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COSA HO SCRITTO OGGI

(768 articoli)
  1. Ho scritto "Tre donne".

    http://www.compraebook.it/190/Tre-donne.html

    Pubblicato 13 anni fa #
  2. rindindin

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    nn ho la carta prepagata ma lo leggerò volentieri

    Pubblicato 13 anni fa #
  3. k

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    Anch'io.
    Anzi, vediamoci in libreria oppure al bar: io le regalo il mio e lei il suo. In bocca al lupo.

    Pubblicato 13 anni fa #
  4. Seee e poi il Cameriere chi lo sente?

    Comunque trattasi di e-book. Non di libro cartaceo. In America si stanno diffondendo per un motivo interessante: perché consentono di avere sempre "vivi" e reperibili i libri che vanno fuori catalogo (seppure in formato pdf, cioè in formato elettronico).

    Naturalmente noi italiani ci arriveremo 10 anni dopo, come sempre, ma questo si sa. Con gli ebook non esisterà più il concetto di libro introvabile. I libri di successo diventeranno dei classici e saranno costantemente reperibili, quelli di minore successo si collocheranno nella nicchia degli ebook.

    Nel mio caso, per fare un esempio, con gli ebook posso mantenere la reperibilità dei tre libri che ho fuori catalogo:

    http://www.compraebook.it/italiano/ebook/189

    http://www.compraebook.it/italiano/ebook/192

    http://www.compraebook.it/italiano/ebook/193

    Naturalmente l'abbattimento dei costi della stampa consentirà agli editori più deboli di sopravvivere, senza ricorrere, si spera, al solito giochetto di richiesta di soldi agli autori.

    Pubblicato 13 anni fa #
  5. k

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    Su "Gli Altri" di oggi, 26 novembre 2010, dovrebbe esserci questa cosa:

    STALIN BAR (NUOVA SEDE)

    a.p.
    FELTRI, LA LIBERTA’ DI STAMPA E I NEGAZIONISTI DELLA SHOAH

    Credo sinceramente che Boffo – l’ex direttore dell’Avvenire, ignominiato tempo fa da Feltri – abbia tutto il diritto, se vuole, d’aspettarlo una sera sotto casa e dargli, pure alla traditora, una bastonata fra capo e collo. E se Boffo dovesse dire “Guarda, Penna’, non è roba per le corde mie, non ci sono abituato, mi piacerebbe pure, ma se Feltri poi è più grosso e magari mi mena lui?”, mi impegno ad andarci insieme pure io. In due lo meniamo di sicuro. Anzi, per sicurezza mi porto anche mio figlio. Gli diamo una fraccata di botte che se la ricorda. Ma da qui a proibire a Feltri – con l’autorità dello Stato o dell’Ordine dei giornalisti – di scrivere, dire od esprimere tutto il suo pensiero qualunque esso sia, è un altro paio di maniche. Qui non sono per niente d’accordo. E la stessa cosa vale per i negazionisti della Shoah.
    Io sono amico di Israele e su questo non si discute. Sono anni oramai che il mio otto per mille va all’Unione delle comunità ebraiche italiane, e la cosa di cui sono più orgoglioso in tutta la mia vita è proprio d’essermi offerto volontario nel 1967 per la guerra dei sei giorni. Avevo diciassette anni e andai apposta all’ambasciata d’Israele a Roma. Ad iscrivermi negli elenchi. Poi loro – per fortuna mia e probabilmente pure loro – non m’hanno preso. Però io ci sono andato e resto a tutti gli effetti un volontario. Ma proibire a qualcuno per legge, di dire o scrivere quel che pensa fosse pure il falso, l’abietto e la manifesta infamità, è l’esatto contrario di ciò che credo significhi la parola democrazia.
    La libertà di stampa e d’espressione – se non è totale e aperta indiscriminatamente a tutti – semplicemente non è. La libertà mica può essere vigilata. Se è “vigilata” – lo dice la parola – è roba da carcerati o semicarcerati. Che libertà è? Sei libero solo da qui a là? Vale per te ma non vale per gli altri? Puoi dire questo ma non puoi dire quell’altro? Anzi, puoi dire solo quello che ti dico io? Se è libertà, deve essere per tutti. Sennò non è libertà. E’ arbitrio.
    Dice: “Ma loro lo fanno”. E chissenefrega. Se lo faccio anche io, divento arbitrario come loro – non democratico – poiché non è che la democrazia si possa fare a tocchi, ossia solo con gli amici tuoi e con quegli altri no.
    Dice: “Ma tu sei un garantista assoluto, sei garantista pure con il tuo nemico, sei un filantropo”. Ma quale garantista, quale filantropo? Io sono un egoista assoluto. Mi frega assai, a me, delle garanzie di Feltri e dei negazionisti. Io è delle garanzie mie che mi preoccupo. Che me ne frega a me di loro? Ma se taccio adesso – che tu proibisci a loro di poter dire e scrivere, volendo, anche il falso e le fregnacce loro – chi griderà per me quando mi proibirai d’esprimere le verità mie, ma false per te e false per legge? Altro che Minculpop o Unione Sovietica – dove i manuali di storia pare venissero riscritti ad ogni purga – altro che Ddr. Un domani magari – se scrivo che le bombe a Piazza Fontana le ha fatte mettere la Dc – mi mandi il maresciallo dei carabinieri a casa? Anzi, mo’ ogni volta che scrivo un pezzo, passo prima in caserma a farmelo controllare? Così, male che va, me lo scancella direttamente lui, oppure mi ritira il tesserino da pubblicista e mi fa anche l’etilometro? Ma vaffallippa va’, a me questo presepe non mi piace.

    (Dice: “Vabbe’, ma non l’aveva già scritto meglio Voltaire: non sono d’accordo con nessuna delle cose che dici, ma combatterò fino alla morte perché tu possa continuare a dirle?”. Certo, e come no? Però io lo volevo dire con parole mie. Tanto a te – diciamoci la verità – pure di Voltaire non è che ti fosse fregato già molto.)

    Pubblicato 13 anni fa #
  6. cameriere

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    Membro

    proprio per andarsela a cercare.
    negazionismo!
    roba da matti!
    bah!
    poi dice che non ti invitano a
    parla co' me
    vieni via co' me
    che tempaccio che fa.

    però metti il caso che
    io ciò un giornale che
    pubblica le foto tue
    mentre pisci sull'argine di un canale
    e ci scrivo sotto,
    come didascalia,
    che invece ti stavi facendo le seghe all'aria
    perché sei porco e esibizionista.
    e continuo
    ogni giorno
    a scrivere che sei un degenerato,
    finché tu mi quereli,
    ma a me mi importa 'na sega
    perché ciò un sacco di soldi
    e posso pagare tutti i risarcimenti
    che mi pare,
    però, intanto, continuo a dirne
    un sacco e una sporta su di te,
    che ti fai toccare tra i cespugli,
    che sei ladro
    e che ti puzza l'alito.

    allora,
    magari,
    se la sanzione economica
    non serve poi a molto,
    ci dovrebbero essere sanzioni
    che consentono di colpire
    chi abusa di quella libertà,
    perché non è completamente vero che
    la libertà non deve avere limiti.
    a me m'hanno pure insegnato che
    la libertà mia finisce giusto giusto dove inizia la tua (m.l. king).
    bisogna anche prendersi le responsabilità
    delle proprie azioni.

    ora,
    io credo che anche la diffamazione,
    anche se legata all'abuso di parola o opinione,
    produce danni,
    peggiori del furto.

    i "beni" in discussione qui sono
    -da una parte il diritto di parola/opinione,
    il cui abuso porta alla diffamazione,
    -dall'altra il diritto di proprietà,
    la cui violazione attenta le fondamenta della società.

    se il furto è proibito
    perché non dovrebbe esserlo la diffamazione?
    insomma è complicata.

    tutto ciò premesso,
    io sono per la libertà piena di parola,
    anche sui forni dei negazionisti.
    dicessero quello che gli pare.

    pensa che a me nessuno
    toglie dalla testa che
    l'11 settembre sia stato
    programmato e agevolato
    da alcuni americani.
    e ci mancherebbe che un giorno
    mi si proibisse di dirlo.

    sì lo so,
    ho ripetuto
    quello che ha scritto
    qui sopra k.
    e allora?
    posso scrivere e dire quello che mi pare.
    o no?

    Pubblicato 13 anni fa #
  7. k

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    Sì vabbe', però perchè non facciamo che quello dietro ai cespugli sei tu e non io?

