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(1417 articoli)
  • Avviato 14 anni fa da Faust Cornelius Mob
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  1. zaphod

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    Fondatore

    Letta questa cosa in un post su un gruppo di Facebook:
    "Buongiorno ragazzi.
    Al raduno di Asti ho conosciuto un vecchio bersagliere che ha lavorato a Latina per i lavori di restauro del palazzo M.
    Tra le altre cose che mi ha raccontato (sono stato ore ad ascoltarlo) mi diceva di una rete sotterranea di tunnel che collegano il Palazzo M con il Tribunale e il Comune.
    Lui li ha percorsi quasi tutti ma alcuni poi sono stati murati demoliti e comunque parzialmente accessibili.
    Sono alti circa due metri e non sono fogne ma collegamenti dei vari palazzi probabilmente costruiti come vie di fuga.
    Molto originale scoprire la nostra storia da Asti.
    Avete altri riscontri dai nostri ascendenti ..."

    Pubblicato 9 anni fa #
  2. k

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    Pare una balla ed escludo che fossero del fascio, ma non si sa mai. Cerca questo e vediamo di saperne di più. (La Blanchère?)

    Pubblicato 9 anni fa #
  3. A.

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    interesserebbe anche a me saperlo, è la prima volta che sento sta storia

    Pubblicato 9 anni fa #
  4. A.

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    Leggete queste lettere di rifiuti di noti capolavori. Fanno pensare http://www.ilpost.it/2014/06/11/lettere-rifiuto-grandi-scrittori/

    Pubblicato 9 anni fa #
  5. Woltaired

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    Scusate se da foresto mi intrometto, ma a palazzo M non c'è la questura? Da quanto? Cioè, ci fossero stati dei sotterranei qualcuno, lì, negli anni 70 ne avrebbe prese un bel po' e si saprebbe. Ma anche negli 80, credo. Almeno se faccio il parallelo con Monza, dove anche lì si è sempre fantasticato di un tunnel sotto il parco che andrebbe dalla Villa Reale a Villa Litta, dove stava l'amante del re, addirittura percorrbile in carrozza. Freud, questa fantasia di penetrazione sotterranea nei luoghi dei Padri come la vedrebbe?

    Pubblicato 9 anni fa #
  6. llux

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    C'è il comando della guardia di finanza, e gli uffici della questura che si occupano di passaporti, permessi di soggiorno ecc. Stanno lì dalla prima metà dei '90, negli '80 c'erano scuole (medie, magistrale ) , ci andavo a scuola io: di cunicoli mai sentito parlare, nel sotterraneo sul lato destro c'era una palestra di boxe, dall'altro lato non so. Forse dovrei chiedere ad una signora che conosco, che è arrivata bambina negli anni del dopoguerra, durante la ricostruzione, con la famiglia da un'altra regione, e ha abitato lì a palazzo M per qualche anno, insieme ad altre famiglie di sfollati. Avevano una stanza per ciascuna famiglia, in quelle che ai tempi miei sono diventate aule...tocca a me, ormai ci ho preso gusto ad andare registrare la gente che racconta.

    Pubblicato 9 anni fa #
  7. Sono leggende metropolitane che vengono rilanciate, anche a Roma si dice che dai tempi del Fascismo i palazzi del potere siano collegati da misteriosi tunnel sotterranei che uniscono palazzo Venezia al parlamento etc. etc.

    Pubblicato 9 anni fa #
  8. cameriere

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    infatti è vero.
    a roma ci stanno sul serio i tunnel.
    non so se passano x palazzo venezia
    però ci sono e passano per camera e senato

    Pubblicato 9 anni fa #
  9. big one

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    Tra camera e senato? Mmmh...

    Pubblicato 9 anni fa #
  10. Anche verso il Viminale, dicevano. In fondo Roma è una città a strati, ci potrebbe anche stare.

    Pubblicato 9 anni fa #
  11. A.

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    Ma secondo voi sei tunnel ci sono te lo venivano dire a te? Da che mondo è mondo il tunnel servono per la sicurezza, e sono sconosciuti. Quindi mi pare abbastanza verosimile il fatto che veramente ci siano, e siano rimasti segreti. Tutte le altre illazioni sono destituite di fondamento, in quanto ignorano la prassi sistemica dei rapporti strutturali tra gli edifici strategici. Ma che davvero?

    Pubblicato 9 anni fa #
  12. A.

