La Mazza dell'estate. Un racconto della domenica.
Il segreto negli occhi.
Nella striscia di Gaza non ci sono mai stato. Ma se mi guardo intorno da questa terrazza si vedono tetti spogli e disadorni e antenne e padelle televisive a centinaia. Dall'africa mi separa solo una striscia di mare, questa terra di confine mantiene intatta l'appartenenza al continente da cui è stata separata dai movimenti inconsulti delle maree e marginalmente dalla lentissima separazione delle piattaforme continentali.
Il mio sguardo intenso sul buio orizzonte viene interrotto dallo squillo classico e compassato del mio nuovissimo blackberry.
- dimmi tutto.
- dove sei?
- che vuoi?
La solita conversazione stentata.
Le donne belle spesso pensano che basti uno sguardo, uno stacco di coscia: ma al telefono non funziona.
- problemi?
Come faccio a dirle che sono seduto sul muretto sbreccato del tetto di un palazzo abbandonato nella periferia sud di Figada, a centinaia di chilometri, quasi un migliaio, da dove si aspetta di trovarmi.
- non usciamo stasera? Che fai così zitto?
- sono lontano. Stasera non posso.
- dove sei.
Solo un po' più spazientita.
- a Figada. Ho sparato a una donna. Una madre di famiglia.
- che hai fatto, ma che cazzo dici ...?
Ancora parlava quando ho abbassato. Le donne vogliono sempre tutto tranquillo tutto prevedibile tutto pianificato ma io non sono così. Le cose succedono proprio quando sono lì. Che ci posso fare.
Martedì sera facevo la fila al bancomat che al martedì è pieno così di quelli col cane che non sanno che cazzo fare per uscire di casa e rimanere fuori il più possibile e allora vanno al bancomat al drugstore a comprare i cornetti a fare benzina alla macchina per non fare la fila domattina. Insomma facevo la fila e due davanti a me un uomo e una donna discutevano, litigavano, perché lei non si ricordava più la password:
- sei una stonata stai sempre a pensare ai cazzi tuoi tu e quei quattro coglioni degli amici tuoi.
Lei lo guardava serafica. Quasi con compatimento. Al fondo dello sguardo però una lama d'acciaio s'intravedeva baluginare ad intermittenza.
- dai facciamo un giro, me lo ricorderò tra un po'. Andiamo a prendere un gelato con i bimbi.
- ma vaffanculo. Domani devo lavorare. Mica sono come te che non fai un cazzo.
Lei zitta.
Si allontanano sempre discutendo. Lei ha un vestitino colorato un po' corto sulle ginocchia, un decolletè generoso, efelidi, qualche piegolina di troppo sulle gambe lucide e depilate. Infiniti piccoli buchi di cellulite tradiscono gli anta. Lui uno sguardo azzurro e ingenuo, pelatino e stazzonato non la molla polemico e geloso.
- stai sempre a organizzare cazzate e io e i tuoi figli sempre di scorta, sempre un passo dietro all'artista, la grande cantante, la grande attrice, adesso scrittrice ed organizzatrice di festival da quattro soldi pieni di disperati supponenti ex drogati "perché mo' non so boni manco a fa quello."
I bimbi sull' auto giocano e aspettano. li guardano che aprono le portiere, gli sguardi tristi sono gli stessi di sempre anche se la mamma sorride un po'.
- ragazzi gelato?
Silenzio dai sedili di dietro: la voce non nasconde bene la tensione.
Accende l'auto e ingrana di scatto la marcia con l'ex biondino della spider rossa di fianco.
Li perdo di vista. Prelevo. Mi rificco in macchina e accendo la radio.
Da quando mi sono laureato in filologia romanza non ho letto più una parola su un libro. Da quando è morto mio padre di cancro fumo come un turco. E faccio un lavoro merdoso. L'investigatore privato. Ho pensato che volevo fare lo scrittore ma non avevo le storie e allora me le sono andate a cercare. Ho pensato che dovevo campare ma non volevo fare un cazzo per farlo e allora che c'è di meglio che girare per la città in cerca di prove, di notizie, di storie torbide se ti pagano per farlo. Anche quando non trovi un cazzo di utile alle indagini, per corroborare ipotesi, per suffragare teorie. Basta qualche foto sfocata, una serie di scontrini e una frase smozzicata per convincere il cliente a sborsare e continuare un'indagine che già sai che non porterà a nulla.
