Un po' lungo come coccodrillo, ma sarebbe stato carino...Purtroppo ormai sei troppo vecchio, però, per diventare anche il James Dean della bresciana, quindi ti terremo con noi.
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(1417 articoli)-
Pubblicato 12 anni fa #
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Grande Faust!
(Io la foto non riesco a vederla. Mandami per posta una fotocopia dell'articolo. Ciao)
Pubblicato 12 anni fa # -
Fatto. Ricevuta?
Pubblicato 12 anni fa # -
Sì, grazie: eccezziunale veramente.
Pubblicato 12 anni fa # -
Brava la nostra fotografa, sa di certo il fatto proprio.
Pubblicato 12 anni fa # -
In quale altro Paese un wrestler abbandonerebbe il ring per darsi allo studio di metafisica e etica applicata? Negli Usa è successo:
Dimenticate l'Atene di Platone e Aristotele, la Francia di Cartesio o la Germania di Hegel e Schopenhauer. La vera patria della filosofia è un'altra: l'America del ventunesimo secolo. Le ragioni? «L'apertura al dialogo, la quantità delle argomentazioni, la varietà dei punti di vista, la sfrontatezza con cui ogni cittadino esprime la propria opinione, la vastità delle libertà sancite dal primo emendamento, l'intensità della ricerca di evidenza e informazioni, il diffuso rifiuto di verità imposte dalla autorità o dalla sola tradizione, la resistenza di fronte alle false giustificazioni o legittimazioni, l'abbraccio alla comunicazione in rete con un'alacrità che intimidisce il mondo intero: tutto corrobora questo fatto».
È la tesi di America The Philosophical (Knopf, 2012), saggio del giornalista e docente di filosofia Carlin Romano: «Quella americana si staglia come la cultura più filosofica nella storia del mondo, un mercato della verità e dell'argomentazione senza precedenti, sorpassa qualsiasi altro posto nell'arco degli ultimi tremila anni».
In quale altro Paese un wrestler abbandonerebbe il ring per darsi allo studio di metafisica e etica applicata? Negli Usa è successo: Nick Baines nel 2007 ha lasciato la lotta per iscriversi alla facoltà di Filosofia della University of Northern Iowa (c'era un illustre precedente: analoga carriera aveva fatto Platone, che doveva addirittura il nome all'ampiezza delle sua spalle e alla fama guadagnata praticando la lotta nei giochi dell'Istmo, stando a quanto riporta Diogene Laerzio). Dove può accadere che una super modella come Lauren Hutton dichiari di avere come punto di riferimento la discussa pensatrice femminista Camille Paglia? Solo negli States. Casi isolati? Secondo Romano non è così. I talk show che riempiono i palinsesti televisivi sono i dialoghi platonici del nostro tempo, Jon Stewart è il nostro Socrate. E anche quando gli americani prendono in giro la filosofia, come spesso fanno, in realtà la prendono sul serio. «Negli Stati Uniti il gioco della mente è forse la sola forma di gioco a non essere guardata con tenera indulgenza» scriveva Richard Hofstadter in Anti-Intellectualism in American Life (1963). Eppure sarebbe sbagliato confondere la presa in gira della filosofia con il disprezzo di essa, e prenderlo come prova di una cultura antifilosofica.
«È uno dei tipici errori che gli intellettuali commettono quando cercano di comprendere gli Usa», scrive Romano. Aristofane dileggiava Socrate e gli altri pensatori dell'agorà nelle Nuvole: forse per questo le Grecia del quinto secolo era terra meno fertile per il pensiero? «L'irriverenza americana non è un attacco alla cultura filosofica, ne è anzi una genuina incarnazione», scrive Romano. Esaltare l'America come la cultura più filosofica del mondo non significa soltanto ricordare come i filosofi americani abbiano influenzato la vita quotidiana – con esempi illustri come Emerson, Dewey, James, Rawls, Posner, Danto. L'America è filosofica per molto più di questo. Basta pensare al boom dell'etica applicata: negli ultimi trent'anni i filosofi americani sono entrati nelle corporation, negli ospedali, nelle carceri, nell'amministrazione pubblica.
E potremmo notare anche che di vertici di Google c'è Damon Horowitz, con l'incarico, inesistente altrove, dell'in-house philosopher. Se consideriamo i più grandi successi del web 2.0, hanno tutti all'origine un filosofo: Peter Thiel, tra i fondatori di Facebook, Larry Sanger, cofondatore di Wikipedia, Reid Hoffman, inventore di LinkedIn. Hanno tutti in comune la stessa formazione accademica. Romano conferma: «Internet, i blog, i social network hanno intensificato la già vibrante realtà filosofica americana», scrive nel capitolo intitolato Gutenberg's Revenge: The Explosion of Cyberphilosophy e sottolinea come sia emerso un nuovo genere di filosofia, ovviamente dominato dagli americani, il cui intento è portare gli effetti della rivoluzione digitale nelle aree tradizionali della cultura, come religione e letteratura.
