Gli occhi di Dora si aprirono di colpo, e si sveglió immersa nel freddo abbraccio della neve.
Cercava in vano nei ricordi un solo motivo al mondo che l’avesse portata in quella piccola valle, nel pieno di un mondo sconosciuto, ad addormentarsi nel manto bianco di quel prato innevato. Era sdraiata faccia a terra e non si sentiva piú il lato sinistro del volto per colpa di quel bacio freddo e crudele che l’inverno aveva appoggiato a forza sulla sua guancia arrossata. Eppure, nonostante il freddo e i dolori, Dora si alzó in piedi verificando, con sua stessa meraviglia, di essere tutto somato in buona salute. Si accorse di essere vestita di abiti pesanti, di pellicce e di scarponi, di guanti avvolgenti, di un grosso giaccone bianco e un pesante cappello. Dopo essersi tastata il petto, le braccia e le gambe alla ricerca di qualcosa di rotto ebbe finalmente il coraggio di guardarsi intorno per capire dove in realtá si trovasse. Per quei brevi attimi infatti, aveva cercato di ignorare quell’urlo tremendo che l’inconscio le infliggeva e che gli domandava tremante di freddo e di paura “cosa mi é successo?”.
Decise di ignorare momentaneamente quella domanda perché non aveva una risposta valida. Si accorse, man mano che si guardava attorno e vedeva il placido scenario che la circondava, di non saper rispondere a nessuna delle domande a cui il suo inconscio la sottoponeva.
“Come sei arrivata qui?”
“Non lo so”
“Dove sei?”
“non lo so”
“chi sei?”
“non lo so. Ma so come mi chiamo...il mio nome é Dora”.
Gli occhi azzurro elettrici di Dora scrutarono il paesaggio ancora per qualche istante mentre dentro se stessa, la protagonista di questa storia, reprimeva l’urlo di paura e disperazione che gli incrinava l’anima e gli tagliava il respiro. Che gli stringeva lo stomaco e gli imepdiva di vedere e capire ció che la circondava. Anche per questo, per capire cosa in realtá fosse successo, Dora cominció a contare, lí in mezzo a quel paesaggio che sembrava segnato da un eterno inverno e in mezzo a quella solitudine e quella disperazione:
“uno”
“due”
“tre”
e mentre contava il panico gli si arrampicava sulla schinea, si impossessava delle sue ossa facendole tremolare come gocce appese ad una grondaia in porcinto di cadere. Continuava trascinando il suo manto nero nelle viscere e offuscando il cuore e i polmoni fino a cancellare il respiro.
Ma non arrivava al cervello, dove trovava il suo argine finale, ultimo baluardo della ragione.
“uno, due, tre”.
Aprí gli occhi e la paura non c’era piú, fuggita come un animale notturno sorpreso nella luce. Aprí gli occhi e si trovó finelmente libera da paure rampicanti.
“Io mi chiamo Dora” disse con un filo di voce sfidando il vento d’altura che sembrava volerla zittire. Sapeva solo questo di se stessa, ma se voleva avere salva la vita, doveva farselo bastare.
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COSA HO SCRITTO OGGI
(768 articoli)-
Pubblicato 13 anni fa #
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invano attaccato.
Sommato con due m.Pubblicato 13 anni fa # -
Io ho scritto questa recensione, per una rivista di filosofia.
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Religioni e salvezza, La liberazione dal male tra tradizioni religiose e pensiero filosofico., Atti del VIII Convegno annuale dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione, Genova 17-18 novembre 2009, Federiciana Editrice Universitaria, Napoli 2010.
