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la memoria...

(27 articoli)
  1. rindindin

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    Pubblicato 13 anni fa #
  2. urbano

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    Con Nasca ci andai in marocco. Lui betta lori e io, a bordo dell'apa.
    Una 2cv furgonetta, color carta da zucchero.
    Gli mancava il sedile passeggero e così fino alla sierra nevada, dove finalmente lo comprammo a uno sfascio, chi sedeva accanto al guidatore vedeva attravesro la presa d'aria e a sera aveva tutti gli occhi arrossati. Che coraggio! Venti giorni di viaggio con la musica di coltrane dal mangianastri appeso al tettuccio. A Checahuen dormimmo sotto un tetto di stelle, ed al ritorno un eremita ci offrì un concerto con la eco della notte, gli lasciammo il nostro flauto dolce. A Fes toccarono il culo a betta, a meknes facemmo indigestione di friggitelli.
    A lui non piaceva tanto il posto: me ricorda sciangai.
    Io Mauro Nasca lo ricordo in quel modo, in quel viaggio. Ricordo di quando quasi morì col vespone e poi lasciò il coma per tornare tra noi. Ricordo i suoi capelloni, il sorriso sornione e ricordo il suo naso.

    Pubblicato 13 anni fa #
  3. A.

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    Ma Nasca è un soprannome?
    Perchè uno così lo ricordo che frequentava il circuito degli ex di Lotta continua che si erano mobilitati per Sofri, una dozzina di anni fa a Latina.

    Pubblicato 13 anni fa #
  4. urbano

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    Si era il soprannome.
    Nasca non era un frequentatore degli ex di lotta continua, Nasca fu un militante di LC. Poi la vita ci disperde, ci nasconde come la storia del fiume sotterraneo che sofri raccontò a rimini. La vita ci porta via, ma è sempre lei che diventa ex, noi si resta autentici.

    Pubblicato 13 anni fa #
  5. A.

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    Che fa Nasca ora? (Io so che nasca significa "naso grosso" in romanesco, vero?)
    Ma tu venisti nella sede di Via Piemonte (quando si fece la raccolta di firme per Sofri)?

    Ma Urba', tu eri di Lotta Continua?

    Pubblicato 13 anni fa #
  6. urbano

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    Nasca è morto pochi giorni fa.

    Pubblicato 13 anni fa #
  7. A.

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    mi spiace...
    Puoi raccontare qualcosa di come l'hai conosciuto?

    Pubblicato 13 anni fa #
  8. urbano

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    No, io non firmai.
    Forse fu lo sgomento per quello che era stato.
    Io avevo conosciuto compagni e compagne di strada, anonimi entusiasti, generosi, ingenui. Magari puri, in ogni caso innocui, che in quel periodo della vita, mia e loro, davano senza misura non per un progetto ma per il piacere di dare.
    In quel periodo della vita nostra quello che ci interessava era il viaggio e non la meta. Poi il viaggio fu interrotto e la meta pure sparì. Ernesto mi diceva che era nell’ordine delle cose.
    Io e credo molti compagni e compagne ci ritrovammo soli come atreius nella palude della disperazione, a tirar su le gambe dal fango e scostare i rami spinosi per avanzare in un percorso qualsiasi che conducesse a un fuori.
    Ci siamo smarriti, qualcuno per sempre irrimediabilmente.
    Alle firme non ci venni perché nessuno firmava per me, ne mai avrebbe firmato per noi. Non lo seppi cogliere il segno dello stare ancora insieme, anzi mi pareva un nulla quasi egoistico affidare il mio esistere ad una firma su una riga di un foglio.
    O forse non me ne fregava più niente.
    Era finita quella cosa li, era andata così la vita, la mia e quella di tutti gli anonimi entusiasti, le nostre di cui quella di adriano solo sembrava avere un nome.

    Pubblicato 13 anni fa #
  9. rindindin

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    condoglianze...

    Pubblicato 13 anni fa #
  10. A.

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    Urbano, scrivi, racconta, zakhor!!
    Tu eri in LC?
    No? Se sì perchè sì, se no perchè no?

