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LA MASCHERA DELLA MORTE

(267 articoli)
  • Avviato 13 anni fa da maw
  • Ultima replica da parte di FernandoBassoli
  1. maw

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    Membro

    ci muoviamo come tante formichine appresso a imput di tipo metalogico, e forse rimuovendo l'essenza del nostro fantasma reale, il quale non-sarebbe fatto di carne, ossa e sangue - ma forse all'ottanta per cento di acqua...
    il mio libro dice ad ognuno chi egli stesso creda di essere, per merito di una volontà che MAW rappresenta variamente, come una moneta metafisica intercambiabile... ma chi è MAW, cos'è? ...la risposta è nella premessa, MAW è tante cose: basta iniziare a dare una risposta, la quale via via si approfondirà di soluzioni...
    dunque oggi, tanto per iniziare, dico: MAW E' LA MORTE!

    TRATTI DA "L'IMPOSSIBILE ROMANZO":
    quando quella sera lo vidi - soltanto adesso mi pare ovvio -, ma non so se possiate comprendere: non fu affatto uno shock o un sentimento fondamentale per me; piuttosto provai una sensazione "strana" come direbbero certi personaggi verdoniani -. Fu un avvenimento che non possedeva concetto insomma, il tale incontro nostro, tra me e Maw, il mio personaggio in carne ed ossa, lì: ed ecco, fu uno di quegli accadimenti che lasciano senza parola appunto.
    ...
    <<tu chi sei?>> Mi chiese sbigottito a quel punto.
    sembra inverosimile lo so: però mi ero preparato tante cose da dirgli, ma niente affatto una risposta per quella immediata e puerile domanda che mi aveva già fatto.

    TRATTI DA "GLI ASCI DI METERA"
    <<è festa dunque festeggiate!>>
    non c'è stromento che non suoni
    e non c'è morto che non danzi!
    il Crocifisso barcollando a piedi nudi
    affatto impedito dalla croce Egli
    non gela il mento inorridito, non fissa
    pupille pietose non ha!
    Cristo è ubriacato pure lui
    possiede che un soldo soltanto
    Egli si ride allo stomaco sazio
    scorreggia e si ride soddisfatto...
    Cristo si motteggia...
    e dalle bare dai sepolcri dalle tombe allora
    tutti i morti che tornano al mondo
    che fretta su uniscono al cortelo...
    e danzano, e femori, e costole
    ed ossa liberate volano <<E' festa
    festeggiate!>>
    ...
    Me dalla tua stessa fame di eroe
    eroso alla stessa tua fame di Sè

    TRATTO DA "BEPPE SIGNORI":
    ma non poteva finire così.
    la dolcezza della carne l'avevo provata, mi bisognava adesso di toccare uno spirito che fosse incandescente, per ustionarmi almeno un po'. Pensai che la "codini bon bon" mi era sembrata un poco stronza: forse faceva al caso mio.
    <<ma fanno puzza?>> Rise pienamente quando le dichiarai la mia intenzione di leccarle i suoi piedi sudati.
    <<non ti preoccupare per questo...>> Le ho risposto aprendo lo sportello della Twingo.

    TRATTO DA "SUIGNICIDIO A ODESSA":
    <<piangono gli occhi!>>
    donne che orlano caschi a duri capelli
    Idee di marmoree spirali sono
    come le antiche colonne dei grecci Picasso
    era questo mio gesto penso
    stesso, quale ho scoperto così
    inviato da una guerra mosso
    fino all'origine degli occhi... Mamma
    mia cosa non videro dunque
    oh le pupille...
    i bracci dai corpi
    gli intéstini alla pancia
    e tutti i vermi dei gridi!
    e gli ossi diversi pure...
    e tutti gli strazi di uno giorno qual ho...
    come impressionato. Qui
    s'attenta alla vita, mà
    at ogni Ora si fa...
    però nessuno mamà
    si arrende no...
    ed è "lo so!" è "posso"

    TRATTI DA "W L'ACCA ACCA DEL DIO PROCIO":
    cerco una scorreggia nel mio culo - mi sforzo... -, ma quando la trovo mi scacazzo le mutande con un fiotto prepotente di cacarella!
    ...
    la maledizione dei poeti maledetti non era che questa stessa puzza di merda che stanotte mi sento addosso infatti. Ve lo dico io. Del resto la maledizione è maledizione - poi si può scriverne quello che minchia se ne vuole...-.

    TRATTO DA "E ALLORA NIETNAM VUOL DIRE QUELLI CHE MANGIANO IL PESCENOTE":
    [:pinocchio al pececane:] ma Eoso non avrebbe dovuto vederlo tutto questo, mai! Il Consiglio delle Amazzoni Madri lo avrebbe senz'altro messo a morte dunque, o meno esiliato. E non avrebbe avuto luogo dunque la sua progenie regale, se infine Eoso non fosse stato soccorso dalla filosofia di Atene. Per questo Eoso giurò al Gran Consiglio Delle Donne di averla vista soltanto per mezzo di uno specchio Fenicio, la Grande Madre Accoppia [:tentiope:] fu così che Penteo salvò la propria vita allora. Poi si persuase a prendersi in moglie la Lù Andromedea [:gh:] Egli, in effetti, non l'aveva già vista accoppiarsi col ricco Efestino

    Pubblicato 13 anni fa #
  2. k

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    Non vorrei disilludere nessuno, ma vista così, a me pare una mezza fumotoscanata. Poi naturalmente non si può dire, bisognerebbe vedere tutto.

    Pubblicato 13 anni fa #
  3. SCa

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    Membro

    Mah, per me è troppo avanti... non riuscirei mai a leggere il resto.

    Pubblicato 13 anni fa #
  4. zanoni

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    Membro

    una mezza fumotoscanata !?!?!? ahahahahahah, questa e' divertente ma anche cattiva

    Z

    ps A proposito, che fine ha fatto Fumo?

    Pubblicato 13 anni fa #
  5. big one

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    è in giro che cerca 50 euro perduti

    Pubblicato 13 anni fa #
  6. maw

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    Membro

    non so cosa significa per voi, ma a me "FUMOTOSCANATA" piace... segnali di fumo che vengono dal dialetto per eccellenza, da una attualità sempre remota... GRAZIE!!!!!!!!!!!!

    Pubblicato 13 anni fa #
  7. A

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    Beppe, non ci fare caso, credo che Fumatoscani fosse un anonimo scrittore , a cui ti hanno analogato per identificazione proiettiva.
    Ma non c'è problema.
    indubbiamente il tuo testo, di 750 pagine è difficilmente collocabile: prosa poetica, interventi metafisici, racconti bukolskiani, etc.
    Potresti, secondo me, raccontare a loro (io lo so, essendo tu mio antico compagno di università) la tua gavetta, e la tua lunga e faticosa ricerca di un editore. Nonostante che - questo magari non lo sanno - tu abbia fatto un radiosceneggiato su radio 2.

    Pubblicato 13 anni fa #
  8. sensi da trento

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    cerco una scorreggia nel mio culo - mi sforzo... -, ma quando la trovo mi scacazzo le mutande con un fiotto prepotente di cacarella!

    oibò

    Pubblicato 13 anni fa #
  9. cameriere

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    Membro

    <<ma fanno puzza?>> Rise pienamente quando le dichiarai la mia intenzione di leccarle i suoi piedi sudati.
    <<non ti preoccupare per questo...>> Le ho risposto aprendo lo sportello della Twingo.

    ti ho scoperto maw.
    ora so chi sei veramente.

    Pubblicato 13 anni fa #
  10. Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo.
    Il piu' bel libro, ancora non pubblicato, che ho letto e' quello di Woltaired. Molto molto bello.

    Pubblicato 13 anni fa #
  11. maw

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    a torquemada dico, sinceramente, che il mio libro è nuovo, sia da un punto di vista generico che particolare, sia da un punto contenutistico che formale: da ogni punto di vista! ...nei limiti che la comomprensione e la condivisibilità impongono.
    certo non pretendo che mi creda, ma gli ricordo che dovrebbe leggerlo, il libro, prima di giudicare...

    Pubblicato 13 anni fa #
  12. Ha ragione, dottor maw, lo dovrei leggere il suo libro che ancora libro non è. Solo che non ho molto tempo a disposizione e da quel poco che lei ha lasciato trasparire - lei è sempre quello pocochiaroperchéchiaroinsè - mi sembra di capire che tutta questa novità o questa originalità - è più corretto utilizzare il secondo termine, perché, per essere nuovo, un libro appena stampato o appena scritto è sempre nuovo - siano rimaste soltanto nelle sue intenzioni.

    Non mi chieda una lettura completa, e non perché io mi ritenga troppo superiore. E' solo perché è una cosa che si guadagna faticosamente, da secoli e secoli. E, mi creda, non valgono le autocertificazioni, di cui lei abbonda.

    Pubblicato 13 anni fa #
  13. A

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    Membro

    No, Torque, libro è , è stato pubblicato.
    Ricordo solo che Così parlà zarathustra di Nietzsche fu pubblicato a proprie spese dall'autore, così come tutti gli altri libri scritti tra il 1883 e il 1889- solo negli ultimi dieci anni, quando lui era ormai in condizione di follia, il suo nome divenne il più famoso della sua epoca.
    Questo non lo dico per fare paragoni, ci mancherebbe, ma solo per dire che non perchè un libro viene pubblicato a proprie spese debba per forza esser una ciofeca. Di converso, un libro che vende tanto non per forza è un capolavorol, tieni presente che durante il Regime Liala era la più venduta, credo. Montale, a stento pubblicava, a proprie spese, o quasi. Può essere "troppo avanti" rispetto al suo tempo.
    Questo nessuno lo sa, sarei ridicolo se lo dicessi io.
    Ma si abbia un po' più di rispetto per i nuovi arrivati

    Pubblicato 13 anni fa #
  14. cameriere

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    Membro

    rispetto signori,
    rispetto.
    ecchecazzo!
    anzi,
    ecchecazzo!!!!!!!!!