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    Moderatore

    Ma secondo voi sei tunnel ci sono te lo venivano dire a te? Da che mondo è mondo il tunnel servono per la sicurezza, e sono sconosciuti. Quindi mi pare abbastanza verosimile il fatto che veramente ci siano, e siano rimasti segreti. Tutte le altre illazioni sono destituite di fondamento, in quanto ignorano la prassi sistemica dei rapporti strutturali tra gli edifici strategici. Ma che davvero?

    Pubblicato 9 anni fa #
  13. Woltaired

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    Membro

    La C.I.A. ci spia sotto gli occhi della polizia. (E. Finardi)

    Pubblicato 9 anni fa #
  14. Allora dicunt che sotto la piazza di Santa Maria Goretti ci sarebbero dei cunicoli che fungevano da rifugi antiaerei, voi ne sapete qualcosa?

    Pubblicato 9 anni fa #
  15. zaphod

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    Fondatore

    È vero. Antonio Pennacchi scriveva queste parole verso la chiusura di Tuam custodi civitatem:

    Proveniendo i coloni per gran parte dalle Tre Venezie, come santo protettore di Littoria e dell’Agro fu scelto San Marco. Nella chiesa cattedrale a lui titolata, sotto la monumentale statua di bronzo è scritto a caratteri cubitali: “Tuam custodi civitatem”, che vuol dire custodisci, preserva e proteggi la tua città.
    Fondata nel 1932 con i bei palazzi per gli impiegati al centro – appartamenti spaziosi con tanto di corridoi, bidè e vasche da bagno – Littoria costruì poi al di là della circonvallazione, extra moenia direbbe Livio, come un ghetto, il quartiere delle Case Popolari per gli operai e la bassa forza: loculi di trenta o quaranta metriquadri per famiglie numerosissime, sette od otto in una stanza, e w.c. con solo la tazza e il lavandino. Ci si lavava con le bagnarole. Gli abitanti del centro – i piazzaroli – negli anni Cinquanta e Sessanta lo chiamavano la casba. Ma era il 1934 e neanche dieci anni dopo – nel gennaio del ’44, quando i muri erano ancora freschi ed erano ancora freschi tutti i muri dell’Agro Pontino – la guerra distrusse tutto quanto. Le armate anglo-americane, la potenza di fuoco degli Stati Uniti – direttamente chiamata e provocata alla guerra dagli stessi che avevano pur fondato la città – s’abbatté su di noi e sulla nostra ùbris.
    Forse non tutti sanno che dove adesso i ragazzini si rincorrono e la sera le badanti rumene in libera uscita incontrano i loro innnamorati – nella piazza di S. Maria Goretti, nei giardini davanti alla chiesa – lì sotto c’era il rifugio antiareo per il popolo della casba, per gli operai delle Case Popolari. Suonava la sirena e tutti dal terzo lotto, con i bambini in braccio, correvano – se facevano in tempo – a rifugiarsi lì. Ma anche se facevi in tempo non era detto. Non doveva essere stato costruito molto bene quel rifugio e il 26 gennaio del 1944 – sbarco di Anzio – una bomba navale riuscì a entrare vicino all’ingresso. Un’intera famiglia di nove persone – i Gennaro: padre, figli e un nipotino – perse la vita. Chiunque va al cimitero vecchio di Latina, al secondo campetto a sinistra davanti alla chiesetta, può ancora vedere la tomba in marmo grigio scolorito dal tempo – ma speriamo che a nessuno venga in mente di sostituirlo con dozzinali nuove lastre – che li raccoglie. Sotto la fila delle foto con cornice ovale di Ernesto, Nereo, Mario, Marino, Irma, Romilda, Antonio, Luigi e del piccolo Gianni Roma, figlio di Marino e di Gennaro Maria, c’è scritto:
    “QUI DEPOSTI SONO DI ERNESTO GENNARO E DELLA FAMIGLIA / GLI SVENTURATI RESTI MORTALI / RESI ESANIMI NON DA NATURAL DECESSO / MA DA OMICIDA FUROR DEL CANNON E DELLA MITRAGLIA / 26 GENNAIO – 2 MARZO 1944 / I POCHI SUPERSITI POSERO”.

    Pubblicato 9 anni fa #
  16. Davvero bello. Pensate quanta storia e quanta vita c'è nella frase "ci si lavava con le bagnarole".

    Pubblicato 9 anni fa #
  17. A.

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    Bassoli, ma tu lo hai letto qualche libro di K?

    Pubblicato 9 anni fa #
  18. Woltaired

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    Stavo leggendo questo articolo e, al di là del tono che trovo un po' irritante, fatico a etichettarlo come pura dietrologia. Serino, nel bene e nel male, trovo che stimoli reazioni. (come nel caso del commento su Scurati e il suo copia-incolla nel libro in finale allo Strega).