Il presente volume raccoglie i contributi presentati durante il convegno genovese del 17-18 novembre 2009 promosso dall’AIFR in collaborazione con il Centro Studi “Antonio Balletto” ed avente per tema “Il male nelle tradizioni e nel pensiero filosofico”. L’intento del convegno era quello di affrontare in chiave interculturale e pluralistica il tema del male nelle principali religioni storiche e nelle tradizioni filosofiche, mirando all’esplicitazione della sua radice ultima e indicandone le varie prospettive di liberazione. A questo fine si sono confrontati, attraverso una metodologia interdisciplinare, gli esiti della ricerca storico -religiosa e filosofico -religiosa, tentando un’illustrazione concreta e una verifica comparativa delle diverse figure e semantiche del negativo e della sua problematica risoluzione. Il tema della liberazione dai mali e del superamento del male radicale viene così modulato attraverso una pluralità concettuale e cadenzato in una ineludibile pluralità semantica: enigma, ostacolo, scandalo, lacerazione, sete (tanha), male vissuto e male agito sono diverse figure del negativo che interrompono il positivo dell’esperienza mondana e innescano l’invocazione religiosa e la domanda filosofica circa l’origine, il senso e il possibile superamento del male, superamento semantizzato in una molteplicità di termini: risanamento, salvezza, riscatto, redenzione, riparazione, estinzione (Nirvana) etc. La prospettiva di fondo degli interventi ci pare segua la via proposta da John Hick, secondo il quale occorre individuare un concetto filosofico di religione interculturalmente valido e capace di cogliere non un contenuto speculativo astratto, ma un nucleo di esperienza concreta a partire dalla quale si possano vedere convergere le diverse religioni. In questo modo sarà possibile affermare «una struttura soteriologica comune» attraverso la quale le religioni «offrono una transizione da uno stato radicalmente insoddisfacente ad uno infinitamente migliore» (Philosophy of Religion, 1963, 19904), pervenendo a un concetto generale di salvezza/liberazione, cioè di «trasformazione dell’esistenza umana dal centrarsi –su –di -sé al centrarsi –sulla -Realtà» (idem), che pur assume diverse forme specifiche in ciascuna delle grandi tradizioni. In questa prospettiva si muovono i contributi di Sergio Sorrentino e Gerardo Cunico. Il primo suggerisce una struttura trascendentale dell’esperienza religiosa, proponendo tra l’altro il recupero metodologico delle categorizzazioni classiche in sede di teodicea (male fisico, metafisico, morale) e istituendo la seguente concatenazione: rapporto con il divino – offerta di senso – salvezza – liberazione dal male. Domandandosi poi da cosa salvi la religione, egli avvia una riflessione che individua nella avvertita diastasi tra senso ed esistenza il punto di partenza per istruire una ricognizione delle religioni «attraverso un periplo riflessivo dell’approccio ermeneutico alla loro prassi performativa», così da tipizzare un vissuto salvifico in cui è esperita la liberazione dal male come integrazione tra offerta di senso di provenienza allotria e sua sovradeterminazione rispetto al mondo della vita. Sulla via aperta dall’insegnamento di Alberto Caracciolo - che ha sistematicamente sottolineato il nesso tra liberazione in sede etica, redenzione religiosa e interrogazione propria del pensiero filosofico – si muove il contributo di Gerardo Cunico volto a rilevare la pertinenza del tema del male alla filosofia. Ancorando ad una escursione fenomenologica della dialettica male-redenzione nelle grandi tradizioni postassiali, una ricognizione diacronica dal pitagorismo al pensiero filosofico contemporaneo, egli identifica nella redenzione come processo centrato nella dimensione morale o conoscitiva il perno a cui perverrebbe la tradizione filosofica. Come possibile punto di convergenza tra le proposte più avvertite della filosofia della religione contemporanea, si profilerebbe quindi una soluzione in cui l’impegno morale della lotta contro il male e del perseguimento del bene come dover- essere, portati al loro estremo, rivendichino e postulino come correlato l’esigenza speculativa e la speranza pratica di redenzione attesa dalla sfera della Trascendenza. Massimo Iritano delinea il profilo del pensiero agonale di Sergio Quinzio, nel quale la speranza di liberazione si incrocia con l’individuazione di una frattura intradivina bisognosa di autoriparazione e insieme col disperante avvertimento umano del possibile fallimento della salvezza cosmico- messianica. Concludono l’apporto filosofico i contributi di Marco Damonte (che illustra incisivamente le diverse posizioni del dibattito teodicale in ambito analitico per mostrarne «gli esiti fruibili nel pensiero contemporaneo») , di Maria Rita Scarcella, che rileva le suggestioni neoplatoniche nel pensiero di Jankélévitc e Pareyson, e di Hagar Spano sulla teodicea nel pensiero di Eberhard e Lessing.