    Pubblicato 13 anni fa #
  15. A

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    Esatto. Rispetto. e accoglienza.

    Pubblicato 13 anni fa #
  16. zaphod

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    Fondatore

    Sì, caro A (e caro Maw), rispetto per tutti e ci mancherebbe, ché - non fosse per altro - accoglienza e buona educazione sono le nostre caratteristiche distintive nonché parole d'ordine da sempre. Però non è che queste cose funzionano in un'unica direzione.
    Entrare in una casa e dire "statemi a sentire che come me non ce ne stanno" può essere una buona strategia di marketing e servire a catturare l'attenzione, a me fa ridere, ma magari a qualcun altro piace.
    Certo è che non puoi obbligarmi a stari a sentire.
    "Eh, ma io so fare le piroette!"
    "E' vero, è vero, fa le piroette come nessun'altro al mondo", mi assicuri tu.
    Però io sto cercando di sintonizzare sto cazzo di digitale terrestre per vedermi la partita e tu mi fai le piroette davanti.
    "Per favore ti scansi e fai le piroette un po' più in là, per favore?"
    "Sì, però tu le devi venire assolutamente a vedere le mie piroette, perché sennò non sai che ti perdi..."
    "Vabbè, non prometto niente, ma se ciò un po' di tempo..."
    E tu insisti: "Voi non capite un cazzo perché nelle piroette c'è l'essenza dell'universo e il mio amico qui presente è il più universale di tutti gli essenzialisti in quanto maestro delle piroette."
    Allora permetti che se io ti dico:"Vabbè, ma oltre alle piroette questo che fa?"
    "Lecca i piedi delle donne e cià la Twingo."
    Allora non posso che - delicatamente - appoggiarti una mano sul braccio e spingerti da una parte, perché con queste caratteristiche - solo di dichiarati - su questo sito siamo una mezza dozzina. E di egocentrici presuntuosi molti di più.

    Pubblicato 13 anni fa #
  17. k

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    Membro

    Eh sì, A: facce véde e poi te giudicamo. Questo è il messaggio (e la staordinaria educazione con cui sono stati finora sopportati tutti i millantamenti di Maw è dovuta solo - mi creda, A - al non voler urtare Lei).

    Pubblicato 13 anni fa #
  18. ti ho scoperto maw.
    ora so chi sei veramente.

    "Lecca i piedi delle donne e cià la Twingo."
    Allora non posso che - delicatamente - appoggiarti una mano sul braccio e spingerti da una parte, perché con queste caratteristiche - solo di dichiarati - su questo sito siamo una mezza dozzina.

    Toglietevi dalla testa quel che state pensando. Ora.

    Pubblicato 13 anni fa #
  19. rindindin

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    ahah difficile!

    Pubblicato 13 anni fa #
  20. Giusto qualche appunto A. Se maw s'è pubblicato a proprie spese il libro non c'è niente di male. Ognuno coi soldi suoi ci fa quel che vuole.

    Però, per giustificare il tuo amico, non serve che tiri fuori Montale. Ossi di Seppia, la prima raccolta, venne stampata per la prima volta da un certo Piero Gobetti. Nietzsche stampò in proprio le sue opere, così come parecchi usavano fare all'epoca. C'è Moravia, ad esempio, che stampò Gli Indifferenti con i soldi del babbo. Dice che pure Moccia s'è stampato in proprio il suo primo libro - Tre metri sopra il cielo - e poi l'ha venduto cartolibreria per cartolibreria. Quest'ultima mi sa tanto di leggenda, di strategia di marketing avveduta. Ma può pure essere vero quel che racconta lo stesso Moccia.

    Ora, però, appurato che la qualità di un libro non dipende dalle copie vendute o da chi l'ha stampato, è possibile averne una copia per giudicarlo?

    Pubblicato 13 anni fa #
  21. sensi da trento

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    Membro

    Ora, però, appurato che la qualità di un libro non dipende dalle copie vendute o da chi l'ha stampato, è possibile averne una copia per giudicarlo?

    gratis??

    così, giusto per evitare fraintendimenti.

    Pubblicato 13 anni fa #
  22. zaphod

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    Fondatore

    no,no, se vuole un giudizio deve pagare...

    Pubblicato 13 anni fa #
  23. mjolneer

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    no,no, se vuole un giudizio deve pagare...

    una tassa di freddura?

    Pubblicato 13 anni fa #
  24. maw

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  25. SCa

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    Sì, due topic sono troppi.

    ma chi è MAW, cos'è? ...

    Il personaggio Maw è forse lui?

    Pubblicato 13 anni fa #
  26. A

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    Maw, mandagli
    Orgasmo a Vù Jork,
    da p. 9 a 19

    oppure "Questo Bukowski non l'ha mai fatto"

    non poesia, qui amano più i racconti, mi pare di aver capito.

    Pubblicato 13 anni fa #
  27. SCa

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    un vero fAn di mAw.
    Speriamo bene, che già i titoli mi preoccupano. Ma gli stralci qui all'inizio erano poesia?

    Pubblicato 13 anni fa #
  28. A

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    Caro Sca,
    in realtà più che un fan sono un amico. Mi sono permesso di presentarlo qui, o meglio, di dirgli di presentarsi, perchè magari poteva mettere in circolo qualche suggestione.
    Vero è che la rissa [(non)?]* si è scatenata, ma in realtà, credo che a lui piaccia.
    E queste pose da "grande genio" se le dà per provocare. In ogni caso, se dovessi dargli un suggerimento è di scrivere anche cose più commerciali. Però magari poi lui direbbe che l'arte è arte, etc.
    Poi, che mia moglie e sensi per facebook si facciano le risatine leggendosi il libro di Maw, è un'altro paio di maniche....

    Detto questo, non interverrò più su questo argomento.
    Ho fatto anche troppo.
    tradotto in caciottariano

    ho rotto pure troppo i cojioni

    Pubblicato 13 anni fa #
  29. maw

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    Membro

    il seguente racconto l'ho scritto nel 2004:

    [B]ANALE
    di g.b.bonafede

    Una fitta caduta costante di righi di lievissima pioggia era ...squadrata, da sempre, come se fosse limitata dalle cinque pareti aeree di in cubo immaginario, spaziale, che essa stessa volumizzava colla concorrenza della sesta superficie, dura, basilare, esattamente liscia, in cui consisteva il pianeta.
    Essa non assorbiva né asciugava in qualche modo l’acqua in perenne caduta, la quale, scorrendo infatti, attraverso un sistema non troppo complicato di scoli lisci a gradoni, verso gli angoli in cui la piattaforma universale impercettibilmente s’inclinava, defluiva dunque per cadere nel vuoto nero del profondo spazio circostante.
    A scacchi bianchi e neri, la Superfice, il pianeta tabulare, pavimentava appunto l’uggia di un autunno infinito, però regolare...
    La Superfice insomma era un pianeta raso, una lavagna orizzontale, un pavimento spaziale su cui pioveva tutti i giorni dell’anno, trafficato da circa novecentomila abitanti antropomorfi: i Superficiali appunto.
    Questo è il teatro del nostro racconto, collocabile nel tempo durante la sesta primavera dell’ottava prenotte intergalassiale, e nello spazio invece, a sud ovest dell’ammasso stellare di Floreata, attorno alla stella grande Roseale, all’incirca a sei gradi nicomb neuronici dal pianeta di Lubrichia capo distretto.