«Non dobbiamo confinare la filosofia nei feudi accademici, nei dipartimenti che espongono l'insegna "Filosofia"», scrive Romano. «Chi fa così è come chi crede che bisogna lasciare la politica ai politici e le passioni ai ragazzi sotto i 30 anni». Tocqueville scriveva all'inizio del secondo libro de La democrazia in America: «Credo che non esista nel mondo civile un Paese in cui ci si occupi meno di filosofia che negli Stati Uniti». Romano è di tutt'altro parere: «L'America è per la filosofia ciò che l'Italia è per l'arte o la Norvegia per lo sci: un ambiente perfetto per far pratica».
Da Il sole 24 ore
Pubblicato 12 anni fa # -
"Massimo Dalla Libera, artigiano. Grande artigiano, riparatore attento e capace, erede di una tradizione familiare profondamente radicata nella città. L'officina di Corso Matteotti e poi quella ultima di via Isonzo. Dall'incendio del Dicembre scorso la bottega è rimasta chiusa. Per molti di noi era ogni volta un dolore non ritrovare quella moltitudine di bici, vecchie e nuove, che ogni giorno esponeva e la sera riponeva, in modo misterioso, nel suo affollato negozio. Un negozio, un'officina, una bottega, una casa. Una casa, come lo è per tutti quegli artigiani, eredi di antichi mestieri, un luogo in cui la vita si mescola al lavoro. Massimo, grande riparatore e aggiustatore. Bastava uno sguardo, poi la sua riconosciuta perizia tecnica. Poi le sue robuste mani, il desiderio e l'orgoglio di produrre un lavoro ben fatto. Speravo che riaprisse la sua casa-bottega, prima o poi. Forse in questo momento hai già inforcato la sua vecchia Legnano da corsa..."
(di Paolo Costanzo, da gruppo su fb)
Pubblicato 12 anni fa # -
Uff..FerBa, stavolta m'hai commosso. Dalla Libera ha messo milioni di "tipp'e toppe" arancioni e nere sulle camere d'aria delle Safari e delle Graziella di tutti i ragazzini del quartiere, e noi bucavamo parecchio fra strade di brecciolino che erano appena tracciate e montarozzi fiancheggiati dagli eucaliptus.
Ho fatto appena in tempo a comprare la bici a mio figlio prima dell'incendio. Anche io speravo che riaprisse prima o poi.Pubblicato 12 anni fa # -
Lo speravamo tutti.
Pubblicato 12 anni fa # -
"Finita la cerimonia dell’inaugurazione [di Littoria] infatti, in mezzo alla folla che defluiva, mio zio Pericle s’era fermato a un banchetto che stava poco fuori della piazza – su un fianco della strada che va a Borgo Piave – di fronte alla caserma della milizia dove adesso c’è invece l’ufficio del catasto. Di questi banchi e banchetti ce ne erano tanti per tutta la strada, e venuti da ogni parte. Si sapeva in tutto il Lazio e in Italia che oggi si inaugurava Littoria e quindi avevano pensato: «Chissà quanta gente c’è. Fammi andare pure a me, a vedere se riesco a imbrogliare e vendere qualcosa a questi coloni polentoni cispadani».
A questo banchetto vendevano mutande. Ed è lì che zio Pericle ha conosciuto il Lanzidei. Il Lanzidei in realtà di mestiere non è che vendesse mutande, il banchetto non era il suo, era di un suo amico di Roma – lui era di Nettuno, un paese qua vicino, sul mare – che gli aveva detto: «Vienimi a dare una mano» e lui era venuto. Di mestiere faceva quello che capitava: manovale, muratore, facchino, insomma niente, più spiantato di noi. Però era simpatico, aveva la battuta pronta ed era una persona per bene. I miei zii lì per lì non ci hanno fatto nessun pensiero – s’era fermato anche zio Adelchi a guardare le mutande – poi non so se le hanno comprate o hanno fatto solo un po’ di chiacchiere, amicizia e arrivederci e grazie: «Io mi chiamo Lanzidei, voi Peruzzi, morta lì»."