Il tema del male e della sua liberazione viene quindi trattato dettagliatamente dal punto di vista storico- religioso nei contributi di Alberto Pellisero (Induismo), Giuseppe Laras (Ebraismo), Giovanni Filoramo (Cristianesimo), Ida Zilio Grandi (Islam), nei quali viene descritta l’oscillazione, entro le diverse famiglie religiose, tra le correnti che accentuano il valore della libertà umana e quelle teonome, in cui cioè la salvazione è guadagnata nell’affidamento fiduciale al potere liberatorio dai mali del Divino. A questo proposito particolarmente illuminante risulta infine il contributo di Gianfranco Bonola, nel quale è presentata la via buddhista alla liberazioni dal male, articolata in tre fasi successive, l’iniziale terapeutica esistenziale propria della tradizione Theravada, la via speculativo- metafisica della corrente Mahayana e quella fideistico -devozionale della religione del «voto» di Amithaba. Il presente volume, pur in un quadro sintetico, si offre come una riuscita sintesi tra profondità scientifica e chiarezza espositiva, segnalandosi come un agile manuale fruibile nella didattica universitaria, ma anche nell’ambito della divulgazione erudita. A questo riguardo, una bibliografia finale non sarebbe stata inopportuna. Così come la trattazione della costellazione religiosa ebraica al cospetto del male avrebbe guadagnato una maggiore esaustività tenendo presente la figura del Rib suggerita da Polo De Benedetti nonché le posizioni del Post-Holocaust Jewish Thought.AP
Pubblicato 13 anni fa # -
Ho segnato le sviste. Grazie Sor Bassoli...;)
Pubblicato 13 anni fa # -
Prego. Le frasi del dialogo comincino tutte con la maiuscola, grazie.
(Sai, io qui sono quello che legge superficialmente...)
Pubblicato 13 anni fa # -
Sta per uscire per Mondadori la nuova edizione di Mammut. Il testo è rimasto quello della prima. Ci ho aggiunto solo una breve introduzione che posto qui sotto:
MAMMUT
Introduzione all’edizione MondadoriHo cominciato a scrivere Mammut la sera del 3 novembre 1986 all’età di 36 anni compiuti e cinque mesi dopo che era morto mio padre. L’ho scritto a penna – con una penna stilografica a cartucce blu comprata alla Standa – su tre quadernoni grossi. Man mano che andavo avanti, ogni tanto lo battevo a macchina. Ho finito il 26 giugno del 1987.
L’ho riguardato, ricorretto, fatte le fotocopie, rilegato da solo ogni volume con il vinavil, riempito il bagagliaio della macchina, caricati moglie e figli – Marta e Gianni erano ancora piccoli: Gianni 3 anni, Marta 9 – e partiti tutti per Milano ai primi di luglio con la Fiat 127 gialla a fare il giro degli editori. Mi pensavo – che ne so? – che se ci andavo di persona era meglio. Comunque è stata la prima e unica nostra vacanza e ci siamo divertiti. “Mo’ vedrai quando papà diventa ricco” dicevo ogni tanto ai miei figli di dietro. “Pensa a guidare”, faceva Ivana.
Invece no. Ai primi di ottobre sono cominciate ad arrivare le lettere: “Non rientra nella nostra linea editoriale”. Ed è andata avanti così per otto anni. Non naturalmente che io per otto anni – vuoi da solo o vuoi con tutta la famiglia – abbia continuato a presentarmi di persona a suonare ai campanelli delle case editrici. “Ma chi è, ancora quello?”, pare facessero tutti quanti. No, oramai m’ero fatto furbo e glielo spedivo per posta. E ogni volta che tornava indietro, glielo rimandavo. Certo gli cambiavo il titolo, mica ero stupido. Ma tu immagina quelli, quando rileggevano le prime pagine: “Ancora questo?”. Per otto anni. Loro a rispedirmelo e io a rimandarglielo. 55 rifiuti alla fine, da 33 editori diversi. Tutti gli editori italiani dai più grossi ai più piccoli. Nessuno escluso. Ma non m’hanno voluto. Mo’ che vanno cercando? Non debbo pubblicare con Mondadori perché è di Berlusconi? Ma vammoriammazzato va’, a te e Berlusconi. (Non ho mai neanche avuto un agente. Li ho cercati. Ma pure loro non m’hanno voluto.)
Va anche detto, però, che non è che ogni volta glielo rimandassi uguale. Quando vedevo nella cassetta delle lettere il pacco o il biglietto “Non rientra nella nostra lnea editoriale”, certo era una coltellata. Ripetuta 55 volte. Ma non mi sono mai buttato giù, mai arreso e se qualche amico diceva “Vabbe’, ma prova a scriverne un altro”, non avevo esitazioni: “Tu sei scemo. Se non va bene questo, è inutile che mi metta a farne un altro. E’ questo che debbo aggiustare”. E così – lavorando a sottrazione, asciugando, limando e rilimando, riscrivendolo più volte per tutti gli otto anni (secondo Orazio in realtà ce ne vorrebbero nove) – dalle trecento pagine iniziali sono arrivato alle 160 della stesura definitiva.
