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L'Anonima Scrittori è morta, viva l'Anonima Scrittori

(79 articoli)
  • Avviato 9 anni fa da Torquemada
  • Ultima replica da parte di FernandoBassoli
  1. Tra l'altro a me risulta che l'italiano che picchiò l'infermiera aveva precedenti specifici (tra l'altro praticava pugilato e quindi sa come tirare un pugno). Pensate un po'. Però è fondamentale vedere se Doina Matei aveva precedenti (vista la condanna credo proprio di sì).

    Dice: ma insomma la Magistratura è razzista o no? Non lo so, di sicuro può sbagliare per mille motivi e infatti sbaglia stesso, caso Cucchi docet.

    Pubblicato 9 anni fa #
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    Luigi Manconi (sociologo e senatore del Pd, membro di Amnesty e di altre associazioni con cui si occupa di diritti civili, garantismo e assistenza ai carcerati, oltre che - nella fattispecie - dell'assistenza diretta ai figli di Donina Matei) mi ha mandato questo articolo da lui scritto il 18/10/2010.

    Luigi Manconi, La parabola di Vanessa e Doina

    L'insensata tragedia dell'assassinio di Vanessa Russo nella metropolitana di Roma, col volgere dei giorni, si è trasformata da atroce fatto di cronaca in parabola sapienziale, non so se religiosa o laica (ma ha una qualche importanza?). Un dramma crudele che è stato manipolato in chiave etnica dagli "imprenditori politici della paura", che hanno tentato di trovarvi la scintilla di un possibile conflitto razziale (un titolo di quotidiano: "Ragazza rumena uccide italiana"!) : quando si era in presenza, palesemente, di una infelicissima vicenda di cronaca. Una vicenda dove il caso avrebbe potuto invertire esattamente le parti, collocando la vittima al posto dell'assassina, e viceversa. E poi, ecco la "novità": non per iniziativa della difesa, ma per atto dovuto del pubblico ministero, emerge che Vanessa veniva da una storia tormentata di tossicodipendenza, forse mai conclusa, e attualmente si trovava sotto terapia di metadone. Questo dato biografico, ce la rende ancora più cara: anche lei, come Doina, ha conosciuto l'asprezza e il
    dolore del vivere. E invece, quello stesso dato biografico (la tossicodipendenza) ha suscitato in Alessandra Mussolini, nel corso di una trasmissione televisiva, una reazione totalmente opposta: "adesso
    vogliono infamare la vittima — ha detto l'europarlamentare — per scagionare l'assassina". Il che serve a ricordarci che la distanza tra noi e un avversario politico può essere davvero incolmabile. Ma perché la storia di Vanessa/Doina può essere intesa come una parabola? Perché offre l'opportunità di leggere la grande questione del Male e — per rimanere alla nostra portata — il problema sociale della violenza e della responsabilità, del crimine e della colpa, in una maniera straordinariamente efficace e, direi, salutare. Quella storia ci dice, infatti, che la divisione netta del mondo, e quindi dell'organizzazione e della vita sociale, in "buoni" e "cattivi" non è semplicemente difficile (o meglio: impossibile): corrisponde, bensì, a un falso scientifico e a un imbroglio ideologico (o religioso o culturale o antropologico). Gli uomini e le donne che si incontrano, che hanno rapporti, che fanno negozi, che confliggono, che si amano e che si odiano, che si cercano e che si fuggono, sono, appunto, uomini e donne : ovvero un impasto misterioso e inestricabile di virtù e vizi, di pulsioni aggressive e sentimenti pacifici, di volontà di potenza e di disponibilità alla cooperazione, di grettezza e di oblatività (e molte altre coppie di termini potrebbero essere evocate). Questo è tanto più vero quanto più quegli uomini e quelle donne hanno fatto esperienza della fatica esistenziale, della sofferenza personale e del degrado individuale e collettivo: e, quindi, quanto più le loro scelte sono condizionate da quei percorsi di emarginazione. Tutto ciò, a mio avviso, riguarda una parte significativa della società, ma — certamente — interessa in particolare quanti vivono, o hanno appena finito di vivere, condizioni di abbrutimento. In essi — malati di mente, tossicomani, detenuti, alcolisti, dipendenti da qualunque sostanza, uomini e donne "di strada" — la possibilità di offendere e ledere altri è maggiore. Questo non ne annulla la potenzialità