Da Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, Mondadori, 2010.Mario Lanzidei
(Maestro del Lavoro)
30-10-1915 23-09-2012Ciao Nonno.
Pubblicato 12 anni fa # -
Mi auguro che a lui sia piaciuta quella cosa e che voi raccontiate, prima o poi, anche le altre.
Un abbraccio a tutti voi (novantasette anni, poi, non sono pochi). Ciao Lanzide'!Pubblicato 12 anni fa # -
Condoglianze, Graziano e Massimiliano
Pubblicato 12 anni fa # -
Condoglianze anche da parte mia ragazzi.
Pubblicato 12 anni fa # -
Il correttore di bozze
di Daniele PugliesePer quanto ne so – e mi piacerebbe essere smentito – nei giornali, ma anche nelle case editrici e nelle tipografie più grosse, la figura del correttore di bozze è scomparsa o in via d’estinzione. Forse qualche giovane lettore ignora anche chi fosse, che ruolo avesse, cosa facesse.
Essendo anch’io sulla strada del tramonto, ed anzi già rottamato e fatto scivolare senza scivoli alla stagione dei remi in barca o della racchetta appesa al chiodo, mi sento in dovere, nei confronti di questo giovane lettore, di lasciargli testimonianza, di regalargli una memoria che, se sarà premuroso, potrà conservare e custodire per sé e per il prossimo, impedendo così che si perda traccia di un’estinzione.
Il correttore di bozze, dunque – deve sapere il mio giovane lettore –, era una persona a cui era affidato il compito, subito prima di andare in stampa, di rileggere qualsiasi cosa venisse pubblicata, onde evitare che errori, refusi, incongruenze rimanessero nel testo per distrazione dell’autore, del dattilografo, del linotipista.
Ho scritto «subito prima di andare in stampa», ed un buon correttore di bozze che stesse rileggendo avrebbe da obiettare che il suo lavoro sarebbe potuto intervenire anche molto prima, vale a dire subito dopo la composizione del testo, quando esso è ancora solo in colonna e non ancora impaginato, ovvero sia una lunga strisciata di righe, senza le interruzioni che il salto di pagina costringe potendo creare slittamenti o brutture – vedove, mozzini e disallineamenti – che vanno anch’essi eliminati.
Perciò ci poteva essere un primo giro di bozze e poi un secondo e anche un terzo, e francamente l’operazione si potrebbe ripetere all’infinito senza escludere la possibilità che ad ogni revisione si riscontri una nuova incongruenza, una distrazione, una svista, una banalissima dimenticanza come un accento saltato o una doppia laddove non ci vuole.
C’è chi sostiene che i refusi sian diavoletti dispettosi capaci – non è chiaro se per partenogenesi o a causa delle copule che in un testo non possono mai mancare – di autoriprodursi nel cuore della notte quando anche il correttore di bozze è esentato dalla veglia e dall’obbligo di tener alta la guardia. Il che indurrebbe a credere che una stesura perfetta non esista, e non necessariamente perché Shakespeare o Dostoevskij non l’abbiano raggiunta, anche se c’è da supporre che pure qualche fuoriclasse abbia fatto i suoi errori, ma perché dal loro scritto all’edizione in commercio si affastellano troppe mani su quelle pagine e ad ogni passaggio il rischio della contaminazione non è dissimile da quello a cui va incontro chi manipola gli alimenti.
È chiaro dunque che il portatore sano di errore può esser lo stesso correttore di bozze, il quale, se non è sufficientemente ammascato, del mestiere, col suo bel bagaglio di cultura ed esperienza, nonché animato dal sacro fuoco del dubbio e da quel pizzico di modestia che non guasta mai, o qualora si deconcentri, pisoli e vaghi altrove, anziché diserbare potrebbe sparpagliare, aspergere e disseminare.
L’eccesso di zelo con cui si ponesse dinanzi alla celebre risposta in latino «Ibis redibis non morieris in bello» – che si narra la Sibilla dette al soldato andato a consultare l’oracolo prima della battaglia –, priverebbe la frase del suo carattere volutamente ambiguo, svuotandola del suo doppio senso che la scrittura dell’epoca, dotata di pause nell’intonazione, ma non ancora di segni di interpunzione, conferiva al motto giustappunto “sibillino”.
Se, in buona fede, nel tentativo di render meno ermetica e perciò comprensibile al lettore la sentenza, vi aggiungesse un paio di virgole – che son poi due virgole? Si dice, no? «Sei una virgola» –, il disorientato centurione apprenderebbe sì la ferale notizia oppure, di contro, tirerebbe un sospiro di sollievo, ma avremmo perso la veridicità del responso e tutto il suo carattere di indeterminatezza e mistero.