    Pubblicato 13 anni fa #
  8. k

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    Oggi 17/12/2010 si è aperta al Museo di Roma, Via del Corso 320 - Roma, l'esposizione Chromo Sapiens di Pablo Echaurren.
    Il catalogo della mostra è a cura di Nicoletta Zanella e ci sono testi suoi (della Zanella), di Claudia Salaris, di Vincenzo Mollica e dell'umile sottoscritto. Il mio eccolo qua:

    Antonio Pennacchi
    (con la collaborazione di Libera Marta Pennacchi)

    MARTIN HEIDEGGER E I PUPAZZETTI DI ECHAURREN

    Dice: “Ma che significano quei pupazzetti di Echaurren?”.
    Ah, e lo chiedi a me? Cosa vuoi che ne sappia io? Io di arti figurative non capisco niente. Vado solo a “mi piace” o “non mi piace” e in tutta la storia dell’arte gli unici che mi siano sempre piaciuti senza riserve – ma non ne so bene il perché – sono Hopper, Salvador Dalì e le torri di Babele dei Bruegel. Prima mi piaceva anche De Chirico – fin che lo conoscevo solo dalle riproduzioni a stampa o sopra i libri – ma quando la conoscenza s’è fatta più intima, dopo che sono andato a una mostra e ho visto i quadri veri con la pittura tutta screpolata, ho detto: “Ma vaffallippa va’, ma che si lavora così?”. Resta comunque che di arte non capisco nulla. Tra impressionismo e espressionismo – per dirne una – faccio una confusione che neanche fra tangente e cotangente quando studiavo topografia al geometri, e quella volta che mi sono dovuto fare l’Argan all’università, certi dolori di testa che nemmeno le botte della Celere. L’artrosi cervicale. Le fitte suboccipitali.
    Dice: “Vabbe’, Argan scriveva un po’ difficile, diciamo così. Tu però perché ti sei accinto anche tu ad un saggio di critica d’arte? Non ti pareva un po’ azzardato, non capendoci poi molto?”. Certo, e chi ti dice di no? Tu pensa che sono pure daltonico.
    Ma quelli hanno insistito, hanno detto che non gli importava: “Chi vuoi che se ne accorge? Siamo in Italia: se il figlio di Bossi fa il deputato regionale tu non puoi fare il critico d’arte? Ma scherziamo?”. E così m’hanno convinto. Hanno detto che il mio metodo – “mi piace” o “non mi piace” – è più che sufficiente. E a me Pablo Echaurren mi piace. Stop. Ho finito qua.
    Dice: “Sì, vabbe’. Però a te Pablo Echaurren ti piace perché è amico tuo. Se non era amico tuo, mica ti piaceva. A fare le critiche così, sono buoni tutti a questo mondo”. No compa’, ferma. Un passo indietro.