di "fare il bene" o, ancora, di "godere del bello" (avreste dovuto vedere quei venticinque detenuti di Rebibbia Penale ascoltare Vittorio Sermonti leggere Dante; e dovreste sapere che nel luogo d'Italia dov'è più alto il tasso di analfabetismo, il carcere appunto, si tengono ben 136 corsi di scrittura creativa). Dunque, la parabola di Vanessa/Doina dice, inequivocabilmente, che la devianza, e la conseguente marginalità, è una possibilità nell'esistenza di molti: non è (non dev'essere) uno stigma perenne né una condanna a vita. E, soprattutto, può riguardare molti di noi: per una volta sola o per un periodo dell'esistenza, per la follia di un'ora o per una debolezza irreparabile. Attenzione: ciò non vuol dire che sia innanzitutto il caso (e nemmeno "le colpe della società") a determinare quella devianza, che si traduce talvolta in crimine; conta, eccome se conta!, il libero arbitrio, o comunque si voglia chiamare la capacità di autodeterminazione, che è propria di ogni essere umano: anche dove e quando l'autonomia sia la più ridotta. Ma, una volta assegnata alla libera scelta di ognuno la prima responsabilità degli atti compiuti, tutte le altre cause o con-cause, e i fattori agevolanti e quelli acceleranti, e le circostanze e il contesto, vanno attentamente considerati. Ovvero assunti come (anche) propri: dell'intera società, cioè, e della corresponsabilità che deriva dal legame sociale. E ciò, si badi bene, non è questione di altruismo né di solidarietà: bensì, è vincolo politico di reciprocità, proprio di ogni comunità organizzata. Il che, attualmente e "normalmente", non avviene in alcun modo. E proprio perché la società avverte — più o meno consapevolmente — che tutto ciò la coinvolge e la turba nel profondo: e ne svela l'intima debolezza. Pertanto, la società ne fugge e procede a una vera e propria rimozione.
    E qui, ancora una volta, le parole sono rivelatrici. L'emarginazione di cui parlo corrisponde, appunto, a una messa ai margini: a uno spostamento-esclusione-occultamento. E, dunque, l'architettura, l'ingegneria e, in particolare, l'urbanistica c'entrano moltissimo. Non è un caso che i progetti di nuove carceri prevedano, tutti, la realizzazione degli edifici o in periferia o a qualche distanza dalla città e la dismissione di istituti collocati nei centri cittadini (come San Vittore e Regina Coeli). E' forse fin troppo facile, ma non per questo meno giusto, dedurne che quella procedura di
    "nascondimento" degli istituti di pena sia la trascrizione toponomastica di un processo psichico collettivo, che va qualificato, appunto, come rimozione. E rimozione è proprio l'atteggiamento prevalente nei confronti del carcere da parte della collettività. E' un termine, questo, significativamente ambivalente : in uso nel linguaggio tecnico-professionale dell'edilizia e in quello tecnico-professionale delle discipline della psiche. Nel primo caso, si parla di rimozione dei residui, dei resti, delle macerie; nel secondo, di rimozione degli scarti dell'inconscio o, se vogliamo, dei detriti della psiche.
    In altre parole, la società, l'opinione pubblica, la mentalità collettiva tendono a spostare fuori dalle mura cittadine (e dal proprio sguardo) i luoghi della detenzione: e proprio per allontanare da sé quel rimosso rappresentato, appunto, dal carcere e da chi lo abita; e per esorcizzare ciò di cui quegli "abitanti" sono simbolo e, insieme, incubo. Ovvero, sinteticamente, la pulsione, l'errore, il crimine che ciascuno di noi avverte come un proprio rischio — tanto più forte quanto più lo si nega — al quale si è
    sottratto, ma dal quale non si sente immune. Forse tutto ciò contribuisce a spiegare il rifiuto di gran parte della società italiana nei confronti del provvedimento di indulto. Ma vallo a dire a quelle vanesie star televisive, terribilmente "di sinistra" e terribilmente virtuose, che — nella trasmissione televisiva già ricordata — si esercitavano nel loro cinismo futile e mondano, torvo e, insieme, ilare: e totalmente incapace di "sentire" — con intensità e verità — il dolore delle vittime e quello dei colpevoli. Loro sono il Bene, e per loro vale quanto il Danton di Bùchner affermava a proposito di Robespierre: "E' così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio".
    (Luigi Manconi)