Subito dopo «Ibis», immediatamente accanto senza il minimo spazio, traccerebbe un segno che potrebbe somigliare a una Y ribaltata o a una stecca con un pallino appiccicato, riportando questo stesso segno a fianco della riga dove vien fatto tale intervento, scrivendoci accanto la nostra virgola – eccola , –, e un’operazione simile – servendosi di un segno diverso dalla Y o dalla stecca con pallino, un affare fatto così ‡ per esempio –, un’operazione simile, si diceva, l’eseguirebbe a fianco di «redibis», così che noi leggeremmo la frase «Ibis, redibis, non morieris in bello» che significa «Andrai, tornerai, non morirai in guerra».
Ma se a buon diritto o ragione veduta, o anche per sbaglio, quell’affare fatto così ‡ e relativo riporto a fianco della colonna di testo corredato di virgola – questa , – la ponesse anziché dopo «redibis», dopo «non», il significato dell’intera frase, che ora risulterebbe «Ibis, redibis non, morieris in bello», cambierebbe stando a significare «Andrai, non tornerai, morirai in guerra».
L’ambiguità originaria sarebbe stata cancellata e il correttore di bozze avrebbe fatto uno sbaglio anziché toglierlo.
José Saramago, che secondo me è stato un grande scrittore anche se la sua scelta di far abbondantemente a meno della punteggiatura talvolta è esasperante e risulta artefatta, intorno all’errore volontariamente immesso in un libro da un correttore di bozze – l’aggiunta di un semplice “non” –, ci ha scritto un intero splendido romanzo, Storia dell’assedio di Lisbona, e addirittura ha cambiato la storia come i famosi dieci giorni che sconvolsero il mondo o le porte del metrò che si chiudono in faccia a Gwyneth Paltrow.
Più recentemente Francesco Recami, scrittore fiorentino che certamente ho incrociato ai tempi del liceo, ha scritto un romanzo breve pubblicato da Sellerio intitolato proprio Il correttore di bozze, che ho trovato affascinante nella parte descrittiva dell’ossessione di chi deve rimandare pulito un testo in tipografia, mondandolo di errori e refusi, più contorto e confuso nell’architettura della storia che sembra a fatica cercare un’improbabile conclusione.
Ma il tratteggio più avvincente di questa figura di lavoratore taciturno e pignolo, tenace e modesto, sempre in ombra, un passo dietro, tanto ossequioso quanto determinato, è quello che si trova nel piccolo gioiellino di George Steiner, scrittore e saggista francese, docente di letteratura comparata a Princeton, Stanford e Oxford, che nel 1992 ha mandato alle stampa Proofs, il Professore, in italiano tradotto Il correttore. [*Proofs significa refusi n.d.r].
Perché si ispira, come lo stesso George Steiner dichiara in questa intervista rilasciata al Corriere della sera, a Sebastiano Timpanaro, uno degli intellettuali più raffinati e acuti – e tristemente dimenticati in questo paese – che a me sia mai capitato di leggere, una di quelle figure a cui guardare con deferenza e ammirazione, che purtroppo, benché fosse molto amico del mio ex suocero, non ho mai avuto l’opportunità di conoscere.
Timpanaro, la cui sola militanza politica sarebbe degna di memoria e rispetto, spaziava tra la filologia classica, la critica letteraria e la filosofia – impossibile capire il poeta di Recanati senza aver letto il suo La filologia di Giacomo Leopardi – con una lieve gravità oggi quasi impensabile e drammaticamente assente, che – incredibile dictu! – «scelse di rifiutare la carriera di insegnamento universitario», guadagnandosi da vivere appunto anche acchiappando sfondoni nei libri.
Forse non fu «modestia», ma «disagio personale», poco importa, ma la dice lunga, restando al nostro argomento che è quello del correttore di bozze, su un uomo che nei difficili testi classici andava a far le pulci, a cercar l’inezia che poteva stravolgere il significato, la svista potenziale causa del pregiudizio o della cantonata, l’«adde» (aggiungi) o il «delete» (cancella) che può cambiar la storia.
«Cassa», mi correggerebbe un buon correttore, ovvero elimina e fai proprio sparire, bianchetta si direbbe oggi, ché «cancella» vuol dir lasciarne traccia, solo ricoprire con un cancello simile a questo # la parola incriminata.