    Pubblicato 13 anni fa #
  11. urbano

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    Zakhorare. Ma che vuoi zakhorare, io fui di LC per una questione di claustrofilia e di sesso.
    Quel gruppo di compagni era l'unico che si riuniva in maniera mista, era quasi del movimento, era quel tanto di irregolare e non intruppato, e soprattutto era l'unico in questo posto. Per stare in gruppo peace and love non c'era altro e a quell'epoca poi i fascisti mi facevano senso. Il punto di riunione era il centro di servizi culturali di via oberdan, tra gli scaffali, dove si raccontavano le fughe a pisa o a trento, gli ardori e gli amori, di cuore e di carne. A me se devo proprio dirlo però i compagni di qua mi annoiavano, erano troppo seri senza fantasia. Mi stupivano le ragazze che scambiavano l'aggressività con la liberazione, salvo darti una sberla se gli toccavi le tette. Comunque di quel tempo mi ricordo disperate domeniche sera invernali o autunnali passate a schiacciare i bottoni del tabellone stradale della piazza e a domandarsi in modo protoleninista: che famo?
    Le cose cambiarono un poco quando salvatore e letizia tornarono da parma. ci furono i loro racconti degli arditi dell'oltrefiume e la loro casa a piazza moro. E poi cambiavano l'estate quando i compagni pisani (pisani eh eh) tornavano in vacanza a casa e ci stupivano con le storie della folgore.
    Comunque non fu cosa ideologica ma pulsionale. Se avessi trovato belle camerate magari ero di ON. A roma per esempio c'avevo una storia con una patrizia che faceva i campi hobbit in abbruzzo con rauti. Non si levava gli stivali mai.

    Pubblicato 13 anni fa #
  12. A.

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    La memoria seleziona il passato secondo le presenti configurazioni della mente, e in questo modo fatalmente lo riduce . Per questo la memoria deve fondersi con il testimonium paupertatis dell'allora. Povere carte, qualche foglietto, etc.
    Sentiamo cosa dice un grande scrittore, Primo Levi (L'altrui mestiere):

    Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla cos’ì com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

    Pubblicato 13 anni fa #
  13. urbano

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    Son problemi di chi ascolta.

    Quando passò un po' di tempo il punto d'incontro scese a piano terra, al bar desiderio. Adesso al posto suo c'è il bancoroma. Li ci si andava la sera a bere i crodini, a fumare e a leggere il giornale. Aveva un flipper taroccato. Pierino ci sopportava se consumavamo altrimenti usciva e con un sorriso di tolleranza scocciata ci chiedeva: Allora?
    Li in quel bar abbiamo vissuto le stragi annuali, che parevano essere una festa comandata, le morti delle manifestazioni delle città. Li ci venivano a trovare a fine turno i due compagni operai e li un compagno gay studiava da femmina su le ore.

    Pubblicato 13 anni fa #
  14. A.

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    Come viveste il femminismo e la chiusura di LC?

    Pubblicato 13 anni fa #
  15. urbano

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    Ma poi mi paghi?

    Pubblicato 13 anni fa #
  16. A.

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    No, voglio capire.

    Pubblicato 13 anni fa #
  17. urbano

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    Il femminismo come lo vissero gli altri, anche se credo di immaginarlo, non posso dirlo. Io il femminismo, con tutti i limiti di genere, lo vivo con me stesso e la mia compagna. Tu?

    Pubblicato 13 anni fa #
  18. A.

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    Ma che cavolo c'entro io. io so che LC cadde sulla questione del femminismo. L'ho letto sui libri. ma voi ne eravate testimoni.
    Non mi interessano le cose private. ma volete o no no fare gli scrittori? e allora scivete!