    Pubblicato 9 anni fa #
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    Domenica 15 febbraio 2015, sul Quotidiano di Latina è uscito questo:

    a.p.
    “VACCE, FEDERA’, CHE STAI A ASPETTA’?”
    L'urbanistica e il comune senso del pudore

    Ciò che stupisce – di fronte alla protesta popolare e alle eccezioni della magistratura su via Quarto e Borgo Piave – è la protervia d’una classe politica, in particolare Forza Italia, che sostanzialmente risponde: «Nce frega ncazzo! Attaccàtteve pure al ciufolo, ma i costruttori devono da costrui’. Zitti e mosca!»
    Per quanto mi riguarda non mi intendo molto – e nemmeno intendo appassionarmici – di questioni giuridico-amministrative o leguleio-burocratiche: se c’era o meno il bollo della regione, se le pratiche avevano rispettato il giusto iter, se la cubatura è cambiata o no, se la strada non è più statale e quindi pure la fascia di rispetto cambia in quanto comunale, se il dirigente era biondo o era moro e se Berta filava e ora non fila più. E nemmeno mi interessa se c’era o meno conflitto di interessi, se il sindaco Di Giorgi ha pagato o no al giusto prezzo il suo appartamento e qualunque altra cazzata possa venire in mente a superavvocati e periti di fama anche internazionale, pagati apposta per elucubrarsi dalle cervella le più emerite arzigogolate. Anzi, può anche essere che alla fine esca fuori – non c’è da meravigliarsi di niente in Italia – che stava tutto a posto e che possono costruire, volendo, anche di più: possono costruire pure in mezzo a piazza del Popolo, se vogliono, o dentro San Marco al posto del leone o dell’altare. Che me ne frega a me? Facessero quello che gli pare.
    Resta però – al di là e al di sopra di tutte le legislazioni e i cavilli burocratici – una cosa che si chiama coscienza civile e comune senso del pudore. Ma che ci vuole, il Papa o la Buoncostume, per capire che ammazzare un eucalyptus gigantesco di quasi ottant’anni – modificando anche la destinazione d’uso di un’area verde, per poterci costruire un palazzo come tanti – è un crimine sociale che non si dovrebbe fare? E tirare su una selva di palazzi all’immediato ridosso della Pontina, è cosa invece buona e giusta? Dice: «Ma non è più Pontina, è comunale». Ah, sì? Che ti venga una blenorragia: non è sempre l’arteria principale che collega la statale 148 alla città, e proprio lì – a Borgo Piave, lo snodo più cruciale – confluiscono la bellezza d’altre quattro strade provinciali? E’ la massima concentrazione del traffico pontino. E tu ci vai a mettere i condominii a venti metri, quando tutti i servizi del Borgo stanno dall’altra parte della strada? Scuole, asilo, poste, chiesa, oratorio, campo sportivo, tabaccaio e tutto quello che ti pare, stanno di là e i ragazzini avanti e indietro dovranno attraversare la strada. Dice: «Sì vabbe’, però prima o poi ci faranno un sottopasso o un cavalcavia». Ah, sì? Ma lo faranno a spese della collettività però – mica del costruttore che intanto ha guadagnato – e resterà comunque, sia col sottopasso che col cavalcavia, un aborto urbanistico, uno stupro orripilante.
    Ma sotto accusa della società civile non può esserci solo l’imprenditoria edile e la politica acquiescente. C’è la burocrazia comunale – con i funzionari e i dirigenti che hanno consentito – e un’intera classe di architetti ed urbanisti pontini, da quelli che lì hanno direttamente progettato a tutti i loro colleghi che non hanno mai dissentito, per finire con un ordine professionale ligio, pare, all’unica regola: «Tra cani non ce se mozzica».
    L’architettura invece, se usata male, può diventare un’arma di distruzione di massa (a Borgo Piave di sicuro) ed un misfatto estetico o urbanistico – anche se assolto, o perfino benedetto e vidimato dallo Stato e dalla burocrazia – attenta ed inficia la qualità della vita di migliaia di cittadini per generazioni e generazioni. Anche se erigi solo un palazzo brutto, tu influisci sull’umore complessivo, sulla psiche e sullo stato d’animo di tutti quelli che, per anni e anni, ci passeranno davanti. Tu divieni di fatto un untore, un diffusore maligno di incultura e depressione.
    La vera colpa di Di Giorgi, quindi, non è se ha pagato o meno quell’appartamento – non me ne frega niente, ripeto, dell’appartamento – ma di avere comunque avallato e permesso quei crimini, oserei dire, di natura estetico-sociale. Voglio vedere che gli racconta a Finestra il giorno che – più lontano possibile, ovviamente – lo rincontra di là. Anzi, la colpa forse è proprio di Finestra, che non va intanto di notte a svegliarlo di botto – in Spiritu – e mettergli paura nel sonno.
    E vacce, Federa’! Che stai a aspetta’?

    a.p. - 15/2/2015

    Pubblicato 9 anni fa #
  4. A.

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    Mi ha fatto venire da piangere. Grazie

    Pubblicato 9 anni fa #
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    CIAO, ALBE'!

    All'età di 88 anni è morto a Roma Alberto Rossi, alla cui persona era fortemente ispirato il personaggio del Bava nel Fasciocomunista. E' stata una delle figure carismatiche e paterno-putative che hanno caratterizzato la mia formazione. Poi le strade - e le idee - s'erano divise e non ci eravamo più neanche visti per quasi quarant'anni. Ma l'affetto era rimasto quello d'allora e quando poi ci siamo rincontrati o parlavamo per telefono, io me lo sentivo ancora - come allora - figura paterno-putativa.
    Ciao Albe', riposa in pace.

    Da: Il fasciocomunista:

    "Il giorno dopo sono arrivati gli altri: qualche genovese, un
    paio di Pisa, uno di Pistoia, un paio di Massa e uno di Catania.
    Ci siamo trasferiti in una pensione di via Quattro Fontane, a due
    passi dalla Direzione. Si chiamava Albergo Zara e il padrone
    era un esule dalmata. Saremo stati una quindicina. Poi c’erano
    quelli di Roma, del Prenestino, che fissi erano sempre quattro o
    cinque, ma quando serviva diventavano una ventina. Eravamo
    i Volontari del Msi, un’organizzazione nuova che il Bava s’era
    inventato proprio in quei giorni.
    Lui era rientrato nel Msi da poco, da qualche anno, e era una
    figura mitica del neofascismo delle origini. Era stato pure lui
    con la Repubblica da ragazzino e aveva fatto quello che avevano fatto gli altri. Non ne parlava mai. Ma se è per questo non parlava
    mai di niente, o almeno mai di ciò che lo potesse in qualche
    modo riguardare. Era alto, robusto, biondo, mezzo calvo, e
    aveva una voce da basso che neanche le canne di un organo. Ma
    era un basso caldo, deciso, coinvolgente. I suoni ti avvolgevano
    e tu ne sentivi la forza e l’auctoritas quasi non emanassero da
    lui, ma ti calassero dall’alto. Quel poco che so di lui me lo hanno
    detto a mezza bocca gli altri, e quando gli chiedevo espressamente
    – nei momenti di relax, quando stavamo in macchina
    magari, sull’autostrada, a cazzarare da ore – quando chiedevo
    «Raccontami le bombe alle Botteghe Oscure» (che gliene aveva
    messe almeno un paio), subito sviava: «Che vai a tirare fuori?»,
    e ricominciava con il discorso di prima. Non era un «tenere la
    bocca chiusa» di natura prudenziale od omertosa, poiché era
    roba di vent’anni prima, andata in prescrizione o che, a buon
    bisogno, s’era scontato già in galera. È che il Bava era uno modesto,
    a cui non piaceva vantarsi. Era solido, roccioso e non doveva
    dimostrare niente a nessuno; faceva quello che faceva perché
    pensava fosse giusto. Stop. Però non gli piaceva parlarne:
    «Le cose si fanno e non si dicono».
    Sotto la Repubblica era stato come gli altri – almeno così diceva
    Arturo, l’usciere della Direzione: «Chi l’avrebbe detto lassù?
    Era un ragazzino allora» – ma è quando è tornato a casa
    dopo, che è diventato una belva: quando ha visto le ragazze
    che si vendevano agli americani, ai negri, per una cioccolata;
    quando ha visto quelli del palazzo suo a San Giovanni che prima
    erano tutti fascisti, più fascisti di suo padre che lavorava
    e si faceva i fatti suoi, adesso erano tutti antifascisti, comunisti,
    democristiani e guardavano storto lui che era tornato dalla
    Repubblica e una sera nel portone lo avevano menato. «Fascista!
    » gli dicevano, quelli che fino al giorno prima erano stati in
    camicia nera. Allora s’è messo a fare il neofascista clandestino
    coi Far, i Fasci di azione rivoluzionaria. L’assalto alla radio con
    Giovinezza a «Notturno dall’Italia» (lui c’era per davvero, però),
    il gagliardetto alla Torre delle Milizie, la bomba alla Cgil. Tutta
    roba tra ’46 e ’47, quando c’era da giocarsi la pelle. E poi l’assalto
    alle Botteghe Oscure, dove c’era la sede del Pci e perse la mano Gionfrida, con una bomba-carta che gli era scoppiata prima di
    lanciarla. Nel ’56 andò in Ungheria insieme a qualcun altro dei
    suoi, a partecipare alla sommossa. Era un anticomunista di ferro.
    Per lui – ma naturalmente anche per noi – i comunisti erano
    oppressori della libertà, sterminavano la gente e soprattutto
    erano contro la Patria, per l’internazionalismo al soldo della
    Russia, contro l’Italia e il concetto stesso di Dio patria e famiglia.
    In Ungheria pare si siano scontrati a fuoco con quelli del
    Pci, andati pure loro a dare man forte ai loro. I nostri riuscirono
    a malapena – tramite l’ambasciata svedese – a svicolare tra
    i carri armati russi e tornare a casa per il rotto della cuffia. Poi
    era uscito dal Msi – quando era stato chiaro che questi non volevano
    fare la rivoluzione, ma cercare solo un «inserimento»
    nella vita democratica insieme alla Dc – e s’era fatto dei gruppetti
    suoi. A Roma ce n’erano tanti; ognuno contro gli altri, perché
    ognuno convinto d’essere più fascista degli altri. Lui aveva
    fondato le Fng, le «camicie verdi», aveva stretto contatti con
    l’Oas e operato assieme a loro. Poi deve essersi accorto che la
    rivoluzione non si faceva più o, come diceva lui, «che la strada
    è un po’ più tortuosa» ed era rientrato nel Msi. Adesso era
    in contatto diretto con il segretario Michelini, rispondeva solo
    a lui e aveva messo in piedi questo Settore Volontari con tutta
    gente provata, gente che conosceva da anni e che aveva fatto
    un sacco di cose insieme a lui. I più duri erano quelli di Genova.
    L’unico nuovo ero io.
    Dopo un paio di giorni m’ha caricato in macchina e m’ha portato
    a casa. «Ma che ci andiamo a fare?» gli chiedevo. C’è voluto
    andare per forza, non gli è bastato che avessi telefonato davanti
    a lui a mia madre: «Guarda che sono ancora vivo». M’ha
    caricato e m’ha portato a casa. M’ha comprato pure un paio di
    scarpe nuove prima d’andare, perché quelle vecchie facevano
    pietà, a furia di non toglierle mai e d’imbrattarmi ogni sera di
    colla: «Non ti vergogni ad andare in giro così?»
    M’ha riportato a casa e mia madre era tutta rassicurata, pendeva
    dalla sua bocca. Lui parlava con quella voce bassa, roca,
    Fred Bongusto: «Adesso sta con me, ci penso io. Se lei vuole, rimane
    subito a casa, se no viene con me per la campagna elettorale, ma ci penso io, garantisco io, e quando torna si rimette a
    studiare. È vero?» faceva a me.
    «Certo». Che dovevo dire?
    Mia madre ha fatto da mangiare. C’era pasta e fagioli. Manrico
    lo stava ad ascoltare; ogni tanto provava a dire qualche cosa
    per stuzzicare, ma il Bava gli rispondeva secco – con cortesia,
    quasi con condiscendenza, pure con simpatia – ma secco, senza
    lasciargli spazio ad altre sofisticherie. Manrico m’ha chiesto
    sottovoce di sguincio, mentre per un attimo ci siamo trovati soli
    in sala: «Ma chi è questo?»
    «Il Bava».
    «Ah! A me mi pare Al Capone»."

