Che infatti sono italiano
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COSA HO SCRITTO OGGI
(768 articoli)-
Pubblicato 7 anni fa #
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"Domani il sole sorgerà ancora".
Obama si guadagna il Nobel per la pace con anni di ritardo e dimostra per l'ennesima volta di essere stato un grande presidente e un grande comunicatore.P.S.
Per tutti quelli che "Renzi è il nuovo Mussolini" e/o "Trump è il nuovo Hitler": sbirciate fuori dalla finestra, se non ci sono auto coi lampeggianti e agenti per le scale a bussare alla vostra porta allora è meglio che facciate pace col principio di realtà.Pubblicato 7 anni fa # -
Sherlock Holmes e il tempio della Sibilla.
Ringrazio tutto lo staff di Delos Digital per avermi dato l'opportunità di intraprendere questo nuovo viaggio, che parte da Baker Street e arriva fino al cuore del rione popolare e centro storico originario della mia città, Tivoli; un pezzo di storia millenaria nel quale ho avuto la fortuna di crescere e dove ho vissuto per tanti anni. Scrivere questo libro è stato un gran bel viaggiare per me, tra i miei ricordi così come tra i carteggi dell'archivio comunale, o della biblioteca; tra i luoghi pieni di meraviglia che ancora oggi, dopo tantissimi anni, mi toccano il cuore ogni volta che li attraverso e mi fermo a vedere, anche con gli occhi chiusi. Un po' come Watson, che in questa storia vede ciò che è stato, ciò che è, e ciò che non è più ma solo per gli altri che non hanno tempo di fermarsi a guardare, poiché spesso il tempo è solo un tramite, una serie di stazioni che passano lungo un viaggio non ancora concluso, e che mai avrà fine fintanto che altri viaggiatori saranno disposti a sedersi comodi per guardare dal finestrino, e compiacersi del paesaggio. E nel caso di Tivoli e della sua acropoli, dei templi, di Villa Gregoriana, della Valle dell'Inferno, lasciatemelo dire: si tratta di un gran bel paesaggio. Mettetevi comodi, il buon dottore e il suo infallibile amico, e non solo loro, vi aspettano per farvi compagnia. Buon viaggio a Tivoli...
Luigi Brasili, un abbraccio a tutti gli anonimi.
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Un’antica pergamena in caratteri runici nasconde la chiave per scoprire la verità intorno a una leggenda
“Coincidenze o meno, il compito di un uomo è anche quello di saper riconoscere un segnale, e comportarsi di conseguenza. Nel mio caso, altro non posso fare che prenderne atto e dare voce ai fatti che bussano alla mia porta, troppo a lungo chiusa.” È con queste parole che Watson, ormai anziano, si accinge a raccontare questa storia, nella quale un’antica pergamena in caratteri runici nasconde la chiave per scoprire la verità intorno a una leggenda. Sherlock Holmes dovrà dare del suo meglio per comprendere cosa lega uomini famosi come Verne e Goethe a quella leggenda. Per risolvere il mistero, con l’inseparabile dottor Watson, intraprende il viaggio verso una delle tappe fondamentali del Grand Tour, dove, tra le colonne millenarie di un tempio romano, s’incroceranno i destini di alcune persone provenienti da luoghi e tempi remoti; e dove uomini di Chiesa incontreranno il Diavolo in carne e ossa. E dove, ancora, Watson ci accompagnerà tra meraviglie d’oro e pietra…
Pubblicato 7 anni fa # -
Complimenti e in bocca al lupo, Mjolneer. Buon 2017.
Pubblicato 7 anni fa # -
Grazie infinite, per tutto. Ricambio con grande piacere.
Pubblicato 7 anni fa # -
IN MORTE DI FLAVIO PIETRANTONI
All’età di 92 anni si è spento nella mattinata di sabato 25, nella sua abitazione in via Guardabassi 2 a Borgo Flora, Flavio Pietrantoni agente di Pubblica Sicurezza in pensione, già provetto marconista presso le prefetture di Messina e Frosinone. I funerali avranno luogo lunedì 27 marzo 2017, alle ore 15.30, nella chiesa parrocchiale di Borgo Flora.