    Pubblicato 13 anni fa #
  19. urbano

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    Leggi libri mendaci.
    Le cose private allora divennero politiche, o almeno ci si provò.
    Mi ricordo di un compagno di quelli meglio, tosto pronto sempre e disponibile che faceva prostituire la moglie. Fu organizzato un processo a studio mio.
    Avevo questa cosa per studiare, amare e dormire e li per un periodo la sera venivano i compagni. Allora si fece sto processo, perchè la compagna moglie aveva raccontato quello che faceva per il compagno marito, non per coscienza ma per infezione ginecologica. Lui ascoltò come un cannibale una lezione vegan e alla fine sinceramente si dichiarò d'accordo, magari usò pure la formula: compagni capisco che ho sbagliato. Alla fine di quel processo rieducativo se ne andarono tutti e due sollevati. Lei si curò, probabilmente guarì, insieme continuarono fuori città. All'ingrosso, siccome le cose private restarono tali perdemmo quella partita.

    Pubblicato 13 anni fa #
  20. A.

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    Bah, francamente non credo che i testi di De Luca, di Gad lerner, dello stesso Adriano Sofri, siano testi mendaci. Comunque, non ho tempo ora per cercare dettagli. Io parlo del convegno di Rimini del 1976...
    Interessante comunque quello che scrivi.
    perchè non pubblichi un resoconto lungo?

    Pubblicato 13 anni fa #
  21. urbano

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    No non lo sono, ma la cosa in quel modo nemmeno la dicono.
    Comunque visto che ti piace ecco cosa dice Erri al Corriere, lui medesimo:
    Ero di Lotta Continua e Lotta Continua era un movimento rivoluzionario. Era un movimento che credeva nelle possibilità rivoluzionarie dell’Italia anni Settanta e che agiva di conseguenza.

    Lotta Continua si sciolse nel 1976. Tu andasti a fare l’operaio. Altri cominciarono la loro carriera. Chi nei giornali, chi nell’industria, chi nelle televisioni.

    No, il grande blocco di quelle decine di migliaia che eravamo è rimasto lì, inapplicabile alla vita civile, inutilizzabile per i poteri. Inservibile. Tanti anni di antagonismo ci avevano reso intrattabili e inassimilabili. Molti si sono demoliti con le droghe, altri sono entrati nelle formazioni armate. Ma la gran parte sono rimasti lì, nei mestieri che facevano, insegnanti, operai.

    Mercenaro, Rinaldi, Liguori, Lerner, Capuozzo, Briglia, Pietrostefani, Sofri, Ravera, Deaglio «operai»?

    Alcuni sono riusciti a entrare in un circuito di visibilità e di rappresentanza. Ma sono quelli che numericamente, nelle analisi organolettiche, vengono chiamati “tracce”. Zero virgola zero zero zero zero uno.

    E la grande parte, il nove virgola nove nove nove nove?

    Sono rimasti lì dove erano, senza fare né carriera né fortuna. Desaparecidos, politicamente assenti. Quelli che sono al potere oggi sono quelli che erano latitanti ai tempi di Lotta Continua. Disertori.
    Tracce, dici tu. Ma tracce molto visibili.
    Tracce fastidiosamente visibili.

    E sono andati dovunque. A destra, a sinistra?

    Io non faccio tanta differenza tra il dovunque di Liguori e quello di Deaglio».

    La scelta di Deaglio sembra più coerente.

    Per me non fa differenza se uno va con i socialisti e l’altro con i democristiani.

    Tu hai continuato ad avere rapporti con quelli di Lotta Continua?

    Ho rapporti con un mucchio di compagni che vengono da lì e che nessuno conosce. Più a lungo di questi militi ignoti ho avuto rapporti con Ovidio Bompressi. Siamo stati amici per la pelle.

    Le tue origini sono borghesi o proletarie?

    Un misto. La mia era una famiglia borghese impoverita dalla guerra. Abitavamo in un quartiere popolare di Napoli. Un’infanzia da bambino povero col fastidio di essere comunque un privilegiato, uno che a sei anni andava a scuola invece che a lavorare, che non andava scalzo, che in classe non era rasato a zero per via dei pidocchi, che parlava italiano e non napoletano.

    Amori napoletani?

    Nessuno. Napoli mi ha dato altri sentimenti, le collere, le vergogne, lo schifo, le commozioni. Sentimenti fondanti, di quelli che ti attrezzano il sistema nervoso.

    Ad un certo punto hai mollato tutto.