    Ciao, Albe'.

    Pubblicato 9 anni fa #
  6. SCa

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    Chissà se Anonima Scrittori è morta per davvero oppure ha raggiunto una specie di Nirvana: incartapecorita fuori e dentro un cuore che una volta ogni tanto produce un tonfo ovattato.
    Fatto sta che è passato già una anno (già?) dalla sua dipartita e il tempo non sembra averla intaccata: il suo colorito verde era e verde è rimasto.

    Auguro un Felice Anno a tutti; ai cinque che ogni tanto si autenticano e a tutti gli altri che passano a dare un'occhiata.

    Questo racconto l'ho scritto giusto un anno fa; è rimasto sommerso dallo tsunami zapatero sull'Arcipelago e poiché ci tengo un po', spero non vi dispiaccia se lo metto anche qui.

    Insula in mari nata

    Senza pensare metto la freccia, rallento e imbocco la stradina sulla destra: forse il mio girovagare ha trovato una meta, almeno per ora.
    Procedo piano sull'asfalto dissestato dalle radici dei pini verso quella striscia d'argento che mi aspetta in fondo al tunnel di rami. Quando ne emergo, la luce improvvisa di un cielo di carta mi fa stringere le palpebre. Senza un perché giro a sinistra e accelero sfiorando il muretto di blocchi di tufo messo lì a inutile barriera contro vento e sabbia. Proseguo costeggiandolo, lo sguardo oltre, fisso alla linea confusa dell'orizzonte. Il piede si stacca dal pedale dell'acceleratore, si appoggia stanco sul pianale e la macchina va avanti solo per inerzia.
    Strada e muretto finiscono all'improvviso e io me ne accorgo all'ultimo momento; d'istinto inchiodo, le ruote si bloccano, scivolano sull'asfalto cosparso di sabbia e la mia corsa si ferma con un lieve tonfo contro dei cespugli di lentisco.
    Non c'è dubbio: sono arrivato. Scendo dall'auto e mi incammino sulla sabbia, il viso rivolto al vento carico dell'odore umido di salsedine. Il mare è grigio scuro, increspato di schiuma fin quasi all'orizzonte. Le onde si abbattono sulla spiaggia al rallentatore, come se fossero ormai esauste, quasi che anch'esse si muovessero solo per inerzia. C'è stata burrasca stanotte e non è ancora finita del tutto, il vento è ancora forte.
    Respiro a fondo, gli occhi chiusi. Poi riprendo ad avanzare. La sabbia mi entra nelle scarpe, gelida. D'inverno il mare mi infonde una calma profonda, non so perché. Lui sempre inquieto e io rilassato a farmi cullare dal rumore delle onde, a farmi accarezzare dal vento.
    Dovrei venirci più spesso.
    Non dovrei venirci da solo.
    La mareggiata è arrivata fin qui questa notte. La striscia di detriti è larga qualche metro e si estende sinuosa per tutta la linea di costa. Decido di seguirla, girando a destra questa volta. C'è di tutto qui in mezzo. Alghe per lo più, ma anche pezzi di legno, rami, addirittura tronchi. Hanno forme bizzarre che non ho mai visto da nessun'altra parte, come se solo il mare fosse in grado di modellarli in quel modo. Ci sono anche oggetti di plastica, pezzi di reti e galleggianti. E poi un'infinità di conchiglie e ogni tanto un pezzetto di vetro levigato. Mi chino a raccoglierne uno e, dopo pochi passi, un altro. Un po' piegato, vago a destra e a sinistra alla ricerca di una macchiolina di colore, di un verde bottiglia, di un marrone birra o un celeste gazzosa. Come quando ero ragazzino e giravo col secchiello in mano e dentro ci mettevo tutti i pezzetti di vetro e ogni conchiglia che trovavo, e poi le portavo a casa e guai a buttarle.
    Mi tiro su con un leggero dolore in fondo alla schiena, e riprendo a camminare lungo la fascia di detriti senza più guardare in basso. Le dita della mano si aprono e semino i pezzetti di vetro colorato.
    Più avanti scorgo un oggetto abbastanza grande che non sembra un tronco, piuttosto direi un sacco o qualcosa del genere. Incuriosito mi avvicino e solo a un paio di metri di distanza capisco cos'è e mi blocco. Sento che dovrei essere inorridito. Se uno si trova di fronte un cadavere, che per di più è stato a lungo in mare, la reazione non può che essere di orrore. La pietà è più complicata; forse ci riuscirei se mi trovassi di fronte un bambino, ma così, non ci riesco. Credo di essere solo sorpreso.
    Dovrei prendere il telefono e chiamare la polizia, invece mi avvicino e lo osservo meglio. E' steso a faccia in giù e mi dà l'impressione di essere un uomo robusto, o forse è solo gonfio. Non ha addosso nemmeno un brandello di vestito; la pelle è scura, però di una tonalità rossastra o arancione ed è, almeno così mi sembra, completamente tatuato. Mi avvicino ancora un po' e mi piego sui talloni. Sì, sono tatuaggi: alcuni disegni tribali sul collo, alle caviglie e ai polpacci, ma per il resto è completamente ricoperto da quelli che sembrano testi scritti in bella calligrafia. Prendo dai detriti un pezzo di legno abbastanza lungo e con quello provo a spingerlo piano. La pelle cede appena, come se si trattasse di un'enorme medusa, ma non succede altro. A girarlo non ci penso nemmeno.
    Mi avvicino ancora; voglio vedere se riesco a leggere qualcuno dei suoi tatuaggi. Mi aspetto di sentire qualche odore nauseabondo, invece mi arriva solo quello familiare del mare agitato. Mi chino per leggere, ma è difficile. L'acqua ha devastato la pelle dell'uomo e i caratteri si sono dilatati come fossero scritti su carta assorbente.
    Un'ombra leggera avanza sul corpo e poi si ferma. Alzo gli occhi allarmato e mi trovo davanti una giovane coppia; si tengono per mano, fissano il cadavere. E questi due da dove sono sbucati?
    Con voce piatta lui chiede: – Chi è?
    Bella domanda! Sto per rispondere che non lo so, ma la biondina mi precede: – Pensi che sia uno di loro?
    Uno di loro? Il pensiero va subito a quei poveracci che per salvarsi la vita continuano a imbarcarsi e a morire affogati cercando di raggiungere le nostre coste. No, non può essere. Le rotte che seguono sono talmente lontane che nessuno di loro potrebbe mai arrivare fin qui.
    – No – dico io.
    – Sì, potrebbe essere – dice una voce alle mie spalle.