    Pubblicato 9 anni fa #
  19. A.

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    Pubblicato 9 anni fa #
  20. Woltaired

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    Ho letto il mio nome qui e devo dire che ne sono molto compiaciuto. Grazie AnonimaScrittori!

    Pubblicato 9 anni fa #
  21. SCa

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    E ti credo! Complimenti.

    P.S. Hai qualche altro numero oltre al 51?

    Pubblicato 9 anni fa #
  22. Woltaired

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    Sì, quando uscirà il romanzo ambo secco per tutti!

    Pubblicato 9 anni fa #
  23. zaphod

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    Fondatore

    Bravo Wolt!

    Pubblicato 9 anni fa #
  24. Per A: devo leggere Storia di Karel.

    Pubblicato 9 anni fa #
  25. A.

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    Vediamo se riconoscete questo incipit

    Lunedì scorso era il 27 ottobre, e ci toccava il turno di notte. Il tempo si era voltato nella mattinata e, a sera, faceva piuttosto freddo. Giovanna lo ha destato verso le otto, portandogli su in camera la tuta blu, stirata. “Dammi anche un maglione, perché fa freddo” le ha detto lui. “È già pronto” glia ha risposto. Posando sul letto il maglione avana, col collo stretto, che a lui piace e ci sta comodo. “Ma questo è ancora buono per uscirci” ha rifiutato. Lei è andata allora a rovistare in guardaroba, brontolando, e ne è tornata con un pullover turchese, col collo a vu. Saranno tre o quattro inverni che lo usa per lavorare. Glielo aveva regalato lei, il primo anno di fidanzamento. Undici anni fa. “C’è rimasto solo questo, di roba vecchia. L’altra, o è tutta rotta o si è accorciata. Se ne vuoi qualcuno di quelli corti…” “Meglio di no, che poi mi ci entra l’aria per la schiena e mi ripiglia il colpo della strega.”

    Pubblicato 9 anni fa #
  26. Woltaired

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    A., ma scherzi? È tipo chiedere di che colore fosse il cavallo bianco di Napoleone!

    Pubblicato 9 anni fa #
  27. Woltaired

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    Dimmi questo, invece:

    L'altro giorno hanno detto in tv - c'era Kevin Costner come ospite d'onore da Panariello, e lo hanno detto a lui e a tutta la nazione - che i butteri della maremma toscana avevano battuto una volta Buffalo Bill.

    Pubblicato 9 anni fa #
  28. zaphod

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    Fondatore

    Da questo intervento di Andrea Berrini mi pare si evinca soprattutto che gli è piaciuto molto Mammut e che, per avvalorare la sua tesi e fugare ogni dubbio di piaggeria nei confronti dell'autore, si sia un po' eccessivamente sbilanciato sul versante opposto:

    Scrittori italiani in Cina: show, urlate, cinesi allibiti

    Tema: il lavoro. C'era Pennacchi. E sarà pure un buon libro il suo Mammut, ma perchè urlare come fossimo in tv? Figuraccia.

    Insomma, l’altra sera a Pechino, tre scrittori italiani e quattro cinesi a confronto. Tema: letteratura e lavoro.

    Un po’ farraginoso l’impianto: tutti e sette sul palco, a raccontare uno dopo l’altro come scolaretti sé stessi e i propri libri sul tema. Traduzione in consecutiva. Tra il pubblico ho visto alcuni abbandonare l’aula dopo una mezzora, l’avrei fatto anch’io al loro posto. A ben vedere, la cosa più interessante era misurare con che tipo di risposta ciascuno dei sette sceglieva di reagire alla poderosa domanda iniziale: parlaci di te, e del tuo lavoro.

    E allora c’è chi ha saputo intrattenere un po’ l’uditorio con motti scherzosi, e intanto narrare la trama del suo unico romanzo tradotto in Italia (Wang Gang), chi si è sentito in dovere di narrar sé stesso e il perché del suo interesse per gli argomenti trattati nei propri libri (io), chi invece entrava nel merito del proprio tema, le morti bianche sul lavoro (Angelo Ferracuti), chi con soave delicatezza affrontava, insieme al proprio romanzo, una sofferta autobiografia centrata sull’emigrazione dal villaggio alla città (Sheng Keyi), chi invece più fortunato, giunto a Pechino a suon di buoni voti e di un’ottima carriera universitaria spiegava di aver sentito il bisogno di raccontare le difficoltà dei suoi amici d’infanzia nel seguire lo stesso percorso: di qui il suo romanzo (Xu Zechen): sui migranti.