    Me ne sono andato a 17 anni, come un evaso, non sapevo niente di quello che c’era fuori, non sapevo che esisteva una generazione che si stava muovendo, ci sono finito dentro per cooptazione perché era lì, era in mezzo alle strade.

    Cos’è che ti soffocava a Napoli?

    La scuola, la città, la presenza degli americani, tutte le persone che incontravo mi volevano vendere qualche cosa in napolamericano, non ne potevo più.

    Hai lasciato Napoli e?

    Sono andato a Roma. Facevo il fattorino, il fotografo, vivevo in una camera ammobiliata. Cominciavano le prime manifestazioni, le prime battaglie di strada, le prime questure, le prime amicizie.

    Come avvenne l’incontro con Lotta Continua?

    Eravamo un gruppetto spontaneo. Una cinquantina di agitatori, agitati, agitanti. Andavamo ad occupare case sfitte, portavamo l’elettricità nelle case, lottavamo contro l’Enel. Ci chiamavamo Gruppo Agitazione Operai Studenti, Gaos. Ad un certo punto decidemmo che ci piaceva Lotta Continua e dicemmo: siamo noi Lotta Continua a Roma. Venne Mauro Rostagno e ci disse: va bene, siete Lotta Continua.

    Chi c’era con voi?

    Ricordo Paolo Ramundo e Mimmo Cecchini che poi è il marito di Stella, la sorella di Adriano Sofri.

    C’era anche Paolo Liguori.

    Straccio. Era un bravissimo capo, uno a cui piaceva parlare e che ci sapeva fare, era un capo naturale. Era ambizioso e Lotta Continua lo mortificò. Venne Pietrostefani a Roma e lo sbatté a fare il militante davanti all’Alfa Sud di Secondigliano.

    Pietrostefani che tipo era?

    Il peggiore di tutti. Come persona e come atti. Non mi è mai piaciuto e gliel’ho sempre detto in faccia. Ha sfruttato la sua posizione di potere dentro Lotta Continua in modo borghese.

    Tu diventasti capo del servizio d’ordine di Lotta Continua di Roma, un servizio ai limiti della legalità?

    No, no. Un servizio completamente dentro all’illegalità. Lotta Continua era tutta illegale, l’illegalità era la pratica diffusa.

    Spiegati meglio.

    Proteggere dei latitanti era illegale, scontrarsi con le forze dell’ordine era illegale, fabbricare delle bottiglie incendiarie era illegale.

    Quante molotov hai fatto?

    Eravamo una bella fabbrica in piena produzione.

    Con la connivenza dei benzinai?

    I benzinai erano tutti amici nostri. E noi eravamo dei clienti robusti.

    Giravate armati?

    Tutta la nostra attività era una attività armata.

    Tipo pistole?

    Noi le avevamo sì: facevano parte della necessità della presenza in piazza contro i fascisti e nei cortei. Dopo il ’75 è diventata pratica comune.

    Tutti armati?

    No, quelli autorizzati, solo quelli autorizzati.

    Perché molti di Lotta Continua raccontano il loro passato cancellando tutto questo?

    Si dissociano, dalla loro storia, dall’evidenza. E io li perseguito ricordandogli i dettagli.

    Che cosa succede quando li perseguiti ricordandogli i dettagli?

    Gli guasto qualche momento di digestione. Poi gli passa, gli passa.

    Hai fatto qualcosa che se ti avessero beccato ti avrebbe portato in galera?

    Come tutti.

    Non sto parlando di molotov.

    Come tutti, come tutti. Abbiamo condiviso il peggio di quel tempo. Le azioni di quell’epoca erano a nome e a titolo collettivo. Non è che ci fossero militanti innocenti ed esecutori colpevoli. Non c’erano dirigenti ignari e dirigenti mandanti. Per questo ho scritto che molte persone sono in prigione o in esilio a scontare anche per me. E finché per qualcuno c’è uno strascico penale io non sono in pace con quel passato.

    Un colpo di spugna su cose così pesanti? Ci sono stati dei morti.

    Da tutte le parti ci sono stati dei morti.

    Ma alcuni non volevano combattere: se ne stavano pacifici a vivere la loro vita.

