POLITICHE CULTURALI E LUOGHI COMUNI.
La politica culturale è un argomento che viene tirato fuori - è un mio personalissimo sospetto - quando non si ha niente da fare. Mancano gli argomenti, o non si ha il coraggio di affrontarli, e allora viene fuori il tema generale: quali politiche culturali?
Un po' come parlare del sesso degli angeli o della fame nel mondo. Lo si fa quando non si sa di cosa parlare o quando la si vuole buttare in caciara oppure quando si vuol filosofeggiare senza dir nulla. Essendo estate e non avendo un granché da fare – magari col caldo che t'alza a livelli sproporzionati la pigrizia – non mi va di prendere i libri e prepararmi. Così non rimane che mettermi a ragionare. Filosofeggiare, insomma. E preferisco farlo parlando di quello che conosco meglio (e non bene, fate attenzione alla differenza): la letteratura.
Qui nell'ex palude, che però secondo tutti, almeno dal punto di vista culturale, è rimasta tale, sembra vi siano diverse vulgate sulle politiche culturali, alcune specifiche e altre invece di portata più generale. Forse staranno stipate insieme, perché quando vengono tirate fuori, arrivano sempre una in fila all'altra. Vi chiederete: “Quali sono?”
Il primo luogo comune che mi viene in mente è quello dell'arte pontina, in un'accezione che non ha nessun riscontro nella storia dell'estetica o dell'arte. In genere le correnti artistiche venivano definite non tanto per la provenienza, quanto per le caratteristiche estetiche dell'opera d'arte. Magari si potrebbe definire arte pontina, l'arte che si caratterizza per qualcosa che ha a che fare col territorio. Dal romanzo di Pennacchi, per esempio, potrebbe discendere una poetica, tanto per fare un esempio, che al suo centro mettesse le 'storie' di questa città e di questa provincia. Definirla 'arte pontina' o 'letteratura pontina' sarebbe comunque limitativo. E' la terra pontina che si erge a luogo letterario. Vabbè, andiamo avanti altrimenti rischiamo di perderci. Dicevamo della caratterizzazione geografica. Neanche il gruppo di scrittori di Bologna - Wu Ming, Evangelisti, Lucarelli, Brizzi e chi più ne ha più ne metta – si è classificato come gruppo territoriale. Sono tanti, avrebbero potuto farlo, ma si sono sforzati di trovare altro: il New Italian Epic. Piacerà o non piacerà, ormai li caratterizza. Anche quelli di Firenze, secoli e secoli fa, erano parecchi. Nessuno mai s'è sognato di dire agli altri: “noi siamo artisti fiorentini”. Immaginate se Cavalcanti fosse andato da Dante e gli avesse detto: “promuoviamo l'arte fiorentina”. Le zampate alle palle si sarebbero sprecate. Perché l'arte fiorentina, magari, è definizione buona per l'artigianato: le ceramiche, le cinte e chissà che altro prodotto. Loro infatti sono passati alla storia come Dolce Stil Novo, che andava anche un po' più in là (geograficamente). Anche se Dante, nel suo Inferno, ci parla proprio di Firenze. San Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi hanno dato vita alla poesia religiosa, al giullarismo, non certo all'arte umbra. Una definizione del genere – l'artista pontino, l'arte pontina – serve soltanto a creare un'eguaglianza falsa delle opere. Vengono tutte da qua, so tutte pontine, pure se parlano de Milano, Los Angeles o Dubai. Sono tutte belle, proprio perché forgiate da pontini. Come se ci fosse il marchio DOC o IGT. E questo perché Latina, per quanto possa sembrare morta dall'esterno e dall'interno, è piena di gente che scrive, dipinge o recita. Piena zeppa, aggiungerei.