Poi finalmente è capitato tra le mani di Ornella Mastrobuono, che era all’epoca editor di Donzelli, e – chissà com’è – all’improvviso è piaciuto a tutti. Un successo di critica unanime all’uscita. Non così di pubblico. Ma grazie per sempre a Ornella e grazie anche a Donzelli, con cui il rapporto però – anche personale – s’è chiuso. Così sono, purtroppo, le umane cose.
Intanto m’ero iscritto – anche in seguito alle strane vicende narrate in Mammut e ad un periodo di cassa integrazione – all’università. Poi m’avevano richiamato in fabbrica e l’università l’ho finita – sia gli ultimi esami che la tesi su Benedetto Croce – lavorando di notte alle bicoppiatrici, coi compagni che spesso s’alternavano, portando avanti loro anche le macchine mie: “Vai un po’ a studiare, va’”. E io sul bancone coi libri e con loro che mi pigliavano in giro: “Ma a che ti servirà tutta sta scienza?”.
Mi sono laureato in lettere alla Sapienza di Roma il 27 aprile 1994 – 110 e lode – con tutto il Consiglio di fabbrica della Fulgorcavi riunito intorno a me e a Mario Scotti, il mio professore.
Negli stessi giorni andava in stampa e usciva in libreria Mammut.
Il testo che qui si ripropone è lo stesso d’allora. Non ho voluto cambiare una sola virgola. Oggi scrivo in maniera diversa. La prosa è meno frammentata. C’è meno rabbia, dentro, forse. Ma un po’ più di saggezza. Più pietas. Mammut però è quello, e quello resta. E’ l’unico dei miei libri – mi verrebbe da dire “figli” – che non voglio più toccare. Non bastano gli otto anni che ci ho già speso? Io è lì che ho imparato il mestiere.* * *
Questo libro è stato scritto quando c’era ancora l’unità sindacale. Anzi, c’erano pure ancora a questo mondo l’Unione Sovietica e i paesi del blocco socialista, e l’Albania era sola come un cane. Era l’Albania di Enver Hoxa ancora, che dopo avere litigato con l’Unione Sovietica aveva pure litigato con la Cina maoista. Nessuno gli dava più niente. Né una goccia di petrolio né una stilla di caucciù. Cose peraltro che loro neanche volevano. Volevano restare soli e basta – “meglio soli che male accompagnati” – asserragliati in mezzo a tutto l’universo, gli unici rimasti puramente marxisti-leninisti per davvero. Oltre a noi della Fulgorcavi, ovviamente.
Il sindacato era ancora unitario in Italia. Cgil, Cisl e Uil non si sarebbero mai sognati di andare a firmare un contratto o un accordo, ognuno per conto suo. C’era già stata in realtà l’avvisaglia della “notte di S. Valentino” sui due punti di scala mobile, e poi il referendum per abrogarne l’accordo, promosso dalla componente comunista della Cgil. Io stavo con loro, ma è lì che è irrimediabilmente cominciata la rottura dell’unità sindacale. All’inizio non fu immediata, poiché nelle fabbriche c’erano ancora i “Consigli dei delegati”. Ogni reparto eleggeva il proprio delegato su scheda bianca, e il delegato poteva anche essere un non iscritto al sindacato. Non erano quindi le singole organizzazioni a scegliersi i rappresentanti, ma erano Cgil, Cisl e Uil che tutte assieme dovevano confrontarsi con quel Consiglio eletto dal basso. Era democrazia diretta e si chiamava proprio il “sindacato dei consigli”. Una specie dei soviet.
Dice: “Ma eravate un po’ matti”.
Sì, forse.
Io ancora fino al 1978 – ma anche dopo, fino all’80, all’81 – pensavo di stare a lavorare per la rivoluzione, che la fabbrica fosse la nostra, non del padrone, e che prima o poi ci saremmo riusciti a costruire un mondo nuovo di giustizia e fraternità fra tutti, senza più lo sfruttamento capitalistico. Ero ancora un “antagonista” – come si suole dire – e il nostro era, appunto, un sindacalismo antagonista.
Diventiamo “socialdemocratici” – e io pure togliattiano e riformista – nel 1981, quando la fabbrica entra in crisi e rischia di chiudere. E’ lì – quando la fabbrica l’abbiamo dovuta gestire noi, perché restasse aperta e restasse sul mercato – che ci mettiamo a fare i conti con le compatibilità aziendali e l’economia di mercato stessa. Che altro potevamo fare? La facevamo chiudere?