    Io conosco Pablo Echaurren dal 1973. O meglio: nel 1973 l’ho conosciuto io. Lui no, lui manco m’ha filato e se glielo chiedi adesso, nemmeno si ricorda. Me lo fece vedere Paolo Forte dentro la tipografia di Lotta Continua a Roma quando andammo a portargli i soldi delle sottoscrizioni per le armi al Mir dopo il golpe in Cile. “Quello è Pablo Echaurren”, mi fece piano piano Paolo Forte dandomi di gomito sul fianco – ahò, noi venivamo da Latina – manco fosse stato Che Guevara.
    Io – sia chiaro – con Lotta Continua non avevo e non ho mai avuto niente da spartire. Quelli erano trotzkisti. Spontaneisti. Io ero uno stalinista marxista-leninista che veniva da Servire il popolo, ma mi si era già sfasciato il partito mio e adesso ero un cane sciolto – come sostanzialmente poi sono sempre rimasto – senza più catena e senza padroni (la cosa più drammatica è che ogni volta che ho tentato di rimettermela la catena, e di ricercarmi un nuovo padrone, sono sempre stati loro poi – Uil, Psi, Pci, Cgil – a tagliarmela ed a cacciarmi via: “Vaffanculova’, vaffanculo a un’altra parte”. Espulso). Comunque ero stalinista; ma senza partito, senza casa e senza famiglia e quando c’è stato il golpe in Cile non c’era nessuno con cui fare qualcosa a Latina, e allora sono andato da questi di Lotta Continua e assieme a Paolo Forte – che era il segretario – abbiamo messo su la raccolta fondi. Siamo andati in tipografia a farci fare i blocchetti per le ricevute con scritto sopra “Armi al Mir – Soccorso Rosso” e poi via in giro per tutti i professionisti progressisti ad estorcergli qualcosa.
    Pare che noi siamo stati i primi in tutta Italia e c’erano alcuni di Lotta Continua di Latina che non erano neanche d’accordo: “Ma che è sto slogan Armi al Mir?”. Paolo Forte invece si convinse e venne. E dopo pochi giorni pure Lotta Continua nazionale – visti i nostri – fece i blocchetti “Armi al Mir” e Pablo Echaurren pure i manifesti. Con lo slogan mio. E quando poi andammo a portargli i soldi e dentro la tipografia a un certo punto ci passò vicino e Paolo Forte mi disse “Quello è Pablo Echaurren”, lui manco ci filò, continuò a passare per i fatti suoi con le spalle curve, i capelli lunghi e la faccia torva.
    “E’ affranto per il Cile” mi disse piano piano Paolo Forte in risposta – forse – a una faccia mia più torva della sua: “Chissà i parenti che cià là”. Mo’ pare invece che è vero sì che è di nazionalità cilena com’era cileno il padre, ma in Cile pare che non ci sia mai stato. Quella volta comunque eravamo afflitti tutti per il Cile e noi raccogliemmo i soldi per le armi al Mir. L’avvocato Monda – della Dc – ci diede diecimila lire. E Benedetto De Cesaris cinquantamila. Era il 1973.
    Poi qualche anno fa – prima d’andarsene – me lo ha fatto ri-conoscere Giano Accame, persona squisita oltre che intellettuale fine e onesto, capace di ripensare anche il suo stesso pensiero e d’approcciarsi a ognuno e ad ogni nuova cosa con sguardo aperto e scevro da ogni pregiudizio ed ideologia. Giano Accame ci fatto ri-conoscere e diventare amici.
    Mia figlia Marta – che lei almeno ha studiato proprio storia dell’arte – sostiene che ci sia più di qualche parallelismo tra le cose che fa Pablo Echaurren e la mia scrittura. Ci accomunerebbe il tono ironico, apparentemente infantile, dell’espressione artistico-creativa e l’uso dei linguaggi “bassi” – non aulici – anche quando si tratti di temi e questioni cosiddette “elevate”.
    Marta dice anche che quella di Pablo è una creatività artistica che utilizza i più svariati linguaggi, dalla pittura al disegno, alla scrittura, alla ceramica, alla musica, il collage eccetera. E questa capacità metamorfica mescolerebbe quei linguaggi diversi – pittura e scultura ad esempio; o musica ed arti visive – con risultati assolutamente innovativi. C’è un rapporto osmotico e scambi continui tra arti cosiddette “nobili” e quelle che non lo sono, fino alla definitiva nobilitazione del fumetto, attraverso particolari raffinatezze visive e la sua contaminazione con la ceramica.
    Ora è evidente – “non v’ha chi non veda” direbbe Croce – come la ceramica di Echaurren si inscriva tutta nella matrice della tradizione quattro-cinquecentesca. E di questo m’ero accorto anch’io da solo – che non capisco molto d’arte – appena viste le ceramiche di Pablo. Subito – non so perché – era stato un lampo e m’erano venute in mente le terracotte invetriate dei Della Robbia che da ragazzino, quando stavo in seminario, i preti ci portavano a vedere ogni giorno alla Verna. Era il mese d’agosto, noi villeggiavamo a Chiusi e attraversando a piedi il bosco salivamo ogni mattina fino al santuario francescano sopra il monte. Loro – i preti nostri – non è che ci portassero apposta lì per vedere i tondi e le lunette di ceramica dei Della Robbia. Loro ci portavano al santuario per farci camminare – per la salute del corpo quindi, ma anche per quella dell’anima – per farci pregare ed immergerci nel pathos di san Francesco e diventare santi.
    Io poi santo, come è abbastanza noto, non ci sono diventato, ma di tutto quel pathos di frati, di mura secolari e di canti gregoriani, sono proprio le ceramiche dei della Robbia – con quei cromatismi assoluti di bianchi e d’azzurri, splendenti – che mi sono rimaste più nell’anima (dice: “Ma se sei daltonico, come hai fatto a vedere i bianchi e gli azzurri, i cromatismi?”. Appunto: io sono daltonico, mica cieco. Non è che il daltonico non veda i colori: li vede diversi da te. Mica vede tutto grigio. Magari fa qualche confusione e non riesce a cogliere alcune distinzioni. Però li vede – a modo suo ma li vede i colori – ed è daltonico oltre l’8 per cento della popolazione maschile. Dice: “Meglio daltonico che gay, allora?”. No, no, non scherziamo. Mica sono premier, ancora). E appena ho visto le ceramiche di Pablo Echaurren subito mi sono tornate in mente – affiorate da chissà quale piega dell’anima – le ceramiche di Luca e Andrea Della Robbia al santuario della Verna, sopra Chiusi. E non sono state evidentemente le forme ed i temi rappresentati da Pablo ad evocarmele – temi e forme che sono, anzi, quanto di più diverso si possa immaginare da quelli: di là la Vergine, il Bambino, i Santi; di qua le bestie ed i bestiari – ma proprio i materiali, i colori, i cromatismi, i nitori, lo splendore. Tale e quale ai Della Robbia i materiali. Ma le emozioni che ne partono – se mi si consente – sono le stesse. Intuizioni liriche, le chiama Croce
    E’ qui difatti, dice Marta, in quei temi e forme “difformi” – con l’utilizzo di uno stile disegnativo disgenativo fumettistico, precolombiano, e con segni grafici del tutto estranei alla tradizione della ceramica – che si libra il genio di Pablo. Il suo è un approccio ludico all’arte, e dissacrante, almeno in prima battuta, come giustamente è nella tradizione delle avanguardie e del dadaismo, con grande spazio alle immagini del mondo mentale, conscio ed inconscio.
    Al fondo però – secondo Marta – c’è l’horror vacui, la paura della morte e la relativa esorcizzazione mediante l’uso grottesco del teschio. Calvariae ridentes. Teschi che ridono.
    Io credo però ci sia anche dell’altro.
    Certo l’horror vacui e il dissacrante ci stanno, ma non spiegano da soli tutta quell’ossessione di pupazzetti, perché a me – che ti debbo dire? – a me quei pupazzetti di Pablo Echaurren mi ricordano proprio (esattamente come avvenne con le ceramiche e i Della Robbia della Verna, con la stessa intensità d’intuizione lirica) mi ricordano Pieter Bruegel il Vecchio e tutta la sua progenie.
    Dice: “Vabbe’, ma allora pure Hieronymus Bosch e Jacovitti”. Certo, e come no? Jacovitti, il fumetto e tutta quella roba là, me l’aveva già detta pure Marta. A me però il Bruegel che mi viene in mente non è tanto quello dei Proverbi fiamminghi, del Ballo di nozze, dei Giochi dei fanciulli e similari, in cui pure c’è nella tela la simultaneità di diverse e innumerevoli narrazioni. A me quello che si staglia sono le Torri di Babele.
    Pieter Bruegel il Vecchio (1528/30-1569) ne dipinse due di queste Torri, o meglio, ne dipinse tre ma ce ne restano due, ma poi i figli suoi – Pieter il Giovane e Jan il Vecchio, che però faceva soprattutto fiori – e i figli ed i nipoti loro continuarono a farne non si quante fino al Settecento. Pare che i Bruegel fossero diventati una specie d’industria, oramai. La gente voleva le torri di Babele? E loro gliele facevano. Copie – dice la critica – copie di quelle due o tre del capostipite. A me mi sa di no.
    Per me non sono copie, sono prosecuzioni (e sono anni che ho questa voglia, e lo dico a tutti quanti, a tutti quelli che capiscono d’arte – l’ho detto pure a Pablo e a sua moglie Claudia Salaris; ma a quella interessa solo il futurismo – di organizzare una grande mostra e mettere assieme tutte le Torri di Babele che la razza dei Bruegel ha seminato in più di centocinquant’anni in giro per il mondo; metterle assieme e poi confrontarle una ad una, particolare per particolare e poi contare e catalogare ogni immagine e figurina, simile con simile e variante per variante. E vedere che succede). Mi spiego meglio.
    A me all’inizio – ed è una vita che mi piacciono ste torri – pensavo m’attraesse proprio la torre in sé, sia perché sono geometra e ho fatto l’operaio e il muratore, sia per essermi interessato anche di storia e archeologia. E’ storia romana – diciamo così – la mia specialità; o almeno è quella da cui provengo, con particolare riferimento all’arte di costruire presso i Romani. Storia di calce e mattoni, quindi. Per questo mi piaceva la torre e non è vero – come dicono i manuali – che Pieter Bruegel il Vecchio comincia a farle così dopo avere visto il Colosseo a Roma. Del Colosseo, quelle torri hanno solo che sono rotonde. Ma la complessità della costruzione e la precisione nelle tecniche e negli spaccati interni sono figlie della visione diretta della Domus Tiberiana e delle sostruzioni di Settimio Severo attorno al Palatino. Ma anche delle arcate e dei criptoportici di Nerone. Ora non so con precisione quanta di questa roba fosse visibile nel 1551-53, quando Pieter Bruegel il Vecchio risiedette a Roma. Ma lui è lì – attorno e sotto il Palatino – che deve avere passato le ore e i giorni e i mesi a studiare le tecniche di costruzione dei Romani e a concepire le sue torri di Babele. Con gli occhi al Palatino e le terga – se mi si consente – al Colosseo.
    A me comunque – all’inizio – era la torre in sé che mi piaceva. Tutto il resto del quadro – il paesaggio agrario, le città sullo sfondo, il porto, le navi, e soprattutto lo sterminato formicolìo di figurine umane affaccendate in ogni e più minuto aspetto della vita quotidiana, dal contadino che zappa la vigna al manovale che impasta la calce, a quello che tira la corda, al muratore che livella i mattoni, a quello che gli si rompe la scala ed a quell’altro che cade dall’impalcatura; tutti minuscoli, infiniti, precisi – mi interessava meno: “Ma tu guarda sti Bruegel!” pensavo tra me. Curiositates. Decorazioni maniacali giusto per dire: “Ci ho messo tutto, non ci manca niente: né quello che ripara le carriole, né la coppietta che di nascosto si dà i baci o il ragazzino che di fianco gioca a lippa”. Tutto all’ombra della torre. O di contorno. Ma era la torre – per me – che contava. Il resto no, il resto mi si è chiarito diversi anni dopo – nel 1990 – quando m’è toccato di studiare Heidegger.
    Avevo quarant’anni, lavoravo in fabbrica e m’ero iscritto all’università. A filosofia della storia – a Villa Mirafiori – la D’Abbiero ci aveva dato Essere e Tempo. Una cosa da spaccarsi la capoccia. Altro che i manuali di Argan. Ancora adesso se sento dire in giro “ontico” o “ontologico”, mi viene il colpo della strega. Resto piegato in due all’istante. La gente mi deve soccorrere subito, prima che rotoli a terra. Dice: “Vabbe’, ma scusa: ma che te lo aveva ordinato il dottore? Mica eri obbligato a restare lì. Cambiavi corso e arrivederci e grazie”. Ho capito, ma che figura ci facevo? Quella era stata tutta contenta quando m’ero presentato a inizio corso. “Un operaio a Villa Mirafiori!” faceva poi ogni volta che arrivavo, giungendosi entusiasta le mani al viso. E mo’ le potevo far vedere che l’operaio invece non ci capiva un tubo? E quindi giù a leggermi e rileggermi pagine e pagine intere di Heidegger Essere e Tempo senza capire niente per pagine e pagine intere: “Ma che vorrà dire questo qua?”. Se c’è però una cosa che non m’è mai mancata in vita mia è la tigna, e più non capivo e più andavo avanti a leggere ugualmente: “A costo di impararmelo a memoria, io sto cavolo di Heidegger debbo riuscire a capire che cazzo vuole dire”. Per mesi e mesi. Ma senza risultato.
    Poi all’improvviso – una notte – mi si è risolto tutto.
    Dormivo. E nel sogno studiavo Essere e Tempo. Studiavo e non capivo. Poi dalla pagina ho alzato lo sguardo alla parete e ho visto un poster dei Bruegel, la Torre di Babele. E la Torre – ossia non solo la torre, ma tutto il quadro, il poster – s’è staccata dalla parete e m’è venuta sotto e è diventata lei il libro. Era la Torre di Babele dei Bruegel adesso che stavo studiando, e non più la torre in sé, ma proprio l’”infinitamente piccolo e minuto” , tutti gli omini piccoli piccoli uno per uno, ma grossi grossi oramai per me. E allora ho capito.
    “Ho capito!” ho proprio urlato in sogno, “Eureka!”, e mia moglie si deve essere pure svegliata, mentre anche Essere e Tempo – ossia la copertina del libro – rideva insieme a me. L’Essere “è” il Tempo, e l’Eternità – il tempo infinito – non è che la Simultaneità. Il Tutto che È, Si Dà e Diviene nello stesso microscopicissimo Istante.
    L’ho capito là – di notte – in sogno, perché se in un quadro di Hopper “…l’eterno vive nell’istante / e fa per sempre l’essere compiuto” come nei versi di Scotti , tutto l’Essere e Tempo di Martin Heidegger non è che una Torre di Babele dei Bruegel o, meglio, è il tentativo di razionalizzazione per via di logica di quella precisa ed assoluta intuizione estetica.
    Dice: “Ma questa è metafisica”.
    Ah, non lo so che cosa è. Ma anche secondo Einstein l’universo è curvo, e se l’universo è curvo dice lui – ossia torna su di sé – è curvo pure il tempo, ed ogni distinzione fra passato, presente e futuro fa ridere. Sta solo dentro la testa nostra.
    Il mio povero fratello Gianni invece – che ora non c'è più e che aveva amato molto l'India e l'induismo – diceva che tutti noi, ossia il reale, non siamo che un sogno di Dio. Lui – Dio – starebbe dormendo, poiché durante un'eternità è anche giusto che ogni tanto si stanchi e si appisoli, si addormenti. Non è a nostra immagine e somiglianza? Ma nel sonno – e soprattutto nel sogno – lui, come noi, non riesce più a governare attraverso l’Io tutto il suo Es. E così l’Es – ossia ogni parte di Lui, ogni più piccolo recesso sia del bene che del male – se ne va in giro libera e gioconda. Dio sogna. E sognando si disperde, s’allarga, si spande e si espande. Noi – il nostro cosmo – non saremmo che questo: un suo sogno, o meglio un incubo, in cui ogni parte di Dio, priva di unitario controllo, sognando sé stessa che gioca alla materia si fa reale. Ma un incubo appunto, poiché questo cosmo reale – in cui la vita, per vivere, è costretta a cibarsi d’altra vita – è dominato dal segno della violenza e del male. Povero Dio. Deus sive natura, dice Spinoza. Bisognerebbe svegliarlo.
    Dice: “Ecco, appunto. Ma quand’è che si sveglierà?”. Ah, questo non lo so. Questo, mio fratello Gianni non l’ha detto.
    Forse – però – si sveglierà proprio quando la torre sarà finita. Marta dice pure difatti che i Bruegel stanno dentro il barocco. C’è già Borromini in quella torre, poiché essa non è – come nel racconto biblico – un segno d’inanità o di sventura, la collera di Dio. Essa, anzi, ne è l’esatto contrario. E’ ancora incompiuta ma è a spirale (o meglio è a elica, perché si chiama spirale quando si disegna in piano, ossia sulle due dimensioni di lunghezza e larghezza; ma quando poi si libra in altezza nello spazio a tre dimensioni, allora si chiama elica) e l’elica e la spirale rappresentano fin dai primordi – fin dall’arte orientale – il progresso verso la conoscenza. E la conoscenza assoluta – quella piena e finale – è appunto ciò che chiamiamo Dio. Lui, forse, si sveglierà felice e contento – “salvato” – quando la torre della conoscenza umana sarà terminata. Possiamo svegliarlo – e salvarlo – solo noi.
    Dice: “Con i pupazzetti di Echaurren?”.
    Certo, pure con quelli.
    Perché i Bruegel li facevano? Non avevano proprio nient’altro da fare? Decorazioni fini solo a sé stesse? No. Pure Echaurren – che come me e Paolo Forte voleva trent’anni fa rifondare il mondo (ma menomale che non ci siamo riusciti) – dice che adesso lo vuole solo decorare il mondo. Ma non è vero. Che ne capisce lui? Dice: “Ma lui è l’artista”. Embe’? La sua arte all’artista gliela deve spiegare il critico. Sennò che ci sta a fare? Non mi chiamavi e restavamo in pace. Lui poi dice pure però che da piccolo – quand’era ragazzino – voleva fare il paleontologo o l’entomologo. Gli insetti. I dinosauri. Il classificatore. E i Bruegel – coi pupazzetti loro – non catalogavano l’eternità? L’eternità in un solo istante, la simultaneità di tutte le manifestazioni dell’Essere. La sua fenomenologia.
    Ed è per questo che le Torri di Babele dei figli, dei nipoti e dei pronipoti di Pieter Bruegel il Vecchio non sono copie delle Torri del nonno, ma prosecuzioni del lavoro suo. Potevano mai bastare due o tre tele per finire di catalogare l’infinito? Hai voglia tu, a disegnare ancora. Generazioni e generazioni, se tutto va bene. E Pablo Echaurren s’è messo a continuare quel lavoro.
    Dice: “Ma non c’è la torre”.
    E che vuol dire? Ci sono i pupazzetti però, e qualche passo avanti l’avrà fatto anche l’arte nel frattempo, no? Mica si fanno più i quadri di una volta. Pure Bruno Barborini – un pittore di Latina, un colono friulano del 1924, emigrato qua negli anni Trenta per la bonifica ma conosciuto adesso anche in Messico e a New York – prima della seconda guerra mondiale faceva i disegni come Giotto e Raffaello. Ma dopo s’è messo a dipingere l’uomo frammentato, l’uomo che non si ritrova più, esploso od imploso all’interno esattamente come l’identità d’ogni uomo bonae volumptatis dopo il brusco risveglio del secondo Novecento. Hai voglia tu, a rifondare mondi. Ma non serve la torre – come non serve più il ritratto preciso di quell’uomo – basta l’idea. E basta solo un segno – basterebbe anche un numero, come per le barzellette dei pazzi; e non escludo che prima o poi si metta a pitturare numeri – per dare l’idea di una sola ed individua faccia delle infinite facce dell’Essere. E’ questo che fa Pablo con tutti i suoi teschi, bestiari e pupazzetti: cataloga enumerandole tutte le facce di ciò che chiamiamo Dio o – meglio – del suo Es in piena espansione onirica.
    Dice: “E quando finisce?”. Mai, calcolato col tempo umano. Ma che vuoi che sia? L’eternità non è un solo istante? E poi noi mica abbiamo fretta. Generazione dopo generazione, esattamente come Yu Kung rimosse le montagne – una carriola al giorno, giorno dopo giorno – noi raggiunta ed esplorata l’ultima galassia ed esperita l’infinitesima manifestazione ontica ed ontologica (ma pure disgenativa) di tutto il Dasein del Tempo, noi metteremo l’ultimo mattone sulla cima della torre della conoscenza umana. E il Dio Sconosciuto – il Tutto – sarà ricomposto e finalmente si sveglierà. Salvato.
    E’ la Torre di Babele dei Bruegel – con dentro tutti i pupazzetti loro e quelli di Echaurren – la città di Dio, la civitatem Dei.
    Altro che dissacrante. L’arte di Echaurren è arte sacra. E’ pure quella, come i Bruegel, i Bosch e gli Jacovitti – magari un po’ più facile, diciamo, estetica – l’Essere e Tempo di Heidegger.