Nato a Cisterna nel 1925, aveva cominciato a guadagnarsi la vita fin da piccolo, portando ragazzino le damigiane con l’acqua da bere, agli operai che stavano scavando il Canale Mussolini. La sua fu una delle prime famiglie cisternesi a vedersi assegnato un podere della locale università agraria, nella zona appena bonificata di Pantano che assunse poi il nome di Borgo Flora. Piantarono il primo grano, le prime viti. Sopravvissero agli stenti e sopravvissero soprattutto ai lutti e alle tragedie della seconda guerra mondiale che – con lo sbarco di Anzio e le ripetute battaglie per Cisterna – s’abbatté su Borgo Flora distruggendo per intero il loro e tutti gli altri poderi. Ma si rimboccarono le maniche e ripartirono.
Flavio Pietrantoni era bassetto e smilzo, coi baffetti neri, agile e scattante e pieno di progetti fino agli ultimissimi giorni. Era una pila inesauribile di racconti e di energia. Un po’ autoritario, voleva avere sempre ragione lui, ma è uno che s’è dato a tutti e s’è speso senza riserve per la sua famiglia e per chiunque ne avesse bisogno.
Aveva anche attivamente partecipato alla difesa di Roma dall’assalto delle truppe tedesche, l’8 settembre 1943, in quella che sui libri di storia viene chiamata “battaglia di Porta San Paolo” e che vide cadere, in tre giorni di scontri, oltre millequattrocento soldati italiani e volontari civili, donne comprese. Pietrantoni era allora allievo poliziotto e stava tornando a Roma, da un permesso a Cisterna, per rientrare in caserma quando – a Porta San Sebastiano – aveva trovato tutto sbarrato, colpi di fucile e di cannone, bombe a mano, granatieri di Sardegna e civili che ribaltavano autobus e vetture per farne barricate da cui sparare sui tedeschi. Lui aveva diciotto anni. Lì per lì pensò soltanto: “Mo’ come faccio a passare? Se arrivo in ritardo in caserma, quelli poi mi puniscono”. Ma non fece in tempo a finire il pensiero che un capitano dei granatieri, steso a terra a prendere la mira, si voltò verso di lui: “Che stai a fare là? Ma che ce l’hai, per bellezza, la pistola al cinturone? Spara pure tu, no?”. E Flavio Pietrantoni s’è riscosso – diceva lui – l’ha tirata fuori e ha fatto pure lui il suo dovere alla battaglia di Porta San Paolo; anche se lui stava a San Sebastiano.
Qualche anno dopo invece – nel 1947, quando la guerra era finita, in Italia non c’erano più il fascismo e la monarchia, c’era la repubblica oramai, e l’assemblea costituente stava ancora a scrivere la Costituzione e il Capo provvisorio dello Stato era Enrico De Nicola – lui un’altra volta, di sera, da Cisterna doveva rientrare a Roma. Ma le infrastrutture erano ancora disastrate dalla guerra, passavano pochi autobus e quasi niente treni, e allora lui per tornare a Roma s’era messo al bivio per Campoleone sull’Appia – dall’altra parte di Cisterna, verso il mulino Luiselli – tante volte si fermasse qualcuno a dargli un passaggio. Ma aspetta aspetta aspetta, pochi passavano e nessuno nessuno lo curava. Poi verso notte finalmente s’è fermata una macchina grossa – un 1500 Fiat di una volta, credo – che veniva da Terracina. C’era un vecchio distinto dietro e l’autista davanti, e un vetro in mezzo che li separavano. L’autista lo ha fatto sedere vicino a lui. Flavio Pietrantoni ogni tanto provava a dargli chiacchiera, ma quello: “Ssst, ssst!”, nemmeno rispondeva. E tutti quanti zitti sono arrivati a Roma a San Giovanni. “Va bene qua?”, gli ha chiesto l’autista.
“Sì, grazie” ha risposto Pietrantoni. Però non ce l’ha fatta a scendere senza avergli prima domandato: “Ma chi è quello là?”, indicando col dito il passeggero dietro.
“Zitto!” ha intimato l’autista: “È il Presidente della repubblica”.
Era Enrico De Nicola, e queste e tante altre storie come queste stanno nello stupendo libro autobiografico “La lunga vita piena di guai di un uomo qualunque”, che Flavio Pietrantoni, all’età di ottantotto anni, s’era scritto e pubblicato nel 2013. Storie, appunto, di un tempo in cui il Capo dello Stato, in Italia, girava senza scorta, solo soletto con il suo autista, e si fermava lungo la strada, a Cisterna, a dare i passaggi a chi chiedesse l’autostop.