Mi fermo dal cornettaro. Ho una panza da coltivare.
- giovà come va ?
Mi sorride vacuo, alla decima canna non risponde neanche più. La moglie l'ha lasciato per una sua lavorante e lui le paga l'affitto in centro. Si guadagna bene a fare il cornettaro di notte. Tutte le notti. Anche se poi la moglie ti lascia. E a te rimangono le canne.
- ciao giovà.
Gli do i soldi contati, ma lui non li conta. Li mette nella cassa e mi sorride ebete e felice. Almeno sembra.
Quando scendo di nuovo dal' auto sono sul corso principale. Quello con le luci dei lampioni e quelle dei negozi spente. Sono tutto sporco di zucchero a velo. Il mio impermeabile blu da detective ha una macchia di caffè precedente e un paio di bruciature di sigarette sulla manica e adesso zucchero a velo bianchissimo sui reverse. Un pezzo di strada a piedi tra i palazzi in cortina, le sete delle signore attempate d'estate sui larghi marciapiedi di travertino bianco. Sudicio di chewing-gum e sputazzate di emigranti, accuratamente evitate dalle esperte passeggiatrici cotonate e flaccide e dai loro accompagnatori gioviali e scemi. Da una vita a far finta di esser scemi alla fine s'immedesimano nel ruolo. Mariti.
I portoni dalle larghe vetrate con gli affittasi e i vendesi, le piante finte all'interno nell'androne prima dell'ascensore. Sui campanelli ormai solo numeri d'interni come nelle grandi città. Ma siamo al centro di Lesina, piccola, media città di provincia dai graziosi giardinetti pieni di ontani, colmi di olmi e di piante grasse sui balconi.
Due biciclette a fari spenti, a pignone fisso. Quelle che non puoi smettere di pedalare. Ciclisti coraggiosi, senza freni. Due amiche con le borsette tese sulle ginocchia chiacchierano su una panchina scura, di ferro, di fianco alla torre del municipio. Se mi avvicino le sento sussurrare e ridere. Un barbone dorme sotto i portici della piazza principale. Da un angolo si sente l'acqua della fontana colpire la solita statua di Nettuno senza ormai nessuna violenza. Quasi una carezza. Refrigerio per chi non può apprezzare. Mi accendo una paglia. Un'ambulanza silenziosa attraversa la strada solo i lampeggianti blu, una macchina della polizia la segue.
Quando torno sui miei passi riattraversando la piazza e il corso ormai vuoto mi alzo il bavero del trench non perché ce ne fosse bisogno ma perché ci stava bene a quel punto . Metti che qualcuno guarda dalla finestra socchiusa, una donna insoddisfatta dell'amplesso col proprio noioso marito, una ragazza col walkman al buio, in slip e canottiera, nella sua piccola stanza piena di poster che sente un richiamo selvaggio, si affaccia alla finestra e guarda giù sul corso e mi vede passare col mio passo stanco ma sicuro. E s'innamora di quelle spalle curve, di quelle gambe storte, di quella nuvola di fumo. Di quegli occhi azzurri.
Sorrido della mia coglionaggine, sotto l'arco medioevale dove ho lasciato l' auto in sosta vietata. Ma prima di entrare alzo lo sguardo su tutte quelle finestre spente. Niente.
Accendo la radio, abbasso i finestrini e parto rombando.
Le curve si susseguono, salgo in collina a tutta velocità. M'allontano dalle luci della città e piombo nel buio pesto della campagna laziale tutta foreste e incuria e canali ai lati delle strade strette. Imbocco un bivio con le ruote che stridono sull'asfalto consunto e all'improvviso i lampeggianti della stradale illuminano la scena di un incidente. La macchina familiare cappottata nel canale. Ma a parte i poliziotti non ci sono altre persone, li hanno già portati via. Mi fermo.