    Perché qui non si dice: il lavoro, e la fabbrica. Qui, nella fabbrica del mondo si dice: i lavoratori migranti. Se ne sottolinea la relazione effimera con un posto di lavoro che è magari uno tra i tanti, nel corso di una giovane esistenza. Chi non ce la fa, chi poi non trova un po’ di stabilità, se ne tornava al villaggio, un tempo: a coltivar patate. Ora le cose peggiorano, dentro a un contesto che pure è di crescita, di proliferazione delle possibilità: perché non si può tornare, perché al villaggio, se lo lasci, la terra non c’è più. Allora anche lo scrittore usa questo termine: migranti.

    Intanto, sul palco pensavo che sarebbe forse stato utile suddividere lo stesso incontro in tre, quattro parti. Sviscerare il tema e permettere agli autori di tirar fuori le proprie, di viscere, che è poi la cosa più interessante quando si ascolta uno scrittore parlare: e i romanzieri andrebbero piuttosto letti. E poi, che fatica le traduzioni in consecutiva, per chi parla e per chi ascolta.

    Ma tant’è, e grazie lo stesso all’Istituto Italiano di Cultura di Pechino che lo sforzo l’ha fatto, economico e di fatica organizzativa – e grazie dell’invito, io, tra scrittori premiati e tradotti in molte lingue, mi sentivo asceso in quelle tre ore dalla mia serie b alla serie a, e infatti ho faticato a toccar palla.

    Anche perché l’Italia – l’Italia orrenda che conosco io, quella dei talk show televisivi gridati, delle pantomime a cena tra amici con quella coazione a ripetere il già visto di Ballarò, una impossibilità di comunicare se appena appena hai un pubblico (insomma basta essere in quattro che subito chi parla ritiene di avere un pubblico, e sa che lo sfogo, l’urlata, fa audience, a cena come in tv) – l’Italiaccia poi ha avuto il sopravvento l’altra sera a Pechino, e gli scrittori cinesi se li è divorati con le sue abitudini cattive.

    Lo so, me l’han detto che la meno troppo, su questa cosa. Ci ho scritto perfino un post per Asia Literary Review di Hong Kong, mi ci han costruito su un panel apposta a una conferenza a Singapore, però poi la gente (asiatica) mi abbracciava, felice che io dicessi: mi interessa l’Asia perché qui avete questioni vere, grosse, da affrontare, e le sapete discutere bene, con calma, con la testa e non solo con il fegato (il livore).

    Insomma, l’altra sera a Pechino c’era Pennacchi che pareva non accorgersi di un pubblico che per metà intendeva solo il cinese, lui insofferente alla necessità di traduzione (e certo che se dici ‘e che cazzo me ne frega della traduzione’ l’uditorio italiano se la ride – me la son risa anch’io – e lui si sente incoraggiato), costantemente fuori tema, quasi ossessionato dalla necessità di interrompere gli altri, mandando in tilt il traduttore. Un ego smisurato declinato sul popolano (a Berrì, mi diceva – io tenevo botta con a Pennà), e quindi qualche applauso se lo strappava.

    Diceva di cose che non conosceva, com’è ovvio di chi rivendica come passpartout la passata autobiografia da persona che vive e non da persona che scrive – da operaio e non da intellettuale – scagliando il termine intellettuale a piene mani, come grosse pietre: che finivano sulla testa dei quattro autori cinesi che a me parevano esterrefatti.

    Che ne sapete voi, diceva loro, della fabbrica? Del lavoro? Io ce so’ stato, voi siete intellettuali (fortunati noi, io presentato come operatore di microcredito – e bravo Berrì, te vai avanti a fare microcredito che vai bene, ma il tuo libro è ‘na sola – e Ferracuti postino, reo però di collaborare col Manifesto, giornale inviso a questa statua d’uomo che si porta il bastone e lo agita nell’aria, e il cappello anche in sala con la sciarpetta di seta firmata, icona tv catapultato in una Cina di cui nulla sa ma a cui pretende di insegnare).

    Stava seduto a fianco di Sheng Keyi, piuma di ragazza nel suo abito lungo blu, che cominciava presto a voltargli le spalle con viso disgustato. Sull’altro lato Xu Zechen, compassato, gli occhi spalancati dietro agli occhiali.