Riposa in pace Pietranto’, amico mio. Ti sia lieve la terra. Un passaggio, stavolta, te lo dà San Pietro.a.p.
sabato 25 marzo 2017Pubblicato 7 anni fa # -
Antonio Pennacchi con Massimiliano Lanzidei
85° anniversario della fondazione di Littoria poi Latina - 30/6/1932
DALLE PALUDI ALLO SPAZIO
Ottantacinque anni fa – il 30 giugno 1932 – veniva fondata Littoria. O meglio, più che fondata veniva rifondata, essendo stata costruita – previa intera rimozione o demolizione – sul Villaggio del Quadrato, un centro abitato e fiorente, impiantato già nel 1926 dal Consorzio di Piscinara in mezzo alle Paludi da bonificare. E stava proprio lì dove sta adesso Latina: con il suo centro nel centro stesso di piazza del Popolo.
Dice: “Vabbe’, ma questa è roba di storici, filologi, archeologi. Che ce ne frega a noi?”.
No. Tu mo’ devi andare a vedere – se davvero vuoi ricambiare nome alla città e lo fai, come sostieni, non per provocazione politica o pubblicità, ma per esclusivo rispetto della storia – se la devi chiamare Littoria o Quadrato. La storia è storia, non è che puoi fare come ti pare: prima si chiamava Quadrato, poi Littoria e infine Latina. Non ti sta più bene? E allora – ai sensi storico-filologici – la devi richiamare Quadrato. O Latina o Quadrato, non c’è un cazzo da fa’. L’unico modo in cui non la puoi chiamare – se la storia è storia – è proprio Littoria, perché è vero che lei è venuta prima di Latina, ma ancora prima di lei c’era il Quadrato. Mica era più stupido, il Quadrato.
“Chi la fa l’aspetti” è uno dei primi insegnamenti della storia. O quando era il fascismo a cambiare i nomi andava bene, quando poi li ha cambiati la Repubblica non va bene più? Bisogna che ti dai una regolata. Ma passiamo a cose serie, se possibile.
Resta infatti che ottantacinque anni fa, il 30 giugno 1932, il conte Valentino Orsolini Cencelli, posando la prima pietra della torre del comune, dà inizio in pompa magna – contro i voleri e i desiderata del Duce – a quella avventura urbana chiamata prima Littoria e poi Latina, che fra solo quindici anni compirà un secolo di vita. Passano in un soffio. Non ci vuole niente. Basta un battito d’ali e saremo già lì: al Centenario di Latina.
Ma occorre arrivarci preparati. Se non ci si pensa bene in tempo, poi di fretta si fanno le cazzate. Il sindaco Coletta chiami l’intera città, tutte le forze politiche, imprenditoriali e sociali, gli intellettuali eccetera, e si diano strutture e vita ad un comitato unitario ad hoc, che operi in questi quindici anni.
Certo, nessuno è in grado di dire chi sarà al governo della città nel 2032, e nemmeno – io per primo – se ci sarà, purtroppo. Ma tutti oggi abbiamo il dovere di lavorare per quell’obiettivo: costruire una città – sia in senso di urbs che di civitas – all’altezza del suo Centenario, e presentarla come tale alla comunità nazionale e a quella europea, planetaria e globale. C’è una parola d’ordine – “Dalle Paludi allo Spazio” – che può essere interamente alla nostra portata, se solo lo vogliamo. Basta guardare a quel che siamo – crogiuolo di razze ed etnie, stirpi variegate, frutto unitario dei lombi di migranti, coloni e bonificatori – e da qui ripartire. Senza timore del futuro, osandolo anzi presagire, contando sulle nostre forze e lottando con tenacia. Ma bisogna cominciare a lavorarci adesso. Ogni minuto che passa, è un minuto perso: il Secolo sta qua. Dietro l’angolo.
Intanto però – in questo 30 giugno 2017, 85° di Latina – è doveroso rendere omaggio e ricordo a tutti quelli che hanno reso possibile questa storia: gli operai, i tecnici, i progettisti, i dirigenti anche politici ed economici e tutte le loro famiglie. Ma soprattutto al vero fondatore – o rifondatore – della città: Valentino Orsolini Cencelli.
È lui il Pater Patriae. Senza di lui Latina – e prima ancora Littoria – non sarebbe quello che è. È lui che la volle e la impose. Il Duce non la voleva (esistono agli atti gli autografi che dicono: “Non me ne parlate proprio. Io sono contro le città. Silenzio stampa assoluto”). È lui che gliela fa – Orsolini Cencelli – e il Duce prima si incazza, poi col tempo gli piace e alla fine s’innamora. E si presenta qua il 18 dicembre 1932 – sei mesi dopo – a inaugurarla e battezzarla: “È tutto merito mio. Agò fato tuto mi”. Ma chi l’aveva ingravidata la palude – chi aveva messo il seme; contro, ripeto, il volere di Mussolini – era stato Orsolini Cencelli. Che poi fondò pure Sabaudia e Pontinia. Un poleurgo. Un creatore di città. Che però la sua prima città – la prediletta – ottantacinque anni dopo non se lo fila per niente. Lui nella tomba starà dicendo: “Ingrata patria ti venga un accidente”.
