(Dopo la presentazione di ieri a Roma all'Auditorium)
Antonio, mi sarebbe piaciuto dirti queste cose ieri, lì davanti a tutti, se ci fosse stato più tempo ma un’ora per te e per questo tuo libro è veramente troppo poco.
Una volta dicevi che uno scrive per essere amato, non so se lo credi ancora (io sì) ma io, che ti volevo bene già da Mammut, adesso ti amo che non te lo puoi nemmeno immaginare.
E ci credo davvero che sei venuto al mondo per scrivere questo libro, anche per tante altre cose ma per questo cazzo di libro sicuro.
Non so ancora che cosa mi abbia smosso dentro, il libro, e forse ci metterò tutta la vita a capirlo.
So che la storia dei Peruzzi non è quella della mia famiglia.
Mia madre era profuga dell’Istria (in verità di un’isola della Dalmazia, Lussino) ma è arrivata a Latina nel 1950, era una di mare e non di terra e faceva la maestra, all’inizio a Borgo Sabotino, però era stata fascista e pure monarchica – e lo è rimasta sempre, anche se non lo poteva dire – ma soprattutto Italiana, con l’idea di Patria nel sangue, forte come ce l’avevano dalle sue parti. La bonifica dell’Agro l’ha letta sui giornali e poi sui libri, ma non l’ha vissuta. Ha trovato tutto fatto.
Mio padre, lo sai, era un marocchino di Bassiano ma di quelli che avevano studiato e poi democristiano e antifascista per trasmissione familiare. Troppo riservato, anche con noi, per mettersi a raccontare storie. Troppe ferite dell'anima, forse.
Insomma, la mescola c’era ma gli ingredienti erano molto diversi. (Ma quel dialetto che usi tu nel libro ce l’ho ancora nelle orecchie e nel cuore perché quello di mia madre non era mica tanto diverso.)
Eppure ho letto Canale Mussolini come se fosse stata la mia storia. Ho riso e ho pianto. Anzi ho cercato di non piangere per tutto il libro, proprio trattenevo le lacrime. Poi alla fine so’ crollato e alle ultime pagine ho pianto tutto quello che m’ero trattenuto prima. Come se fosse stata la mia storia anche se sapevo che era la tua, la vostra.
Ma però era anche la storia di una terra e di un popolo, fatto di tanti Peruzzi ma non solo, la storia di tante migrazioni, la storia due guerre, di tanti figli, fratelli, mariti morti, e del dolore delle madri. E tutto questo ce l’ho pure io.
Di più: sociologicamente (si fa per dire) io sono stato “ragazzo” a Latina dal 1968 (prima stavo a Latina Scalo, mio padre lavorava al MAP) al 1977 (poi sono scappato a Roma), alle medie ero di destra come gli amici miei poi al liceo di sinistra, senza mai essere né fascista prima né comunista poi. Ma gli anni del liceo erano quelli più importanti, gli anni di formazione, e tutto quello che era la storia della bonifica e della fondazione di Littoria lo cancellavamo, c’erano gli schieramenti, ognuno andava con le bandiere sue.
Rimozione. Il tuo libro mi ha salvato da questa rimozione. L'ha rimossa. Mi ha ridato le radici. Forse nemmeno le mie ma non me ne frega un cazzo.
Non so se pancia e cuore sono la stessa cosa, tu dici che sei uno scrittore di pancia, io credo che questo sia un libro scritto di cuore. E ce ne vuole tanto di cuore per scrivere un libro così.
Poi però bisogna pure leggerlo di cuore (o di pancia, come ti pare) perché altrimenti se ne perde il senso più profondo, il gusto e l’emozione. Se uno non lo legge di cuore e non ci si commuove, allora che lo legge a fare. Glielo devi dire a tutti che è meglio se fanno così, se lo leggono come tu lo hai scritto.
Il resto viene dopo. La letteratura. Anche se è chiaro che Canale Mussolini è un capolavoro. Ho letto un po’ in giro le cose che sono state scritte, i riferimenti, i collegamenti. Ma per me, che non capisco un cazzo, è proprio un poema epico, e tu sei un Omero dell’Agro Pontino. Anche se per prima cosa ci ho ritrovato l’emozione di quando ho letto Cent’anni di solitudine, ma questo era Cent’anni di solitudine della terra mia. Non c'è paragone.
