Chissà se Anonima Scrittori è morta per davvero oppure ha raggiunto una specie di Nirvana: incartapecorita fuori e dentro un cuore che una volta ogni tanto produce un tonfo ovattato.
Fatto sta che è passato già una anno (già?) dalla sua dipartita e il tempo non sembra averla intaccata: il suo colorito verde era e verde è rimasto.
Auguro un Felice Anno a tutti; ai cinque che ogni tanto si autenticano e a tutti gli altri che passano a dare un'occhiata.
Questo racconto l'ho scritto giusto un anno fa; è rimasto sommerso dallo tsunami zapatero sull'Arcipelago e poiché ci tengo un po', spero non vi dispiaccia se lo metto anche qui.
Insula in mari nata
Senza pensare metto la freccia, rallento e imbocco la stradina sulla destra: forse il mio girovagare ha trovato una meta, almeno per ora.
Procedo piano sull'asfalto dissestato dalle radici dei pini verso quella striscia d'argento che mi aspetta in fondo al tunnel di rami. Quando ne emergo, la luce improvvisa di un cielo di carta mi fa stringere le palpebre. Senza un perché giro a sinistra e accelero sfiorando il muretto di blocchi di tufo messo lì a inutile barriera contro vento e sabbia. Proseguo costeggiandolo, lo sguardo oltre, fisso alla linea confusa dell'orizzonte. Il piede si stacca dal pedale dell'acceleratore, si appoggia stanco sul pianale e la macchina va avanti solo per inerzia.
Strada e muretto finiscono all'improvviso e io me ne accorgo all'ultimo momento; d'istinto inchiodo, le ruote si bloccano, scivolano sull'asfalto cosparso di sabbia e la mia corsa si ferma con un lieve tonfo contro dei cespugli di lentisco.
Non c'è dubbio: sono arrivato. Scendo dall'auto e mi incammino sulla sabbia, il viso rivolto al vento carico dell'odore umido di salsedine. Il mare è grigio scuro, increspato di schiuma fin quasi all'orizzonte. Le onde si abbattono sulla spiaggia al rallentatore, come se fossero ormai esauste, quasi che anch'esse si muovessero solo per inerzia. C'è stata burrasca stanotte e non è ancora finita del tutto, il vento è ancora forte.
Respiro a fondo, gli occhi chiusi. Poi riprendo ad avanzare. La sabbia mi entra nelle scarpe, gelida. D'inverno il mare mi infonde una calma profonda, non so perché. Lui sempre inquieto e io rilassato a farmi cullare dal rumore delle onde, a farmi accarezzare dal vento.
Dovrei venirci più spesso.
Non dovrei venirci da solo.
La mareggiata è arrivata fin qui questa notte. La striscia di detriti è larga qualche metro e si estende sinuosa per tutta la linea di costa. Decido di seguirla, girando a destra questa volta. C'è di tutto qui in mezzo. Alghe per lo più, ma anche pezzi di legno, rami, addirittura tronchi. Hanno forme bizzarre che non ho mai visto da nessun'altra parte, come se solo il mare fosse in grado di modellarli in quel modo. Ci sono anche oggetti di plastica, pezzi di reti e galleggianti. E poi un'infinità di conchiglie e ogni tanto un pezzetto di vetro levigato. Mi chino a raccoglierne uno e, dopo pochi passi, un altro. Un po' piegato, vago a destra e a sinistra alla ricerca di una macchiolina di colore, di un verde bottiglia, di un marrone birra o un celeste gazzosa. Come quando ero ragazzino e giravo col secchiello in mano e dentro ci mettevo tutti i pezzetti di vetro e ogni conchiglia che trovavo, e poi le portavo a casa e guai a buttarle.
Mi tiro su con un leggero dolore in fondo alla schiena, e riprendo a camminare lungo la fascia di detriti senza più guardare in basso. Le dita della mano si aprono e semino i pezzetti di vetro colorato.
Più avanti scorgo un oggetto abbastanza grande che non sembra un tronco, piuttosto direi un sacco o qualcosa del genere. Incuriosito mi avvicino e solo a un paio di metri di distanza capisco cos'è e mi blocco. Sento che dovrei essere inorridito. Se uno si trova di fronte un cadavere, che per di più è stato a lungo in mare, la reazione non può che essere di orrore. La pietà è più complicata; forse ci riuscirei se mi trovassi di fronte un bambino, ma così, non ci riesco. Credo di essere solo sorpreso.