Non c’è una via degna di questo nome – a Latina – intitolata a Cencelli (non ditemi: “No, ci sono i giardini di viale Italia”, perché allora mi fate arrabbiare. I giardini? Non la via: i giardini? E chi se lo rifila ai giardini Cencelli? Neanche i cani che ci vanno a urinare). Non c’è un monumento, una targa, che lo ricordi.
Sono anni – ancora dai tempi dei sindaci fasci Di Giorgi e Zaccheo – che scrivo e che chiedo l’erezione in piazza del Popolo di un grande monumento equestre di bronzo, come hanno tutte le città che si rispettano e rispettino il loro Pater Patriae e fondatore. Un Cencelli a cavallo – che ci vuole? – tale e quale a come lui girava per le Paludi Pontine. Ma niente. Vuoi vedere che adesso che non ci stanno più i fasci, in Comune, è l’ora buona perché il monumento si faccia?
Magari con una sottoscrizione pubblica e con i tempi che pure occorrono, ma da qui al Centenario lo vogliamo fare questo cazzo di monumento o no? E se di bronzo costa troppo, facciamolo di plastica ve possinammazzà, tanto è pop-art e su qualche rivista ci va. No, solo gli apparecchi al Colosseo, e quel cazzabubu – un fascio sgarrupato a strale – sotto l’Intendenza di finanza. E che è piazza del Popolo: uno sfasciacarrozze?
Ma se per il monumento può volerci pure qualche anno, per intitolargli una via significativa no, non ci vuole niente, basta un minimo di impegno. Anche qui sono anni – dai tempi ripeto di Zaccheo e Di Giorgi – che scrivo e che chiedo di intitolargli almeno la cosiddetta via del Lido, quella che va al mare. È bella, è larga, è alberata. È la via più piena di vita, il polmone vero su cui fanno avanti e indietro, dalla città al mare ogni giorno, tutte le generazioni di giovani dal 1960 ad oggi. È la strada del presente e del futuro. E tu continui a chiamarla anodinamente “via del Lido” (dice: “Che vuol dire anodinamente?”. Vuol dire un nome che non sa di un cazzo. Ancora ancora fosse “via del Mare” magari, ma quella c’è già e va a Fogliano e Rio Martino). Chiamala “Viale Orsolini Cencelli”, allora: doppio cognome, degna titolazione, un tale Padre per una tale Via. Che mi rappresenta sennò “via del Lido”? Spaghetti senza sale, birra calda svampita, il nulla assoluto. Vuoi mettere “Viale Orsolini Cencelli”, invece? Basta la parola. È la strada stessa che si mette a ballare per la contentezza.
Pare però che al sindaco Coletta – esattamente come prima a Di Giorgi e Zaccheo – la burocrazia comunale abbia assicurato: “Non si può fare. Troppi indirizzi da cambiare, troppe difficoltà da superare”. E lui: “Ah, sì? Mi dispiace, scusate il disturbo, arrivederci e grazie”.
Eh no, Sindaco: questi ci prendono in giro. E dietro c’è la pigrizia intellettuale di un apparato che non vuole semplicemente impicci: “Uff, che palle! Ma tu mi vuoi fa’ lavora’?”. Incapaci di creare e di farsi venire un’idea nuova, vogliono solo navigare sul già navigato, percorrere i sentieri già battuti – la forma delle procedure; la forma però, non la sostanza – fare quello che hanno sempre fatto o visto fare. Manco ai cani, una cosa nuova. E se gliela chiedi: “Ah, non si può fare”.
Ma tu mo’ mi devi dire – nell’età dell’informatica – se può essere un problema cambiare degli indirizzi. E quanto ci vuole a mandare delle mail, o delle pecette adesive da attaccare sui documenti? Cambiano nomi e indirizzi in tutto il mondo, solo via del Lido non si può cambiare? Ma anche se fosse – e ci volesse davvero un po’ di tempo e di lavoro – noi allora ci dobbiamo tenere per i secoli dei secoli, da qui a tutta l’eternità e le nostre intere generazioni, pure tra duemila anni quando sia noi che i pronipoti dei nostri pronipoti saranno polvere, noi ci dobbiamo tenere un nome che non valorizza ma anzi svilisce l’arteria più importante, l’asse che da Latina ci porta al Mare? Ma che gli dice la capoccia?