    Per i Superficiali correva il 2 Novembre del 314 anno architettonico.
    Punto.
    Quando l’uomo dal lungo impermeabile grigio entrò in quello stesso soggiorno spaziato in cui credeva lo si attendesse, tenne l’accortezza di accollare il proprio caratteristico indumento, l’impermeabile grigio appunto, alla gruccia spigolosa dello scolacappotti. Lo fece senza indugiare: accostandosi immediatamente alla parete - quella sinistra rispetto all’ingresso - quella in effetti sottobordata dall’apposita grata per gli scolamenti - elementi essenziali, tutti questi, negli appartamenti borghesi della geometrica città delle piogge perenni [e da quando, cioè, per loro, da sempre].
    Nonostante rimase in un più che distinto gessato blu scuro, scurissimo, o quasi nero - stilizzato dalla sua aristocratica magrezza e flesso dai suoi eleganti gesti oblungo-angolari - l’uomo non sarebbe rimasto appellato che per quello, per essere l’uomo dal lungo impermeabile grigio.
    Poi che ebbe badato a non annacquare il soggiorno, dunque si rivolse a tutti i presenti, e da dietro uno sguardo insensibile, però lungimirante senz’altro, disse:
    <<Buonasera.>>
    A tutti e due.
    Tanti erano ancora...
    Pochi.
    L’adolescente cattiva non era cattiva, soltanto molto introversa, e se ne stava un poco depressa, variando però la lunghezza in apparenza flemmatica delle immagini di sé, seguenti il suo scrutabondo silenzio, con improvvise e violente espressioni di assurde pretese.
    Questo suo atteggiamento gli altri lo avrebbero presto contemplato: adesso ancora non la conoscevano, come nessuno appunto dei non-invitati a quella serata si era mai conosciuto con gli altri.
    Certo lei era la cattiva adolescente perché teneva quasi duecento denti nella bocca, e certuni molto aguzzi, e benché fosse in tutto il resto del suo aspetto più che abbastanza carina - ed essendo comunque tabù il concetto di “brutto” per la Superficie, in quel pianeta innaturale -: era per tanto - per tutti - cattiva...
    Poi c’era il dubbioso. Quarantenne, cubico, intellettuale.
    Il suo dubbio era - e sarebbe ancora stato per tutte le ore da venire - l’eccezionalità di un incontro troppo strano da cui era stato colto imbarazzato, proprio quella stessa sera recandosi lì - di uno sconosciuto, e di cui non parleremo -: era forse da porsi in relazione con l’occasione di quell’appuntamento già tanto misterioso? ...o no?
    Vi posso già dire che il pensiero nodale del dubbioso non verrà sciolto, mai in questo racconto - forse nemmeno in un altro.
    Certo la possibilità della coincidente straordinarietà di due avvenimenti, questa cosa lo inquietava più di tanto - e forse.
    E c’era un’altra cosa per cui sentì che avrebbe dovuto - o potuto - dubitare, però non riusciva a pensarla; e disperando che l’avrebbe pensata, continuò a dubitar quell’altro suo dubbio... Aveva a che fare con l’uomo dal lungo impermeabile grigio, però non riusciva a immaginarla - e quindi? -. Insomma, proprio per il sentimento di mancato annodamento che ho detto, e che, inconsciamente, forse attribuì ad una speciale forza distraente di quell’altro; per questo la sua voce sfiocò, quando gli rispose:
    <<Buonasera.>>
    Fu nello stesso momento ch’entrò, sorridendo rumorosamente, la vecchia. In realtà era una donna poco più che cinquantenne, e in tutto tanto seducente a dire il vero, se non per l’unica eccezione di quel suo vestito nero tutto nero invece, di pizzo, sciallato, da vedova non troppo allegra...
    Però rideva.
    E sospingendo un giovanotto che la teneva sotto braccio, susseguioso più che trascinante, e imbarazzato dal dovere di ridere ancora a una facezia che lei gli aveva proferito, poco prima del loro ingresso, e che invece non lo avrebbe affatto divertito se non appunto per la cortesia di non essere scortese - e pure per una sua congenita timidezza che gli impediva di deludere ogni altro.
    La vecchia e il timidone non salutarono nessuno, però salutarono tutti, con impacciati gesti del capo, e il giovanotto lo fece pure variando il rossore sopra le sue gote, insomma chiazzo-scolorandolo in tutte le tonalità del rosso e del bianco uniti.
    Non ebbero necessità di stendere soprabiti. Evidentemente, o l’una o l’altro, o entrambi, erano forniti di tettoia intercapedinale o tascabile - per quanto sembrò improbabile quest’ultima ipotesi se riferita al timidone, le cui scarse capacità economiche erano tradite dal suo vestimento posticciamente elegante, ché indossava una giacca e un pantalone dello stesso colore, marrone, però di tessuti differenti, scompagnabili.
    E la vecchia poi non avrebbe voluto puntualizzare - e più che per odio della soltanto possibile presunzione dei presenti, proprio per mostrare il suo sentimento di superiorità nei confronti della stessa eventuale [e quindi potremmo dire che piuttosto che un non volere fu una propria volontà dimostrativa quella che estrinsecò semichiudendo gli occhi altezzosamente, e a mezze labbra rocamente] - quando però disse:
    <<Ho conosciuto il giovanotto proprio qui... ...qui sotto, all’ingresso: è dei nostri, e devo dire che è piuttosto simpatico.>>
    La frase con cui la vecchia si presentò ebbe l’effetto di rincuorare il dubbioso, il quale scorse, nell’altero sforzo della donna, una implicita debolezza emotiva nei confronti dei presenti, per cui egli poté pareggiarsi quella che aveva invece appena dimostrata all’uomo dall’impermeabile grigio.
    Ebbe pure l’effetto di evaporare ognuna chiazza pallida dalle guance del timidone, che all’istante furono predate, interamente, dal rossore più acceso e persistente.
    Questo lo segnalò come preda congeniale all’adolescente cattiva, che si accostò al giovanotto con tre passi lunghi nei quali ben represse un infantile istinto a saltellare:
    <<Sei timido? - Chiese prima. - Sei tutto rosso.>> Poi confermò.
    Un po’ ritrosamente a dire il vero, per simulare una sorta di prudente tatto.
    Quindi lo prese per mano, a trascinarlo:
    <<Voglio farti vedere una cosa.>> Disse.
    L’uomo dall’impermeabile grigio perse così l’ultima opportuna occasione per chiedere al timidone come mai non fosse tutto bagnato. E quindi il dubbioso per segnarsi un altro punto, stavolta a vantaggio proprio di quello, per la gretta curiosità economica che avrebbe altrimenti dimostrata - ma che poi però si sarebbe rimutato in un ennesimo svantaggio per il nostro riflessivo, e per il noioso dubbio che si sarebbe certamente riposto circa quanto non fosse assai inopportuno starsi ancora e sempre a relazionare la propria volontà competitiva, e tanto cavillosamente, con le minime presumenti significazioni dei gesti degli altri.
    In definitiva sarebbe stato proprio uno svantaggio quel dubbio, proprio perché retorico quesito, cioè risposto certamente da un rimorso doloroso.
    <<Beve qualcosa?>>
    Chiese l’uomo dall’impermeabile grigio, alla vecchia.
    <<Quello che beve lei. Grazie.>> Rispose quella, sorpresa.
    <<Ho visto che nel mobile bar c’è uno scotch a mio parere eccezionalmente buono: erano anni che non ne maneggiavo una bottiglia...>> Così propose lui, soprattutto per far mostra della propria esperienza.
    <<Vada per lo scotch...>> Fece la vecchia.
    <<?>>
    <<Con ghiaccio, grazie.>>
    <<E lei?>> Sempre l’uomo dall’impermeabile grigio, adesso rivolto al dubbioso.
    <<Io senza ...s-senza ghiaccio, grazie.>> Rispose un po’ impacciato, infastidito dalla spocchiosità del rivale - ché certo, egli amava il tale scotch più di quello, si confermò...
    La Romboidale intanto, alta dietro la vetrata dell’attico elegante, era nebulosata da un’iridescenza arancio-smeraldata che mosse magneticamente le nostalgie dei tre, per un istante, di modo che si raggrumassero a dado nei cuori di ognuno.
    L’ottocentoventiquattresimo piano del palazzo in cui non erano stati invitati, sbucava di circa un centinaio di metri sulla tettoia superficiale del cubo implume - così era definito il solido ipotetico, volumizzato dalla pioggia originaria, cioè non pianta sulla Superficie da nessuna nube.
    Forse invidiosi, i sottostanti sostenevano una leggenda, che la vista non filtrata dalla pioggia, la vista della costellazione più vicina, la Romboidale appunto: sostenevano più o meno seriamente, a seconda della loro cultura o comunque della tenacia della loro superstizione, che essa necessariamente causasse depressione, nel più fortunato dei casi, o addirittura pazzia - quando fosse quotidiana, regolare.
    Questo mito, alle menti popolari dei più satirici fra i sottomessi, spiegava l’arbitrarietà delle gestioni politiche della Superficie, dal momento che tutti i governanti abitavano dal settecentesimo piano in su...
    <<L’orizzonte da qui è uno spettacolo.>> Notò l’uomo dall’impermeabile grigio.
    <<Sì. ...però cambiamo discorso.>> Decise la vecchia.
    <<Metto della musica.>> Promise il dubbioso.
    E cliccando sul modulatore generale espanse una selezione di valzer viennesi.
    <<P-può ve-versarmi dello scotch, si-signore?>> Chiese il timidone, ritrascinato per mano nel soggiorno dall’adolescente cattiva.
    <<Dello scotch...? ...tu?!>> Rise quella.
    <<Mi piace lo scotch.>> Arrossì il giovanotto.
    <<Certo.>> Disse l’uomo.
    Quindi gliene porse un mezzo bicchiere on the rocks, senza però informarsi per il merito delle sue preferenze.
    Per fortuna che il timidone l’avrebbe voluto così.
    <<Qua-quanti ne mancano ancora?>> Chiese, disgustando il primo sorso, evidentemente riferendosi ai restanti non-invitati.
    <<Due.>> Rispose senza quasi che quello finisse, il dubbioso, un po’ nervosamente.
    <<Spero che ci sia un’altra donna...>> Quasi rise la vecchia, per un’allusione che propriamente intese solo lei, ma che tutti ebbero l’impressione di capire.
    O forse perché lo speravano tutti.
    L’adolescente cattiva non si offese.
    Ed entrò - nel modo più consono a quello che sarebbe stata, nascosta dietro il giro degli spicchi di un ombrello in simil velluto, impermeabile, e amaranto - la bella!
    [La bellezza c’è sempre già, anche se, chi voglia ammirarla, spesso abbisogni dell’illusione di svelarla in qualche modo...]
    E così fu, quando quella richiuse l’ombrello, e per mostrare il volto, a tutti. Ed era tanto perfetto che punse un istante come il senso morale di ognuno, e come se sfacciatamente lei tenesse nudo il basso ventre, piuttosto che il sopra del collo.
    Il suo occhio era la rettangolare culla trasparente, di una pupilla nocciola, tanto chiara, issima per la sua liquidità inapparente, che parve la solidificazione di un’idea di moto, lo slancio di un pensiero mortificato da un’estasi creativa.
    Il caschetto della sua capigliatura, sopra l’altezza della nuca, era di lisci capelli di un pallidissimo biondo luminoso, pudìco, da cui si srotolavano un numero di lunghe treccine di angoletti, come lacrime di gioia.
    Tanto era delicato il suo trucco, che non si riusciva a percepirlo: però le labbra no, erano tinte infatti di un lucido porpora che le incarnava come se fossero rimorse da un desiderio inaudito, e certo ignoto per l’anima cosciente di lei, espressa invece in pudicizia dall’esilità del suo nasino un po’ all’in su, dalla soltanto percepibile piramidalità delle sue gote, sporgenti appunto un quanto, e quindi da uno spruzzo cordiale di lentiggini minime, quasi evanescenti, che pareva non dovessero resistere all’esistenza - e sparire, da un minuto a un altro.
    Magra, però più alta della pur imponente vecchia, portava sul petto un seno madornale, come uno scatolo di doni per chiunque fosse riuscito a commuoverla un poco. Missione che pareva di gran facilità, a mirare la neve della pelle delicata, indifesa sulle sue mani e sul suo collo soavi. Assolutamente ardua invece a perdersi nell’atavica malinconia sviluppata come per cinta difensiva - come se fosse uno scudo laser semiquadrangolàto - e dentro la quale prontamente sembrava capsulizzarsi, la pulzella, ogni volta che il suo sguardo sintetizzasse un accordo col suo sorriso di fiocco. Quest’ultimo miracolo poi, giungeva puntualmente sempre, e con un tremendo istante di ritardo sì - lo stesso quanto di tempo esatto del resto, che lo gonfiava di fascinazione l’impenetrabile segreto incarnato dal suo corpo di pasta divina, bello!
    Il dubbioso, tosto pregò il Grande Nucleo dei Sargassi Stellari affinché quella donna fosse muta, ché non dovesse riconoscere mai la femminina umanità di quel divino apparente...
    Invece lei parlò, e come tutti avevano e avrebbero detto, quella notte, una banalità, disse:
    <<Ciao... - E guardandosi gocciare la pioggia sulle sue scarpine di confetto. - Che noia ’sta pioggia! Qualcuno di voi ha sentito il notiziario delle previsioni meteorologiche...?>>
    Era la battuta per eccellenza, la più abusata dalle parti della Superficie.
    Per fortuna dopo rise.
    Quindi un attimo sbuffò.
    <<Sembra proprio stanca. - Si affrettò l’uomo dall’impermeabile grigio. - Credo che abbia bisogno di uno scotch: è ottimo, e...>>
    <<No, sto bene. - Lo interruppe la bella. - Però lo scotch lo gradisco, grazie.>>
    <<Con ghiaccio?>> Chiese l’uomo dall’impermeabile grigio, col chiaro intento di indovinare. E la bella, per cui sembrò indifferente, volle affatto deluderlo:
    <<Con ghiaccio.>> Rispose un po’ vagamente.
    La vecchia intanto mise il braccio sotto il braccio del dubbioso, volto al pannello vetrale, e lo fece come a distinguere loro due, interessanti che non avrebbero dovuto sentirsi da meno, da quegli altri due indaffarati attorno al mobile bar, invece belli:
    <<Le piace?>> Gli chiese.
    <<Chi?>> Fece lui, di rimando, e un poco intontito.
    <<Lei lì... - Gettando il mento la indicò. - La bella.>>
    <<È decisamente bella, appunto. Però mi perdoni se sarò un poco sfacciato: io preferisco lei.>> Rispose l’interlocutore, mostrando una sorta di sobria consapevolezza.
    Quest’ultima sua affermazione infatti, era di quelle dettate al dubbioso, proprio dal suo naturale decisionismo - atteggiamento nel quale il suo spirito si risolveva spesso, essendo costretto a vincere, con determinazione appunto, uno stato di incertezza pressoché permanente.
    Ma forse la preferiva veramente la vecchia, la quale volle schermirsi:
    <<Lei è troppo gentile.>> Fece.
    Lui, allora, penso bene di dovere confidarsi:
    <<Non posso certo ancora sostenere che la ragazza è un’oca, però...>>
    <<La battuta sul tempo...!>> La donna lo anticipò.
    <<Terribile.>> Disse il dubbioso, odiandosi adesso invece, per aver fomentato quella prematura intesa colla vecchia...
    Che infatti rise, tanto, che lui dovette disgustarsi quel riso un po’ sforzato, al punto che se la pensò nuda, a quattro zampe - e non fu un pensiero cattivo, ancorquando prematuro, e basta.
    Intanto l’uomo dall’impermeabile grigio e la bella, comodi sul divano, parlottavano piuttosto inefficacemente:
    <<...vengo dalla provincia>> La bella.
    <<?>>
    <<Non si faccia ingannare dal mio aspetto, come dire... alla moda.>> Fringuettò dunque, sorridendo al palese stupore di lui.
    <<Certo dev’essere duro per lei tanto giovane e bella, e curiosa immagino: dev’essere difficile starsene così lontano dal centro, dalla vita!>> L’uomo fece finta di riaversi da un sincero sbalordimento.
    <<È un sacrificio che ho scelto di fare: e poi non sono troppo curiosa.>> Notò veramente.
    <<?>> Stavolta l’ammiccamento dell’uomo dall’impermeabile grigio fu un po’ troppo mimato.
    Nelle prime parole della bella infatti, passò un tremito di mal disposizione:
    <<Comunque mia mamma ha soltanto me. - Si stizzì. Ma non durò molto; ella infatti si fece presto di nuovo vezzosa, nonostante il doloroso argomento. - Non è malata, però certo è anziana, e...>>
    <<Ne sarà felice il suo ragazzo...>> L’uomo la interruppe, rincuorato dai cuoricini sulla bocca di lei, dagli svagamenti del suo sguardo, e infine dal tono canoro della sua esile vocina.
    Il suo intento, chiaramente, era quello di sondare la libertà della giovane stupenda.
    <<Non ce l’ho il boyfriend.>> Rispose lei, un po’ troppo sbrigativa.
    <<Mi permetta di dirle che questa cosa ha dell’incredibile!>> Niente da fare, lo stupore, sul viso dell’uomo dall’impermeabile grigio, scolpiva qualcosa di clownesco.
    <<È un complimento?>> Chiese quella, che sul serio non lo aveva ben capito, o che forse era insospettita dall’arte dell’uomo pressante.
    <<Certo.>> Rispose lui, abbastanza interdetto.
    Del resto, la stessa comodità in cui l’uomo piuttosto non-stava adagiato, era appunto finta. Percettibilmente sfalsata dall’urgenza di assottigliare la distanza spirituale tra lui e la bella, la quale invece non si lasciava coinvolgere dalla sua lusingante vicinanza.
    Tutto questo per la notazione, comunque non ansiosa, del dubbioso, il quale si ridestò nel dubbio per cui forse la preferisse veramente, la vecchia, che egli adesso non-volle-mettere alla prova, e stimolandola proprio a seguirlo per l’argomento che in precedenza la stessa aveva tostamente rifiutato:
    <<L’orizzonte è particolarmente suggestivo questa notte, non trova?>>
    La vecchia disse soltanto che si portava a versarsi qualcosa da bere, e forse anche alludendo al fatto che l’uomo dall’impermeabile grigio fosse troppo altrimenti impegnato, per farlo lui.
    Insomma non gli chiese di seguirlo, e nemmeno se gradisse un altro drink.
    L’adolescente cattiva intanto, inginocchiata fra le sue gambe, leggeva le mani al timidone seduto: e sia la destra che la sinistra, sosteneva, gli promettevano il futuro più prospero e bello e fortunato e gratificante, però, mentre sulla destra era scritto che avrebbe avuto una moglie, sulla sinistra invece che avrebbe avuto un grande amore sì, però che non si sarebbe mai sposato con quella donna della vita sua - in ogni caso avrebbe avuto molti figli.
    <<Forse amerò tanto una donna, e poi ne sposerò un’altra...>> Molto a suo agio, divertito sostenne il timidone.
    <<Forse...>> Fece quella.
    Quando entrò il buffo, l’uomo dall’impermeabile grigio e il dubbioso si fissavano negli occhi, però vedendosi affatto, entrambi pensierosi com’erano. Mentre la vecchia e la bella dietro il bar ridacchiavano: certo, la giovane, era imbrillita non poco dal secondo scotch scolato, ché non c’era abituata... mentre l’altra sogghignava senz’altro civettuola - ché proprio temeva improbabile l’ipotesi di sedurre l’uomo dall’impermeabile grigio, il quale avrebbe di molto gradito invece dentro il suo letto quella notte, dovunque fosse stata costretta ...a-non-dormire, sperava.
    L’adolescente cattiva comunque corse verso il nuovo arrivato, con tale incauta ed imprevista velocità lo fece, che tutti gli altri si stupirono, o si spaventarono addirittura - come la bella, ad esempio, che addirittura singhiozzò il suo ultimo sorso di scotch della serata.
    <<Devi farmi ballare! devi farmi ballare!>>. Urlava l’adolescente.
    E prese le mani bagnate del sopraggiunto - tutto infradicito - il quale si restava fermo però, e vieppiù irrigidendosi nel proposito di non essere violento con l’adolescente. Lei intanto, sul posto, per degli istanti che durarono assai, ballò una sorta di valzer, come cioè si potrebbe ballarlo in coppia con una statua di cera.
    Quindi volteggiò dietro le spalle dell’uomo, e sempre danzando - stavolta come in coppia ad un invisibile fantasma - si girò i lati del soggiorno, prima di lasciarlo un’altra volta.
    <<Ma lei è tutto bagnato!>> Esclamò a quel punto l’uomo dall’impermeabile grigio.
    <<In effetti...>>
    <<Scusi - s’intromise sarcastico il dubbioso - credo che il signore volesse offrirle uno scotch...! ...sa: è veramente molto buono!>>
    E la bella rise un attimo al suo indirizzo, in effetti per cogliere la sua sottile allusione al cliché del casanova lo fece, e tanto prontamente però, che il dubbioso ne fu gratificato a un punto tale, da sentirsi poi in dover di dubitare invece, che quella ridesse proprio per lo stesso motivo che lui si era immaginato.
    Ad ogni modo egli conobbe istanti di reale ottimismo.
    Questa volta l’uomo dall’impermeabile grigio poté sentir saziata la propria curiosità: e il buffo era tutto bagnato perché la sua tettoia tascabile, recentemente acquistata - e a ben caro prezzo! - si era inceppata irrimediabilmente per quella sera. Glielo raccontò saggiando il suo scotch ed ammettendone con un ammiccamento l’eccezionale bontà: e no che non gli era capitato d’incontrare un solo venditore ambulante di cappucci laser, di intercapedinali usa e getta, o un maledetto petulante venditore di ombrelli, nemmeno uno che fosse uno - contrariamente a quanto solitamente fosse noioso di aspettarsi per tutte le vie della Superficie altrimenti...
    Il dubbioso avrebbe scommesso veramente una cifra sul fatto che a quel punto dalla bocca del nuovo arrivato sarebbe venuta fuori l’altra solita battuta dei Superficiali, quella per cui si malediceva Gordon...
    Timoty Gordon era infatti l’architetto che aveva progettato la quasi totalità dei palazzi del centro della Superficie, nonché prestabilito, per un piano regolatore molto puntuale, le regole assai precise cui ogni progettazione futura avrebbe dovuto coattamente attenersi. La più nota delle quali era appunto la tale per cui lo si malediceva spesso, nonché bonariamente: quella che ordinava l’assenza di balconi o pensiline di ogni genere da tutti gli edifici della Superficie - nonché l’uso di materiali granulosi, zigrinati, o in qualche misura ruvidi, per i rivestimenti degli stessi -, di modo che fosse la liscezza il primo essenziale motivo estetico della città.
    Il buffo invece non maledisse Gordon, bensì:
    <<...la pioggia. Ah... maledetta!>>
    Ed era assai contrariato, sul serio, e parve a tutti accigliato, irrimediabilmente.
    Nessuno avrebbe potuto indovinare il reale motivo del suo malumore...
    Infatti era accaduto che, venendo a piedi, lì, al non-appuntamento, e per togliersi, quantomeno a tratti, dalla battenza della pioggia - per uno stupido atavico istinto umanoide [dal momento che la pioggia non avrebbe smesso né avrebbe diminuito di intensità, durante tutto il restante inevitabile tragitto] -: per ripararsi si era spesso soffermato sotto le tettoie dei chioschi laminati, gli esercizi commerciali di ogni genere, nonché motorizzati ambulanti, i quali, al centro delle principali vie della Superficie, vendevano di ogni cosa di più...
    Di protezioni antipluvie comunque quella sera pareva che non ci fosse di bisogno...!
    E dopo aver inalato essenze balsamizzate e bevuto caffè verdi - marijuanici - e dopo aver acquistato una cartolina in bianco e nero dell’Estremo Angolo Sud-est e una vecchia musica degli Space Truckin, di quando ancora per supporto si usavano i compact disk... Insomma: dopo che aveva speso tanto che avrebbe già quasi potuto affittarsi un taxi, per evitarsi già tutta quella “maledetta” pioggia... insomma si fece un conto mentale: e gli mancava di spendere tre dollari per coprire all’incirca la cifra che ci sarebbe voluta per pagarsi un passaggio motorizzato dal punto in cui si era inceppata la sua tettoia tascabile fino all’indirizzo del non-appuntamento.
    E gli lampeggiò sotto agli occhi proprio quella stessa cifra - e proprio nel medesimo istante che ebbe ultimato il calcolo suddetto -: tanto infatti gli sarebbe costato sapere, da un’astrologa donna lì, appostata nel suo chiosco, quale fosse la sua Bestia Cosmica!
    E purtroppo dovette pur farsi la fila, ed assistere per tanto alle soddisfazioni palesi di tutti quelli cui il responso l’inorgoglì in qualche modo, o divertendoli li entusiasmò, o che invece li aveva destati per curiosità...
    Una donna si sciolse in un lungo abbraccio appassionato al suo ragazzo, quando risultò che il suo animale intrinseco, trasceso dalle scrutabili costellazioni più alte, era l’aquila reale, e quindi spostò di lato il suo naso ricurvo per rapinare orgogliosa un’eccitazione al suo più giovane amante, per mezzo di un bacio rapace.
    Un bimbo saltellò per la gioia poi, e quasi fuori dalla pelle: il suo animale guida era il leone!
    Una donna invece rise per riconoscersi decisamente, quando l’astrologa le disse che era un gatto persiano il suo spirito di guida zoomorfa astrale, e del marito invece una rana...
    <<Bell’ascendente, complimenti... - Osservò l’indovina. - La rana è universale, si sta sia nell’acqua che sopra la terra; inoltre balza per aria a convenienza, e in più sa predare da ferma, con il minimo sforzo della lingua.>>
    I due poterono riprendere la via, e più contenti di prima; sotto un’invidiabile leggerissimo scudo-evaporatore. Era di quelli a raggi invisibili, che lui espulse dallo zaino - in più era del tipo intelligente, cioè a protezione semovente, e doppio [baggianamente a forma di cuore, però decisamente a prova di goccia.]
    Comunque...
    Una ragazza smorfiosetta venne fuori coccinella: e le sue due accompagnatrici applaudirono forte quella conferma della sua delicata bellezza - quella sera avrebbe potuto ben sperare per le sorti del suo amore temuto mal riposto...! -. Una delle amiche del resto, quella che le aveva condotte lì dalla zoo-astrologa, si era già riconosciuta chioccia - oh, quanto aveva sempre sognato tanti bimbi! -, e l’ultima poi, che si scoprì gazzella: neanche a dirlo: scattosa, elegante, magra, ne aveva già fuggiti tanti di amori famelici e dannanti: fu soddisfatta come ogni altra dal proprio responso.
    E fu quasi il momento del buffo, cioè quello del ragazzo che lo stava precedendo: che addirittura scattò in alto il proprio pugno, e in segno di successo, quando seppe di essere un toro.
    E in fine gli toccò...
    Certo avrebbe già voluto andarsene, e non per la vergogna che avrebbe provato per gli occhi dei seguenti, qualora il suo animale fosse stato il più meschino, no... Soltanto non reputava giusto offrire il destro a quella sconosciuta affinché fiaccasse il suo già infragilito umore - e poi per una sentenza che non poteva non essere arbitraria...
    Sì, dunque s’incoraggiò, appunto “arbitraria sarà”, si disse: “non c’è motivo comunque di temere: non è che un gioco, nient’altro che uno scherzo...”.
    E poi ogni animale c’ha la sua furbizia, la sua forza, la sua arma segreta, il suo mistero, la sua novità... - si convinse.
    Ripensò quindi a quell’uomo tanto contento di essere una rana...
    Ah, quanto gli sarebbe piaciuto di venire fuori squalo!
    E mise il palmo sullo schermo costellare a forma di trapezio, e poi rispose il suo colore prediletto, e quale fosse il cibo che più di tutti preferisse... Come ogni altro fece i due-tre passi avanti e in dietro, e si guardò dentro lo specchio posto sotto la tettoia, alzando il naso verso l’alto.
    Come tutti avevano fatto.
    Dunque fu il momento: e su tutti gli schermi che c’erano, dentro, alle spalle della donna, e fuori sulla via, e pure sopra il foglietto che la sfera costellare gli sputò da un’apposita fessura, da per tutto era scritto:
    SQUALO
    ELEFANTE
    Fosse saltato fuori topo, ragno, scoiattolo o libellula, allora non ci sarebbe rimasto tanto male: tutte quelle bestie possedevano una loro specifica virtù, e poi si sarebbe sempre potuto appellare al principio dell’arbitrarietà di quel gioco irrazionale, lo stesso che aveva già reputato. Principio al quale in un istante discredette invece, tanto fortemente quando vide di essere uno squalo proprio come avrebbe tanto voluto, per poi dunque restarci ancora più di cacca quando dovette a quel punto accettarsi di essere sì un grosso affusolato solitario fenditore dei mari, ma soltanto per scena, ché non avrebbe mai fatto paura a nessuno quell’insignificante aspetto di crudele che teneva: era uno squalo infatti, però un elefante tra quelli cinici bastardi veramente... Insomma lui era un non-cacciatore: si nutriva di plancton, di meduse, di piccoli crostacei. Aveva dei denti minuscoli, e no: nessuno lo poteva temere per quanto fosse indifferente e disumano il suo occhio nero impenetrabile, e per quanto fossero coriacea la sua pelle scura e acuminate le sue pinne, e tremendo il suo muso cattivo: era tutta un’apparenza! Nessuno lo temeva: lui era uno squalo che si saziava respirando microbi marini, e poi se ne andava in letargo...
    <<Che c’hai? ...a che pensi?>> Gli rise la bella, sul suo attonito muso.
    <<Niente di speciale. Penso che ho fame.>>
    E invece pensava come lei fosse senza meno una farfalla, o un uccello dal bel canto, o una lince sinuosa, o un cigno, o una triglia iridescente: insomma: che una bella come lei non si sarebbe mai accoppiata con uno stupido elefante di uno squalo, che mangia e che dorme...
    Questo pensava.

