo, a un certo punto, gli chiese se pensava mai alla resurrezione, e con tutta naturalezza Derrida rispose con queste testuali parole (ne ho la registrazione, è poi uscita in Il gusto del segreto): «Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della sopravvivenza, è veramente la sola cosa che mi interessi, ma proprio nella misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico.» Dipaniamo con calma questi fili, come li avrebbe chiamati lui, quello della morte e della sopravvivenza; quello della intensità che non viene meno, anzi, è accresciuta dalla idea della morte; e poi, come terzo filo, la depressione che incombeva su di lui, la malinconia dell’uomo di genio (attenzione! non vale la reciproca, non ogni melanconico è geniale). Resurrezione Primo, la morte e la sopravvivenza. In una testimonianza apparsa su «Le Monde», Jean-Luc Nancy, suo grande amico, ha sostenuto che parlavano spesso, da increduli, di resurrezione, e che Derrida gli diceva, ridendo, che quello che avrebbe preferito di gran lunga era la «resurrezione classica», con corpo e tutto. Ma non poteva crederci, era proprio quella presenza piena che, persino in vita, si sottrae sempre, sono le ultime parole di La voce e il fenomeno, il suo capolavoro filosofico. Figuriamoci dopo la morte. Ed è l’idea che ha cercato di esorcizzare con la scrittura e la differenza, ossia, scrivendo, per l’appunto, conservando delle tracce, e differendo, allontanando il più possibile l’inevitabile, come Sherazade e come tutti. Era preoccupatissimo delle malattie, semplicemente perché, come ho scritto un mese esatto fa, nella sua commemorazione, era l’uomo più innamorato della vita che io abbia mai conosciuto

    I brani sono tratti da :
    Maurizio Ferraris ONTOLOGIA ANSIOSA* * Letto all’Università di Roma Tre, il 9 novembre 2004. Rivista di estetica, n.s., 27 (3 / 2004), XLIV, pp. 3-11 © Rosenberg & Sellier

    Pubblicato 12 anni fa #
  3. k

    offline
    Membro

    Scusi, A, ma a me il decostruzionismo e il pensiero debole m'hanno sempre fatto girare i coglioni e i brani che lei riporta non possono che confermarmi nelle mie convinzioni. Altro che cattivi maestri. Questi erano dei nevrotici che avrebbero fatto meglio a farsi curare le loro ossessioni.

    Pubblicato 12 anni fa #
  4. A.

    offline
    Moderatore

    Al di là del decostruzionismo, e del pensiero debole etc (categorie manualistiche, giustamente caduche), Lei non c'ha l'ansia che una qualche cosa che ha scritto vada perduta? Io sì, con tutto il sangue e il lucen che mi serve per scriverle,(dannata gastrite) tutte le volte che lavoro e scrivo, salvo in almeno due diverse chiavette.

    Pubblicato 12 anni fa #
  5. k

    offline
    Membro

    Lei può salvare quanto le pare ed è pure giusto che provi a farlo, ma avendo sempre la consapevolezza di chissà quanti e quali capolavori sono andati persi nel corso della storia, e che anche la nostra civiltà ed il nostro stesso ricordo come genere umano sono destinati a perire come granello di polvere nella storia dell'essere e del cosmo. Ma - con tutto questo - noi siamo in ogni caso tenuti a profondere il massimo dei nostri sforzi in ogni nostro compito e lavoro, quasi, appunto, che essi debbano durare e sopravviverci per tutti i secoli dei secoli e, mio caro A, non è detto che, pur perendo nella memoria delle cose, in quella dell'essere e della storia non sia proprio così.

    Ultima questione: forse perdere e dimenticare - per chi scrive - non è una iattura ma una benedizione. Ti ricostringe a ripensare e riflettere, a rielaborare da capo, e così davvero non riavrai più la stessa opera di prima, ma una migliore, più raffinata. Chissà che stronzata che erano, magari, i primi Canti Orfici. Lui ci sarà pure uscito pazzo quando a Solaria (mi pare) glielo hanno perso. Ma è questo che lo ha costretto a rifarlo, e di sicuro lo ha fatto meglio. Alla faccia di Derrida.

    Pubblicato 12 anni fa #
  6. A.

    offline
    Moderatore

    Indubbiamente è vero quello che dice, eppure, per quanto granellini di povere nel deserto, dobbiamo attendere con la massima applicazione a quel compito che è tutta la nostra vita. Avremmo fatto "metà del nostro dovere", come diceva sua madre, ma non possiamo esimercene.

    Pubblicato 12 anni fa #
  7. A.

    offline
    Moderatore

    Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
    Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
    Considero valore il vino finché dura un pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
    Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
    Considero valore tutte le ferite.
    Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordarsi di che.
    Considero valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
    Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
    Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore..
    Molti di questi valori non ho conosciuto.