Sindaco, se ci sei batti un colpo. Chiama i tuoi impiegati e digli: “Pussa via, brutte bertucce, non state a rompere i coglioni. Inventatevi quello che vi pare, ma intitolate via del Lido a Orsolini Cencelli. Punto e basta”.Pubblicato 7 anni fa # -
Mercoledì 12 luglio 2017
ALTRO CHE ZTL, LA F1 CI VUOLEL’isola pedonale al centro di Latina è una puttanata assoluta. Pure Di Giorgi e Calandrini – quando l’istituirono – si beavano: “Eh, ce l’hanno tutte le città d’Italia, finalmente ce l’abbiamo pure noi. E che siamo, sennò, più stupidi degli altri?”. Sì, parecchio più stupidi. Tutti gli altri infatti, in Italia, fanno le isole pedonali perché le città loro – basta guardare un libro di storia – sono state fondate e costruite nel medioevo, se non prima, con la strada principale a misura di carretto e tutte le altre a misura di somaro. Tipo Sermoneta, fatti conto, e quindi l’isola gli tocca per forza.
Ma la tua no, te possinammazzà. La tua città è stata concepita nel novecento a misura d’automobile da Frezzotti, anzi d’autostrada. Ci passavano i camion con rimorchio a doppio senso di circolazione, quand’ero piccolo io. Gli Esadelta e gli Esagamma in piazza del Popolo, al giro di Peppe. A che ti serve – a te – quest’isola del cazzo? Solo a svuotare il centro di Latina dalla sua primaria funzione di cuore pulsante, polo attrattivo e snodo di tutti i traffici e relazioni umane, sociali, civili ed economiche dell’intero Agro. E tu adesso ne hai fatto – specie il pomeriggio o sera – una città morta. “Ai confini della realtà”. Non c’è un alito di vento, un’anima in giro. Manco dopo un’esplosione nucleare o il gas nervino, con tutti i latinensi morti dentro casa. E se per caso camminando solo soletto senti uno spiffero alle spalle, fatti subito il segno della croce: è l’Angelo sterminatore che ti è appena passato accanto. Con la falce t’ha sfiorato il collo.
Dice: “No, ma che stai a dire? La domenica pomeriggio è sempre pieno di gente”. Sì, ma solo la domenica però, o quando chiami gli alpini, i bersaglieri o i porchettari d’Ariccia. Ma di domeniche ce ne stanno appena 52 nel calendario, mentre il resto – 313 – sono giornate lunghe normali: mattina, pomeriggio, sera e notte inoltrata di deserto assoluto. Deserto dei Tartari. Di Gog e di Magog. Ma che v’ha detto la capoccia a tutti quanti?
Se proprio vuoi, fai allora una chiusura eccezionale del centro la domenica pomeriggio o quando vengono i porchettari – ma “eccezionale” però – e i giorni normali lasciaci campare in pace. E lascia soprattutto campare in pace sta città: questa è Latina già Littoria fondata nel novecento, non è Sezze o Sermoneta. Lì – lo ripeto – ci giravano i somari, qui la strada più stretta è di 12 metri, e in centro 14 o 22. Altro che le mandrie di bufali e somari, qui ci puoi fare proprio un circuito urbano di Formula 1, meglio parecchio di Montecarlo, con tutti i sorpassi che vuoi. A 350 all’ora su corso della Repubblica. Vettel in chicane a piazza San Marco o davanti al bar Mimì. La curva della morte al bar Friuli. (Sia chiaro, però: l’idea originale non è mia, l’ho raccolta tempo fa da Pietro Cefaly; anche se lui – per la verità – quando s’appropria delle mie non cita mai. Ma io sono un signore – che ci posso fare? – e lo cito uguale.)