    Mi volto sorpreso. Un altro curioso è arrivato fin qui senza fare rumore. Mi sovrasta con la sua altezza e io dovrei ormai sentirmi a disagio a essere l'unico accoccolato. Ma me ne frego, non voglio alzarmi, lasciare il mio posto privilegiato a ridosso del corpo tatuato.
    – Non è possibile – insisto io, – i barconi dei migranti non arrivano da queste parti.
    – Migranti? – fa quello, lanciandomi uno sguardo penetrante. – Io intendevo uno di quelli che vivevano sulle isole scomparse.
    – Sì, loro – gli fa eco la donna bionda.
    L'espressione del mio viso deve essere eloquente, perché lo spilungone mi fa: – Non ne ha sentito parlare?
    Mi rendo conto che da parecchio, ormai, è come se vivessi fuori dal mondo. Non seguo i telegiornali, non leggo i quotidiani, fuggo dalle notizie in rete. Ero arrivato al punto che quasi tutto quello che venivo a sapere non faceva altro che farmi sentire impotente. Leggevo di fatti assurdi, di politiche miopi e io non potevo farci niente. Ora leggo solo libri, perché so che ogni storia scritta ha un perché, cosa che a volte la vita non ha. Così scuoto la testa; no, non ho mai sentito parlare di isole scomparse.
    Intanto è arrivata altra gente; un capannello di persone è come un Grande Attrattore, ne bastano due o tre all'inizio e poi il processo è inarrestabile. Quando sono arrivato, questa spiaggia sembrava deserta; adesso qui intorno c'è una folla che non riesco più a vedere il mare. Qualcuno dà solo un'occhiata e poi se ne va, ma quelli che restano sembrano conoscere tutti questa storia delle isole. Io adesso mi sento veramente ridicolo e mi tiro su.
    – Sono affiorate alcuni anni fa – mi spiega il tizio alto, – fuori dalle acque territoriali, laggiù a sud. Un piccolo arcipelago di isolette vulcaniche. Era già successo in passato, e anche allora non erano rimaste emerse a lungo. Come ogni 'insula in mari nata', la proprietà sarebbe stata del primo che vi avesse messo piede, e i primi a sbatterci letteralmente contro furono due pescatori, due fratelli, credo. La loro barca colò a picco sugli scogli in una notte di tempesta.
    Guardo dubbioso le facce di quelli che ho intorno, ma nessuno sembra avere qualcosa da ridire a riguardo.
    – Li soccorsero e cercarono anche di farli sloggiare da lì, accampando questioni legali, di sicurezza, ma quei due non si fecero convincere, anzi, ci piantarono proprio le tende, sempre letteralmente. Dovevano essere dei tipi strani ed ebbero la bella pensata di raccogliere intorno a sé tipi ancora più strani. Misero su una specie di comunità.
    – Che tipo di comunità? – chiedo.
    Adesso vorrei conoscere tutti i particolari di questa storia e credo che questo tipo ne conosca parecchi, anche se non sembra essere il solo, perché un altro risponde prima di lui: – Di gente che scriveva. E quello che scrivevano se lo scrivevano addosso.
    Me lo guardo da capo a piedi: ha i capelli lunghi e ondulati, un po' troppo per la sua età, e intaglia con un coltello un pezzo di legno lasciato dalla mareggiata; sembra che ne voglia tirar fuori una specie di tridente o più probabilmente un forchettone da cucina.
    Senza alzare gli occhi dal suo lavoro, continua: – Andavano in giro nudi e tatuati come quello lì, e facevano sesso a più non posso. Almeno così dicono. Erano fuori dalle rotte commerciali, ci si capitava solo per caso, non è che poi se ne sapesse molto.
    Alle ultime cose che ha detto ci faccio appena caso; quello che veramente mi ha colpito è questa cosa della scrittura sulla pelle. Guardo il corpo ai miei piedi e, forse per la prima volta, penso a lui come a una persona, provo a immaginarlo, mi chiedo come doveva essere la sua vita su quelle isole, quali sono le storie che soffrendo si è impresso nella carne, e cosa, alla fine, lo ha ucciso.
    Chiedo: – Poi cosa è successo?
    A questa domanda nessuno sembra saper rispondere. Restano in silenzio, qualcuno alza le spalle, finché un tipo tuttotondo, barbetta e occhiali, l'aria da professorino di liceo, fa: – Guarda, tutto quello che so, è che quelle isole lì erano fatte praticamente di cenere vulcanica, e che a ogni mareggiata ne spariva qualche pezzo. Dicevano che le avevano abbandonate, ma evidentemente non era così. Qualcuno doveva essere ancora lì quando sono sprofondate del tutto. – Poi volta la testa indietro e chiama: – Ragazzi, forza che dobbiamo seppellirlo.
    Allora è davvero un insegnante; si è portato dietro pure i suoi studenti. Ehi, ma non si può seppellire!
    – Fermi! Non si può.
    – Si tolga, per favore – mi dice il professore con voce gentile, ma io non mi tolgo.
    Non possono seppellirlo, sono matti? Quello mi mette le mani sui fianchi e mi solleva come fossi un manichino dei Grandi Magazzini e senza sforzo mi posa tre metri più in là, dietro le fila di curiosi. Non mi do per vinto; cerco di riconquistare il mio posto vicino alla salma per difenderla, ma quelli fanno barriera. Urlo che bisogna chiamare la polizia, che non si può seppellire un cadavere in riva al mare, che dobbiamo sapere cosa c'è scritto in quei tatuaggi, minaccio di chiamarla io la polizia, che passeranno tutti dei guai. Niente. Nessuno mi dà retta. Mi allontano di qualche passo alla ricerca di una breccia, ma tutto quello che riesco a vedere è la sabbia volare.
    Basta, peggio per loro. Tiro fuori il cellulare per chiamare la polizia, ma non c'è segnale. Mi sposto verso la strada. Devo fare presto, così provo a correre, ma affondo ancora di più nella sabbia sottile. Ancora niente campo. Sono quasi arrivato al muretto di tufo, lì dovrei poter telefonare. Finalmente compare una lineetta e poi un'altra. Faccio il numero e mi volto verso il mare. La spiaggia è deserta, non c'è più nessuno.
    – 113, pronto.
    E adesso che gli dico?
    – Pronto! Mi sente? Da dove chiama? Pronto! Non facciamo scherzi, eh?
    Chiudo la comunicazione. Se controllano le chiamate, il guaio lo passerò io. Torno indietro, verso la striscia di detriti, là dove stava il corpo tatuato. O almeno credo, perché non riesco più a orientarmi, mi sembra tutto uguale. Vago di qua e di là, ma non trovo tracce, come se non ci fosse mai stato niente, come se tutto questo fosse stato un sogno.
    È così? Adesso mi sveglio?