    Erri De Luca

    Pubblicato 12 anni fa #
  8. Woltaired

    offline
    Membro

    Il tarlo più grande, la catena che si attorciglia a cappio è il desiderio del controllo, il bisogno di sapere. Anticipare mentalmente il film di un futuro illusorio che possiamo solo supporre giusticandolo con euristiche scadenti; che sia negazione o fede ci basta per credere di potere influire sull'inconosciuto e ci proviamo con ogni mezzo.
    Perché, invece, non perdersi?
    Andare nel senso della forza, invece che cercare di contrastarla?
    Non per questo sarebbe necessario disattendere all'impegno, solo basterebbe non chiederci le prove dei risultati, non creare i collegamenti a concatenazione immediata di causa effetto.

    Una volta scrissi una lunga lettera d'amore a una donna che non conoscevo, la chiusi in un busta e la lanciai dal finestrino di un tram, forse finì tra i binari, forse qualcuno la raccolse, forse la trovò proprio lei. Io non lo so, ma non importa.
    Ora se ho paura di perdere qualcosa che ho scritto lo metto nel caos della rete, così l'ho già perso e contemporaneamente è sempre lì, visbilmente celato.

    Pubblicato 12 anni fa #
  9. A.

    offline
    Moderatore

    Ieri si parlava di tassare il Vaticano, etc, con Sensi, che è intervenuto su FB dicendo che se non fosse stato per i monaci medievali non avremmo avuto manoscritti di Aristotele e Platone, nonchè tutti i poeti e letterati latini. E quindi che le chiese, i monasteri, etc, sono come le Università, intoccabili.
    Ok, ma le scuole di Atene chi le ha chiuse? Giustiniano, cristiano, vietando l'insegnamento della "filosofia pagana".
    Poi, se non fosse stato per gli arabi, col cavolo che avremmo molti dei testi che ora leggiamo della grecità.
    Sensi è un filosofo, più di me, ma di storia della filosofia non sa nulla. Come io non so nulla di meccanica o ingegneria, sia chiaro.
    Potrete dire che la storia della filosofia non serve a un cazzo, e l'ingegneria e la meccanica sì. Va bene. Lo accetto. Ma lo dicevano già alcuni filosofi in età ellenistica.
    Capirci, mio professore di filosofia, diceva una cosa verissima: la gente crede di avere un proprio pensiero autonomo ma qualunque pensiero supposto autonomo e geniale, è già stato detto da un qualche filosofo secoli fa.
    (Poi diceva anche un'altra cosa circa il matrimonio come martirio, nella differenza tra lui e Tommaso D'Aquino, quest'ultimo santo, mente lui martire [entrambi Tommasi, ed entrambi aquinati]; ma questo attiene alla sfera della privatezza).

    Pubblicato 12 anni fa #
  10. A.

    offline
    Moderatore

    Il nodo junghiano, intervista a Luigi Zoja.

    Pubblicato 12 anni fa #
  11. lulla

    offline
    Membro

    Vabbè! Spero che sto Caruso qua non sia andato fino a Milano con FR e abbia scomodato Toja per fargli recitare 5 minuti di banalità.

    Pubblicato 12 anni fa #
  12. Per A:
    la storia della filosofia serve eccome, serve pure la filosofia della storia, tutto serve, serve la sociologia della letteratura, serve perfino la storia del diritto canonico che se tu chiedi a uno studente di legge ti dice che serve a nulla e invece a qualcosa servirà pure, tutto può esserci utile a capirci (ogni riferimento al prof. è puramente casuale). Senza queste cose il mondo sarebbe peggiore. E' quando ho sentito dire a Berlusconi "Non leggo un romanzo da almeno 20 anni." che ho cominciato a preoccuparmi per l'Italia...

    Pubblicato 12 anni fa #
  13. k

    offline
    Membro

    No, la sociologia della letteratura non serve a un cazzo.

    Pubblicato 12 anni fa #
  14. rindindin

    offline
    Membro

    un saluto a tutti in questo topic, mi spiace non essere molto presente ma sto passando un periodo duro...comunque vi leggo e vi penso...:)

    Pubblicato 12 anni fa #
  15. lulla

    offline
    Membro

    Ciao. Spero che tu possa ammordidire il brutto periodo che stai passando. Un bacio e a presto

    Pubblicato 12 anni fa #
  16. lulla

    offline
    Membro

    possiamo far qualcosa per te?

    Pubblicato 12 anni fa #
  17. k

    offline
    Membro

    Dicce chi dovemo anda' a mena'.