Dovrei prendere il telefono e chiamare la polizia, invece mi avvicino e lo osservo meglio. E' steso a faccia in giù e mi dà l'impressione di essere un uomo robusto, o forse è solo gonfio. Non ha addosso nemmeno un brandello di vestito; la pelle è scura, però di una tonalità rossastra o arancione ed è, almeno così mi sembra, completamente tatuato. Mi avvicino ancora un po' e mi piego sui talloni. Sì, sono tatuaggi: alcuni disegni tribali sul collo, alle caviglie e ai polpacci, ma per il resto è completamente ricoperto da quelli che sembrano testi scritti in bella calligrafia. Prendo dai detriti un pezzo di legno abbastanza lungo e con quello provo a spingerlo piano. La pelle cede appena, come se si trattasse di un'enorme medusa, ma non succede altro. A girarlo non ci penso nemmeno.
Mi avvicino ancora; voglio vedere se riesco a leggere qualcuno dei suoi tatuaggi. Mi aspetto di sentire qualche odore nauseabondo, invece mi arriva solo quello familiare del mare agitato. Mi chino per leggere, ma è difficile. L'acqua ha devastato la pelle dell'uomo e i caratteri si sono dilatati come fossero scritti su carta assorbente.
Un'ombra leggera avanza sul corpo e poi si ferma. Alzo gli occhi allarmato e mi trovo davanti una giovane coppia; si tengono per mano, fissano il cadavere. E questi due da dove sono sbucati?
Con voce piatta lui chiede: – Chi è?
Bella domanda! Sto per rispondere che non lo so, ma la biondina mi precede: – Pensi che sia uno di loro?
Uno di loro? Il pensiero va subito a quei poveracci che per salvarsi la vita continuano a imbarcarsi e a morire affogati cercando di raggiungere le nostre coste. No, non può essere. Le rotte che seguono sono talmente lontane che nessuno di loro potrebbe mai arrivare fin qui.
– No – dico io.
– Sì, potrebbe essere – dice una voce alle mie spalle.
Mi volto sorpreso. Un altro curioso è arrivato fin qui senza fare rumore. Mi sovrasta con la sua altezza e io dovrei ormai sentirmi a disagio a essere l'unico accoccolato. Ma me ne frego, non voglio alzarmi, lasciare il mio posto privilegiato a ridosso del corpo tatuato.
– Non è possibile – insisto io, – i barconi dei migranti non arrivano da queste parti.
– Migranti? – fa quello, lanciandomi uno sguardo penetrante. – Io intendevo uno di quelli che vivevano sulle isole scomparse.
– Sì, loro – gli fa eco la donna bionda.
L'espressione del mio viso deve essere eloquente, perché lo spilungone mi fa: – Non ne ha sentito parlare?
Mi rendo conto che da parecchio, ormai, è come se vivessi fuori dal mondo. Non seguo i telegiornali, non leggo i quotidiani, fuggo dalle notizie in rete. Ero arrivato al punto che quasi tutto quello che venivo a sapere non faceva altro che farmi sentire impotente. Leggevo di fatti assurdi, di politiche miopi e io non potevo farci niente. Ora leggo solo libri, perché so che ogni storia scritta ha un perché, cosa che a volte la vita non ha. Così scuoto la testa; no, non ho mai sentito parlare di isole scomparse.
Intanto è arrivata altra gente; un capannello di persone è come un Grande Attrattore, ne bastano due o tre all'inizio e poi il processo è inarrestabile. Quando sono arrivato, questa spiaggia sembrava deserta; adesso qui intorno c'è una folla che non riesco più a vedere il mare. Qualcuno dà solo un'occhiata e poi se ne va, ma quelli che restano sembrano conoscere tutti questa storia delle isole. Io adesso mi sento veramente ridicolo e mi tiro su.
– Sono affiorate alcuni anni fa – mi spiega il tizio alto, – fuori dalle acque territoriali, laggiù a sud. Un piccolo arcipelago di isolette vulcaniche. Era già successo in passato, e anche allora non erano rimaste emerse a lungo. Come ogni 'insula in mari nata', la proprietà sarebbe stata del primo che vi avesse messo piede, e i primi a sbatterci letteralmente contro furono due pescatori, due fratelli, credo. La loro barca colò a picco sugli scogli in una notte di tempesta.
Guardo dubbioso le facce di quelli che ho intorno, ma nessuno sembra avere qualcosa da ridire a riguardo.