    29 dicembre 2014

    Pubblicato 8 anni fa #
  7. Si passa più di rado ma si passa, pur senza autenticarsi. Se tanto ho da fare, nell'ambito della scrittura e dell'editoria, lo devo a queste pagine, come dici tu Sca, dal colorito verde. Il verde delle divise di una truppa irregolare che si è dispersa nella boscaglia, ma che continua a combattere.

    Pubblicato 8 anni fa #
  8. zaphod

    offline
    Fondatore

    Buon anno anche a te, Sca, e a Faust e a tutti gli altri che si trovano a passare da queste parti.
    L'arcipelago era un avamposto troppo difficile da tenere. Meglio questo bar della Tortuga - semisepolto in questo verde che maschera da sguardi troppo indiscreti - familiare ed esotico allo stesso tempo, in cui raccontare e ricercare suggestioni, parole e storie.

    Pubblicato 8 anni fa #
  9. Woltaired

    offline
    Membro

    Un rum liscio, maledetti!

    Pubblicato 8 anni fa #
  10. Sto topic lo potete pure mannà al Verano che ha portato solo tanta sfiga, l'anima de li mortacci vostri e de quattro quarti del condominio vostro.

    Pubblicato 8 anni fa #
  11. Ma ci vada lei al Verano, gran visir dei cagacazzi.