    Pubblicato 12 anni fa #
  18. rindindin

    offline
    Membro

    uno sarebbe da menare davvero perchè il problema più grande è il lavoro! qui se non si fa la rivoluzione non se ne esce...a forza di arrampicarci sui vetri ci siamo consumati le unghie. adesso siamo in caduta libera. meno male che c'è la filosofia...

    Pubblicato 12 anni fa #
  19. A.

    offline
    Moderatore

    Cosa è un uomo, Se il suo unico modo di impiegare il tempo
    è rappresentato dal dormire e mangiare? Una bestia nient'altro.
    Certo chi ci ha creato con una così vasta facoltà
    di unire il futuro al passato
    Non ci ha concesso questa capacità e questo dono divino
    della ragione perchè ammuffissero dentro di noi.
    Ora vuoi che sia per bestiale oblio o per qualche
    gretto scrupolo di pensare troppo attentamente all'evento
    Un pensiero che smembrato ha soltanto una parte
    di saggezza e sempre tre parti di vigliaccheria
    Io davvero non so
    perchè continuo a vivere dicendo
    questa cosa è da fare
    visto che ho il motivo, la volontà, la forza, i mezzi per farla
    Esempi grossi come il mondo mi esortano
    La prova è questo esercito
    che è così massiccio e costoso
    guidato da un principe delicato e sensibile
    che spinto dalla sovrumana ambizione che lo pervade
    fa le boccacce all'imprevisto che l'attende
    e si espone mortale e insicuro ai colpi che
    la fortuna, la morte, il pericolo gli riservano
    anche solo per un guscio d'uovo

    Essere grandi non è agitarsi senza grandi argomenti
    ma con grandezza scendere in campo per un nulla quando l'onore è in gioco
    Allora cosa sono io, io che ho un padre assassinato, una madre insozzata,
    due punguli roventi nella mente e nel sangue?
    Metto tutto a dormire?!
    Mentre per mia vergogna vedo la morte imminente
    di ventimila uomini che per un capriccio
    e per uno scherzo della gloria
    vanno verso la tomba come fosse un letto
    e combattono per una zolla per cui i soldati
    non avranno lo spazio per combattersi
    e che non conterrà mai
    abbastanza tombe per nasconderci i cadaveri

    Oh da ora per certo
    i miei pensieri siano di sangue
    o siano deserto

    Get the Video Plugin

    Pubblicato 12 anni fa #
  20. A.

    offline
    Moderatore

    “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cossiché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio...

    Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un'epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi s'ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l'aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell'universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un'altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesso come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell'universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide.

    La classe rivoluzionaria si presenta senz'altro, per il solo fatto che si contrappone ad una classe, non come classe ma come rappresentante dell'intera società, appare come l'intera massa della società di contro all'unica classe dominante.”
    Karl Marx-Friedrich Engels,, Ideologia tedesca 1846.

    Pubblicato 12 anni fa #
  21. A.