Altro luogo comune, più generale rispetto al precedente è: “la gente legge poco”. In generale, chi la dice questa frase, è uno scrittore che deve giustificare un suo insuccesso oppure un critico che vuol elevarsi – non riuscendovi con altro mezzo – rispetto alla plebaglia e decide di farlo marcando una differenza aprioristica. "Io leggo, voi no". E poi magari vai a scoprire che non è neanche vero. Oppure, ultimo caso, la frase "la gente legge poco" viene utilizzata da chi vuol autodefinirsi 'specie rara'. Basterebbe andare a guardare quant'è numericamente la gente che legge oggi, paragonandola alla gente che leggeva una volta, per capire che l'espressione “la gente legge poco” è un tantinello forzata. Magari leggerà male, leggerà veloce, leggerà senza alcuna voglia di approfondire. “Legge male” sarebbe un'espressione con più senso. E' un modo per non analizzare il problema. Perché se legge male, legge veloce e senza alcuna voglia d'approfondire non sarà forse pure colpa del fatto che il 90% dei testi – così com'è sempre successo – non merita di essere letto in altra maniera? Considerando pure che ormai su Feltrinelli.it rischi di incappare in autopubblicazioni – c'è proprio una clausola che ti consente farlo, non c'è criterio di selezione –. Non serve aggiungere altra parola.
Pubblico ce n'è, insomma. Qualsiasi sia l'arte che uno decide di intraprendere. Allora capita che invece di inoltrarsi, armati di machete, in mezzo alla giungla dell'editoria indipendente, che certe volte è pure editoria a pagamento e certe altre è editoria a doppio binario, si vuole andare sul sicuro: ecco spiegato il successo commerciale del Premio Strega. Piacerà o non piacerà il criterio di selezione, è un marchio di qualità che permette al mercato di orientarsi. Così come il Campiello o le classifiche o le recensioni. Dice: "è pubblicità?". No, è diverso. E' una certificazione di qualità, almeno agli occhi di chi compra e che magari non è dotato dei mezzi cognitivi per andare 'a naso'.
Altro luogo comune: la selezione. E' rischiosa e quindi per questo se ne conoscono applicazioni spurie o bizzarre. Perché applicare criteri di qualità significherebbe falcidiare la grande folla degli artisti. E chi se la dovrebbe prendere una responsabilità del genere? I politici? Dimenticate, compagni amici e camerati, che la grande folla degli artisti vota e, almeno oggi, i politici sono ultra-sensibili al consenso. Per cui il ragionamento degli artisti pontini, è quasi paragonabile ad una query su Excel. Fai un bell'elenco e poi te li coltivi, sperando che la maggior parte di loro, al momento giusto, ti voti. Qualsiasi cagata producano. A Latina, se ve lo ricordate, qualcuno – si vocifera che addirittura la proposta arrivasse da sinistra – ebbe l'idea dell'Albo degli Artisti. Solo se eri iscritto avevi diritto a chiedere eventuali finanziamenti e ogni due anni dovevi sottoporti all'esame: rimani artista se hai fatto qualcosa, se non hai fatto niente ti cancelliamo dall'Albo. Un criterio, come potrete notare, assolutamente quantitativo. Un libro autoprodotto valeva come il Premio Strega. Un artista che stava scrivendo da anni la Divina Commedia sarebbe stato 'meno artista' di uno che le cose se le va a pubblicare su ilmiolibro.it.
L'ultimo luogo comune – che mi son stufato di ragionare e devo andare a correre – nasce da una domanda: perché si parla sempre di politiche culturali quando si sa come ragionano i politici (basti vedere il luogo comune precedente)? Trovo sia un esercizio di stile. Un pavoneggiamento. Consente di differenziarsi, di far vedere, kantianamente, che si vuol portare la lanterna e non reggere il mantello. Sempre al Re, non ad altri. Cane da compagnia o da tartufo, che differenza fa? Prima o poi, come dicono a Roma, sempre “a catena” devi tornare.
La politica culturale, Zanò, è un'utopia. E' come parla' dei principi del comunismo o della pace nel mondo. Fai bene a verificare caso per caso, a denunciare ciò che non ti convince e ad apprezzare quello che ritieni sia stato fatto bene. Generalizzare o polemizzare sulle generalizzazioni, lasciamo che sia un modo di ragionare degli altri, non nostro.