    (Dice: “Ma disgenativo che significa?”. Ah, non lo so proprio. Forse ha a che vedere con Genus, con genesi, più il prefisso separativo dis-, ossia una cosa del tipo mutazione genetica: veniva da un ramo e doveva andare in quella direzione, ma poi invece all’improvviso ne ha presa un’altra e arrivederci e grazie, chissà dove va adesso. Io non lo so, ripeto, tu fai un po’ tu. Dice: “E allora perché ce l’hai messo? Ma uno adesso può scrivere delle parole senza neanche sapere che cosa significhino?”. E che ti posso fare? Io avevo chiesto a Marta di prepararmi una scheda. Lei me l’ha fatta e ho lavorato su quella. A un certo punto ho trovato scritto “stile disgenativo fumettistico” e anche io ho detto: “Ma che vuol dire sto disgenativo?”, e sono andato a cercare sopra i dizionari. Non c’era. Ho cercato pure su internet. Niente da fare. E nemmeno in Heidegger. Allora ho pensato: “Sarà un termine tecnico della critica d’arte, gergo specialistico”, e l’ho copiato pari pari. L’ho copiato anche tutto contento, perchè la parola in sé mi piaceva proprio: “Ammazza che bello sto disgenativo. Chissà che vuole di’?”. Poi la mattina dopo, però, ho chiesto a Marta: “Ma che significa, bella di papà, disgenativo?”. “Ma quale disgenativo e disgenativo” m’ha fatto lei: “Quello è disegnativo, stile disegnativo papà, mi sono solo sbagliata a battere a macchina”. Mo’ che dovevo fare io secondo te? La ammazzavo? Ha due figlie piccole. E a me oramai m’era piaciuto, è una bella parola – suona bene – disgenativo. Lo dovevo levare? Ce l’ho lasciato. Poi un significato – come si suole dire – si fa sempre in tempo a trovarlo. Intanto la parola, e poi arriva il significato. Lui non disse “Fiat lux”, e solo dopo la luce fu?)

    Pubblicato 13 anni fa #
  9. k

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    Quest'altro invece dovrebbe essere uscito su A.D. di dicembre, una rivista d'architettura. Pare che loro chiedano ogni volta a uno scrittore di parlare della sua casa, dell'ambiente in cui vive e lavora. E questo è il mio:

    A. Pennacchi
    DODICIMILA BLOCCHETTI DI TUFO

    Era settembre quando abbiamo cominciato a lavorare alla casa – settembre 1977 – e Ivana era appena incinta di Marta. Sul campo c’era ancora l’erba medica – la “spagna”, il foraggio per le bestie – e di là dalla strada si vedeva, a trecento metri, l’argine del Canale Mussolini. Piantai i pali per la baracca prima – la baracca di cantiere – e poi i muraletti, le cantinelle di legno e la lamiera ondulata per proteggere i sacchetti della calce e del cemento. Tracciai lo squadro e cominciai a scavare con la vanga ed il palotto. Ogni tanto veniva ad aiutarmi Franco Mangiapelo, la mattina, quando staccavamo alle sei. Lavoravamo ancora assieme in Smalteria, allora. Per le fondazioni vennero ad aiutarmi i parenti Baldin. Fondazioni a sacco si chiamano, ma non le gettammo e basta le pietre, le collocammo in piano una ad una, strato dopo strato, saturando gli interstizi con la pozzolana e la calce mischiate a secco e poi irrorate – quand’erano già sullo strato – con l’acqua dei tubi dell’irrigazione. C’erano i miei cognati, e ridevamo. Maurizio passava e ripassava col trattore sul campo lì di fianco, ed ogni tanto si fermava e veniva anche lui a gettare pietre.
    Feci il cordolo coi ferri e col cemento, e gli angoli dei muri me li spiccò Gaetano Schiavone. Poi andai avanti da solo. Gettammo il primo solaio, alzai i muri e gettammo il secondo. Per i getti del cemento armato – tutti getti a mano, con la betoniera piccola e i mucchi della ghiaia e della sabbia accanto – sono venuti i miei compagni di fabbrica o i vicini, gli amici di Maurizio della Santa Croce. Poi quando hanno gettato loro il cemento per le case loro, sono andato anch’io a restituire le giornate.
    Per gli intonaci e i pavimenti ho preso un muratore – ma sempre gente che lavorava in fabbrica con me, a sabato e domenica, o nel riposo dai turni – e io facevo da manovale. E così finii il primo pezzo, una sessantina di metri quadri, camera e cucina, e ci mettemmo dentro. La gente che passava la chiamava “la capunara”, un pollaio. Ci andammo ad abitare a maggio del ’79. Marta aveva un anno ed io e Ivana eravamo ancora giovani e forti.
    Poi cominciai a scavare le fondazioni dell’altra ala e a tirare su il rustico, gettare il solaio e tirare su l’altro piano. Quindi il tetto, le tegole, gli intonaci. Ci abbiamo messo dieci anni. Tutte le domeniche, tutte le feste, le ferie comandate, i riposi: sempre lì su quella casa, Ivana ed io, a mettere calce e mattoni. Io sopra, con i blocchetti in mano e la cucchiara, e Ivana sotto, a far girare la betoniera e a tirarmi su con la corda le cofane della malta. I bambini – c’era già pure Gianni oramai – a giocare lì intorno in mezzo alle pozzanghere. Non c’era più Maurizio però, e non c’era neanche più Ardolino, il papà di Ivana, portato via in campagna dal trattore. Era lui che aveva insistito perché costruissimo lì, su quell’angolo amato del suo podere, vicino alla terra rossa.
    La casa è abusiva. Solo adesso i miei figli la stanno sanando. Oggi Marta ha due figlie anche lei ed abita con noi, in quello che inizialmente doveva essere il rustico. Stiamo qui, con i figli ed nipoti, nella casa che Ivana ed io ci siamo costruiti da soli – con le mani nostre – insieme ai nostri amici, parenti e compagni.
    Dodicimila blocchetti di tufo. Tanti ce ne sono voluti. E tutti presi in mano da me medesimo almeno quattro o cinque volte l’uno: dal mucchio alla carriola, dalla carriola al ponte, dal ponte al solaio di sopra, dal solaio alla palanca sui cavalletti, e dalle palanche al muro. Le mani bruciate, screpolate dalla calce per anni. Sono caduto due volte dalle impalcature. O meglio, una volta dal ponte e un’altra dal cavalletto. E gli strappi alla schiena – i colpi della strega – non si contano. Alla fine, due ernie del disco io ed una Ivana. Per i sacchetti di cemento soprattutto, sacchetti di cemento da cinquanta chili. Poi dice il progresso. Solo adesso li fanno da venticinque. Mortacci loro.