    offline
    Moderatore

    LA FENOMENOLOGIA DEGLI OGGETTI DI USO QUOTIDIANO
    Conversazione con Harvey Molotch della New York University, ospite del progetto di ateneo Scienza, tecnologia e società
    di Massimiano Bucchi
    Approfondimento:
    Scienza, tecnologia e società (STSTN)
    Che cosa può dire la forma di un tostapane o di un cavatappi sul nostro mondo e sul nostro stile di vita? Harvey Molotch, sociologo alla New York University, tenta da anni di rispondere a queste domande analizzando oggetti tecnologici di uso quotidiano, design e architettura degli spazi pubblici, grandi infrastrutture tecnologiche come la metropolitana di New York. Il suo "Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono" (Where Stuff Comes From, edito in Italia da Cortina) è divenuto un piccolo classico.
    Molotch è stato ospite il 26 ottobre dei seminari Scienza, tecnologia e società dell’Università di Trento. Giunti alla quinta edizione, i seminari erano dedicati quest’anno al tema “Errori e incidenti tra scienza, tecnologia e società”.
    Da dove vengono gli oggetti e perché ce ne dovremmo interessare?
    Gli oggetti vengono da una combinazione di forze e di processi. Non è solo la tecnologia, non è solo il design, ma anche il modo in cui si è sviluppato il commercio. Qualunque oggetto di uso comune – le penne con cui scriviamo, i tavoli a cui ci sediamo, le toilette che utilizziamo – ha una ricca storia e comprenderla ci aiuta a capire il nostro mondo, dice qualcosa su noi stessi. E questo anche perché gli oggetti contribuiscono a dar forma alle nostre vite, anche se sono fatti da noi. Ne siamo dipendenti, sono nostre appendici,]meccanismi che ci permettono di condurre le nostre vite sociali e materiali.
    Facciamo un esempio...
    La tazzina di ceramica in cui sto bevendo il caffè è l’ultimo anello di una lunga catena di oggetti – la nave che ha trasportato il caffè, la macchina che lo ha tostato, quella che lo ha trasformato in un liquido – che mi permette di bere il caffè caldo. E il caffè non è solo una bevanda, ma un’estensione della nostra socialità, e la tazzina contribuisce a renderla possibile.
    Perché allora gli stessi tipi di oggetti prendono forme diverse in diversi contesti?
    Il tostapane, ad esempio, è connesso a una serie di altri oggetti e di cose che facciamo. Presuppone un certo tipo di pane, soprattutto nella versione originaria americana del tostapane ‘a espulsione’, presuppone fette di pane già tagliate e della stessa dimensione. Americani e inglesi mangiano pane tostato quando si siedono a far colazione, a differenza degli italiani che spesso prendono un caffè al bancone del bar. Il pane tostato è una parte essenziale del nostro rituale della colazione. Noi abbiamo l’abitudine di spalmare, di mettere vari ingredienti sul pane e il tostapane dà alla fetta di pane la consistenza necessaria… Così, partendo da un oggetto di uso comune si può comprendere una cultura. In fondo è quello che facevano l’antropologia classica e l’archeologia: da una serie di oggetti ricostruire le caratteristiche di una società.
    Pensi che i sociologi o gli antropologi del futuro riusciranno a ricostruire i caratteri della nostra società partendo dai nostri iPad o iPhone?
    Questo è interessante, perché la vita digitale di oggetti come l’iPad è molto più effimera, può scomparire facilmente come i contenuti dei primi computers di cui non esistono più i software, ma che certamente possono dirci qualcosa dal punto di vista del design. Oggi tutti celebrano Steve Jobs, tra l’altro, per l’estetica dei suoi prodotti, ma quello che ha fatto è stato rendere ordinario lo straordinario, rendere le attività e le interazioni sociali con questi oggetti il più possibile simili a quello che le persone già conoscevano e facevano prima dei media digitali; una nuova tecnologia ha sempre il problema di rassicurare le persone, di agganciarsi a qualcosa di ordinario e familiare. All’epoca dei primi voli in aereo, servire dei pasti era un modo per ravvicinare questa esperienza ad altre esperienze già note: il cavatappi con le ‘ali’ che è sulla copertina del mio libro presuppone familiarità con un certo tipo di leva, che si diffonde a partire da una certa epoca.
    Dunque un grande innovatore non è un visionario che immagina la tecnologia e la società del futuro, ma qualcuno che sa connettere l’innovazione a pratiche già esistenti?
    Credo che tu abbia ragione, ma ironicamente la visionarietà consiste nell’intuire che la chiave è l’ordinarietà: quanto più riesce a far leva sulle esperienze precedenti e le loro abitudini cognitive, tanto più ha la potenzialità di cambiare il mondo. Un innovatore è qualcuno che comprende la società ed è in grado di catturarla con una killer application, per citare sempre Jobs. La killer application è quella che connette le persone comuni e i loro modi comuni di fare le cose (come ascoltare la musica o trovare la strada di casa), a una nuova tecnologia. La televisione è stata rivoluzionaria in quanto ha permesso di guardare uno spettacolo senza uscire di casa. In questo senso Steve Jobs è stato un grande “assemblatore”, come direbbe Bruno Latour, ha messo insieme il packaging, la musica, la tecnologia, la società.

    http://periodicounitn.unitn.it/

    Pubblicato 12 anni fa #
  22. A.

    offline
    Moderatore

    17 febbraio 1600 - 17 febbraio 2012
    Il rogo di un filosofo...