    Anche le vittime delle stragi se ne stavano pacifici a vivere la loro vita. E quelli che li hanno ammazzati sono tranquilli al posto loro. Da una parte impunità e dall’altra punizioni?

    Quando Lotta Continua, al congresso di Rimini, fu sciolta, tu eri d’accordo?

    No, per me era una diserzione.

    Lo scioglimento di Lotta Continua ha frenato o favorito il passaggio di molti alla lotta armata?

    Molti mi chiedevano il da farsi. Nel mio piccolo, avendo avuto la responsabilità di alcune centinaia di militanti del servizio d’ordine di Lotta Continua di Roma, la mia scelta di non ficcarmi dentro una banda armata ha risparmiato delle conseguenze penali e penose a molti compagni.

    E le armi che fine hanno fatto?

    Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare.

    Dove le avevate rimediate le armi?

    E che domande? La mia risposta sarebbe da collaboratore di giustizia.

    Le avevate comprate? Le avevate rubate?

    Lotta Continua non comprava niente, non faceva acquisti.

    C’è qualche slogan di cui ti sei pentito?

    Avevo un rapporto un po’ delicato con le parole, per me le parole avevano un peso, un significato e dovevano trasformarsi in atti, per cui tutti gli slogan esagerati io li tacevo, non li pronunciavo.

    Alle assemblee parlavi?

    All’inizio ero un introverso. Poi ho imparato. Quella era una scuola che insegnava a parlare ai muti. Comunque non mi piacevano gli interventi lunghi. Quando avevo detto il necessario mi fermavo.
    Anche adesso non sei un grande parlatore. Ma quando parli le polemiche sono automatiche.
    Non piace ai reduci che io dica che Lotta Continua era un organismo rivoluzionario. O che dica: “Ognuno di noi avrebbe potuto uccidere Calabresi”.

    Tu avresti potuto uccidere Calabresi?

    Ma certamente. Quando dico noi, includo anche me.

    Sei stato fortunato.

    Magari non ero a Milano, non ero nel gruppo delle persone che hanno realizzato quell’attentato.

    L’ultima che hai detto è: «Vi diremo la verità quando ci restituirete
    i corpi di Sofri e di Bompressi».

    No. Quella è stata un’utile semplificazione tanto per fare un po’ di casino come è abituata a fare, attraverso i titoli, la tua professione.

    Dacci l’interpretazione autentica.

    Si potrà parlare di quegli anni quando non ci saranno più prigionieri. Quando saremo tutti liberi potremmo sapere la verità su Calabresi.

    Fai capire che sai chi ha ucciso Calabresi.

    Io questa frase non l’ho pronunciata. Se lo avessi voluto dire lo avrei detto.

    Tu lo sai chi ha ammazzato Calabresi?

    Preferisco non risponderti. Non mi sento libero di parlare di questo.

    C’è il pericolo di mandare qualcuno in galera?

    Anche: ne parleremo quando non avrà più rilevanza penale.

    Sapere chi ha ammazzato Calabresi è importante.

    Questo Stato lo ha già stabilito una volta per tutte. Chi è il mandante, chi l’esecutore. Lo Stato sta già a posto per Calabresi, come per Moro, ma quello che si vuole sapere, ed è una curiosità sana, è qualcosa di più sulle motivazioni, su quello cui la verità giudiziaria non può attingere: la verità storica, una verità che racconti le ragioni dei vinti.

    Tutti vogliono fuori Sofri.

    Non è vero affatto. Alla gran parte degli italiani non gliene frega niente.

    Anche Sofri se l’è presa con te.

    Non sono in buoni rapporti con Sofri, da molto tempo, dai tempi della Bosnia. Lui era favorevole ai bombardamenti. Ma io non voglio polemizzare con lui.

    Vincino ha scritto che non hai mai fatto un giorno di galera dei tanti che avresti meritato.

    Ha ragione. Noi tutti eravamo meritevoli di molti giorni di galera. Lui compreso.

    Per chi voti?

    Non voto. Finché ci sono dei prigionieri e degli esiliati in giro, per i reati politici del 1900, io non voto

    Molta gente non vota.