    Però aveva fame sul serio: lo aveva scoperto per non dover dire quello che pensava; tuttavia era proprio così.
    Ed entrarono i salati: tartine, mignon, crostini, fritti piramidini di riso, o ripieni, spalmati carré, e i tipici boccioli - gratinati di patate a forma di giovane rosa, fumanti e molto pepati.
    Li aveva portati l’uomo dall’impermeabile grigio, su due vassoi lunghi esagonali, d’argento, uno alla volta, e bisogna dirlo: era comunque lui il più gioviale, sinceramente.
    Dietro un sorriso adagiante, e naturale, squadrò i gesti di premura con cui stese i due grossi piatti di metallo sul ripiano centrale, già guarnito di tutto punto, da brocche d’acqua e d’aranciata, e da bicchieri di diunoji - la speciale plastica che si smaterializza ad una temperatura superiore ai quarantacinque gradi: grande invenzione questa, per cui si evitavano enormi masse di immondizie sulla Superfice, dove bastava ficcare in appositi forni i quintali dei materiali suppellettili per volatilizzarli letteralmente. [E secondo una incerta teoria, del resto priva di fondamento scientifico, era quella l’origine della pioggia originaria, quella combustione, dicevano gli stessi sostenenti, impossibilmente dissolvente appunto... Comunque.]
    L’uomo dall’impermeabile grigio a quel punto prese il bocciolo più invitante - con accortezza tra i polpastrelli superiori delle prime tre dita della mano destra - da sotto per non poggiarli che sul cartaceo rivestimento inferiore, e l’offrì alla bella che ne fu gratificata, che dovette scottarsi però per assaggiarlo, e prima di apprezzarlo seriamente:
    <<Molto buono.>> Disse infine, in un gustante puntellarsi sulle sue gote, di due fossette deliziose. E in qualche modo tradendo il suo ingenuo provincialismo, almeno a parer della vecchia, la quale:
    <<Si fanno mangiare.>> Disse, un tanto disgustando, però per finta.
    Ed ebbe inizio, così, lo squittente concerto dei palati acquolinanti...
    Alla fine i più ingordi sarebbero stati il dubbioso e il buffo. La più schiva l’adolescente cattiva. I mediamente saggiatori gli altri quattro: in particolare, meno usignola di quanto il dubbioso non avrebbe detto, la bella, che mangiò quasi tutti i boccioli - però quasi soltanto quelli.
    E quando che fu finita la primordiale gimcana tra l’essere e il nulla - quella che il pasto impone agli spiriti, immergendoli nel digestivo officio mortificale, orgasmico, disidentificante, da cui gli spiriti riaffiorino, e solo per mezzo degli elementari giudizi di gusto, come per respirare da una soffocante rigaudente profondità - ognuno aveva già dimenticato il pensiero di quel suo primo morso animale, refrattario.
    E la bella, che aveva morso per prima, dovette lottare tutto il pasto con una nostalgia culturale. Un sentimento in realtà più che un proprio pensiero... E fissandosi il pizzetto del buffo che l’attraeva molto, non-si-giurava che fosse prematuro inclinarsi sentimentalmente verso lui - proprio non le riusciva no: di accettarlo: quel suo ricordo dei primi baci adolescenti, e di quel ragazzo con cui mirava l’Oltre Bordo, l’infinito stellato di là, di là dal lato breve dell’Est, ai margini del quale ancora viveva. Ed era appunto il ricordo di non capire perché, per quale motivo fosse necessario, alla sua età, dovere dispregiarsi la provincia, e obbligatorio quasi, sognarsi invece il centro... Del resto lei stessa era unisona con questo imposto sentimento, e non sapeva capire da chi, da cosa, o appunto: perché...? E per questo lo aveva amato quel giovane, periferico quanto lei, e per questo lo aveva rifiutato: aveva voluto e aveva dovuto; e aveva fatto bene! Però...
    Perché?
    No: non avrebbe passato il suo tempo lì, a baciarsi alla Ringhiera!
    Ecco perché!
    Certo, l’eccitazione del suo uomo cittadino, quello che avrebbe dovuto conquistarsi per agevolmente emigrare dal Bordo in cui aveva vissuto da sempre, nemmeno avrebbe dovuto essere tanto mentale e cosciente: no: l’uomo che l’avrebbe strapresa si sarebbe eccitato di un’eccitazione impensata, travolta, quasi non-voluta - come lei aveva percepito fosse per sempre quella del suo primo baciante fidanzato...
    Ecco: la possibilità di quel genere di eccitazione, diciamo ingenua, la bella se la stava intuendo sul volto del buffo dal buffo pizzetto - giammai su quello ben rasato alla colonia, dell’uomo dall’impermeabile grigio.
    Insomma, tutte queste cose la bella non-si-disse trangugiando i pepati boccioli, ma gliele saporì di tristezza una fuga d’immagini solo apparentemente casuali, che però necessitarono in fine la voce di un diretto quesito di cui lei stessa si stupì, per la curiosa schiettezza:
    <<Vive in città?>> Così aveva chiesto al buffo, e spepandosi la bocca in un sorso di aranciata.
    <<Sì, al centro.>> Rispose quello deglutendo sorpreso.
    E avrebbe voluto aggiungere “da tre generazioni, al seicentotrentaduesimo piano”: ché era affatto poco!
    E dunque si rammaricò un tanto per l’incolta occasione, ma se non altro, gratificato dall’interesse della bella, poté tergiversare la direzione dei suoi pensieri torvi - dei suoi primi, molto voraci, morsi...
    Che stava pensando che mai in nessuna canzone, mai aveva potuto riconoscerci un suo passato amore: né in quelle più realistiche e nemmeno nelle più sentimentali. Né in quelle cordiali, e nelle drammatiche nemmeno. Aveva certo avuto delle donne, ma con nessuna aveva tracciato il solco di una storia tale...
    E stava proprio disperandosi che ciò accadesse mai, e proprio gustandosi, nel riso dei piramidini fritti, quel punto di vuoto buio nelle deliziose fossette triangolari sulle gote della bella, quando:
    <<Vive in città, dunque...>> S’interessò la vecchia.
    <<Proprio così.>> Rispose il buffo, celermente, deluso che non fosse stata la bella a ritornar sull’argomento.
    <<Lei allora dovrebbe capirmi quando dico che sono troppo speziati questi salati, non trova?>> Disse...
    Sempre la vecchia.
    Che si era ripensata tutto il tempo un confronto tra la frugalità comunque di quel lesinare e il fasto dei suoi ricevimenti di quand’era veramente del mondo, donna sposata e amante, e cantante di quasi - o di appena - successo.
    Ma a questo non avrebbe accennato mai: nessuno di quei poveracci avrebbe potuto capirlo!
    E questo orgoglio aveva morso nel suo primo morso, lei, quando veramente si era disgustata la sobrietà di quel cibo comune: no che non sarebbe diventata una vecchia blaterona, tutta irretita da un farfugliare memoriali fasti, soltanto comici per chi non li avrebbe potuti intuire, o peggio per la commiserazione di chi invece li avesse capiti, e bene.
    <<Ma lei non sa ancora cos’è il dessert...!>> La riprese invece l’uomo dall’impermeabile grigio. Comunque in quel modo condividendone l’appunto, però, nello stesso tempo, palesando il divieto di affermare che la sobrietà di quel buffet fosse voluta piuttosto che necessaria.
    <<C’è il profiterole!>> Lo precedette, gioiosa, l’adolescente cattiva.
    <<Sì - confermò quello - non ne ho mai visto uno tanto grande.>> Osservò per finire.
    <<...pesa almeno dieci chili.>> Postillò invece l’adolescente cattiva.
    <<C-c’è pure lo cha-champagne...>> Volle aggiungere inoltre, non certo inopportunamente, il timidone.
    La vecchia dovette arcuare le sopracciglia - era stata punta senza dubbio.
    Infatti quella sobrietà poteva essere un segno di classe piuttosto, e forse per quello i salati erano speziati tanto, per ben costituire il piatto forte unico, prima del grande finale.
    Certo non ci stette a pensarci più di tanto...
    Del resto aveva appena morso, nei morsi dell’uomo dall’impermeabile grigio, le ipotesi erotiche di quello, che volle intuire immaginanti lei, in femmina persona.
    E non aveva sbagliato del tutto: l’uomo dall’impermeabile grigio infatti aveva continuato a masticare svolgendo il proprio essere nella più regolarmente esatta alternanza di vita e di morte, di presa e di abbandono, di digestione e ...calcolo. E attraversando i passi del suo animo riassaporante, si era prima deciso a reputare inopportuna l’insistenza corteggiante nei confronti della bella; poiché, avendone sondato la corrispondenza sentimentale, dovette crederla arduamente conquistabile, se non a scapito di un dispendio di energia psichica eccessivo - il quale, economicamente, egli non avrebbe potuto dissipare -. Quindi si era - alternamente - inventariato le immaginazioni delle possibili mosse con cui avrebbe potuto abbordare la condiscendenza della vecchia invece, e per le relative plausibili reazioni della stessa...
    Ecco dunque che il pungerla, come egli aveva fatto, per il merito del di lei pur combattuto sentimento di superiorità commensale, era stata una deliberata utile risoluzione. Tramite questa, l’uomo, si garantiva, se non uno scacco definitivo, certo il lancio di un attacco decisivo. Avrebbe dato infatti, proprio alla vecchia - e ovviamente al momento più opportuno -, il modo per sciorinargli la nostalgia del fastoso passato di cui lei, era evidente, si inorgogliva; però soltanto allora, egli, avrebbe infine appreso, con commossa ammirazione, lo sfogo memoriale, appunto trasognato, della vecchia: quando il proprio ossequio palese insomma, sarebbe stato ben più capace di carpirla, la decisione di quella - e quindi il suo eventuale abbandono -. Soltanto dopo, dunque, previa, in effetti, quella sua stessa propedeutica iniziale durezza.
    Comunque medi, distribuiti, risolutivi: tali erano stati i morsi dell’uomo dall’impermeabile grigio.
    Al contrario l’adolescente cattiva, per volgere ogni capacità del suo spirito verso un minuzioso compito di analisi del cibo, aveva morso quasi mai. Le sue tartine furono sezionate, esplorate, scomposte dalle sue mani, in elementi il più possibili primi, di modo che fosse per lei agibile una metodica decisione su ciò che quindi avrebbe ingerito, e su quanto invece avrebbe suddiviso in mucchietti di scarto dello stesso elemento.
    Soprattutto questa sorte toccò ad ogni particella visibilmente - solidamente - vegetale.
    La digestione dell’adolescente risultò assai poco distraente per lo spirito.
    Del resto fu un momento ottimo, quel pasto per lei: un gioco. Intanto per la suddetta scomposizione da giovane chimico che la divertì; ma soprattutto per quel tanto di affermazione della propria personalità, agli occhi degli altri, implicata dalla sua irriverentemente libera, e decisa, conduzione del suo stesso modo di cibarsi.
    Quindi anche perché si divertì, e non poco, ad imboccare il timidone, per cui il pasto fu inizialmente una lotta con la volontà di abbandonarsi pubblicamente al puro regresso all’infanzia cui appunto lo sollecitavano quelle premure della ragazzina, ed alle quali in fine volle abbandonarsi - e per il mezzo di risate smorzategli in gola da ogni imboccatura, e di cui il rossore delle guance stavolta non riuscì che a tradire il divertimento puerile soltanto.
    Comunque, quello che più di ogni altro si godette il pasto suo, fu certo il dubbioso altrimenti, che non dubitò la religiosità dissacrante del suo voluttuoso palato, ogni qualvolta che poi ne riuscì, in spirito invece, per dimostrarsi l’assurdità di tutto quel tempo, la stupidità di tutti i commensali, la banalità di ogni gesto e di ogni loro possibile pensiero.
    Magari fossero stati in un racconto previdente, in un giallo in cui non si stesse che attendendo un omicidio, un morto, e un movente per chi, più scaltro ancora del pur cauto assassino, potesse condursi a smascherarlo!
    Magari fossero stati, e tutti, inconsapevolmente legati da un decifrabile destino: tutti eredi lì, e per imprevedibilmente ereditare da un loro ignoto parente. Oppure tutti lì perché depositari di un segreto, o di una inaudita corresponsione da verificarsi, e che avrebbe presto deciso guerre, o paci, odi e amori, patti, o tradimenti...
    Invece no: erano soltanto i non-invitati a un tempo temporale. E i loro spazi non avrebbero mai comunicato mai. E nessuno in fondo sarebbe stato per lì e per ora, assieme con tutti quegli altri.
    O forse no...
    Pur di questo in fondo dubitava.
    Forse sarebbe morto qualcuno, e forse lo avrebbe ucciso proprio lui.
    Forse sarebbe uscito ricco da quell’appartamento all’ottocentoventiquattresimo piano. Oppure accoppiato, e bocca nella bocca - e mano nella mano - con quella bella bella lì...
    Forse.
    Forse.
    Sempre e soltanto.
    Dubitando.
    Dubitava che potessero avere un senso le previsioni umanistiche possibili: a limite potevano profondere il conforto che intreccia ogni trama tramata dal concetto.
    Quello per cui si sarebbe riuscito a godere pure il tragico se si fosse in ogni caso voluto credere di averci capito qualche cosa...!
    No: di un pensiero egli non riusciva a dubitare: quello per cui fosse sempre preferibile il disumano, l’impoetico, al tragico.
    Al costo di non essere niente di buono...
    Miracolo certo, questa sua certezza - prima che la sua tale esclamazione rifungesse da implicito dubbio! -; miracolo comunque della cioccolata e della panna deliziose, fuse nella crema abbondante che guarniva i cubici bignè della dolcissima montagna pasticcera - e meraviglia, soprattutto, del frizzante champagne!
    <<Prosit...>> Alzò la coppa in aria.
    <<Prosit...>> Risposero tutti i presenti.
    Quando l’urlo squarciò le distrazioni di tutti, e sospese i loro banali discorsi.
    [Il dubbioso comunque non credette nemmeno per un istante che fossero dentro un racconto col morto, e che quell’urlo fosse causato da una mano omicida o dalla scoperta di un corpo senza vita.]
    L’aveva scagliato, come un tizzone ardente da dita ustionate, l’adolescente cattiva dal petto, ed era stato tanto ed immediatamente respinto da una meraviglia terrorizzata, che esso urlo riuscì a passare la barriera attutente della dentatura asimmetrica e folta della ragazza, conservando però intatta l’acuta cristallina nettezza originaria.
    I cinque nel salone torsero i colli verso le spalle dell’adolescente cattiva che, mai smettendo di fissarsi qualcosa, guadagnava il salone indietreggiando dalla cucina per mezzo di passi molto lenti - cautamente irrigiditi da un terrore che dunque prese tutti.
    I colli dei cinque perdurarono come in una posa, fissi nell’angosciata torsione, e ognuno rizzò il pelo dello sguardo...
    Così fu l’istante in cui gli occhi dei cinque incocciarono quell’oggetto di là, quello che si diresse verso loro, espanso fino a raggiungere l’esattezza dell’eterno raccapricciato stupore...
    Una sfera!
    Era.
    Proprio così.