- che è successo ?
Un segno della mano ad indicare la scena. Senza altre parole.
Scendo.
- allora?
- s'è salvata solo la moglie. Il marito e figli non ce l'hanno fatta.
- dove li hanno portati ?
Non aspetto la risposta e torno indietro. In città. L' attraverso con un'ombra sulla testa. A velocità sostenuta, anche dentro le mura.
Quando arrivo nei pressi dell'ospedale civico, non mi decido a parcheggiare. Giro in tondo. Alla fine passo dall'entrata delle ambulanze e lascio la macchina lì sulla rampa con lo sportello aperto.
Abbasso il maniglione antipanico della porta d'accesso al reparto d'urgenza e la trovo lì con un cerotto sulla testa che parla al cellulare, tranquilla, forse accenna un sorriso. Il vestitino colorato neanche un po' sgualcito. Un ginocchio sbucciato. Mi passa accanto neanche mi guarda. Arriva fuori sulla rampa si alza sulle punte come una ragazza si sporge un po' ma è solo un attimo che arriva qualcuno e lei sale su una macchina veloce mostrando un po' di cosce.
Torno indietro cerco qualcuno con cui parlare. Percorro i lunghi corridoi sempre con quell' ombra scura sulla testa. Finalmente incontro qualcuno che mi indica una porta. Busso e apro senza aspettare. C'è uno chino a scrivere:
- buonasera, la disturbo?
- no
E si rimette a scrivere senza guardarmi.
Mi siedo e aspetto. Alla fine lui alza lo sguardo e dice:
- I bambini sono morti subito sul colpo, non si sono accorti di niente, forse dormivano, il marito invece è stato sotto i ferri per quattro ore, era già arrivato senza un braccio. Non ce l'ha fatta.
Brusco, laconico, essenziale, una mente matematica, razionale. Solo quando ha detto bambini c'è stata un'incertezza nella voce. Almeno mi è sembrato.
Esco in strada di corsa. Mi hanno rimosso la macchina.
Mi guardo nelle tasche, qualche spiccio, chiamo un taxi.
Sul letto vestito cerco di prendere sonno.
Saranno passati cinque minuti e il suono del mio nuovissimo blackberry classico, compassato, mi soprassale. Mi sveglio.
- che ore sono?
- le dodici meno dieci. Ti aspetto al bar.
Abbasso per non morire. Mi rimetto a dormire.
Trancanelli al bar sta facendo colazione da un bel po', quando arrivo stropicciato e affamato.
- fame. Sono venuto giù solo perché ho fame e perché sennò.
Mi guarda con commiserazione mista a compassione e ordina due caffè.
- trancanè è successa una cosa tremenda stanotte.
- lo so
Trancanelli è ispettore della mobile da molti anni ormai e sembra un animale notturno con quei sopracciglioni neri su fondo pallido.
- sono stato tutta la notte di pattuglia e quando sono tornato a casa mi è passato il sonno.
Non sa niente. Un incidente d'auto non può attirare l'attenzione di un vecchio poliziotto. Rotto a ben altre efferatezze.
Ordino un paio di cornetti e mangio in silenzio.
- che stavi dicendo? Che mi volevi dire?
Cerco di sviare il discorso.
- anch'io ho dormito poco. Mi sono svegliato tutto vestito e non mi ricordo che ho fatto ieri sera.
Mi guarda divertito. Gli arriva una telefonata dall'ufficio, si alza tutto concentrato e se ne va. Lasciandomi pochi spicci sul tavolino che neanche bastano per il suo caffè.
Ma cazzo mi avevi invitato tu. Neanche glielo dico, perché è già lontano.
Passo in farmacia, con un gran mal di testa.
- moment per favore.
Mentre quella va a prendere la scatola nel retro, una signora con un foulard sulla testa e un leggerissimo soprabito beige entra togliendosi con fare studiato occhialoni neri alla audrie epburn in colazione da tiffany.