Latina in ogni caso è in piena stagnazione. Certo la colpa non è di chi governa adesso: le radici affondano nel passato, oltre che nella crisi globale e del Paese. Ma la stagnazione c’è ed è indubitabile – economica, sociale e culturale – con ripiegamenti di massa su sé stessi e incapacità della comunità di costruire nuovi orizzonti e speranze per tutti. Ma chi governa adesso – anche se puro e privo di responsabilità riferite al passato – non può limitarsi al ruolo di semplice notaio della crisi, o alla legalità di un amministratore di condominio. È troppo poco, non basta. Certo occorre anche quello – la legalità come precondizione – ma lui deve soprattutto sognare, progettare e costruire gli scenari e le strutture che proiettino la città oltre i vecchi orizzonti. Verso il futuro. Ma questi nuovi, nuovissimi e diversi orizzonti non possono purtroppo a tutt’oggi – a mio modesto avviso – essere individuati nella desertificazione del centro o nell’affidamento ai privati del teatro comunale (chi era già contrario ai tempi di Di Giorgi, non è che possa diventare favorevole adesso per Coletta). Meglio la Formula 1, allora. Sai i soldi che ci porta? Ci finanziamo davvero tutti i teatri stabili che vuoi. Ci paghiamo pure la clonazione di Strehler. O Bertolt Brecht.a.p. - 12 luglio 2017
Pubblicato 7 anni fa # -
POI DICE I GIORNALI
Su Il Tempo di domenica 16 luglio 2017 è uscita un’intervista in cui – come spesso purtroppo capita – l’intervistato dice una cosa e il giornale invece ne scrive poi un’altra. Anzi, l’esatto opposto. Il Tempo infatti titola: “«Se levano Mussolini poi tocca al Re» L’intervista. Lo scrittore Pennacchi difende il parco intitolato ad Arnaldo. «Lo cancellano? Allora pure la via dedicata a Umberto I, lui sì sanguinario»".
In realtà l’intervista raccolta da Pietro De Leo affermava ben altre cose. Eccola qua.“Adesso gliela racconto io la storia del Parco Comunale”. Antonio Pennacchi, scrittore di successo, autore tra gli altri de “Il fasciocomunista” e “Canale Mussolini” è anche la memoria storica di Latina. E con lui ripercorriamo la vicenda del parco su cui si sono scatenate le polemiche per la decisione dell’Amministrazione guidata dal Sindaco Damiano Coletta di intitolarlo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Parco Comunale? Vorrà dire il Parco Arnaldo Mussolini!
“No!”
Come no?
“Allora, adesso le spiego. La città è stata fondata nel ’32. Questo parco viene creato nel ’34 e si chiamava ‘Parco Comunale’ sic et simpliciter. Nel ’38 arriva la denominazione ‘Parco Comunale Arnaldo Mussolini’. Nel ’43, poi, dopo il 25 luglio, il riferimento ad Arnaldo Mussolini viene tolto, e torna ‘Parco Comunale’ fin quando, negli anni ’90, arriva Ajmone Finestra, che però non emette alcuna determina, non c’è un atto ufficiale del Comune, ma viene soltanto apposta una targa al parco. Con l’intitolazione ad Arnaldo Mussolini. Ora questo nuovo sindaco metterà la denominazione di Falcone e Borsellino”
Però, anche se non ci fu atto formale, comunque la targa è significativa per la toponomastica della città.
“Non è così. Sa come chiamiamo tutti noi, cittadini di latina, questo parco? ‘I Giardinetti’. Se lei legge il mio libro, Il Fasciocomunista, li avrò citati una cinquantina di volte. Si dice ‘ci vediamo ai Giardinetti. Non al Parco Mussolini’. Quindi, su questa cosa, una questione vera non esiste.”
Secondo lei la polemica è strumentale?
“Strumentale non lo so, ma di sicuro è inutile, non serve a niente. Il nome che davvero fa parte di una città è quello utilizzato dalla gente. Se lei prende uno dei nostri cittadini e gli chiede dove sta il ‘collettore delle acque alte’, raramente riceverà una risposta. Se invece, al contrario, chiede dove sta ‘il canale Mussolini’, che è la stessa cosa, allora tutti glielo saprebbero indicare. Questo è il senso. E sa qual è il problema vero?”
Quale?
“Che l’attuale maggioranza ha vinto le elezioni con un margine enorme di consensi e alla destra non va giù, perciò si attaccano al fumo della pipa, ma stavolta hanno scelto il fumo sbagliato”.
Però se noi prendessimo questa polemica sul cambio del nome, per quanto ‘Arnaldo Mussolini’ non fosse formalizzato da un atto comunale, e lo inserissimo in questa offensiva culturale contro i simboli fascisti?
“Eh no, è un mescolamento che non va fatto. Non c’entrano niente le due cose, io mi ritengo una persona intellettualmente onesta e mi chiamo fuori. Il guaio è che in Italia siamo abituati a mettere tutto insieme, fare un gran casino e non ci si capisce più niente.”
Ma lei cosa pensa della proposta di legge Fiano?