    E adesso mi tocca non spiegarvi una cosa: e dal momento che la loro intollerabilità per il sentimento della bruttezza, e il divieto che atrofizzava il suo concetto, e soprattutto quanto per loro la sfera fosse brutta: questo non possono che intenderlo soltanto gli stessi Superficiali!
    Però di più: la sfera in questione dovette infatti apparir loro proprio come la stessa oggettivazione vivente, direi lo stesso spirito, della bruttezza - e per quanto pure, del terrore.
    Essa infatti parlava.
    Ma prima che sentissero poi le sue parole, tutti comunque dovettero intuire intanto l’anima di quel mostro, e soprattutto per apprendere, nei due specie d’occhi che esso teneva - tutti lessero, infatti, quella sua sorta di sguardo antropomorfo... - un’espressione intelligente: insomma quella cosa non era soltanto una ...cosa: doveva pur trattarsi di un entità personale!
    E sì erano ovali, non rettangolini, quegli orribili occhi strani che c’aveva, e le due nere sferette dentro quelle altre verdi iridate, erano proprio due pupille.
    Due.
    Questa cosa atterriva tutti i nostri molto più della crudele espressione di minaccia negli occhi stessi dell’invasore: l’organica mostruosità di quel plurale del suo organo di vista infatti, li scandalizzava clamorosamente, ustionava atrocemente tutte le loro superficiali sensibilità.
    Sì perché era vivo quello spacco sconcertante che già potenzialmente parlava, come se fosse una bocca! - e sottostante quei due fori perfettamente circolari che mal potevano essere un naso.
    Era proprio una bocca quella ferita orizzontale semovente...
    I suoi due labbri non erano quadrati come avrebbero dovuto essere - e quindi smussati all’estremità nelle tipiche piramidi, dai vertici convergenti nella geometrica sensualità cantata da tutti i poeti della Superficie -; no: erano tubolari, tondeggianti, e se pur declinavano per convergere in due punte estreme, però la linea in cui chiudevano la bocca risultava essere come per l’unione di due mostruose ellissi.
    In più era intaccata, morsa, come sfregiata da un cuneo di labbro mancante, e proprio al centro della metà superiore - mentre quella inferiore si offriva minacciosa, per un turgido gonfiore crepato che la sporgeva sibillina...
    Infatti soprattutto - per l’angoscia dei sei sventurati... - quella cosa, quella sfera viva, avrebbe parlato - e parlò:
    <<Sono qui proprio per voi. - Cominciò. - Mi chiamo Tonda.>>
    <<Da dove vieni? ...c-cosa sei?!>> Balbettò l’uomo dall’impermeabile grigio.
    <<Sono una Sferoidale. Vengo dall’assenza planetaria di Anox, il buco nero più prossimo alla vostra galassia.>> Rispose, con tono quasi monocorde, l’intrusa.
    <<E cosa vuoi da noi?>> Chiese con una fermezza vocale il dubbioso, e tale che se ne stupirono tutti, e soprattutto lui stesso.
    <<Voglio rapirvi.>> Affermò, senza farsi scrupolo, quella.
    <<E cosa significa?>> Il dubbioso si autoelesse portavoce del gruppo sventurato.
    <<Non significa niente.>> Concluse Tonda, in fretta, più determinata che non intransigente.
    <<E quindi?>>
    <<Farete la mia volontà.>>
    L’adolescente cattiva, ormai giunta, indietreggiando, nel mezzo dei compagni, farfugliava ancora qualche parola ripetente.
    Nessuno volle intenderla, e dal momento che ri-ri-sosteneva l’ingoio del timidone da parte di Tonda - che lo avesse aspirato dai fori nasali, come se le membra del ragazzo fossero state di diunoji, e messe sopra una stufa...
    Intanto la sommità della sfera - che come una testa senza il resto del corpo levitava a circa due metri da terra, sulle menti di tutti - si accese in una calotta di quadrati convessi, alternativamente illuminantisi, e ognuno suonava una nota: fu così che Tonda accese-suonò una specie di comando.
    A seguito di questo infantile concertino, infatti, la vetrata centrale del salone si distaccò dagli ermetici infissi perimetrali incastonanti, e come trasvolata per una pseudo-infinità rimpicciolente, ruotò via verso il nero infinito -; attorno ai propri assi girava velocissima, fino a quando non si fece il puntino di una sparizione lontana, sperduta nel buio spaziale [a circa venti gradi niconb a nord-est rispetto al vertice dell’angolo grande della Romboidale.]
    Per fortuna che un’atmocappa, o qualcosa di simile, nel frattempo aveva impedito al vento cosmico - di quell’altezza da ottocentoventiquattresimo piano - di penetrare nella grande stanza: e doveva certo essere mastodontica per impedire al minimo capello di scuotersi un tanto.
    Certo non impedì invece - anzi accelerandone la frenesia... - i mulinelli pensierosi che, tendendo vorticosamente a sollevarsi nelle menti dei Superficiali, rivoltavano ogni concetto delle loro menti nella cognizione di un pericolo ultimo imminente: l’idea insomma della incontenibile pressurazione coatta che avrebbe potuto attivare quel gigantesco sturatronic - capace appunto di sradicare una grossa vetrata tanto bene infissa... - ghiacciava le ossa di tutti i gravitali corpi dei presenti...
    Come minimo la potenza del suo carburatronic infatti, avrebbe potuto convertire un milione di raggi eta al millisecondo!
    E per fortuna che la sintesi sonica emessa dagli enormi reattori valvolari dello stur, ovviamente accesi e funzionali lì a un passo dalla disperazione dei Superficiali; per miracolo insomma, iniziò ad esercitare un effetto quasi ipnotico sui sei non-invitati rimasti - e lo fece con modulazioni elicanti basse, stantuffanti per una lenta frequenza aironale.
    Per capirci: la valvulazione elettromeccanica trascese i sentimenti di tutti in un solo comune senso denominatore: quello di un odisséico presagio che sconvolse le pericolanti apprensioni di tutti in un unico nostalgico orgasmo.
    Del resto lo sturatronic era del tipo refrattario, invisibile.
    La sua inconsistenza immaginifica però era tanto decisamente compensata da quel sonoro pulsante - e significante un presumibile stato di standby -, che appunto i nostri congestionarono ogni possibile reazione psichica per il rapimento dell’unisona grande attesa che ho detto - e se capirete che, a trovarsi a un metro dalla bocca di un pressucatturatore di quella potenza, l’attonita rapita attesa non può che essere appunto di rapimento, forse intuirete la sostanza erogena di quei morsi e pugni liquorosi i quali ghermirono un po’ tutti da dentro, allo stomaco, al pube, al basso ventre...!
    <<Ma perché proprio noi?>> Ansimò la vecchia, straziandosi il labbro inferiore con una dentata estasiante.
    <<Perché nessuno vi ha invitato.>> Laconica al contrario, Tonda.
    <<Ci farai del male?>> Il dubbioso parlò pacatamente invece; già venutosi addosso in un numero di brevi schizzetti pulsati infatti, sperava adesso di poter cominciare una qualche trattativa col mostro.
    <<No. Morirete soltanto.>> Furono le attonite parole di Tonda.
    La sua forza superiore era ormai palese a tutti, tanto che nessuno riusciva in fondo a decifrarne il motivo.
    L’uomo dall’impermeabile grigio fu l’unico che non venne: svenne piuttosto.
    Il buffo al contrario, che lo sperma gli chiazzava troppo palesemente la patta dei pantaloni espandendosi ancora in un largo umidore, si fissò nell’idea di essere uno squalo: pensò che se anche fosse stato il più determinato di tutti i fottuti cacciatori del mare, quella propria forza istintiva, naturale, comunque non gli sarebbe valsa più che a nulla: poteva intanto usufruire, invece, dunque della stramillenaria, affusolatamente coraggiosa, e fendente!, forma animale di cui era zòoastralmente dotato.
    In effetti il suo aspetto era apparso, di poi l’ingresso della sferica minaccia, da subito il più fiero - dal momento che nessuno degli altri sopravvalutò il significato delle tracce lasciate dagli orgasmi, sui visi e gli indumenti di tutti...
    <<Glute X. Glute X. Glute X.>> Iniziò a ripetere Tonda proprio a quel punto.
    Din don dan... giallo verde rosso...
    Din don dan... giallo verde rosso...