    Perché vede troppa omogeneità. Rutelli vale Berlusconi. Anzi, vale di meno

    Chi è che ti piace a destra?

    Nessuno.

    E a sinistra?

    A sinistra c’è un caso misterioso, l’affare Cofferati. Un incidente di percorso che rimane oscuro a noi italiani. Non si capisce cosa sia successo tranne il fatto che uno invece di diventare capo della sinistra di opposizione è diventato sindaco di Bologna.

    Il ’68 è stato una sconfitta per il Paese?

    L’Italia aveva bisogno di quella febbre e di quella gioventù rivoluzionaria per innescare la sua democrazia. Poi siamo andati al macero, ma in fabbrica, nelle carceri e nelle caserme abbiamo contribuito a conquistare cose importanti.

    Avresti potuto scegliere la lotta armata?

    Avrei potuto, sì, ma guarda che noi non facevamo una lotta disarmata. La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica.

    Tu hai scritto a Bompressi una lettera che pubblicò Micromega. E dicevi: «Tu sei estraneo, ma non innocente».

    Nessuno di noi era innocente. Siamo tutti corresponsabili di quello che è successo in quegli anni.

    Ma molti si autoassolvono. Dicono: bisogna considerare il contesto.

    Sono contrario alla giustificazione del contesto. È come se quello che ho fatto me lo avessero fatto fare gli altri. No, quello che ho fatto l’ho fatto in piena consapevolezza e senza nessun trascinamento.

    Tu hai mai fatto una rapina?

    Sono stato accusato di averle fatte. Non so quante me ne ha attribuite Marino.

    Più di quelle che hai fatto?

    Dai Claudio!.

    Claudio Sabelli Fioretti per Magazine del Corriere della Sera

    Pubblicato 13 anni fa #
  22. A.

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    Moderatore

    Urbano, fa il piacere, segnala in neretto le domande. grazie

    Pubblicato 13 anni fa #
  23. Ma invece la parentesi Reporter?

    Pubblicato 13 anni fa #
  24. urbano

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    Membro

    La storia di reporter non riguarda LC ma solo il reducismo.
    Poi io da tempo finalmente leggevo e leggevo altro, ad esempio mi piaceva renudo.
    Lo andavo a comprare a roma e lo leggevo mangiando un filetto di baccalà.

    Pubblicato 13 anni fa #
  25. A.

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    Moderatore

    «Fausto e Iaio uccisi dai servizi segreti»
    Lo dice la madre, mai interrogata, di uno dei due ragazzi del Leoncavallo fatti fuori a Milano nel 1978 durante il rapimento Moro

    MILANO - Potrebbe esserci una svolta sulle cause dell'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci, avvenuto a Milano il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro. Danila Angeli, madre di Fausto, ora accusa i servizi segreti in un'intervista al programma di Radio 24 Italia in controluce che andrà in onda mercoledì 23 febbraio alle 13,30. La stessa ipotesi ventilata in un'intervista e Sky Tg24.

    ARCHIVIAZIONE - L'inchiesta della magistratura non è arrivata ad accertare i responsabili dell'agguato contro due ragazzi diciottenni che frequentavano il centro sociale Leoncavallo. Il giudice Clementina Forleo, il 6 dicembre 2000, archiviò l'indagine con questa motivazione: «Pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva e in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Claudio Bracci, Mario Corsi), appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni».

    DURANTE IL RAPIMENTO MORO - «Dopo l'omicidio di mio figlio», racconta ora la madre di Tinelli, «ognuno offriva la sua versione. Chi parlò di regolamento di conti tra spacciatori di droga, oppure una faida tra gruppi della sinistra extraparlamentare. Negli anni ho riannodato i fili della memoria, i pezzi di un piccolo mosaico che mi ha permesso di raggiungere la vera verità che io conosco. Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell'ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all'appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana».