“Allora. Premetto che ancora non l’ho letta in tutti i suoi particolari, ma in linea di principio posso dire alcune cose. Lo Stato ha il dovere di impedire le azioni contrarie alla legge e improntate alla violenza. Ma le opinioni no, in una democrazia vanno lasciate libere, ma che scherziamo? E dunque torno a dire che con il Parco Comunale di Latina non c’entra niente. Anzi, sa che le dico? Che gli esponenti della destra locale sono stati anche un po’ sprovveduti.”
In che senso?
“Fanno le battaglie su una toponomastica che non c’è, ma hanno avuto la città in mano per vent’anni e non hanno fatto le cose che avrebbero dovuto fare.”
Tipo?
Innanzitutto avrebbero potuto dedicare una via a Roberto Mieville, che fu tra i primi primi deputati del Msi, di cui era stato uno dei padri. Tra l’altro fu il primo segretario del movimento giovanile. Morì a Latina nel ’55, in un incidente stradale arrivando da Roma, mentre andava ad una riunione con i giovani. È morto facendo politica e facendola a Latina. A loro, però, non è mai venuto in mente di dedicargli una via. Poi un’altra cosa, che avevo suggerito più volte ai sindaci Zaccheo e Di Giorgi. Possibile che nessun cartello indichi il Canale Mussolini? Non è mai stato messo, neanche dopo il successo del libro omonimo. Uno che, poniamo caso, viene da Roma e lo vuol vedere non riesce a sapere qual è. Ma questi della destra locale, ora si attaccano allo pseudo-Mussolini. Che non è Mussolini B, ma Mussolini A. Peraltro un personaggio controverso coinvolto, dicono gli storici, anche in vicende di corruzione. Anzi, adesso un’idea sulla toponomastica gliela dico io.”
E qual è?
“Dobbiamo cambiare via Umberto I, perché quello fece reprimere a Bava Beccaris i moti di Milano nel sangue e a me non piace”.
Per intitolarla a chi?
“Magari a Roberto Mieville. Oppure facciano loro.”Pubblicato 7 anni fa # -
Riflessioni di prima mattina sulla cerimonia di ieri (e poi basta).
C'erano le bandiere rosse dell'Anpi
e c'erano le camicie nere di Casa Pound.
Rigurgiti di nostalgia
aggrappati a un conflitto
fin troppo rimpianto.
Poi c'erano quattro scalmanati
(pure loro vestiti di nero)
a urlare la loro rabbia al vento.
E fiumi di retorica
sulla piazza,
dal palco e tutta intorno.
Ho pianto su quei nomi,
quelli della scorta
e di Falconeeborsellino.
E ho cantato l'inno.
E pure quello ci voleva.Buongiorno.
Pubblicato 7 anni fa # -
Pure poeta...
Pubblicato 7 anni fa # -
Ma mo' che famo,
se lo famo da soli sto forum?Pubblicato 7 anni fa # -
Tu pensa che fine.
Pubblicato 7 anni fa # -
Eh, sì, però è un modo per lasciare traccia di qualcosa che - se lo butto solo su facebook - dopo due giorni viene travolto da un flusso inarrestabile di informazioni.
Sui social network si spreca tempo a scrivere sulla sabbia.La lavagna di sto bar invece conserva sempre un certo fascino, pure se il locale è chiuso e pieno di polvere.
E poi da poeta ho esordito nell'esperienza Anonima, a gennaio 2004.
Con questo Trittico per il Progetto Rorschack.