    Pubblicato 13 anni fa #
  10. urbano

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    santa madonna!
    http://www.volontari.org/Santi.htm

    Pubblicato 13 anni fa #
  11. A.

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    Moderatore

    Ho fatto un esperimento

    pubblicata da Alerino Palma il giorno martedì 21 dicembre 2010 alle ore 20.23

    Ho fatto un esperimento mi sono astenuto dal guardare la tv per una settimana

    niente giornali niente internazionale

    solo le notizie che leggo casualmente su fb

    o quelle che distrattamente passano nel monitor della metro

    la radio solo quella musica 100 per cento uno lo ascolti uno lo vivi

    una settimana ho sentito il nome di berlusconi solo un centinaio di volte

    mai cicchitto

    mai capezzone

    la russa era sulla bocca di tutti tra venerdì e sabato

    bondi come se non fosse mai esistito

    neppure schifani o quagliariello

    la gelmini solo in caricatura

    e poi improvvisamente mi fermo a guardare le prime pagine a termini

    e leggo gasparri che dice studenti possibili assassini

    l'esperimento è che abbiamo subito la democrazia in piccole dosi giornaliere

    che uno se cerca di dintossicarsi rischia di brutto

    che era meglio vivere nella dittatura

    perché è uguale

    votare con il pulsante da casa sul divano

    solo su richiesta del presentatore

    che era meglio essere della generazione precedente

    o di quella dopo

    perché la nostra è assente

    che era meglio partire

    finché si era in tempo

    invece di essere commiserati

    dai nostri coetanei che oggi

    sono in Inghilterra a fare gli espatriati

    che era meglio scrivere sulla Costituzione

    un articolo sui limiti della Costituzione

    precisare che l'hanno scritta degli uomini

    che la praticano uomini

    che hanno il senso delle loro contingenze

    Era meglio non illudersi

    che qualcosa è cambiato

    perché chi sa la storia

    sa che la storia non insegna nulla

    tanto più a chi non la vuole imparare

    che era meglio vergognarsi per tempo

    del proprio essere italiani

    del proprio presidente del consiglio

    del proprio capo dell'opposizione

    del prossimo capo dell'opposizione

    che era meglio non avere memoria

    perché la memoria è una radio che gracchia

    ed è meglio lasciarla accesa

    solo nei giorni della memoria

    che era meglio l'ignoranza

    perché aiuta a sintonizzarsi

    con gli altri homo

    che era meglio dissociarsi

    grattarsi

    diventare invisibili

    che era meglio tacere

    Pubblicato 13 anni fa #
  12. Fare il giornalista nel 2011: un lavoro difficile e in costante evoluzione

    Leggo l’editoriale dell’ultimo numero di “Tabloid”, rivista dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Lo firma Letizia Gonzales, da poco confermata alla Presidenza dell’Ordine medesimo. Una che, se non altro, ha il merito di parlare chiaro. Il titolo, ahinoi, è tutto un programma: “Tempi difficili per i giornalisti”. Non c’è da stupirsi, dato che conosciamo bene la particolare precarietà di tale categoria. Si sfoglia il giornale e già a pag. 4 ci si fa un’idea della gravità della situazione. Del resto la Gonzales dice il vero. Anzi, forse la situazione è perfino più grave di come ci raccontano le cifre ufficiali. Già, perché nessuno ci viene a dire quanti cominciano l’opera e mollano il sogno a mezza strada, col sogno declassato a velleità, magari quando il mestiere cominci a sentirtelo cucito addosso e la prima cosa che ti viene da fare, quando apri gli occhi la mattina, è correre all’edicola.

    E' un dramma quotidiano, individuale e silenzioso, che lascia sul campo morti, feriti, gente incazzata con la vita, che si mette contro genitori, fidanzate, figli.

    Nessuno, inoltre, ha il coraggio di dire che la scelta di iscriversi a Facoltà come Scienze della comunicazione, Sociologia e affini, può essere sì gratificante sul piano culturale, ma poco spendibile sul mercato del lavoro, una volta terminati gli studi. Al momento di iscriversi all’Università è bene capire quali sono le reali condizioni socioeconomiche della propria famiglia, perché se non hai le spalle coperte, alla lunga rischi di finire sotto il classico ponte, nell’attesa di un lavoro sicuro e redditizio che, in quest’epoca di vacche magre, tarderà ad arrivare per tutti… Questa, purtroppo, è l’amara verità.

    IL GIORNALISMO E’ CAMBIATO. IN PEGGIO - Non bastassero le evidenti, oggettive difficoltà di collocazione lavorativa, o di semplice riposizionamento, seguono poi quelle legate alla degenerazione del sistema-comunicazione, colpito da un vero e proprio virus.

    Argomenta molto bene, il Presidente dell’Ordine, nel passaggio che vi riporto testualmente, dato che non saprei sintetizzarlo meglio: “Assistiamo ogni giorno di più al degrado dell’informazione, allo scempio del privato, all’orgia dei particolari, come ha scritto recentemente Mario Calabresi sulla Stampa, all’utilizzazione dei Media per colpire lo sgradito di turno o il portatore di culture diverse… omissis… Il punto di osservazione dell’Ordine, nell’ambito disciplinare, mette proprio in luce la litigiosità crescente fra opposte fazioni di colleghi che la pensano in modo diverso, dimenticando che il dovere del giornalista è quello di informare obiettivamente, nel modo più completo possibile, il cittadino lettore…”.

    Proviamo a tirare le somme. Oggi è perfino superfluo osservare che più fai casino, con ogni mezzo a tua disposizione, tette comprese, più fai audience. Più alzi la voce più ti stanno a sentire (in questo senso i politici non sono secondi a nessuno e spesso ci fanno vergognare di averli votati). Più parolacce dici, meglio è. Frequenti riferimenti a fenomeni di stampo mafioso-camorristico sono graditi, perché Saviano ha inaugurato un nuovo filone che va di moda. E che il sangue scorra a fiumi, perché no? Sangue, sesso e magari pure soldi. Perché è questo che la gente vuole.

    AVETRANA - Il recente caso Scazzi ha portato agli occhi di tutti l’incredibile fenomeno del “turismo morboso”, qualcosa di turpe e insano, che diventerà materia di studio dei criminologi, dei professionisti del male di tutto il mondo. Perché c’era gente disposta, in tempi di crisi, a pagare un viaggio organizzato, con tanto di autobus, per andare a vedere i luoghi dove una ragazzina aveva perso la vita nel fiore degli anni. Magari per scattare foto ricordo. E che dire di quelle ore di diretta televisiva, modello Grande Fratello, ore piene di utili idioti, impegnati a costruire teorie sulle improbabili sabbie del possibile, perché solo chi stava indagando sul campo poteva davvero conoscere i dettagli del quadro che i Soloni di turno cercavano di immaginare, senza peraltro mai convincere?

    UNO STILE AGGRESSIVO - Vanno poi benissimo i programmi che, più che dare spazio alle opinioni altrui, incalzano l’intervistato ai limiti della provocazione volontaria e lo considerano più oggetto che persona. Pensiamo al successo de “Le Iene” oppure di una trasmissione semiseria come “La Zanzara” condotta dallo stralunato Giuseppe Cruciani su Radio24. Piace al punto da essere replicata la notte, dopo la consueta edizione serale. “Striscia la notizia”, insomma, ha fatto scuola: il pubblico cercava e cerca ancora un nuovo modo di interpretare il complesso fenomeno dei mezzi di comunicazione di massa.

    Non resta che arrenderci. E prendere atto che il modo di informare è totalmente cambiato, ma tale mutamento si è allineato al laicismo di tempi estremamente frenetici, dove chiunque cerca uno spazio suo e solo suo, per affermare la propria personalità (con relativi benefici economici o comunque di visibilità/prestigio).

    Ci mancano, in modo clamoroso, personaggi di spessore indiscusso: il grande Indro Montanelli o un inappuntabile come Enzo Biagi. Per non parlare di veri artisti della penna come Dino Buzzati. Quelli che sono venuti dopo danno costantemente l’idea di seguire un carro, schierarsi, tifare, tirare acqua ad un solo mulino che spesso è quello dell’editore. E allora l’obiettività dell’informazione dove va a finire? A cosa serve l’Ordine dei giornalisti, viene da chiedersi, se nei fatti ognuno dispone di ampia discrezionalità e autonomia nel posizionare il proprio prodotto-programma-media, nell’orientarlo verso i lidi più assolati, magari facendosi pure dei nemici, che alla fin fine contribuiscono ad alzare quel polverone che crea dibattito, con repliche piccate?

    Quella caciara gonfia le vele dell’Auditel che, viene da pensare, deve essere diventato una sorta di simbolo fallico nella testa di editori e sponsor.

    Perché non conta cosa hai fatto, ma quanta gente ti ha guardato.

    Se dici-scrivi stronzate ma il pubblico ti segue, forse perché – conoscendoti - questo si aspetta da te, va bene uguale, anzi benissimo.

    Se invece fai comunicazione corretta e completa, ma lo share resta moscio, ti chiudono il programma. O te lo traslano altrove, come accade su Mediaset, dove capita che un telefilm cominci su Italia 1 per poi proseguire, per le puntate successive, su La5, per fare spazio a programmi più appetibili.