    Ed era un sedere gigante...
    Si forzò a passare attraverso il vuoto rettangolare che il pannello vetrale, volteggiandosene via, aveva sospeso nel salone. E riuscì comunque a penetrare dentro la stanza, però divellendone gli infissi perimetrali e crepando in più punti la parete quadrostante.
    Di carne ovviamente, e pelle molto chiara, per ogni natica alta due metri e larga uno e mezzo, Glute X era proprio un culo totale.
    Super-totalissimo, direi.
    Megagalattico: proto-stellare appunto...
    Effimero, pesante, madornale; sazio di sé però vorace.
    Pesante, assoluto, morbido-sudante: tanto era l’una cosa e tanto pure l’altra, che non si sarebbe potuto dir se più essenziale o di sostanza.
    Era fuor di dubbio una essenza insomma, di carne.
    E se non parlava, certo era cosciente: continuava infatti ad obbedire agli ordini di Tonda come una cagnaccia guardiana fedele.
    <<Spaccati.>> Fu l’imperativo della capa.
    E le due natiche in cui Glute X consisteva, presero a scostarsi, e con tale macìgnica lentezza, che lo sturatronic dovette risucchiare, pezzo dopo pezzo, un gran numero di inevitabili cedimenti collateral-paretali dell’appartamento crepato.
    Il muro, insomma, non crollò rovinando verticalmente in un polveroso frastuono, e i frantumi in cui si sgretolò, uno alla volta, sibilarono via, lontano, per l’effetto sonoro del motore pressucatturante, etonizzato vieppiù dai magnetici risucchi.
    Sul frontone del gran culo, all’apice del fondo crepaccio naticale, adesso era chiaramente visibile il rosone marchiale di ogni navicella genocoltivata - tatuato al centro infatti, stemmava l’assenza planetaria di Anox.
    Era vivo, era rosso, illuminato per l’effetto di una fluidocandescenza in cui però non vaporava, ma permaneva trasmettendo come un senso di cinetica feroce abrasione.
    Era senz’altro l’effetto di un ininterrotto processo sublimante.
    I sei superficiali rimasero accecati.
    <<Analizzati.>> Fu il secondo ordine di Tonda.
    La fluidocandescenza finalmente vaporò in una pura forza introversiva, buia - di metallo.
    Tonda diede allora dei numeri, delle coordinate cui corrispose un esatto e lento movimento del gran culo, che dapprima inclinò il proprio asse orizzonatale - fino a toglier dalla vista dei sei il marchio, che intanto, invertendo il processo sublimante, era tutto scolpito da solidi bassorilievi neri.
    Dunque le due chiappe presero a scostarsi, l’una dall’altra fin quando fu invisibile, al centro del centro, l’assoluta assenza che la bestia di carne aveva trasportato in sé per galassie e galassie fin lì.
    Ai sei fu tolto ogni dubbio: per quanto curvilinei, bombati, fossero - anziché spigolosi - i lineamenti della sua gran massa di carne: Glute X era proprio un gran sedere...
    Tonda a questo punto iniziò lo stillicidio: li chiamò tutti, uno per uno i sei Superficiali, lo fece focalizzandone gli sguardi: quindi ordinò loro, soltanto indicandone con le laviche pupille il centro esatto, di guadagnare la prossimità dell’ano, la tonda imboccatura della forza primordiale degli Sferoidali intergalattici.
    E lo fecero tutti, in ordine di età, dalla vecchia alla cattiva adolescente, tutti lentamente, seguendo, come pel labirinto delle loro menti confuse, però lo stesso concetto scansionale - pulsava infatti sonoro, l’ordine assoluto dall’interno della sfera direttrice:
    DIFFERENZA DIFFERENZA DIFFERENZA DIFFERENZA
    E per ognuno fu lo stesso. Raggiunta infatti una distanza dal buco che fosse, anche di un millimetro soltanto, inferiore a quella della metà di un loro passo, si dissolsero tutti quanti - rarefatti dalla vicinanza al nulla, dunque, furono tutti biodegradati alla forma atomica di immagine, prima di venire risucchiati così...
    ‘szviùp...
    Ognuno dei sei superficiali attraversò l’ano spaziale, definitivamente - insomma, ne riuscì per rientrarci ancora, e successivamente, più di cento milioni di miliardi di volte, in un secondo.
    Quindi.
    fine