    RACCONTO - Danila Tinelli entra quindi nei particolari della sua testimonianza. «Prima del rapimento Moro e dell'omicidio di mio figlio, tra la fine del '77 e l'inizio del '78, la famiglia che occupava l'appartamento al terzo piano del mio palazzo venne mandata via d'urgenza con uno sfratto esecutivo. La casa era rimasta vuota per qualche settimana. A un certo punto la portinaia dello stabile, mentre puliva al terzo piano, vide alcune persone entrare nell'appartamento, si agitò e me ne parlò. E da allora ho cominciato a sentire rumori sulle scale specie di notte, fino a vedere attraverso lo spioncino persone che andavano al terzo piano con strani congegni, apparecchi fotografici. Nessuno, oltre a me, si è domandato cosa stessero facendo quelle persone. Ho messo in relazione la presenza di quelle persone con alcuni fatti strani avvenuti prima dell'omicidio. Una ragazza venne a cercare mio figlio a casa mia. Quando la descrissi, mio figlio non la riconobbe come un'amica. Eravamo spiati, controllati, almeno due mesi prima».

    MAI INTERROGATA - Perché in tutti questi anni gli investigatori non hanno interrogato la signora Danila Tinelli? «Nessuno mi ha mai interrogata. Fausto e Iaio sono come un segreto di Stato... un depistaggio. Hanno scelto mio figlio perché abitava in via Monte Nevoso dove era in corso un'operazione coperta dei servizi, qualcosa che non doveva emergere». (fonte: Agi)

    Corriere della sera 22 febbraio 2011

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    Pubblicato 13 anni fa #
  26. zanoni

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    «Fausto e Iaio uccisi dai servizi segreti»

    si', vabbe'. e perche' mai i 'servizi segreti' avrebbero dovuto farli fuori, a 'sti due? perche' non hanno sterminato tutto il palazzo? avrebbero fatto prima, no?