Poi è andata come è andata. Sta tutto scritto nel romanzo. La fabbrica è rimasta aperta altri trent’anni. L’hanno chiusa adesso, nel 2010. E se il fatto d’averla tenuta tutti assieme aperta allora è uno dei più bei ricordi e soddisfazioni della mia vita, il fatto che l’abbiano chiusa adesso è uno dei dolori più grandi. Io – come ogni operaio – le volevo bene alla mia fabbrica, ai suoi reparti, alle macchine. E ogni tanto, di notte, mi sogno che mi richiamano a lavorare. A volte mi dà ansia, perché debbo superare un’altra volta il periodo di prova. Ma il più delle volte è gioia pura, perché sto coi miei compagni, anche quelli che non ci sono più, e lavoro alle mie macchine, la Maillefer 120, i siluri, lo Shaw, la conica. Certe volte pure la Smalteria.Da allora, però, in Italia il sindacato s’è sempre più diviso. Tutti e tre assieme – Cgil, Cisl e Uil – hanno dato l’assalto al “sindacato dei consigli”, quello unitario, ed hanno teso a salvaguardare ognuno la propria e singola organizzazione, entrando in concorrenza continua tra di loro per acquisire i consensi, il potere e soprattutto le tessere, coi relativi soldi. E’ il principio d’ogni burocrazia d’altronde: giustificare e alimentare sé stessa.
Quando un sindacato si spacca, però, l’unico che ne trae vantaggio – oltre alle burocrazie suddette – è il padrone, non l’operaio o il lavoratore in genere. Dei due tronconi che restano, difatti, è inevitabile – è proprio una legge fisica dei movimenti di massa – che uno si sposti su posizioni sempre più oltranziste: “Io sono il migliore, sono quello che non si piega mai, venite con me perché sono l’unico che non si vende” e se gli altri firmano un qualunque accordo, lui dice sempre che si poteva ottenere di più, sono gli altri che se lo sono svenduto. E meno firma accordi lui – e più lui fa il duro e puro, l’unico “pulito” – e più firmano gli altri.
Gli altri difatti – è sempre una legge della fisica sociale – più lui va a sinistra e più loro vanno a destra. Firmano tutto, firmano anche al ribasso magari, ma firmano, perché se lui il consenso se lo costruisce gridando “Voglio di più!”, loro se lo debbono costruire per forza attraverso il potere e i favoritismi aziendali. “Vuoi il trasferimento da un reparto all’altro, vuoi il cambio turno, vuoi la categoria? Devi venire con me, ti ci porto io dal capo del personale”. Poi è chiaro che quando è l’ora di firmare, il capo del personale gli fa firmare quello che gli pare.
Ergo, quando il sindacato si divide è inevitabile che una parte si vada a vendere l’anima al padrone, mentre l’altra se la vende al diavolo. E l’unico che paga per tutti è l’operaio, perché il padrone passa in mezzo alle divisioni come un carro armato. T’affila col rasoio.
Dice: “Ma quello ha dalla sua le ragioni della produttività”. Ho capito, ma esisteranno pure, a questo mondo, un pizzico di ragioni per le ragioni operaie?
Un operaio è prima di tutto una persona. Ma questo nelle fabbriche se lo scordano spesso. Non te lo devi scordare più, padrone mio, perché quando quella persona si mette la tuta, tutti là dentro gli danno del tu. Se invece hai il càmice o la giacca, ti danno del lei. Ma se quel povero operaio ha poi la fortuna che gli Dei lo assistono mettendogli sulla sua strada un capoturno, caporeparto o caposquadra educato, la sua vita può anche scorrere tranquilla ad affrontare i soli problemi della vita cosmica e del ciclo produttivo. Ma non sempre accade così, anzi accade più spesso il contrario. Il mondo è pieno di gente che si investe dell’autorità altrui e non c’è principio d’autorità – in questo Paese – più forte di quello aziendale. C’è più democrazia in una caserma dei Carabinieri che dentro i reparti delle fabbriche. E se per tua disgrazia trovi un caposquadra incolto od arrogante e tu al momento dell'assunzione hai dovuto firmare un contratto che limita il tuo diritto di sciopero ai soli scioperi proclamati ufficialmente dai sindacati “autorizzati” – se tu cioè ti proclami uno sciopero dal basso, coi soli tuoi compagni di reparto, ti possono licenziare sui due piedi – tu sei alla completa mercé, otto ore al giorno, di quel testa di cazzo. Per tutti i giorni che manda l’anno. “Autòmata” appunto, come dice Aristotele degli schiavi. Non più persona, ma “adiectum” alla macchina. Una manopola o un attrezzo come tanti.