    «Persevera, caro Filoteo, persevera; non ti scoraggiare e non indietreggiare, perché il grande e solenne senato della sciocca ignoranza, con l’aiuto di multiple macchinazioni ed artifici, non minacci e tenti di distruggere la tua divina impresa ed il tuo grandioso lavoro. (...) E poiché nel pensiero di ciascuno si trova una certa sant...ità naturale, sita nell’alto tribunale dell’intelletto che esercita il giudizio del bene e del male, della luce e delle tenebre, accadrà che, da particolari riflessioni di ciascuno, nasceranno per il tuo processo dei testimoni e dei difensori molto fedeli e integri. (...) Facci ancora conoscere quello che è veramente il cielo, quello che sono veramente i pianeti e tutti gli astri; come i mondi infiniti sono distinti gli uni dagli altri; come un tale effetto infinito non è impossibile ma necessario; come un tale effetto infinito giovi alla causa infinita; qual è la vera sostanza, materia, atto ed efficienza del tutto; come tutte le cose sensibili e composte sono formate degli stessi principi ed elementi. Apportaci la conoscenza dell’universo infinito. Strappa le superfici concave e convesse che terminano all’interno e all’esterno tanto degli elementi quanto del cielo. Getta il ridicolo sulle sfere deferenti e le stelle fisse. Spezza e getta a terra, nel boato e nel turbine dei tuoi argomenti vigorosi, quello che le persone cieche considerano come le mura adamantine del primo impulso e dell’ultimo convesso. Che sia distrutta la posizione centrale accordata in proprio ed unicamente a questa Terra. Sopprimi la volgare credenza nella quintessenza. Donaci la scienza dell’equivalenza della composizione dei nostro astro e del nostro mondo, insieme a quelle di tutti gli astri e di tutti i mondi che possiamo vedere. Che con le sue fasi successive ed ordinate, ciascuno dei grandi e spaziosi mondi infiniti nutra equamente altri mondi infiniti di minor importanza. Annulla i motori estrinseci, nello stesso modo dei limiti di questo cielo. Aprici la porta attraverso la quale noi vediamo che questi astri non differiscono dagli altri. Mostra che la consistenza degli altri mondi nell’etere è simile alla consistenza di questo. Fa chiaramente intendere che il movimento di tutto proviene dall’anima interiore, affinché la luce di una tale contemplazione ci faccia progredire un po’ più sicuri nella conoscenza della natura».

    Giordano Bruno, (De infinito, universo et mondi).

    Pubblicato 12 anni fa #
  23. A.

    offline
    Moderatore

    A faust mob, con stima.

    ----------

    Mi ribello, dunque siamo. Un testo inedito di Camus
    APPROFONDIMENTI
    E IL FUNZIONARIO DISSE: "BASTA"
    di Roberto Escobar, da il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2012
    La ferita della guerra è ancora aperta quando, nell'estate del '45, il trentaduenne Albert Camus dà alle stampe la sua "Remarque sur la révolte". La lotta contro il fascismo in Europa è appena finita. Il giovane letterato e filosofo ne porta i segni nell'anima e nel pensiero. Tre anni prima ha pubblicato "Il mito di Sisifo", riflessione coraggiosa e laica sull'assurdo, inteso come confronto lucido tra la coscienza individuale e l'insensatezza dell'universo. È una rivolta, quella compiuta dell'uomo assurdo: una rivolta contro il destino, contro l'inevitabile concludersi nel niente della sua vita, contro ogni cielo assoluto che lo sovrasta e nega. E però non si manifesta in essa la dimensione dell'impegno con e per gli altri. Tutto sembra ridursi al singolo e alla sua solitudine. Poi nel '51, con "L'uomo in rivolta", quella solitudine si aprirà alla pluralità delle vite e alla necessità di «prender partito», anche in senso politico.
    C'è un salto fra il pensiero dell'assurdo e quello della rivolta? Oppure c'è una continuità? Quando nel '46 Camus terrà a New York una conferenza sulla «Crisi dell'uomo», questa continuità si manifesterà. Combattendo nel Maquis, nella Resistenza - dirà fra l'altro -, noi ci mettevamo contro il nazismo, lo negavamo («le cose erano andate troppo oltre, c'era un limite a quello che si poteva sopportare»), e nello stesso tempo affermavamo «che c'era qualcosa in noi che rigettava l'offesa e che non poteva essere umiliato senza fine». Qui è il plurale che spicca, il noi che si rivolta contro una terribile 'insensatezza' storica.
    E appunto la pluralità viene in primo piano, nel saggio del '45. Indirettamente, lo fa già all'inizio, con «il funzionario che ha ricevuto ordini per tutta la vita», e che «giudica a un tratto inaccettabile un nuovo comando». Da dove viene quel suo no che, mentre nega, afferma che c'è «qualcosa di cui vale la pena prendersi cura»? E perché Camus scrive proprio di un funzionario? Perché il funzionario obbedisce, qualunque sia l'ordine e per quanto sia rivoltante. E ancora, che cosa interrompe e capovolge questa sua obbedienza, se non l'improvvisa 'scoperta' delle conseguenze? Insomma, nelle prime righe della Nota sulla rivolta accanto a un 'io', il funzionario, sta implicito un 'altro', la vittima. Più avanti: «la rivolta non nasce solamente e necessariamente nell'oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell'oppressione».
    C'è qui però un'incongruenza. Il funzionario non è un oppresso, ma un oppressore al servizio di altri oppressori, più potenti. Dunque, la sua rivolta non nasce dalla propria sofferenza, ma dallo 'spettacolo' della vittima che soffre. Nel libro del '51 l'incongruenza si scioglierà: la figura ambigua del funzionario lascerà il posto ad altre due. La prima sarà appunto la vittima. Nell'esordio di "L'uomo in rivolta" è lei, la vittima, a opporre al suo oppressore quel no che è allo stesso tempo un sì, un prender partito. E poi entra in scena l'altra figura: quella del terzo, né oppressore né oppresso, eppure coinvolto nel dolore che si manifesta ai suoi occhi. Ed è qui, nel suo coinvolgimento, che l'uomo assurdo 'trascende' se stesso e prende partito per la solidarietà: l'io si apre all'altro, e in lui scopre qualcosa di cui pensa valga la pena prendersi cura. Non si tratta di un nuovo valore assoluto, ma di un valore relativo, che cioè non vive in cielo, ma nella relazione tutta terrena con l'altro. Il grido dell'uomo assurdo - mi rivolto, dunque sono - ora si fa ancora più alto: mi rivolto, dunque siamo.