C’è una cosa splendida che va colta e sottolineata in questo «gergo» di simboli adottato dal correttore di bozze, dove c’è un preciso segno che indica «avvicina», un altro «distanzia», uno «metti in corsivo» e l’altro «metti in neretto», dove si chiosa, si glossa, si postilla, si introducono smarrimenti e si espungono raddoppi, distinguendo tra un linguaggio e un metalinguaggio, tra quel che è da riportare e quel che serve solo per districarsi o riflettere, ripensare, suggerire: era un linguaggio tra un intellettuale o lavoratore della mente, il correttore di bozze, un altro intellettuale più altolocato, l’autore, e lavoratore della mano, un operaio, scelto e di serie A, magari, ma pur sempre un operaio, il linotipista, il proto, il banconiere. Un dizionario che consentiva a diversi di comprendersi fra loro, a ciascuno di fare il proprio mestiere, a cooperare per raggiunger un solo medesimo tendenzialmente perfetto risultato. Un dizionario attento alla sostanza, al «putto» trasformato in «rutto» o al «rutto» trasformato in «ratto» e ovviamente al «ratto» divorato da un «gatto», per non intender fischi per fiaschi, ma attento anche alla forma, al bello, che non è come si intende oggi solo apparenza.
Un mozzino, una frase cioè che termina con un rigo il quale contiene solo la parola «ora.», era brutto da vedersi. E una vedova, la conclusione di un capoverso che va a pagina nuova restando come sospesa per aria con troppo bianco intorno, faceva inorridire quelli che, appresa la lezione di Manunzio, Bodoni o Baskerville, stavan nel settore delle «arti grafiche», localacci bui dove imperversava il tanfo dell’ammoniaca e le mani ci si sporcavano davvero, ma in altro senso.
Ovviamente la colpa di tutto la si può dare a Steve Jobs e al suo delirio di dar la tipografia in mano al popolo, e ognuno a casa sua, o a Bill Gates se si preferisce, perché su Mac gira QuarkXPress che perizia e rudimenti lo richiede, mentre la pretesa di impaginare con Word è un delirio come quello di chi a Montecarlo ci andava con l’Abarth 595 e gli scappamenti segati. O la si può dare al 68 e alla scuola per tutti. O al correttore automatico, il quale suggerisce di modificare Timpanaro in «impanato», Schnitzler in «schnitzer» che in tedesco vuol dire «papera, cantonata o strafalcione», o in «schnitzel», perché essendo viennese potrebbe forse essere una «Wiener Schnitzel», una cotoletta alla milanese, anch’essa impanata.
Io non credo, anche perché alle colpe non credo, e se devo trovar un responsabile – qualcuno a cui chieder conto, da cui pretendere una risposta e, se del caso, esigere il risarcimento –, lo trovo nel fatto che questo progresso è stato solo per far soldi, o meglio per spenderne.
Non si spiega altrimenti la scomparsa del correttore di bozze se non con questa ossessione al risparmiar da qualche parte per accrescere il profitto dall’altra, ovvero sia al disinteressarsene di far le cose bene, basta farle e venderle per poi venderne di nuove quando l’aggeggio sarà guasto come il nostro cervello.
I protocolli di controllo qualità, gli addetti alla supervisione del prodotto, i marchi che certificano e dan le stellette, fanno ridere dinanzi allo scrupolo e alla pedanteria del nostro correttore, capace di perderci la vista a scorrer quelle righe.
Il personaggio di Steiner – com’era probabilmente per certi versi davvero Timpanaro e forse prima di lui quello scassaballe di Leopardi –, votato alla cecità pur di vederci chiaro e ambire alla sinderesi – in breve il discernimento – rifiuta il refuso, ha orrore dell’errore, esalta l’esattezza e persegue la precisione. Sulla pagina e fuori.
Il risultato prodotto da questo purtroppo consapevole rifiuto della correzione è un male che si è radicato prendendo anche altre strade. Prima di analizzarlo è indispensabile precisare che la figura del correttore di bozze è, o era, diversa da quella del redattore, che ormai si è accettato, abdicando, di chiamare editor.
L’uno, come si spera di aver spiegato, si concentrava, a testo già composto, cioè scritto e trascritto con una linotype prima e un computer poi – il quale computa e compone, prima di far navigare e stare in chat – prevalentemente sulla presenza di errori tipografici, quindi, in un certo senso, leggendo solo in superficie, non nel significato delle parole e dei concetti da loro espressi nella loro concatenazione in un determinato modo.
Certo, se il significato di ciò che stava leggendo non gli era chiaro, e ignoto il contesto entro il quale si stava muovendo, difficilmente avrebbe scorto che si sarebbe trattato di un errore la frase «l’America fu scoperta nel 1942» anziché «nel 1492», o «morì per un colpo apocalittico» anziché «apoplettico».