E allora sto facendo come faceva Garcia Marquez con un libro di Juan Rulfo (Messico, un'altro un pezzo della mia famiglia migrante, da parte di mamma, s'è radicata lì), il libro è Pedro Paramo, che gli piaceva così tanto da regalarlo a tutti gli amici, per poterne poi parlare con loro. Io pure lo regalo (anche Sandra sta facendo lo stesso), trovo tutte le occasioni buone per regalarlo, ma solo a chi se lo merita, a mio insindacabile giudizio.
E per finire, vaffanculo. Vaffanculo perché ho pianto pure ieri alla presentazione del libro, e che cazzo! Vabbè quando lo leggevo, ma alla presentazione che c’entra. E invece pure lì ridevo e piangevo e c’era Marta mia che c’ha dodici anni e che non ci capiva niente, proprio qualche giorno fa mi aveva detto che non mi aveva mai visto piangere (quando leggo non mi faccio vedere e al cinema stiamo al buio) e ieri non so se si stupiva, se si vergognava, non lo so, però mi abbracciava e mi consolava e mi asciugava le lacrime e mentre me le asciugava io già ridevo di nuovo.
Quindi, lo capisci, anche il vaffanculo è veramente di cuore. E zio Pericle ormai è anche mio zio. E pure tu.
Tutto questo volevo dire ieri ma non si poteva. Non per vergogna, non mi sarei vergognato neanche un po’ – continuo a fare il delegato sindacale, ci sono abituato a parlare in pubblico – ma non c’era proprio tempo.
Invece della SPAL non ne avrei parlato ma adesso te lo posso raccontare. Perché da piccolo, a Latina Scalo, quando non andavo ancora scuola, e mia madre e mio padre lavoravano, il mio vero amico era Zeno. E Zeno era di Ferrara, anzi di Cento. E aveva un cuore grande così. Non so quanti anni avesse: settanta? ottanta? Ma lui veniva a dare una mano a mio padre con l’orto e con il pollaio. E mi lasciavano con lui. Si fidavano. Aveva le mani dure. Le unghie nere. Raccoglieva le cicche e con il tabacco avanzato si faceva le sigarette, certe volte con la carta di giornale. Aveva una voce calda. Odorava di buono. Mi raccontava storie. E io quando stavo con lui ero felice, stavo bene, mi sentivo sicuro, mi sentivo amato più che con mia madre e mio padre, per davvero. Mi portava con lui all’osteria, dall’Amelia, mi faceva bere vino e gazzosa, poco vino, io lo guardavo in silenzio mentre giocava a carte. E poi veniva il giorno che faceva la schedina e mi chiedeva consiglio, per scherzo, ma io gli rispondevo serio. E la SPAL stava in serie A e quando toccava alla SPAL non c’erano santi, la SPAL doveva vincere per forza. E io poi sentivo le partite alla radio e facevo il tifo, mi disperavo e gioivo, ma soprattutto mi disperavo, perché la SPAL non è che vincesse tanto. Poi però ero cresciuto e a scuola contavano altre squadre, la SPAL non la conoscevano neppure, mica tutti erano amici di Zeno, e mi prendevano in giro, e dell’Inter qualche parente mi aveva perfino regalato la maglietta... E alla fine siamo andati a Latina, che a 10 anni è una specie di migrazione pure quella. E Zeno non c’era più. Non l’ho più visto. Gli mandavamo i saluti tramite una sua nipote che lavorava alla Standa. Quando Zeno è morto siamo andati al suo funerale. E mentre camminavamo da casa sua alla chiesa gli ho chiesto scusa per averlo tradito e gli ho fatto la promessa che sarei rimasto della SPAL per tutta la vita. E così è.
Alla storia dei salmoni comunque non ci credo. Al gatto sotto la fontana forse sì, ma non l’ho mai sentito.
Abbasso le centrali nucleari.
Viva la SPAL.
Con affetto smisurato
Marco Spal