    di Albert Camus, da Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2012

    Che cos'è un uomo in rivolta? È innanzitutto un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì. Osserviamo nel dettaglio il movimento di rivolta. Un funzionario che ha ricevuto ordini per tutta la vita giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Insorge e dice no. Che cosa significa questo no?

    Significa, per esempio: «Le cose hanno durato abbastanza», «esistono limiti che non possono essere superati», «fin qui, sì, al di là, no», o ancora: «andate troppo in là». Insomma, questo no afferma l'esistenza di una frontiera. Sotto un'altra forma ancora la stessa idea si ritrova nella sensazione dell'uomo in rivolta che l'altro 'esageri', «che non ci siano ragioni per», alla fine «ch'egli oltrepassi il suo diritto», fondando, per concludere, la frontiera il diritto. Non esiste rivolta senza la sensazione di avere in se stessi in qualche modo e da qualche parte ragione. È per questo che il funzionario in rivolta dice ad un tempo sì e no. Perché afferma, assieme alla frontiera, tutto ciò che custodisce e preserva al di qua della frontiera. Afferma che in lui c'è qualcosa di cui vale la pena prendersi cura.

    Insieme alla repulsione verso l'intruso, esiste in ogni rivolta un'adesione intera e istantanea dell'uomo a una certa parte dell'esperienza umana. Ma qual è questa parte?
    Si potrebbe affermare che il no del funzionario in rivolta rappresenta soltanto gli atti che rifiuta di compiere. Ma si noterà che questo no significa tanto «esistono cose che io non posso fare» quanto «esistono cose che voi non potete fare». Si vede già che l'affermazione della rivolta si estende a qualche cosa che trascende l'individuo, che lo trae dalla sua supposta solitudine, e che fonda un valore. Ci si limiterà, al momento, a identificare questo valore con ciò che, nell'uomo, rimane irriducibile.

    Precisiamo almeno che si tratta proprio di un valore. Per quanto confusamente, esiste una presa di coscienza consecutiva al moto di rivolta. Questa presa di coscienza consiste nella percezione improvvisa di un valore con cui l'uomo può identificarsi totalmente. Perché, fin qui, quest'identificazione non era realmente sentita. Tutti gli ordini e le esazioni anteriori al moto di rivolta, il funzionario li subiva. Spesso, anzi, aveva ricevuto senza reagire ordini più rivoltanti di quello che fa scattare il suo moto.

    Ma portava pazienza, incerto ancora del proprio diritto. Con la perdita della pazienza, con l'impazienza, comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che in precedenza veniva accettato. Questo movimento è quasi sempre retroattivo. Il funzionario, nell'istante in cui non riconosce la riflessione umiliante del suo superiore, rifiuta insieme lo stato di funzionario per intero. Il moto di rivolta lo porta più in là di quanto egli non vada con un semplice rifiuto.

    Prende le distanze dal proprio passato, trascende la propria storia. Precedentemente invischiato in un compromesso, si getta d'un tratto nel Tutto o Niente; ciò che dapprima era la parte irriducibile dell'uomo diventa l'uomo intero. Nel moto della propria rivolta, l'uomo prende coscienza di un valore in cui crede di potersi riassumere. Ma come si vede, prende coscienza, contemporaneamente, di un 'tutto' ancora piuttosto oscuro e di un 'niente' che significa esattamente la possibilità di sacrificio dell'uomo a questo tutto. L'uomo in rivolta vuole essere tutto- vale a dire questo valore di cui ad un tratto ha preso coscienza e che vuole venga riconosciuto e accettato nella sua persona - o niente, vale a dire essere decaduto ad opera della forza che lo domina. Al limite, accetterà di morire.