    Intellettuali? Ma tu Pennacchi lo sai che Xu Zechen è arrivato dal villaggio a Pechino a forza di buoni voti, e così si è conquistato una docenza, e a me ha dichiarato: ho sentito il bisogno di narrare una storia di migranti perché migranti sono tutti i miei amici d’infanzia, quelli che io, fortunato, ho incontrato per le strade di Pechino a districarsi da una vita grama – e Pennacchi je diceva: ma siate un po’ più ottimisti, voi intellettuali cinesi, no? Raccontate di questo paese che si sviluppa, che fiorisce. Interrompendo, e mandando in tilt un’altra volta il traduttore. E l’uditorio cinese.

    Ma lo sa, lui, showman televisivo, che la Sheng Keyi a cui dava dell’intellettuale è venuta fuori dalla campagna profonda (“la mamma doveva vendere le nostre uova – le nostre uova! – per mandarci a scuola”). Ogni intellettuale cinese, o almeno la più parte di loro proviene da villaggi di campagne poverissime: la condizione del migrante è la sua. E lo spavento che provano e han provato loro davanti al timelapse del mondo che li circonda è lo spavento di ogni cinese, arricchito o impoverito. (E poi Pennà, qualcuno t’ha avvertito che qui c’è la censura? Che quando hai sproloquiato sul fascismo italiano Sheng Keyi ti ha risposto sulla censura e sulla repressione del dissenso in Cina rischiando il suo? Rischiando, sì).

    Certo, è un peccato che il romanzo sulla fabbrica non sia venuto ancora fuori nella fabbrica del mondo, che non ci sia un Orwell o un Dickens, o più modestamente un Levi, un Volponi – ma che stai a’ddì, Berrì: Volponi era un intellettuale, che ne sa lui della fabbrica.

    E allora che la traducano, i cinesi, l’opera prima di Pennacchi, l’ottimo Mammut scritto quando lui – lui – ancora era operaio e non ancora intellettuale da spettacolo: perché davvero è un buon libro quello. Ma poi non se lo invitino a un tour promozionale…

    Lo avvicino, poi, a cena – Berrì, Pennà – col dovuto sussiego – serie b, serie a. Me parla, me dice. Senza un pubblico, noi due soli, ridiventa umano, torna umanoide quando due estranei siedono fianco a noi e allora: ma che stai a’ddì ‘ccazzate, l’unità sindacale l’amo fatta noi. Più tardi ci salutiamo a un semaforo, dall’altra parte della strada me grida, a Berrì, l’oriente è rosso! Alzando il bastone. Non ho bastoni io, metto le mani a coppa intorno alla bocca per farmi sentire e gli cito un titolo di giornale: a Pennà, l’oriente è grosso. Ride. Non lo sa che fu un titolo del Manifesto.

    A Pennà, t’ho fregato, alla fine. (E se un cinese gli avesse detto: ma tornatene a casa tua? Immaginate la scena…)

    Poi scrivo a Sheng Keyi. Le chiedo scusa per l’orrido spettacolo – era scappata a gambe levate appena chiuso l’ultimo intervento. Risponde con una faccina, il sorriso.

    Però è vero – e la incontrerò – che anche nei suoi libri della fabbrica – che lei ha frequentato – si parla poco, e le chiederò perché. Quando ce ne sarà il tempo, quando avremo la tranquillità per farlo, senza pubblico, senza Pennà. Magari con Mammut pubblicato in cinese tra le mani: glielo consiglierò.

    Insomma, buona serata, dopo tutto, l'altra sera a Pechino. Smosse le acque. Poi però bisogna traversarle.

    E qui son più attrezzati i cinesi, che loro, di discutere ne han bisogno e lo fanno: di capire e di capirsi, han bisogno, con la censura fra le scatole a imbrigliarli. Noi invece, discutere davvero, argomentare, comunicare insomma e poi trarre qualche sintesi comune non lo si fa più da un pezzo. Me pare. Chiusi, me pare, dentro a un marchingegno orwelliano che ci siamo costruiti in piena autonomia, altro che il Potere: noi, a forza di ego e narcisismi a gogò, col nostro grande fratello e le nostre facce, tante, sui nostri libri: e ci siamo fatti audience di noi stessi.

    Pubblicato 9 anni fa #
  29. k

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    Membro

    DISTANZA DI SICUREZZA

    Porabestia.
    Non fece altro, a Pechino,
    che scodinzolarmi intorno
    per tutta la sera.

    Poi, tornato a casa,
    s'è messo ad abbaiare.

    Pubblicato 9 anni fa #
  30. Pennacchi, da oggi anche in Cina, parrebbe di capire.

    Pubblicato 9 anni fa #

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