Prima Marchionne e i suoi compagni capiscono queste elementari cose, e meglio è per tutti. Non si può stravincere, non si può tirare la corda. Prima o poi la gente si incazza. Dice: “E l’azienda?”. Io all’azienda gli voglio più bene di te. Io ho solo quella. Tu forse no. La mia vita stessa, invece, è legata a lei. Non sono suo nemico. Io sono il suo primo alleato – la sua prima ricchezza – se solo mi sa prendere. Si chiama democrazia. E i nemici delle fabbriche sono altri, non sono io: sono quelli che le fabbriche – sia a me che a te – ce le vogliono far chiudere sotto i gravami d’una società bloccata o sognando che sia possibile un mondo in cui si sta bene ma non si produce. Vogliono la bicicletta per correre in mezzo al verde, per esempio, ma non vogliono gli altiforni necessari per produrla.
Non mi tenere ancora lì dentro trattandomi da subumano, uno – come può dire solo un ministro nazionalsocialista – “che l’intelligenza ce l’ha nelle mani”.
Lui ce l’ha nei piedi eventualmente, gli venga la pellagra.Gennaio 2011
Pubblicato 13 anni fa # -
è molto bella
questa introduzione.Pubblicato 13 anni fa # -
meravigliosa introduzione, sia il pezzo letterario, legato all'opera, che quello relativo al mondo del lavoro.
Pubblicato 13 anni fa # -
se avessi saputo che K postava qui l'unica differenza con l'edizione di Donzelli non ri-comperavo il romanzo ieri a Roma.
Pubblicato 13 anni fa # -
credo sia difficile bonificare letame su un c/c...
woltareid sta facendo concorrenza a woody...:)
Pubblicato 13 anni fa # -
... e io ho aspettato apposta, Big. Se non li comprano manco gli amici, che cazzo li stampi a fare allora i libri?
Pubblicato 13 anni fa # -
Già ordinato in libreria. Acquolina in bocca. Stop.
Pubblicato 13 anni fa # -
Comprato ieri sera.
Pubblicato 13 anni fa # -
Se non li comprano manco gli amici, che cazzo li stampi a fare allora i libri?
io li compero anche per vedere la tua faccia ogni volta che ti chiedo la dedica personalizzata.
anzi la prossima volta ti fotografo così la vedi pure tu.Pubblicato 13 anni fa # -
In home si legge solo l'introduzione fra parentesi quadre.
Vabbè che er libbro s'o dovemo comprà, però...
Pubblicato 13 anni fa # -
a me non risulta sia così. Leggo anche la prefazione.
Pubblicato 13 anni fa # -
comprato poco fa per la mamma. così, ne abbiamo due.
Pubblicato 13 anni fa # -
Il grande paradosso del berlusconismo
Oggi mia madre, anziana e ultimamente un po’ disinformata, perché stanca del teatrino della politica made in Italy, mi ha chiesto “Ma cosa ci faceva, con tutte queste donne, Berlusconi?”. Ci ho pensato un po’ e mi sono vergognato di rispondere. Perché mica puoi parlare a cuor leggero di certe cose, con tua madre. E ho toccato con mano la durezza e lo squallore di una realtà assolutamente negativa, sulla quale resta ben poco da aggiungere. Perché se noi abbiamo fiducia nell’operato della Magistratura, com’è doveroso che sia, sappiamo anche che i procedimenti penali sono regolati da una logica ben precisa, non nascono certo dai deliri di onnipotenza di qualche toga in cerca di gloria, come qualcuno lascia intendere.
Il giudizio immediato per Berlusconi, ad esempio, fissato per mercoledì 6 aprile 2011, viene disposto quando la prova della colpevolezza appare evidente e dunque si può addirittura saltare a pie’ pari la fase strategica dell’udienza preliminare prevista nel rito ordinario. Ma tutto questo non importa. Il rispetto delle regole ci impone comunque di non essere forcaioli o giustizialisti: prima di sputare sentenze è necessario aspettare una condanna definitiva e fino a quel giorno la nostra Costituzione ci impone di presumere la non colpevolezza dell’imputato, sia esso il Presidente del Consiglio o un criminale incallito e recidivo. Questo prevede la democrazia. Questo prevede lo Stato di Diritto. Perché davanti alla Legge, quella con la elle maiuscola, siamo tutti uguali. Non simili, ma uguali.