    Mette sulla bilancia la morte e quanto chiamerà, per esempio, la sua libertà. Dunque, si tratta davvero di un valore, e uno studio dettagliato della nozione di rivolta dovrebbe ricavare, da questa semplice osservazione, l'idea che la rivolta, contrariamente all'opinione corrente, e benché nasca da ciò che l'uomo ha di più strettamente individuale, mette in questione il concetto stesso di individuo. Perché se l'individuo, in casi estremi, accetta di morire e nel moto della propria rivolta muore, dimostra con ciò ch'egli si sacrifica a favore di una verità che oltrepassa il suo destino individuale, che va più in là della sua personale esistenza. Se preferisce l'eventualità della morte alla negazione di questa parte dell'uomo che egli protegge, è perché valuta quest'ultima più generale di se stesso.

    La parte che l'uomo in rivolta protegge, egli ha la sensazione di averla in comune con tutti gli uomini. È da ciò che essa trae all'improvviso la sua trascendenza. È per tutte le esistenze a un tempo che insorge il funzionario quando giudica che, da un dato ordine, viene negata qualche cosa in lui che non gli appartiene in modo esclusivo, ma che è un luogo comune in cui tutti gli uomini, anche colui che l'insulta e l'opprime, hanno già pronta una forma di solidarietà. Esiste una complicità che unisce la vittima al carnefice.

    La rivolta non nasce solamente e necessariamente nell'oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell'oppressione. Esiste in questo caso un'identificazione con l'altro individuo. Non si tratta di un'identificazione psicologica, sotterfugio per mezzo del quale l'individuo sentirebbe nella sua immaginazione che è a lui che s'indirizza l'offesa (perché, al contrario, si arriva a non sopportare di veder infliggere ad altri delle offese che noi stessi abbiamo subito senza rivolta). Esiste solamente un'identificazione di destini e un prender partito. L'individuo, dunque, non è in se stesso quel valore che vuole difendere. Occorrono tutti gli uomini per costituirlo. È nella rivolta che l'uomo si supera nell'altro, e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Nell'esperienza assurda, la tragedia è individuale. A partire dal movimento di rivolta, essa ha coscienza d'esser collettiva.

    Il testo di Camus, inedito in Italia, è ora pubblicato per la prima volta nel n. 42 de «La società degli individui», quadrimestrale di filosofia e teoria sociale, edito da Franco Angeli e presente nelle principali librerie.

    (6 febbraio 2012)

    Pubblicato 12 anni fa #
  24. big one

    offline
    Membro

    Marx e' morto, dio e' morto e pure 'sto forum non si sente tanto bene (w. allen)

    Pubblicato 12 anni fa #
  25. A faust mob, con stima.

    Chiedo venia, vedo solo ora in quanto non sto frequentando troppo assiduamente il forum.

    Il testo è una buona sintesi del tardo pensiero di Camus, rappresentato da "La Peste". Ho sempre amato profondamente quel modo di filosofare affondato nell'esistenza fino al gomito. Non ricordo dove e quando, ma ho letto una definizione di Camus come "intellettuale garagista". Direi che funziona, buon antidoto ai molti onanismi mentali che caratterizzano la disciplina.

    Bel lavoro A.

    Pubblicato 12 anni fa #
  26. Woltaired

    offline
    Membro

    non sto frequentando troppo assiduamente il forum.

    ...questo vorrebbe forse essere un messaggio subliminale per comunicarci che stai scrivendo?

    O è solo la stagione delle maniglie?

    Pubblicato 12 anni fa #
  27. E' la stagione delle bestemmie ma sì, sto scrivendo. Fumetti però.

    Pubblicato 12 anni fa #
  28. A.

    offline
    Moderatore

    ahahahah...

    STORIA D'AA FILOSOFIA COATTA
    19 marzo
    XXVII Puntata: JOHANN FICHTE

    Frase Chiave: L'Io puro oppone nell'Io ad un io divisibile un non-io divisibile. (Perché io so’ Io, e voi siete er Non-Io)