    Pubblicato 8 anni fa #
  12. Buon 25 aprile, gentaglia. Questo resta il nostro giorno.

    (r)esistere, sempre.

    Pubblicato 8 anni fa #
  13. Resistere nel 2016 in Italia è certamente molto più complicato di qualche anno fa. Resistiamo davvero? Non lo so. Mi pare che ci limitiamo a lasciarci trascinare dalla corrente, senza grandi sussulti di dignità. Si finge comunque di resistere per convenzione sociale, ogni tanto qualcuno dà di matto e spara a mogli o padri, come successo anche a Latina qualche giorno fa. Si stringono i denti, ma la verità è che a questo Paese in mano a massoni, raccomandati e banditi non crede più nessuno. Che voi fa', questo passa il convento.

    Quello che sta venendo clamorosamente a mancare nell'era del Fanfarone di Firenze, il fantoccio telecomandato da Arcore, è la fiducia nel futuro (di ottimismo è fuori luogo parlare). E che fiducia vuoi avere, se manco la pensione avremo? Oggi la luce in fondo al tunnel è quella di un altro treno che ci viene incontro.

    La crisi nel 2016 non è più soltanto economico-occupazionale, ma un fenomeno infinitamente più complesso. Ci si deve confrontare in primis con la crisi di valori e in questo il potere politico ha enormi responsabilità, perché se manca l'esempio dall'alto poi non ti puoi lamentare se la gente occupa le case con la forza come sta avvenendo anche a Latina, visto che tu, Stato del cazzo, la casa popolare a chi ha diritto non gliela sai dare.

    C'è poi una crisi della famiglia in senso lato che ci obbliga a ripensare tutta l'organizzazione della società: sarà un percorso lungo e complesso e non sappiamo dove ci porterà. La crisi culturale è una logica conseguenza di tutto questo. Oggi mi rendo conto che non è neanche facile parlare di cultura a un giovane e pretendere che ti stia ad ascoltare, ma abbiamo comunque il dovere di continuare a provarci. Oggi, più che mai, resistere!

    Pubblicato 8 anni fa #
  14. A.

    offline
    Moderatore

    scrivere è divenire

    Pubblicato 8 anni fa #
  15. L'esimio dr. cav. ing. sua santità Sensi da Trento mi segnala ciò:

    "Ma perché non dici qualcosa sul 25 aprile?
    Ma no, lo sanno tutti che è il 25 arpile...
    Ma devi dire qualcosa sul 25 aprile, sul coraggio, sulla resistenza.
    Ma lascia perdere.
    Ma insisto.
    Ok, dico qualcosa sul 25 aprile.
    Troverete su queste pagine chiunque parlare bene dei partigiani e chiunque parlare male dei partigiani. Chiunque parlare di resistenza e di liberazione, di americani e di tedeschi.
    Io vorrei porre l'accento su un fatto incontestabile, che poi è il motivo per cui da sempre mi scaglio, odiato da questi e da quelli, contro ogni forma di vuota retorica.
    Il fatto è questo: almeno l'80% di quelli che oggi inneggiano all'eroismo di combattenti e resistenti, fossero esistiti a quell'epoca, sarebbero stati mansuete pecore che cercavano il proprio miserevole campare, lasciando i tedeschi alla loro protervia e i partigiani ai rastrellamenti. Ma prima di arrivare alla guerra, tanto amata dagli amanti degli eroi, e alla sopraffazione, ci vuole tutto un lavoro di rancore, di odio dello straniero, di rassegnazione ai recinti.
    Li riconosci per strada, negli uffici, nei campi e nelle officine, li vedi nel tuo lavoro, i lecchini del potere, i procacciatori di raccomandazioni e favori, i mansueti adoratori dello status, i proni rassegnati alla scala sociale, i teorizzatori del "tantolecosevannocosì", gli scalatori del Monte della Merda.
    Togliete i partigiani dalle vostre bacheche, fosse stato per voi, oggi saremmo nazisti."

    Natalino Balasso

    Pubblicato 8 anni fa #
  16. cameriere

    offline
    Membro

    un saluto agli anonimi tutti
    vi penso spesso ... certe serate ...
    un abbraccio
    ci vediamo in giro

    Pubblicato 7 anni fa #
  17. A.

    offline
    Moderatore

    Due domande per K

    1) cosa voterà al refendum ? Come D'alema o come la maggioranza del PD?

    2) Cosa pensa di proporre le Olimpiadi a Latina? Un'idea che ma'è venuta qualche giorno fa.

    Pubblicato 7 anni fa #
  18. k

    offline
    Membro

    Ancora vincolato ai sacri principi del materialismo dialettico e del pensiero di Mao Tsetung, non riesco a liberarmi - pur standomi molto antipatico l'attuale segretario - dalla consapevolezza storica del primato del partito sulle ubbie individuali. Sono pertanto molto combattuto e non ho ancora deciso.

    Le olimpiadi a Littoria? Mi piacerebbero, ma mi pare velleitario. Mi accontenterei di Totti al Latina Calcio.

    Pubblicato 7 anni fa #
  19. Votate Fra Tazio da Velletri

    Pubblicato 7 anni fa #

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