    RITMI DI LAVORO FOLLI – La Gonzales conclude bene il suo pezzo affermando-denunciando che “la frenesia della vita quotidiana, che si ripercuote nel mestiere con l’ansia del dover essere sempre sulla notizia e sullo scoop che l’accompagna, determinando spesso l’impossibilità della verifica delle fonti e l’uso indiscriminato della divinità Internet, ha prodotto una serie di mirabolanti giornalismi che puntano sul protagonismo, sull’informazione-spettacolo…”.

    Ecco, il problema sta tutto in questa evidente contraddizione: l’informazione non dovrebbe mai essere una sorta di spettacolo e viceversa. Perché in questo modo il ricevente del messaggio, sia esso lettore, telespettatore, radioascoltatore, navigatore del web, non è in grado di cogliere con chiarezza il confine tra la verità e la sua deformazione, magari satirica.

    NUOVE INTERPRETAZIONI - Quando il grande sociologo canadese Marshall McLuhan disse che “Il mezzo è il messaggio” forse non aveva capito che il cambiamento costante e radicale delle tecnologie avrebbe finito per stravolgere il concetto stesso di massmedia sul quale ragionava lui, rivoluzionandolo.

    Oggi il fine giustifica il media. E allora proviamo a rovesciare la prospettiva e domandiamoci: e se non avessimo capito niente? Se il vero massmedia fosse il pubblico a casa? Se i mezzi di comunicazione fossero solo il diffusore-moltiplicatore di quello che la gente si aspetta di sentire-vedere? Personalmente battezzerei questa mia tesi “teoria del pubblico imperante”, cioè del pubblico che predetermina quanto viene poi detto dai comunicatori di professione a commento di un singolo fatto.

    FONTI POCO ATTENDIBILI - C’è poi il problema dei problemi, richiamato anche dalla Gonzales: Internet. Il Moloch dei nostri giorni. Chi può sapere quanto è attendibile ciascun sito e perfino ciascun utente?

    Se una notizia è sbagliata con chi te la devi prendere?

    Perché alcuni siti spariscono nel nulla da un giorno all’altro senza spiegazioni?

    Nella mia città, Latina, negli ultimi anni sono scomparsi ben tre website molto frequentati: Ciaolatina.it, Chatlatina.it e Latinatifosi.com. Nessuno sa spiegare perché. È normale? Non mi sembra. Ma c’è di peggio.

    Prendiamo Wikipedia. Il suo successo è noto: i giovani consultano con disinvoltura l’enciclopedia virtuale fai da te, ma, alla resa dei conti, che garanzie di veridicità offre?

    Su Wikipedia alcune informazioni che risultano online oggi si rivelano sbagliate domani, vengono modificate dopodomani e magari scompaiono successivamente.

    E allora che senso ha utilizzare questo sito per documentarsi? Un senso effimero, provvisorio, evanescente. Come la condizione dell’operatore dell’informazione dei nostri giorni.

    Si naviga a vista, sperando nel buon Dio e in un 2011 migliore.

    (Fer, da Reset Italia)

    Pubblicato 13 anni fa #
  13. Continua il degrado della politica

    Gianfranco Fini ha querelato i quotidiani “Il Giornale” e “Libero”. Almeno questo ci risulta. Come certo sapete, in un suo editoriale, il direttore Belpietro aveva lasciato intendere che era in programma qualcosa di simile a un attentato contro il Presidente della Camera dei deputati. Roba da Spy Story. Si era parlato anche delle confessioni di una sedicente escort, che avrebbe avuto relazioni con lui, ma il condizionale è d’obbligo…

    “Che palle!” viene da commentare. Perché ormai la trama è sempre la stessa: intrecci tra potere, soldi, complotti e prostitute. E giornali. Intrecci da dare in pasto ai lettori ormai nauseati.

    Dal caso Marrazzo in avanti è stato un continuo rincorrersi di pettegolezzi, maldicenze, colpi bassi, vendette. Il 2010, in tal senso, è davvero un anno da dimenticare al più presto. Non se ne può francamente più. Possibile che l’attraversamento di questa fase storica tanto complicata - complice una congiuntura economica internazionale micidiale -, umiliante per noi cittadini che ci grattiamo la testa ogni giorno per andare avanti (o indietro?) debba essere caratterizzata da questo penoso spettacolo?

    IL PAESE CHIEDE RISPOSTE AI PROBLEMI REALI - Il pericolo concreto mi pare quello di offrire al mondo un’idea dell’azione politica italiana estremamente sterile, basata su una dialettica rissosa e gossipara, da Bar dello sport. Perché ormai il dibattito si è immiserito in un vuoto parlarsi addosso: nessuno ascolta davvero le ragioni dell’altro, partendo dal principio che sia in malafede. La ricerca della verità parte dalla costante ricognizione delle magagne altrui, nella ferma consapevolezza che il più pulito ha la rogna.

    Possibile che non si salvi più nessuno? Ormai non si cerca più di brillare per titoli o meriti conquistati sul campo di battaglia della vita, perché è molto più semplice colpire i punti deboli degli altri, non esitando a mettere in discussione perfino gli alleati o i compagni di viaggio del giorno prima.

    Il disorientato cittadino-lettore-contribuente-elettore ogni giorno torna a casa dal lavoro, si sbraga in poltrona, accende la televisione o la radio nella speranza mai sopita di buone nuove, di sapere finalmente approvati quei grandi provvedimenti legislativi di riforma (es. quella della Giustizia) di un Paese ormai obsoleto in ogni settore, per classe dirigente come per infrastrutture.

    Di tali provvedimenti si parla da decenni, ma niente: mentre i politici si riempiono la bocca con concetti astratti quali il Federalismo – chi lo ha visto mai? -, è un continuo prendere atto della inesorabile deriva in atto. Che ancora non sappiamo dove ci porterà (probabilmente a nuove elezioni, ma non è detto, con questa opposizione da troppo tempo priva di personalità). E intanto la qualità della vita va a farsi benedire, nonostante tutte le tasse che paghiamo.

    IL RUOLO DEI MEDIA – L’errore più grande dei mezzi di comunicazione di massa è stato, negli ultimi anni, quello di dilungarsi nella rappresentazione morbosa di questo particolare genere di news al veleno, perché pare proprio che il ricevente del messaggio - evidentemente lo si suppone frustrato e guardone, una sorta di Fantozzi con mutandoni ascellari - goda intimamente nel rovistare nelle miserie altrui. Come se nel prendere coscienza che il Male abita anche l’animo di chi ha responsabilità di governo possa servire davvero a lenire la gran fatica di andare avanti di tutti noi comuni mortali, perennemente in fila allo sportello dei pagamenti.

    In questo modo, però, questi medesimi media, sempre pronti a mostrare i muscoli, perdono l’occasione per recitare una parte davvero costruttiva, nella società postmoderna in piena decadenza del terzo millennio: quella di chi divulga per educare e educa per migliorare.

    Si crea così un micidiale effetto domino, un moltiplicatore del pessimismo: le persone sono talmente impegnate ad elencare le malefatte altrui, stigmatizzando i comportamenti dei potenti oltre misura (siamo seri: non c’è relazione tra il malgoverno e i vizietti sessuali dei singoli) e a dispensare commenti trancianti da Fiera del qualunquismo che si finisce per perdere clamorosamente di vista le molte cose belle da salvare che tantissime associazioni, magari di volontariato, riescono a realizzare ogni giorno, magari con risorse minime, senza per questo conquistare le prime pagine. In questo modo stiamo affondando sempre più in una melma mediatica che banalizza anche la qualità e rende vano ogni sforzo progressista e migliorativo.

    IL MONDO DEI FURBI E IL CITTADINO INERME - L’italiano medio, che si affaccia al 2011 con le tasche già piene di chili di inutili botti da sparare, forse per sentirsi meno soli e gridare: “Mondo, ci sono anche io!”, è un soggetto impresentabile a livello europeo. Legge pochi giornali, sempre gli stessi, non legge libri, né romanzi né saggi (non legge poesia, ma se lo facesse sceglierebbe Leopardi), non ha fiducia nel futuro, è oppresso dai debiti, ha matrimoni falliti alle spalle e poca voglia di approfondire qualsiasi argomento. Bada al sodo (“Le chiacchiere stanno a zero.”) e affida le sue estreme speranze di riscatto a vizi distruttivi come Superenalotto o Gratta e vinci, vendendo così la propria intelligenza e dignità per un piatto di lenticchie a buon mercato. Forse potrà sembrarvi strano, ma questa tipologia di cittadino è quella più gradita ai politici. Perché loro dai cittadini (o sudditi?) vogliono fondamentalmente una cosa: il voto, il mandato a governare, la crocetta sulla tessera elettorale, magari prestampata dal mafioso di turno.

    Un cittadino critico, che fa troppe domande o rivendica diritti, magari riconosciuti dalla Costituzione, un cittadino che chiede conto e danni del non mantenuto, del non portato a termine, deve sembrargli un’enorme seccatura, una solenne perdita di tempo. Promettere miracoli, del resto, non è così difficile: bastano carisma e parlantina sciolta e il gioco è fatto. Per trovare alibi per quanto resterà solo sulla carta ci sarà sempre tempo e modo.

    (Fer, da Reset Italia)

    Pubblicato 13 anni fa #
  14. Riflessioni sull’anno che verrà. Urge una riforma della politica bancaria

    Il fondo firmato da Ernesto Galli Della Loggia sul Corsera del 30 dicembre 2010, “Un disperato qualunquismo”, nel suo crudo realismo, ha avuto il merito di aprirci gli occhi su quelle che sono le reali prospettive di uno strano Paese chiamato Italia per l’anno entrante: questo 2011 pieno di incognite per le famiglie e soprattutto per le imprese.