    Che ‘nfatti er Fichte è un fomentato un po’ fascistello che nasce in un quartiere de borgata, e aa madre s’accorge che sta pe partorì quanno comincia a sentì ee prime fichte. Anche se viene da na famija de morti de fame, già da piccolo c’ha du grandi passioni che l’accompagneranno pe tutta aa vita, quella paa Fichtosofia e quella paa Lazzio, ‘nfatti quanno non se sta a vedè Trainspotting paa 516esima vorta o non sta in Disco a ballà sempre “Infinity” , sta in Curva Nord a sventolà aa bandiera bianco-celeste, che ‘nfatti dice che l’omo vero è l’omo d’azione e chi non è omo d’azione de solito è un tifoso occasionale. Intanto in quer periodo ce sta aa moda doo Sturm Und Drunk e der Romanticismo, e ner Romanticismo ce sta st’idea molto alla Coelho che le opposizioni se devono concilià e che j’opposti s’attraggono, e i filosofi se tajano a fa concilià j’opposti tipo Vita e Morte, Infinito e Finito, Essere e Divenì, e ce sta tipo un Fantacalcio co na classifica apposta che vince chi riesce a fa concilià più opposti. Ma ce sta ancora n’opposizione che nessun filosofo riesce a fa’ concilia’, un dualismo dogmatico che manco Kant era riuscito a risolve: quella tra Roma e Lazio. Che ‘nfatti Kant nun aveva lasciato indicazioni su aa squadra da tifa’, e aa grande sfida daa filosofia è de risolve l’urtima grande opposizione tra Roma e Lazio. Allora ariva Fichte che pe pprima cosa contesta er principio de “Nun te devi da Contraddì” de Ariscrotele, che se può riassume nell'assioma “NUNDICAZZATE”; che ‘nfatti se dici na cosa nun puoi di’ l’altra, tipo che se sulla schedina dici che aa tua squadra fa X non puoi di’ che fa 2 noo stesso tempo, oppure se sei er presidente daa Roma e dici che vuoi puntà allo scudetto, poi a metà stagione nun puoi di’ che punti aa zona Uefa. Che ‘nfatti Fichte è un tifoso illuminato e s’accorge che aa coerenza nun esiste né paa Lazio né paa Roma, che ‘nfatti prima der Derby tutte e due dicono che è aa partita più importante daa storia e poi se i Romanisti perdono ritirano fori er derby tipo de prima daa Seconda Guerra Mondiale che avevano vinto coi giocatori senza gambe, e se i Lazziali perdono se appellano aa Donazione de Costantino der 315 che secondo loro diceva che aa città de Roma nun era stata donata ar Papato, ma aa Lazzio. Allora Fichte pe fa concilià ee due squadre daa capitale se inventa ‘sto nuovo metodo daa Dialettica. Che ‘nfatti l’Io puro è Lazziale pe nnatura, poi però se aliena naa Roma, ma aa fine torna a esse lazziale caa sua fede più forte de prima. Che ‘nfatti pure l’Ultras più lazziale de tutti deve ammette che nun potrebbe esiste senza er suo opposto, er Romanista. A chi lancerebbe i lacrimoggeni aa domenica? A chi dedicherebbe j’aggiornamenti de stato su FaceBook? Aa vita sua nun c’avrebbe un senso senza l’antitesi daa Roma. ‘Nfatti er lazziale così rafforza aa sua fede e se può proporre de raggiunge l’Infinito, cioè oo Scudetto. Ma pe Fichte l’importante paa Lazzio nun è vince lo scudetto, ma sognà lo scudetto e tende verso oo scudetto, superando j’ostacoli che er Non-Io de Lotito je mette davanti. ‘Nfatti er Non Io pe llui è Lotito, perché er suo presidente nun lo rappresenta. Pe finì, er principio che regola l’Ultras daa Lazio è quello dell’auto-coscienza, cioè come lui se rappresenta, come se vede e come se crede de esse e in che film crede de stà, e l’Ultras daa Lazzio de solito c’ha tendenze a vedesse come quello der film Hooligans oppure come Zio Benito dar balcone de Piazza Venezia. Che ‘nfatti pure Fichte è un po’ fomentato e scrive tutto un trattato su aa superiorità daa razza lazziale e aa cultura lazziale, e naa “Missione der Coatto” scrive che l’Ultras deve esse un vate che deve portà aa fede daa lazzio pure in trasferta. Aa sua ultima opera è un po’ inquietante, I Cori aa Nazzione Tedesca, che ‘nfatti so’ n’eloggio a Miro Klose, e ‘sti cori finiscono tipo co sta immaggine dell’Aquila che vola verso er Sole, che ‘nfatti è tutto un simbolismo, che l’Aquila è Olimpia e rappresenta aa Lazzie e er Sole è aa metafora daa Champions League.
    Fichte m’è piaciuto, perché caa dialettica tra Ultras daa Roma e daa Lazio m’ha fatto capì che noi omini c’avemo senso solo se stamo in coppia. Un po’ come i cojoni.

    da Facebook pagina "Filosofia coatta"

    Pubblicato 12 anni fa #
  29. k

    offline
    Membro

    Carino.

    Pubblicato 12 anni fa #
  30. A.

    offline
    Moderatore

    Get the Video Plugin

    Pubblicato 12 anni fa #

Feed RSS per questa discussione

Replica

Devi aver fatto il login per poter pubblicare articoli.