– Li soccorsero e cercarono anche di farli sloggiare da lì, accampando questioni legali, di sicurezza, ma quei due non si fecero convincere, anzi, ci piantarono proprio le tende, sempre letteralmente. Dovevano essere dei tipi strani ed ebbero la bella pensata di raccogliere intorno a sé tipi ancora più strani. Misero su una specie di comunità.
– Che tipo di comunità? – chiedo.
Adesso vorrei conoscere tutti i particolari di questa storia e credo che questo tipo ne conosca parecchi, anche se non sembra essere il solo, perché un altro risponde prima di lui: – Di gente che scriveva. E quello che scrivevano se lo scrivevano addosso.
Me lo guardo da capo a piedi: ha i capelli lunghi e ondulati, un po' troppo per la sua età, e intaglia con un coltello un pezzo di legno lasciato dalla mareggiata; sembra che ne voglia tirar fuori una specie di tridente o più probabilmente un forchettone da cucina.
Senza alzare gli occhi dal suo lavoro, continua: – Andavano in giro nudi e tatuati come quello lì, e facevano sesso a più non posso. Almeno così dicono. Erano fuori dalle rotte commerciali, ci si capitava solo per caso, non è che poi se ne sapesse molto.
Alle ultime cose che ha detto ci faccio appena caso; quello che veramente mi ha colpito è questa cosa della scrittura sulla pelle. Guardo il corpo ai miei piedi e, forse per la prima volta, penso a lui come a una persona, provo a immaginarlo, mi chiedo come doveva essere la sua vita su quelle isole, quali sono le storie che soffrendo si è impresso nella carne, e cosa, alla fine, lo ha ucciso.
Chiedo: – Poi cosa è successo?
A questa domanda nessuno sembra saper rispondere. Restano in silenzio, qualcuno alza le spalle, finché un tipo tuttotondo, barbetta e occhiali, l'aria da professorino di liceo, fa: – Guarda, tutto quello che so, è che quelle isole lì erano fatte praticamente di cenere vulcanica, e che a ogni mareggiata ne spariva qualche pezzo. Dicevano che le avevano abbandonate, ma evidentemente non era così. Qualcuno doveva essere ancora lì quando sono sprofondate del tutto. – Poi volta la testa indietro e chiama: – Ragazzi, forza che dobbiamo seppellirlo.
Allora è davvero un insegnante; si è portato dietro pure i suoi studenti. Ehi, ma non si può seppellire!
– Fermi! Non si può.
– Si tolga, per favore – mi dice il professore con voce gentile, ma io non mi tolgo.
Non possono seppellirlo, sono matti? Quello mi mette le mani sui fianchi e mi solleva come fossi un manichino dei Grandi Magazzini e senza sforzo mi posa tre metri più in là, dietro le fila di curiosi. Non mi do per vinto; cerco di riconquistare il mio posto vicino alla salma per difenderla, ma quelli fanno barriera. Urlo che bisogna chiamare la polizia, che non si può seppellire un cadavere in riva al mare, che dobbiamo sapere cosa c'è scritto in quei tatuaggi, minaccio di chiamarla io la polizia, che passeranno tutti dei guai. Niente. Nessuno mi dà retta. Mi allontano di qualche passo alla ricerca di una breccia, ma tutto quello che riesco a vedere è la sabbia volare.
Basta, peggio per loro. Tiro fuori il cellulare per chiamare la polizia, ma non c'è segnale. Mi sposto verso la strada. Devo fare presto, così provo a correre, ma affondo ancora di più nella sabbia sottile. Ancora niente campo. Sono quasi arrivato al muretto di tufo, lì dovrei poter telefonare. Finalmente compare una lineetta e poi un'altra. Faccio il numero e mi volto verso il mare. La spiaggia è deserta, non c'è più nessuno.
– 113, pronto.
E adesso che gli dico?
– Pronto! Mi sente? Da dove chiama? Pronto! Non facciamo scherzi, eh?
Chiudo la comunicazione. Se controllano le chiamate, il guaio lo passerò io. Torno indietro, verso la striscia di detriti, là dove stava il corpo tatuato. O almeno credo, perché non riesco più a orientarmi, mi sembra tutto uguale. Vago di qua e di là, ma non trovo tracce, come se non ci fosse mai stato niente, come se tutto questo fosse stato un sogno.
È così? Adesso mi sveglio?
29 dicembre 2014