    Pubblicato 13 anni fa #
  30. maw

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    Membro

    la seguente poesia l'ho scritta quest'anno:

    LETALIA
    di g.b.bonafede

    oggi ti voglio ti dire del rischio
    come si pare parato d’orgoglio
    e il culo guinzaglia a Mawale soltanto
    e i fochi di Tita faro pulsàn
    ti vogliano bighe di ragli spesi
    e solo un Conosso quercio di Fulco
    veda. Tzzz... sposa di rosso vestita
    trucchi di plastica e cetro, dispecchio
    rivelto d’Aiace l’orpello ziitto!
    oh mio cervello di essere spiato
    dolce liguore sovra pennello
    cimici d’oro caffè digiunato
    bruca lo zombo cavallo di Zevre
    ch’Ea ruggisca la chioma crociata
    tu madre Wulka!, tu Selenere!
    vezze a sugare con l’aglio taliate
    quando di poi che metteste nel bello
    lungo lo spettro l’anello dadàmo
    oh governate di questo mio gesto
    il dito cornuto di pene deflesse
    troppo verbuto di godo soltanto
    tu mel dicesti, oh goccia del dito...
    come d’amore si vinca per sempre
    sotto le stelle a divivere il tempo
    vani di spiga sovrani nel solo
    danzar tra le gente in occhi da quando
    spiagge fuggenti zuffa in voliera
    l’acqua fa maggio
    da monte da sale a neve da ghiaccio l’acqua da mare
    oh Primavera, fiume di pace!
    come tu scorri nei cuori dileggio
    tempo sereno qual volgesi lento
    ai piedi che bacia shre contento
    tra maschere use, in polverite
    molecole d’astro precipita, ride
    tuttii cornuti né brutti né belli
    Talia governi per sempre belcanto
    tu che fai ruggi fra tutti i perdenti
    tutti molesti, annoiati, ritriti
    a ridersi addosso come criniti
    cavalli del giorno che fugge a capir...
    tu Sodomita! tu Gomorrista!
    rapi nei cuori i fanciulli davvero
    elli che bramano petti di nero
    da quando la vite si fiora di notte
    o strade bluastre fuman la botte
    lampi dei teschi d’avorio locorno
    premon sul braccio destrezza mi vuole
    dice <<coraggio!, coraggio!>>, fame
    tu m’insegnasti a nutrirmi del mondo
    pasto indigesto se poi non mi soffi
    barocco ti voglio da un arco ventaglio
    ridi tra i scuri allagando la piazza
    luci cinguetti di torno nel tempo
    tu sei la pazza di esserci al mondo

    Pubblicato 13 anni fa #

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