Ma il suo compito propriamente non era quello di verificare la veridicità di quanto affermato, la congruità del sostenuto, gli abbagli concettuali, la ridondanza del periodare, la scorretta coniugazione dei verbi, l’abuso di certe parole, la presenza di ripetizioni.
Questi compiti spettano, o dovrebbero spettare, al redattore, e talvolta prima ancora al direttore di collana o al consulente specificamente ferrato nella materia di cui tratta il libro. Richiedono ovviamente un’enorme preparazione culturale. Bisogna capire, comprendere, farsi venire i dubbi, porsi domande e darsi risposte, diffidare, esser scettici, non dare per scontato, calarsi nella trattazione e restarne distaccati, rifuggire dai sensi di sudditanza o di inferiorità nei confronti del gigante di cui si ha in mano l’opera perché errare humanum est, lo sbaglio appartiene a questo mondo.
Nell’industria editoriale anche questa figura da tempo vien sempre più spesso considerata superflua e diseconomica, perché si ragiona per budget e sull’incremento dei margini di guadagno. Si è finito per chiamare questa attività editing, che dovrebbe essere invece solo la ripulitura formale del manoscritto, l’applicazione rigorosa degli standard stilistici adottati da quella casa editrice: l’uso del maiuscoletto per le sigle, per esempio, o l’eliminazione dei doppi spazi o delle tabulazioni di cui ogni utilizzatore dei programmi di videoscrittura fa un uso straripante e compulsivo. Tutta roba che si pensa possa fare uno stagista o un service dotato di un considerevole numero di computer, che se se ne guasta uno, ce n’è un altro pronto. Il cervello e quel che ci si è messo dentro, invece, possono esser considerati un accessorio, un optional per restare all’inglese che fa più in.
Tanto il redattore quanto il correttore di bozze, dipende dalla fase della lavorazione, entrano in un rapporto con l’autore oltre che fra loro. Un rapporto non facile. Perché è chiaro che «mettono in discussione», fan le pulci, vivisezionano, criticano, scorgono carenze, rinvengono lati deboli, colgono in flagrante. E più il secondo del primo, ché può prenderti con le mani nel sacco.
Qui s’innescano quelle orribili cose che noi umani siamo capaci di partorire anziché dedicarci ai piaceri del corpo e della mente e che vanno sotto il nome di invidia, senso di inferiorità, presunzione, arroganza, timori e paure varie, incapacità di accettare il limite innanzitutto il proprio.
A me è capitato di correggere la trascrizione degli atti di un convegno registrati su un supporto magnetico e l’audio ha fatto le bizze rendendo totalmente incomprensibili due lunghi brani di due relatori. Uno, all’epoca potente ma signore nell’anima fin dalla nascita, scusandosi e ringraziando, ha tentato come ha potuto di ricostruire la frase perduta; l’altro, all’epoca maestruccio di provincia, poi arrogante e inutile politico, maleducato e pieno di prosopopea, mi ha detto che se non sapevo fare il mio mestiere non era colpa sua e non sarebbe certo stato lui a tirarmi fuori dalle difficoltà, mi scordassi il perdono.
Cassai, come suggerisce il correttore, l’intera irriproducibile frase appiccicottando alla meglio i pochi triti pensieri che caratterizzavano tutto l’intervento, e ho dato in pasto al lettore luoghi comuni, banalità e un po’ di pompa così com’erano: tanto il brano era suo, con tanto di firma. E devo aver fatto un atto di giustizia, consegnando ai posteri quel che realmente è stato.
Quando si riesce invece a far piazza pulita delle miserie umane, quella collaborazione fondata sulla critica e la revisione, sul ripensamento e l’approfondimento, sulla voglia di migliorare e far una buona impressione e dare un buon prodotto, s’innesca una vera e propria magia, spesso una reciproca stima e considerazione.
Sono figlio di un uomo che quel mestiere ha fatto credo bene nella sua ormai lunga vita, e ho avuto la fortuna e il privilegio di sposare una donna che anch’essa, ascoltando anche qualche mio suggerimento, ha fatto quella professione, finendo poi per trovarmi in errore e prendermi in castagna. Alcuni ringraziamenti posti dagli autori in esergo ai volumi che hanno curato, oltre alla testimonianza delle loro doti sul lavoro, sono per me motivo di deferenza e rispetto, direi l’ennesimo incentivo a tentar di far meglio.Io stesso ho fatto pratica a quelle botteghe: mi ci son pagato i primi studi universitari e l’approccio al giornalismo, correggendo e correggendo di notte come un forsennato fino a un ricovero in ospedale. Paradossi della vita: per l’Ente che poi, trent’anni e passa dopo, mi ha dato il benservito, un calcio nel sedere e ha scritto «delete» che i correttori di bozze indicano cosi: X.