Ne è passato di tempo.Pubblicato 7 anni fa # -
Altra bagattella estiva, con la partecipazione di Mirka Ruggeri ai disegni:
Pubblicato 7 anni fa # -
La malaria e il Ddt
Mi spiace per la ministra Lorenzin, ma che nella struttura sanitaria a Trento ci fossero due bambini infetti, non vuol dire niente. Bisognava ci fosse anche una zanzara anofele, che trasmettesse il morbo. E quella a Trento è improbabile ci sia: troppo alta e troppo fredda. Ma se la famiglia della povera bambina era passata per Bibbione, allora è a Bibbione che bisogna andare a cercare, perché lì – nelle fasce costiere veneto-friulane, almeno secondo le mappe storiche epidemiologiche – fino a pochi anni fa era pieno di zanzare e di malaria, da cui il trinomio mortifero “acquitrino-anofele-uomo malarico” che per secoli e secoli ha imperversato in quasi tutta Italia. La gente moriva a bizzeffe. E chi non moriva nel giro di quarantott’ore per le forme peggiori – la terzana, la perniciosa – e pigliava solo quelle più leggere, moriva poco a poco, con le febbri e le epatiti che lo assalivano man mano, e man mano gli gonfiavano il fegato. Qui da noi, in Agro Pontino, li chiamavano “panzarotti”. E man mano morivano nei fossi. A migliaia e migliaia. Per secoli. Ed era la zanzara anofele che inoculava il morbo
Dice: “Vabbe’, ma una volta però. Mica adesso. Adesso, secondo alcuni esperti, non c’è proprio più la zanzara anofele in Italia e anche Salvini ha detto che certe malattie, debellate più di cinquant’anni fa, adesso ce le stanno riportando gli immigrati”. Eh, beato te e gli esperti. Ma ne hanno sparate poche di cazzate gli esperti, nel corso della storia umana? Di Salvini invece non parliamo. C’era una volta il Duce però, che sosteneva di avere debellato la malaria con le bonifiche in ogni dove. E in effetti in Agro Pontino, dal 1927 al 1935, fu un’ira di Dio. Prosciugarono interamente le vecchie paludi, scavarono tutti i fossi e canali che volevi, e per un certo periodo, per l’appunto, sembrò davvero che non ci fosse più malaria. Ma subito dopo la seconda guerra mondiale – con la rottura degli argini e pompe idrovore, e gli allagamenti per contrastare lo sbarco alleato – dal 1944 al 1954 ci fu una recrudescenza malarica che infettò migliaia e migliaia di persone. Mia zia Alfea morì nel 1953 ed io ricordo ancora mio padre, nel 1954, che ballava sul letto tutto sudato, sotto l’ultimo attacco di febbre malarica a 40 o 41 gradi. Montagne di chinino gli diede il dottor Fabiano. La malaria venne battuta – e le zanzare sterminate davvero – solo quando gli americani portarono il Ddt, e con i Dakota ci irrorarono tutto l’Agro Pontino. Prima le bombe e poi il Ddt. Ma fu il Ddt che ci consentì di vivere e prosperare. Solo l’altro giorno però – ossia estate 2009 – nella piana di Fondi, in provincia di Latina, un villeggiante romano s’è beccato la malaria di tipo proprio autoctono “pontino”, da qualche anofele tuttora superstite. Che ne sai? Evidentemente pure il Ddt non le ha sterminate proprio tutte. Certo una bella botta gliel’ha data, ma qualche larva dev’essere rimasta, magari in sonno, nascosta ed acquattata in qualche polla d’acqua. E a lungo andare – un po’ alla volta – riciccia e torna fuori. Del resto tutti i più grandi storici della malaria – il Celli, il Missiroli, l’Arturo Bianchini di Terracina – sostenevano che l’epidemia avesse un andamento ciclico. Arrivata in Italia probabilmente appresso all’invasione di Annibale nel II secolo avanti Cristo, a fasi estremamente funeste avrebbe sempre alternato periodi anche lunghi di non incidenza, per poi magari riesplodere più forte. Che ne sai? Magari davvero le impennate di caldo di questi anni ne hanno risvegliata qualcuna. Ci vorrebbe un’altra spruzzata di Ddt. Dice: “Tu sei matto. È proibito”.
Ah, sì? Pare che in Africa ogni anno continuino a morire tra le tre o le quattrocentomila persone – soprattutto bambini – di malaria, ma il Ddt è stato messo al bando dall’Organizzazione mondiale della sanità perché non è biodegradabile. È totalmente innocuo per l’uomo, ma ne hanno trovato tracce – grazie al complesso ciclo biologico – fin nel tessuto adiposo delle foche al Polo Nord.
Io capisco le ragioni delle foche e capisco pure, volendo, quelle delle zanzare. Ma se debbo scegliere tra la vita di mio figlio e quella delle zanzare, io per me non avrei dubbi. Viva il Ddt e chi lo ha inventato. Coltivatevele a casa vostra, le zanzare.a.p. - 5 settembre 2017
Pubblicato 7 anni fa # -
Mo che c'entra Annibale? Sempre a da' la colpa ai nordafricani.
Anche se ogni volta che ne spiaccico una, oppure sento lo schioccare della scintilla che la frigge, mi si stringe un po' il cuore, anche al pensiero del miracolo di miniaturizzazione che ho appena distrutto, penso che bisognerebbe debellarle tutte, non solo le anofele.
Anche perché stanotte non mi hanno fatto proprio dormire.
Pubblicato 7 anni fa # -
Midnight Special
Il vizio di legare i miei racconti alla musica non lo perderò mai!Pubblicato 6 anni fa #
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