UNA LENTA INVOLUZIONE – C’è chi invoca le elezioni (Bersani), chi manifesta lo sdegno della Chiesa (Bagnasco) e solo Dio sa i fiumi di inchiostro che scorreranno sui giornali del mondo intero, per tentare di indovinare quale sarà la linea difensiva di avvocati che ci hanno abituati, negli anni, a fare i conti con la loro abilità. Lo scrivente vuole però soffermarsi su un altro aspetto dell’intera questione: quello sociologico. Se analizziamo quello che il berlusconismo, inteso come fenomeno sociale e politico, ha rappresentato per l’Italia e i suoi costumi negli ultimi 15 anni, ci dobbiamo sorprendere a manifestare una certa riconoscenza per l’attuale Premier. Può sembrare paradossale, ma proprio lui, con tutti gli eccessi e le megalomanie che caratterizzano il personaggio, ci ha costretti a focalizzare, meglio di chiunque altro, l’attuale sfacelo etico-culturale degli italiani, uno sfascio che è sotto gli occhi di tutti, a fare i conti col nostro disagio esistenziale, coi nostri vizietti di peccatori impenitenti che credono di risolvere tutto andando a Messa la domenica.
Negli ultimi tempi abbiamo fatto dei passi indietro clamorosi e forse è venuto il momento di prenderne coscienza, di capire che l’involuzione è un problema sottovalutato. Questa società (“basata sull’illegalità”, come osservato di recente dal criminologo Francesco Bruno) ha eletto, con la colpevole mediazione dei massmedia, come modelli di riferimento delle entità stereotipate, spesso amorali, che hanno effetti devastanti sull’equilibrio valoriale dei giovani.
Oggi un professore di qualsiasi materia è visto come un povero sfigato o al massimo un rompiscatole. E non importa quanto è colto o quanto capace di insegnare…
I ragazzi sognano di strappare il contratto miliardario da calciatore professionista al Milan di turno, e cominciano a farlo a 10 anni, mentre le ragazze passano la giovinezza nei beauty-center e nelle palestre per essere strabelle e tentare così la carta del provino vincente nel magico mondo dello spettacolo, senza minimamente capire che esso spesso non dà quel che promette (in merito, ascoltate “Perfetta per me” di Edoardo Bennato, fa davvero riflettere). All’università, che dovrebbe essere la cattedrale del sapere, si va già consapevoli della svalutazione del famoso pezzo di carta che una volta apriva molte porte, dell’inutilità della lotta politica, della complessiva mancanza di senso che porta molti a cambiare strada a metà del cammino, senza conseguire il diploma di laurea.
Il mondo del lavoro (rigorosamente a termine) è una folle giostra che si regge su equilibri improbabili e indubitabili scambi di favore noti già ai latini (“Do ut des”) a dimostrazione del fatto che i mali di questo popolo vengono, ahinoi, da molto lontano.
Quello che sembra davvero interessare tutti, ma proprio tutti, sono i soldini, ormai desiderati a prescindere dalle reali esigenze di vita, come fossero davvero il medicamento di ogni ferita e la panacea che muta l’ignorante insensibile e magari delinquente in una rispettabile persona-cittadino ricca di talenti infiniti che lo faranno Santo. E l’immagine della madre di famiglia china sul tavolino di un bar a grattare l’ultimo biglietto delle centomila fabbriche dei sogni esistenti è davvero l’affresco di un’epoca in cui c’è chi muore di fame e chi compra perfino singoli gratta e vinci da… 20 Euro.