Però è stata una scuola e, forse, di più, un’incisione a piombo, l’impressione di un carattere.
Leggo di giornalisti condannati per calunnia, di magistrati scrittori che querelano per diffamazione, di scrittori denunciati che scoprono l’esistenza della piazza, sento un gran parlare di libertà d’espressione e diritto alla critica. Penso che con meno carta bollata e più bozze corrette vivremmo meglio.
Ma, essendo anch’io sulla strada del tramonto, da qualche parte devo aver lasciato un refuso.
Pubblicato 12 anni fa # -
Magari si rivelerà una bolla di sapone, però sono sicuramente stato il primo a recensirlo in Italia, e uno dei primi al mondo.
Anonima Scrittori è sul pezzo: The Silent History.Pubblicato 12 anni fa # -
Magari si rivelerà una bolla di sapone, però sono sicuramente stato il primo a recensirlo in Italia, e uno dei primi al mondo.
Anonima Scrittori è sul pezzo: The Silent History.Il concetto è molto, molto ricco di potenziale. Tuttavia, lo trovo troppo avanti per il contesto italiano che ancora soffre del digital divide, che ancora non riconosce l'esistenza dei contenuti digitali al pari di quelli su supporto fisico (se hai pubblicato su ebook è come se non lo avessi fatto...). Mi piacerebbe girare per Corso Zanardelli o per Via San Faustino a Brescia e poter leggere i report sui Silent di quella zona, ma dubito che succederà per molto tempo. Da tener d'occhio, diciamo.
Pubblicato 12 anni fa # -
Guarda, io penso che più che il digital divide in questo momento ci penalizzi il fatto linguistico. Loro accettano solo contributi in inglese perché non sarebbero altrimenti in grado di gestirli ("siamo Americani ignoranti, purtroppo" mi hanno risposto via mail) quindi il test sulla penetrazione di questo tipo di iniziative sul territorio italiano va sicuramente rimandato.
Però visto che l'Anonima nasce sul territorio di confine tra narrativa e nuove tecnologie penso sia giusto approfondire la questione e ci sto dedicando un po' di tempo. Vi tengo aggiornati, comunque.Pubblicato 12 anni fa # -
Questo brano è una delle cose più ben scritte e più terrificanti che abbia mai letto.
Di Roberto Saviano.http://www.repubblica.it/cronaca/2012/10/08/news/camorrista_uccide_per_nulla-44090244/?ref=HREC1-6
Pubblicato 12 anni fa # -
Credo che il fattore linguistico sia in subordine : ok la Apple accetta solo contributi in inglese ma, onestamente, quanto pensi che tirerebbe un'applicazione del genere da noi? Secondo me ancora poco. E' molto bella e io parteciperei, ma dubito sia ancora il momento da noi.
Pubblicato 12 anni fa # -
Spetta però, doktor Faust, perché qui introduciamo un elemento che noi dell'anonima - almeno per le nostre iniziative - abbiamo sempre considerato secondario: la risposta del pubblico. Che per caso quando lanciavamo l'iniziativa Modica Quantità o il Rorschach o Foto Terapia ci siamo mai posti il problema di quanti avrebbero risposto?
Io un tentativo, anche per vedere quanto costa e quanto sforzo richiederebbe, lo farei. Come diceva Zaph, sin dai nostri esordi abbiamo giocato sul filo tra letteratura e nuove tecnologie. Per motivi legati alla nostra contrarietà per l'autopubblicazione o l'editoria a pagamento, abbiamo saltato - pur essendone stati predecessori - l'età degli e-book. Adesso, forse, è arrivato il momento di rimetterci alla testa del movimento letterario, almeno per quel che riguarda le nuove tecnologie. E di andare a sperimentare una iniziativa appena nata in America. Se non lo facciamo, diamo il tempo agli altri di valutare la penetrazione nel mercato e di prendere l'iniziativa. E noi, se arriviamo secondo, non abbiamo la potenza di fuoco per prenderci la testa con la forza. Si, vero, rischiamo di fare un buco nell'acqua, di fare fatica per nulla. Ma è il rischio che abbiamo sempre corso, o no?