Un tuffo al cuore. Un tumulto inconsulto. Non trovo neanche il denaro per pagare l'analgesico. Pago con la carta di credito e quando la farmacista mi chiede di firmare la ricevuta firmo col nome della mia ex moglie. Fortuna che nessuno guarda mai che cazzo scriviamo sulle ricevute delle carte di credito. Uno potrebbe scrivere: Duce Duce e nessuno se ne accorgerebbe. La prossima scrivo: firmato Diaz.
Mi accendo la solita paglia e aspetto che esca.
Sciantosa, col passo leggero di chi non ha un pensiero nella vita, si dirige verso una macchina sportiva. Un ciccione alla guida. Li seguo.
Arrivano in un agriturismo appena fuori città vicino ad un lago di acqua salmastra. Vegetazione lussureggiante, piccoli bungalow sulla riva del lago. Percorrono uno di quei sentierini di pietre sfalsate abbracciati. Lui sgraziato, lei perdutamente innamorata.
Aspetto. Aspetto la sera. Sul ciglio della strada. Appoggiato alla macchina. E fumo. Negli occhi. In silenzio. Non mi passa la rabbia. Irragionevole come tutti i detective mi passo una mano sulla fronte poi sulla nuca madida.
Quando busso alla porta del bungalow, ho già preso la pistola dal cruscotto, controllato i proiettili e richiuso il tamburo con uno scatto. L'ho tenuta in tasca per tutto il sentiero. Ma quando apre la porta lei con l'accappatoio slacciato sul davanti se la trova spianata bene in vista con la canna che brilla alla luce della luna. Indietreggia solo poco. Le sparo appena dopo. Lui non fa in tempo ad alzarsi dal letto che sparo anche a lui due passi dentro la porta. Richiudo piano non senza aver dato un'ultima occhiata alla scena del delitto. Lei scomposta, senza slip, le cosce socchiuse, un rossore sul seno all'altezza del cuore. Lui, il cranio sfondato sulla testiera del letto, il telecomando ancora in mano.
Scappo gettando la rivoltella nel lago. Il sentiero a ritroso sembra lungo, più lungo del corso di Lesina, inciampo nel rado selciato, appoggio un ginocchio, sento un rumore sordo, come di uno stecco di legno secco. Maledetta osteoporosi.
Zoppicando arrivo all'auto. Accendo la radio e parto rombando. Dai finestrini abbassati entra l' aria fresca della sera. Mi scompiglia i capelli, li riavvio con un gesto automatico ogni poco. Poi mi stufo e accendo l'aria condizionata.
Ho guidato per ore superando tutto quello che avevo davanti: moto, auto lente, camion a rimorchio. Tutte statali fino a Figada, Sicilia meridionale. Qui finisce l'Italia. Dopo il mare c'è l'Africa col suo sapore scuro. Il suo odore selvaggio. Le sue belve feroci.
Ma una di belva è rimasta da questa parte della spiaggia, su questa terrazza calda a picco su altre case più basse costruite nel fondo di questo vallone. Domino l'orizzonte scuro da questo piazzale circondato da antenne che riempiono d'immagini dal mondo le case deturpate, le facce annichilite dei telespettatori.
Suona ancora vecchio blackberry. Mi manca la voce di Carla, forse le devo qualche spiegazione.
- ... li ha ammazzati tutti,anche i figli piccoli, per scappare col suo danaroso editore. E io li ho ammazzati tutti e due come cani rabbiosi.
- come lo sapevi che era il suo editore?
- sulla macchina aveva il logo di una piccola casa editrice a pagamento, mi pare un gabbiano, un albatros e sotto c'era scritto "se lo hai scritto lo devi pubblicare."
Non c'era sorpresa nella sua voce.
- ti raggiungo. Un weekend giù mi ci vuole.
Quando scende dalla sua porche nera sembra Eva kant.
Si lega i capelli lunghi e biondi. Si avvicina flessuosa, fasciata dal suo tubino nero.
Mi bacia con passione.
- ho portato i diamanti.
Sergio M.