I SOLDI NON FANNO LA FELICITA’ – Le conseguenze negative di un fenomeno di per sé grave: il consumismo che già Pasolini attaccava, sono oggi accentuate da una sorta di fase successiva. Non ci si contenta più di essere tutti uguali (nelle apparenze). No, non basta più: adesso si vuole essere qualcuno, primeggiare, strafare, salire su un piedistallo, qualunque esso sia. Non importa essere politici, cantanti, nani o ballerine. Non c’è differenza tra lo stare in tv o in radio o sui giornali, il gioco è esserci, sempre e comunque e ovunque. Farsi vedere. Perché solo l’onnipresenza porta consensi che alla lunga si trasformano in potere. E dunque in denaro. Il guaio è che con la filosofia del “Pecunia non olet” si sa dove si comincia, ma non dove si va a finire. Perché è come precipitare in un baratro che si fa vortice e trascina sempre più in basso, come proprio le note vicende dei presunti festini parrebbe confermare. “Siamo un popolo arretrato.” commentava stasera mio padre, sinceramente deluso dopo una vita di duro lavoro. Ma sbaglia, a mio parere le cose non stanno così. Piuttosto siamo viziati, più o meno tutti: non ci basta mai quello che abbiamo e che a volte neanche meriteremmo. Pretendiamo il lusso, la vita comoda, fare sfoggio di vestiti all’ultima moda e/o macchine superpotenti. Ci piace il sesso, mai come oggi. Un sesso mordi e fuggi, un sesso da bestie, spesso totalmente senza amore. E forse anche il web ha giocato un ruolo negativo in questo senso, perché non si può nascondere che stanno crescendo intere generazioni malate di voyeurismo, a causa della facilità estrema di accesso a certe immagini estreme. Una volta, diceva il mio benzinaio di fiducia, “per vedere una donna nuda te la dovevi sposare”. Oggi basta un clic. Così tutto sembra facile, a portata di mano. Basta pagare, nell’epoca del Bunga Bunga. Il problema è che ragionando in questi termini, cioè ragionando male, le persone diventano oggetti, anzi prodotti da usare, consumare e buttare via per sostituirli con prodotti ancora più nuovi, quasi fossero detersivi, che non soddisferanno davvero l’esigenza più naturale di ciascuno di noi: essere veramente amati.
Posso solo augurarmi che il dibattito in corso sul cosiddetto Rubygate si riveli utile a mettere a fuoco il degrado sentimentale, la bassezza morale, la corruttibilità delle persone che caratterizzano questi tempi bui che ci lasciano sempre più sconcertati.
(Fer, da Reset Italia)
Pubblicato 13 anni fa # -
Provato pure ora ma non mi visualizza altro che l'intro.
Qualcuno potrebbe provare a propria volta?(io comunque me lo compero domani)
Pubblicato 13 anni fa # -
prova ora...
Pubblicato 13 anni fa # -
Presidente, voi siete troppo avanti.
Pubblicato 13 anni fa # -
Eh, digli così, che poi si mette a fare il bunga bunga pure lui.
Big, non ti presentare con dediche che ti sparo. Solo la firma, nient'altro. Anzi, fìrmatelo direttamente tu e stiamo a posto.
(Qua c'è l'intervistina di quelli della Luiss:
http://www.reporternuovo.it/files/2011/02/Supplemento_162.pdfPubblicato 13 anni fa # -
Eh, digli così, che poi si mette a fare il bunga bunga pure lui.
Dannati scrittori comunisti E perbenisti.
E comunque sono maggiorenne. Credo.
Pubblicato 13 anni fa # -
Big, non ti presentare con dediche che ti sparo
ahahah! vedo la scena:
io che passeggio "per caso"
davanti a casa tua
con un cartone di libri da dedicarmi
e tu che dalla finestra di casa
mi spari come all'orso del luna parkPubblicato 13 anni fa # -
uhm... ma sei sicuro che si spara all'orso? sarà che sto a invecchià ma me pare che 'na volta se sparava alle lattine e come premio c'erano i wafer scaduti ed il cane col pelo bianco tipo ciavatte di wanda osiris.
Pubblicato 13 anni fa # -
k sul venerdì di repubblica e tra dieci minuti su rai 3 da augias.
Pubblicato 13 anni fa # -
uhm... ma sei sicuro che si spara all'orso?
alle lattine, con i relativi premi che citi tu (mi pare ci fossero pure i succhi di frutta), si sparava davvero ma con proiettili di gomma.
lo sparo all'orso invece era un raggio di luce emesso dal fucile. dovevi colpire la cellula situata al centro del busto dell'animale e questo si alzava sulle zampe posteriori, bramiva e cambiava direzione.
quando uscì nei luna park - circa quaranta anni fa - fu davvero un salto nel futuro.
altro che avatar.Pubblicato 13 anni fa # -
k a niente di personale su la7 più tardi
Pubblicato 13 anni fa # -
Grazie K per quello che ha detto sulla scuola.
Ps. Mi ha ricordato
quanto diceva sulla scuola un altro poeta grande.
“ Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.
Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni.
Sciopero, sciopero, compagni! Per i nostri doveri.
Signor Professore, la smetta di trattarci come scemi
che bisogna sempre non offendere, non ferire,
non toccare. Non ci aduli, siamo uomini, Signor Professore! ”P.P.Pasolini
Pubblicato 13 anni fa # -
Eh!?
Ma mo' ti pare a te,
che per fare pace
mi cita pure Pasolini?
Ma fino a che punto,
quousque tandem, A,
vorrai arrivare?Pubblicato 13 anni fa #
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