Pubblicato 12 anni fa # -
Però questa volta la risposta del pubblico forse non la si può considerare secondaria. Se stiamo parlando di 'social writing' - si può dire così? - questo ha senso solo se arriva a un numero abbastanza elevato di persone, che partecipi e che lo tenga vivo.
Non dico che già adesso non possa essere possibile qualcosa del genere anche in Italia, ma solo se riesci a farlo conoscere e diffondere.Pubblicato 12 anni fa # -
Ah beh, ma se ce stavamo a provà dimmelo subito no?
Certo che possiamo provarci, solo strutturerei la cose meno legata alla presenza sul singolo luogo fisico e mi aggancerei ad altri fattori.
Poi oh, se c'è da fare si fa!
Pubblicato 12 anni fa # -
Beh, non è che abbiamo iniziato. Però si potrebbe sempre iniziare.
Pubblicato 12 anni fa # -
Non sarebbe male. Teniamo conto che a livello di diffusione di smartphone non ci (nel senso: gli italiani) batte nessuno e le app van via come il pane. (apppane)
Pubblicato 12 anni fa # -
Primo: io non ho neanche capito di che cosa stiate parlando.
Secondo: di qualunque cosa voi stiate parlando, credo che sarebbe meglio comunque parlarne con toni un po' più soft. Meno tronfalisticamente autoriferiti, diciamo.Pubblicato 12 anni fa # -
Oh beh ma non stiamo mica a farci i pompini a vicenda. Siamo solo entusiasti per le possibilità.
Pubblicato 12 anni fa # -
E' il numero di applicazioni che lievita come il pane; l'andar via è un altro discorso.
Da uno studio fatto da una società tedesca sembra che il 60% delle applicazioni per Apple non le veda e scarichi nessuno. Magari non è proprio così, ma non credo che ci si discosti di tanto. D'altra parte solo su Apple Store ci sono 600 mila applicazioni e con Android si supera il milione.
Però, trovando l'idea giusta, può venir fuori qualcosa di interessante.Pubblicato 12 anni fa # -
No, no, nessun trionfalismo, lo sappiamo che rimaniamo comunque mezze pippe...
Su queste pagine però abbiamo spesso affrontato i temi della fruizione dell'opera letteraria e, volenti o nolenti, le nuove tecnologie stanno modificando il campo. Magari solo sviluppando meccanismi che già si conoscevano - in questo momento si fa un grande riferimento alla serializzazione portata al successo da Dickens due secoli fa per spiegare l'appeal di alcune operazioni editoriali - e adattandoli alla realtà contemporanea.
Su questo versante c'è questo articolo sui webcomics (fumetti su internet) che può forse interessare il nostro Faust: The new serial revolution di Mark R. Siegel.Un esempio in Italia lo abbiamo con il nostro Zerocalcare che barcamenandosi tra web e autoproduzione credo sia arrivato ad essere uno degli autori attualmente più interessanti e venduti del panorama nazionale. Dico nostro perché il Torque lo ha presentato durante un intenso incontro al festival Liberi sulla Carta di Farfa.
Pubblicato 12 anni fa # -
Sì Sca, hai ragione, e in questo senso (l'acquisto di applicazioni) più che sul digital divide, l'Italia credo sia ancora più indietro. L'italiano non vuole pagare. Mai. La battuta più simpatica che gira sull'argomento recita più o meno: "ma come? Spendi 790 euri per un telefonino e poi te fai regge pe' comprá napplicazione che costa 79 centesimi?"
I dati che ho visto per The Silent History la danno - nei primi giorni di uscita dell'applicazione (sabato scorso erano cinque giorni) - intorno al sessantesimo posto tra le applicazioni gratuite più scaricate sul mercato americano, che credo sia un ottimo risultato.
E, cosa più importante, al decimo tra quelle più redditizie. Ciò significa che chi ha scaricato l'applicazione gratuita ha poi acquistato i contenuti (quindi almeno il primo volume dei sei di cui è composta l'opera) portandola ad avere un fatturato complessivo, in quei giorni, tra i primi dieci negli Usa. Essendo un'applicazione fondamentalmente a basso costo credo stia ripagando almeno gli sforzi dei creatori.
Poi è vero che bisognerà aspettare almeno l'uscita del secondo volume per vedere la capacità di fidelizzare gli utenti in un progetto di così ampio respiro.
Però magari ce ne scrivo un altro di articolo, su questa cosa. Chissà se lo posso vendere a qualcuno? Io sto sul mercato, ormai.Pubblicato 12 anni fa # -
Questo mi sembra il punto. Gratuita. Poi, se ti piace, il resto lo paghi.
Pubblicato 12 anni fa #
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