    Pubblicato 13 anni fa #
  27. urbano

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    http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Corsi
    e
    Carla Verbano è una che non si arrende. Oggi ha 86 anni, 31 anni fa uccisero suo figlio, Valerio. Da allora lei cerca di capire chi fu ad ammzzare suo figlio nella stanza accanto a quella in cui lei era immobilizzata. Valerio Verbano fu ucciso in maniera infame e crudele, che non aveva precedenti nell’infamia e nella crudeltà degli anni di piombo. Valerio era uno di sinistra, militante dell’autonomia operaia, frequentava un istituto romano, l’Archimede. Una mattina, e sono 31 anni oggi, il 22 febbraio 1980, mentre lui era a scuola (in realtà non c’era andato, ma i genitori credevano di sì), alla porta della sua casa, a Montesacro, suonarono tre ragazzi. Si fecero aprire dicendo «Siamo amici di Valerio». Erano incappucciati, legarono Carla Verbano e suo marito Sardo, li imbavagliarono e li gettarono sul letto. Poi aspettarono. Valerio tornò a casa, posteggiò la Vespa 50 e salì. Carla e Sardo sentirono rumori di cose che si rompevano, poi uno sparo, uno solo. Quando arrivò un vicino di casa e liberò Carla e Sardo, trovarono Valerio riverso sul divano, disse «mamma aiuto, aiutami mamma», e basta. Gli avevano sparato alla nuca.
    Vennero fatti gli identikit con l’aiuto di chi aveva visto gli assassini uscire dal portone: erano anche loro giovanissimi, come Valerio. Una rivendicazione arrivò dai Nar, quelli di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, fascisti diciottenni che in quegli anni misero a ferro e fuoco Roma e non solo. Carla Verbano di politica non sapeva nulla, non aveva capito nulla di quegli anni. Iniziò a scavare, a cercare di capire, incontrò amici e poliziotti. Ha raccontato tutto in un libro, Sia folgorante la fine. Ha detto Carla Verbano: «L’inizio deve essere folgorante, Carla, mi dicono quelli ai quali parlo del libro. Capirai, folgorante, alla mia età. Io come inizio ho scelto la cosa più innocua che ci sia, un sogno. Perché quando mi sveglio, ogni mattina da trent’anni, voglio tutt’altro: sia folgorante la fine, di questa storia».
    La storia della morte di Valerio Verbano è anche la storia di una città, Roma, che in quegli anni era divisa, piena di confini, di qua zona nera di là zona rossa. Le botte ma anche i colpi di pistola, gli omicidi a freddo. Le imprese del gruppo di Fioravanti e Mambro, con Giorgio Vale, Alesandro Alibrandi, Stefano Soderini, Gilberto Cavallini. Luigi Ciavardini. Gente che uccise a freddo, come davanti al liceo classico Giulio Cesare, quando spararono a Franco Evangelista, il poliziotto che chiamavano Serpico. O come quando uccisero un magistrato, Mario Amato, il 23 giugno 1980. Amato era l’unico che a Roma indagava sui neri. Da solo, per una mole enorme di delitti. Lavorava nello stesso palazzo del giudice Antonio Alibrandi, papà di Alessandro, l’assassino amico di Giusva Fioravanti. Amato faceva arrestare Alessandro, il padre lo liberava. Alla fine Amato fu ucciso. Era solo, senza scorta, senza macchina blindata.
    Carla Verbano non ha ancora capito chi uccise suo figlio. Si fecero molti nomi allora. Valerio non era un angioletto, era figlio di quegli anni: partecipava a scontri, anche duri, con i fascisti. Aveva un archivio con tanti nomi di camerati della zona di Montesacro. Si parlò di Nanni De Angelis, giovanissimo militante di Terza Posizione, il gruppo fondato da Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi e Peppe Dimitri. Si disse che De Angelis era stato colpito da Verbano durante uno scontro tra rossi e neri. Nanni, accompagnato dal padre, andò a casa Verbano. Disse: «Signora, io non c’entro nulla con la morte di suo figlio».
    Anche Nanni De Angelis fece una brutta fine, pochi mesi dopo. Venne arrestato il 4 ottobre del 1980 mentre era in compagnia di Luigi Ciavardini, indicato come l’assassino del poliziotto Serpico. Al momento dell’arresto ci fu una colluttazione violenta, De Angelis era un ragazzone alto e grosso, giocatore di football americano. Venne ricoverato in ospedale poi subito dimesso e chiuso in isolamento a Rebibbia. Lo trovarono impiccato con un lenzuolo il 5 ottobre. In tanti non hanno mai creduto alla versione ufficiale. Furono in molti, in quegli anni, a passare da Terza Posizione ai Nar: avvenne, per i gruppi fascisti, lo stesso travaso che era avvenuto dall’altra parte tra autonomia operaia e gruppi terroristici.
    Furono i Nar a uccidere Valerio Verbano? Ora pare che a Roma, a 31 anni di distanza, si indaghi su due nomi, due fascisti che non entrarono nelle indagini di allora. Uno di loro vive all’estero da tempo, l’altro è ancora in Italia, è un professionista affermato. Non facevano parte dei Nar, erano cani sciolti. Un altro omicidio, commesso a Milano nel marzo 1978, quello di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, è simile a quello di Valerio Verbano. Spararono a Fausto e Iaio davanti al Leoncavallo. Fascisti, ma rimasti senza un nome. Carla Verbano pensa che possa essere stata la stessa gente. Che gli assassini di Fausto e Iaio siano venuti da Roma.
    C’è un’altra cosa che racconta Carla Verbano. Un giorno incontrò Fioravanti e Mambro. Aveva cercato lei quell’incontro. Di chi aveva ucciso suo figlio, Giusva Fioravanti disse di non sapere nulla. «Ma ha mentito», dice Carla, «io lo so che ha mentito. Mentì anche quando disse di son sapere nulla dell’omicidio Amato. E invece poi si seppe che era stato lui a pedinare il magistrato, a dare tutte le indicazioni».
    Ogni tanto qualcuno imbratta la lapide che ricorda Valerio Verbano a Roma. La mamma, Carla, vive qualche piano sopra quella targa. C’è una finestra accesa: invece di fare i conigli imbrattando lapidi, citofonatele, andate a parlarle. Lei ancora aspetta, da 31 anni, di vedere la faccia di chi sparò alla nuca di suo figlio mentre lei era di là, legata su un letto, e non poteva nemmeno urlare.
    Stefano Nazzi
    "una che non si arrende"

    Pubblicato 13 anni fa #

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