    Ormai sfogliare le pagine di qualsiasi quotidiano è diventato il modo migliore per cominciare la giornata all’insegna del pessimismo cosmico. Micidiale, in tal senso, la chiusura del pezzo: “Per l’Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto”.

    AMARE VERITA’ CHE FANNO MALE – Nella sostanza, però, il ragionamento proposto non fa una piega. Tutto maledettamente, tragicamente vero: dall’indifendibile sistema scolastico – che ha portato in piazza decine di migliaia di giovani, che protestavano contro la riforma Gelmini, peraltro con scarsa cognizione di causa – alla burocrazia fallimentare di qualunque ufficio pubblico…

    Dalla giustizia differita nei secoli alla mafia/camorra/’ndrangheta e chi più ne ha, più ne metta spadroneggiante in ogni regione italiana…

    Dal degrado delle periferie – e non solo – di qualsiasi città dell’ex Belpaese ai trasporti degni di un film del ragionier Fantozzi, icona perfetta dell’italiano medio…

    Dagli acquedotti-scolapasta all’abbandono colpevole di qualsiasi sito o attività comunque legata alla Cultura, Pompei docet…

    Dalle tasse sempre più opprimenti all’evasione generalizzata delle medesime, fino alla corruzione tangentista come consuetudine, che si tratti di appalti o concorsi non fa differenza… non ci facciamo mancare niente.

    Sembra proprio che questo penoso 2010 abbia consegnato ai posteri non un moderno Stato democratico in una fase di transizione, ma un soggetto per il prossimo film di Dario Argento, nel quale la condizione naturale dei giovani è venire classificati tra i disoccupati o, al massimo, tra i precari. E il vero dramma è che, per quanto ci si sforzi, non si può non essere d’accordo. Tutto verissimo, anzi, c’è pure dell’altro.

    SERVE UNA NUOVA POLITICA CREDITIZIA - Nelle scorse settimane, ad esempio, la Regione Lazio ha citato in giudizio ben 11 gruppi bancari, chiedendo un risarcimento di 82 milioni di euro (più interessi) in relazione ai cosiddetti costi occulti addebitati sulle operazioni del periodo 1998 – 2007. Questo sì che è un bel problema, del quale i giornali non parlano abbastanza.

    Il fatto che un Galli Della Loggia, tra tante disgrazie, abbia dimenticato di soffermarsi sulla questione delle dinamiche bancarie migliori in un momento tanto difficile mi pare assai significativo e preoccupante.

    Evidentemente il problema della difficoltà di accesso al credito è ancora sottovalutato. Un problema che personalmente, da figlio di imprenditore, conosco molto bene.

    Credo servirebbe, ad esempio, l’introduzione di un prestito d’onore a beneficio dei neolaureati, con criteri d’ammissione da stabilire, per sostenere i giovani meritevoli non solo nella creazione, mai facile, di nuove aziende (Con quali capitali? Quelli dei genitori? Ridicolo) ma per consentire loro di affacciarsi in modo dignitoso alle porte di un mercato del lavoro sempre più anemico e cronicamente a termine. Scrive bene, in tal senso, Beppe Severgnini, quando fa notare che i ragazzi di oggi lavorano a progetto ma… non possono fare progetti.

    Se non diamo fiducia a un neolaureato in Legge, in Economia, in Medicina, a chi dobbiamo darla? Le Banche sono pur sempre delle imprese, dunque è giusto che rischino come tutte le altre. Anzi: è perfettamente logico e naturale.

    Sempre più spesso mi chiedo se i nostri governanti abbiano davvero un’idea di cosa voglia dire concretamente, oggi, farsi una famiglia, mettere su casa e magari avere dei figli per una coppia normale, senza troppe fortune di carattere familiare…

    Mi chiedo se questi stessi governanti siano consapevoli di quanto poco facciano, per aiutare questi giovani a immaginare di poter avere una vita come quella dei loro padri, dei loro nonni.

    Problemi dei giovani a parte, che sono gravissimi, all’Italia serve come il pane una politica del credito davvero innovativa, rivoluzionaria.

    Innanzi tutto urge attivare linee di microcredito che sottraggano i piccoli imprenditori, gli artigiani, perfino i pensionati dal rischio assai realistico di imbattersi nella squallida tela dell’usuraio di turno.

    Spesso lo strozzino si nasconde perfino nel parente o nell’amico di famiglia ben raccontato nell’omonimo film di Sorrentino e non per caso ambientato nella mia città, Latina, da decenni finita sotto lo schiaffo di note famiglie di “magliari” della peggiore specie.

    Serve poi un’apertura-riconsiderazione tutta nuova nei confronti della persona-cliente, la cui onestà potrebbe rivelarsi, di fatto, più preziosa delle tradizionali garanzie reali e/o personali richieste da un sistema bancario ormai obsoleto davanti a tempi duri, complessi e in costante mutamento.

    L’IMPORTANZA DI SOSTENERE I CONSUMI - Il sistema economico nel suo complesso se ne gioverebbe, perché l’Euro ci ha reso maledettamente più poveri, tutti, e a questo punto, nel disastro generale dei conti pubblici e privati, ciò che davvero potrebbe rivelarsi vincente, mi pare, è proprio fare circolare il più possibile il denaro, per lubrificare senza sosta una zoppicante economia da mercatino dell’usato, che ha determinato anche quest’anno una sconcertante contrazione dei consumi, con pesanti ricadute sui bilanci di quella piccola e media impresa che è da sempre la vera spina dorsale del nostro Paese, ritrovatosi sì in Europa, ma con una mano davanti e l’altra di dietro…

    Ma dove vogliono portarci? Al baratto?

    Ha perfettamente ragione, Galli Della Loggia, nel dire che il nostro passato ci sta presentando il conto: tutto questo è inevitabile, ma non è con logiche e criteri obsoleti che possiamo ragionevolmente sperare di pagarlo, questo benedetto e salatissimo conto.

    Serve coraggio, servono idee nuove, politici giovani e capaci, forse anche un poco di follia. Per andare avanti nonostante tutto, e raccontare a figli e nipoti che c’è ancora speranza di un futuro migliore. Perché abbiamo il dovere morale di fare l’impossibile per rilanciare l’Italia.

    Buon 2011 e buon lavoro a tutti voi.

    (Fer, da Reset Italia)

    Pubblicato 13 anni fa #
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    Sul Quaderno Speciale di Limes "Le lingue d'Italia", in uscita, c'è un mio pezzetto che si chiama "Secessioni Pontine". Eccolo qua:

    a.p.
    SECESSIONI PONTINE

    A Terracina stanno incazzati come bestie, o almeno così dicono i giornali. Dice: “Ma tu credi ancora ai giornali?”. No, che c’entra, dalle parti mie lo sanno pure i ragazzini che sui giornali c’è sempre scritto un mare di cazzate. O meglio, scrivono le cazzate soprattutto quando scrivono le cose che non piacciono a te. Quando scrivono le cose giuste per te, invece, scrivono la verità. Come le intercettazioni Telecom e gli scandali del calcio: è chiaro che se a mangiare a casa del designatore degli arbitri, a pranzo o a cena, ci andavano Moggi o quelli del Milan, è chiaro come il sole – lo vedono tutti – che è Calciopoli. Ma se poi qualche volta ci andavano pure quelli dell’Inter, che c’entra? Lì non c’è niente di male, ma che stai a scherzare? (Marcello Veneziani l’altro giorno sul Giornale faceva notare come, se il figlio del caposcorta di Veltroni – quando era sindaco di Roma Veltroni – veniva assunto all’Atac, non c’era niente di male. Ma se invece il figlio del caposcorta di Alemanno viene assunto all’Atac quando è sindaco Alemanno, allora lì sono figli di puttana e si debbono dimettere. Pressappoco come gli incidenti sul lavoro, quelli che una volta si chiamavano ‘omicidi bianchi’. Se la strage avviene alla Thyssen Krupp, è chiaro che è figlia di puttana la Thyssen Krupp. Se poi muoiono degli operai in una cava o una cisterna in Sicilia, è altrettanto chiaro che è figlio di puttana il padrone della cava o della cisterna. Ma se invece muoiono disgraziatamente cinque operai in una raffineria Sapras in Sardegna, allora lì tutte le televisoni e i giornali ti fanno vedere le foto dei Moratti in visita, afflitti e sofferenti come Cristo in croce: “Madonna, poveracci, che cosa gli è capitato”. Dice: “Ma tu ce l’hai coi Moratti?”. No. Assolutamente. Io ce l’ho coi giornalisti. E manco sono amico di Marcello Veneziani, che ho visto una sola volta in vita mia e non credo neanche che ci siamo piaciuti molto.)
    Comunque – tornando a Terracina – pare che lì stiano incazzati e pare soprattutto che stiano incazzati con me. LatinaOggi dell’8 dicembre scrive: “Pennacchi e la voglia di secessione – Antonio Pennacchi suggerisce, magari con una battuta, l’ipotesi di fare un Comune unico tra i Borghi di fondazione? Ebbene, c’è qualcuno a Borgo Hermada che lo prende sul serio. Dopo la visita dello scrittore pontino (…) i residenti della frazione non sembrano più gli stessi. E’ bastata una provocazione, quella fatta dallo scrittore sulla profonda diversità tra i cittadini del Borgo e quelli della città (di Terracina, ndr) per riaccendere la fiamma dell’autonomismo (…) E ora sembra che, più o meno seriamente, c’è chi sta raccogliendo firme per chiedere, appunto, di staccare Borgo Hermada da Terracina e fare Comune a sé. Una eventualità, a dire il vero, impossibile per legge” . Vedi allora che è proprio vero che i giornali dicono solo bugie, menzogne e falsità? Ma quale “provocazione”, quale “battuta”? Io dicevo per davvero, li possin’ammazzà. Ma mo’, secondo te, io vado in giro a fare battute e raccontare barzellette? E chi sono io, Berlusconi? Mo’ domani vado a Zelig, no? Ma vattela a piglia’ in quel posto tu e i giornali.
    La questione è che la provincia cosiddetta “di Latina” est divisa in partes tres. In centrum stat Montania Lepina. In septentrionem Agrum Venetum-Pontinum. In meridionem – ad partirem dam Tarracinam – Napolitaniam Puram, terra maxima infidelium.
    La dorsale Lepino-Ausona – che corre dai Colli Albani fino appunto a Terracina – ha diviso per secoli e secoli, come linea proprio di confine, gli Stati Pontifici dal Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie. Di qua il Lazio – gli Stati della Chiesa – e di là, subbitum dopum rupem Tarracinorum, i napoletani. C’era proprio la dogana coi soldati armati e la guardia di finanza di quella volta là. Se tu vai ancora adesso da Terracina verso Monte San Biagio, la vedi ancora in piedi con due torri rotonde e in mezzo – fra le torri – la porta con le catene. Per venire di qua ti ci voleva il passaporto. E così è stato – di qua il Lazio e di là la Campania, provincia di Napoli prima e poi di Caserta – fino a che è arrivato il fascismo.
    E’ stato il Duce che ha cambiato i confini, e così come Amintore Fanfani che con un tratto di penna sul progetto disegnò un curvone, cambiando il tragitto dell’Autostrada del Sole che doveva passare per Siena e lui invece la fece passare per la sua Arezzo vituperio delle genti (che da giovane, quando facevo l’autostop, ci sono rimasto otto ore e mezzo al casello una volta, che nessuno si fermava, e che l’ultima volta che ci sono stato, invece, in albergo m’hanno fatto schiattare, c’erano settanta gradi perlomeno, un forno crematorio quella stanza, il riscaldamento a palla; ho dovuto aprire tutte le finestre di notte ai primi di dicembre che fuori si gelava, ma dentro ti si fondevano pure le ovaie), così il Duce ridisegnò i confini del Lazio perché gli pareva troppo piccolo e inadeguato a contenere l’aura e l’imperium di Roma: “E che faccio, una capitale così importante e grandiosa con un Lazio attorno così piccoletto? Vie’ qua, Lazio, che ti ridisegno io!”
    Prima, il Lazio andava solo da Viterbo a Terracina e in là – verso l’interno – arrivava sì e no a Tivoli e Subiaco. Mica c’era la provincia di Rieti. Rieti era Abruzzo, proprietà dell’Aquila. Lui l’ha fatta ex novo provincia: “Ego te baptizo Provincia di Rieti”. Per darle poi le terre, un po’ le ha rubate all’Aquila e il resto a Terni e Perugia, all’Umbria.
    Magliano Sabina per esempio – terra gloriosa dei Cencelli – era provincia di Terni, era Umbria. E lui l’ha fatta Lazio in provincia di Rieti. Adesso però – quella è terra dei Cencelli! ripeto – che la Polverini gli vuole chiudere l’ospedale, i maglianesi si sono incazzati anche loro e stanno raccogliendo le firme per fare la secessione e tornare con l’Umbria: “Tornemo co’ Terni, vaffanculo, e vederai che Terni ce lassa gliò spedale” (io gli ho detto: “Ma se dovete secessiona’, secessionate con Trento e con Bolzano puttanaeva, che vi danno più finanziamenti e vi fanno pagare pure meno tasse”).
    Nella parte di sotto invece, il Duce per ingrandire artificialmente il Lazio rubò alla Campania. Non solo da Terracina in giù – Fondi, Sperlonga, Itri, Gaeta, Formia – ma pure da Ceprano in poi. Mica era Ciociaria Cassino, per esempio. Cassino era Regno delle Due Sicilie anche lui.
    Comunque, se li vai a sentire, i reatini parlano ancora abruzzese e i maglianesi ternano. E a Fondi, Sperlonga, Itri, Gaeta, Formia – e pure Cassino – parlano napoletano, mica laziale. Le lingue, le nenie, gli accenti, i dialetti sono più forti – che ci vuoi fare? – anche dei dettami di un Duce. Mica basta un tratto d’imperio per cambiare le lingue e le culture delle genti. Che gli è bastato a Fanfani scippare l’autostrada a Siena e farla passare per Arezzo, per fargli poi capire ai paesani suoi che a una cert’ora è meglio spegnerlo – o quanto meno metterlo più basso – il riscaldamento? Ognuno quindi – anche se gli cambi i confini – continua a parlare come gli pare a lui. E in provincia di Latina, così, si parlano almeno quattro o cinque lingue diverse.
    Dice: “E come fate? Ma insieme ai conflitti linguistici non s’accompagnano pure sempre i conflitti di civiltà?”. Certo, e come no? Ma che vuoi che facciamo? Noi non facciamo altro che litigare. Vattela a piglia’ col Duce, mo’.
    Sulla dorsale lepina, in ogni caso – fino a Terracina, ma Terracina esclusa – parlano un dialetto osco-centrale, lo stesso dialetto dei Colli Albani e di tutta l’area intorno a Roma e fino a Tivoli e Frosinone. Non il romanesco però, che stava solo a Roma-città e che era una mutazione determinatasi nell’incrocio di quell’originario osco-centrale con le influenze toscane portate da tutti i papi, gli artisti e le maestranze del Rinascimento. T’avranno rifatto tutte le chiese e i palazzi, però t’hanno pure imbastardito la lingua. Il romanesco oggi non è che una variante toscana.
    Quello che invece si parlava intorno a Roma e fino a Terracina – ma Terracina esclusa però, ripeto – è il laziale, il ciociaro, il burino diciamo così. Anzi, il povero Enzo Siciliano sosteneva che scrivessi “burino” anche io. Certe litigate mi ci sono fatto: “Ma parli tu, che i tuoi erano calabresi?”. Lui però insisteva, diceva che scrivessi nel “tono misto del parlato pontino (di origini venete e insieme burino-romanesche)” .
    Di là dalla dorsale poi – dopo Terracina, come detto – si parla da secoli e secoli il napoletano. E fin qua non ci piove. Ti ci voleva il passaporto, ripeto.
    Da quest’altra parte invece – nella piana chiamata adesso Agro Pontino – fino a tutti gli anni Venti del Novecento non si parlava proprio. Non si parlava per niente perché c’erano le Paludi Pontine, il deserto “paludoso-malarico”.
    Dice: “Non è vero. Ci venivano ogni tanto i pastori della Ciociaria, i butteri e i cacciatori di Cisterna a cavallo e qualche famiglia poveraccia bassianese a piantarcisi un po’ di granturco in mezzo a qualche radura”. Sì – e tutti questi parlavano, è vero, il ciociaro o burino-oscocentrale che dir si voglia – ma solo d’inverno però.
    D’estate – quando qui impazzavano la malaria e la zanzara anofele – quelli restavano tutti ai paesi burini loro e in palude non c’era nessuno. Deserto appunto. Chilometri e chilometri di landa assolata e sterminata con tutti i miasmi, il putridume, l’afrore e l’umidità degli stagni acquitrini e pantani che esalavano d’attorno, e tu con l’afa d’agosto – oltre alle zanzare – ti sentivi scoppiare, fondere e fumare le cervella ancora peggio che sotto il riscaldamento a palla di un albergo ad Arezzo, senza sentire la lontana voce d’un cane. Altro che dialetti, non parlava proprio nessuno qua. Sentivi solo ogni tanto il “puà-puà” della folaga e – per il resto – dalla mattina alla sera e certe volte pure tutta la notte, solo cori e cori e gracidare di ranocchie. Altro che osco-centrale.
    Nelle Paludi Redente quindi – nell’Agro Pontino – siamo noi veneti, friulani e ferraresi che abbiamo cominciato per primi a parlare sul serio. Anche d’estate. Non solo d’inverno. Siamo noi che abbiamo popolato questa terra, fecondandola col nostro seme e il nostro sangue. Nati dalla terra. Anzi, padri e madri della terra stessa, che abbiamo prosciugato dalle acque. Dice: “Ma mica le hai prosciugate tu. Sono stati i vostri padri a scavare i canali”. Embe’? E non c’ero anche io, in loro, mentre lo facevano? Noi siamo i figli dei Giganti: “Unus erat cum illo et in illo a quo traxit quando quod traxit admissum est” dice sant’Agostino. E san Paolo invece: “Et ita in omnes homines pertransivit, in quo omnes [scava]verunt” Fallo tu, se sei capace.
    Dice. “Vabbe’, ma che lingua parlate adesso a Latina?”.
    Bisogna vedere. A Latina città si parla latinese, che è una variante del romanesco. Non burino. Romanesco. Quando ero ragazzino in seminario, ma pure adesso quando vado in giro, ogni tanto mi pigliano per toscano: “Grossetano?” mi chiedono. “No, senese”, rispondo io. Aretino mai.
    Mentre la campagna difatti, e tutto il resto dell’Agro Pontino furono popolati con queste tremila famiglie di dieci persone l’una – tentamila persone portate giù in tre anni dal Friuli, dal Veneto e dal Ferrarese a popolare la terra promessa – Littoria-città, quella che poi è divenuta Latina, fu popolata con il personale impiegatizio reclutato a Roma. Li presero lì, nei ministeri, e li portarono qui armi e bagagli con tutte le famiglie appresso. Anzi, all’inizio non proprio appresso.
    Il fascio gli aveva fatto tutte le case – belle case dell’Incis e dell’Ina, palazzi e appartamenti grandi da ceto medio-impegatizio proprio come quelli di Roma piazza Bologna, via delle Province eccetera – ma quelli non ci vennero. Le mogli preferivano restare a Roma: “E che so’ matta? Mo’ vengo in palude?”.
    Allora i mariti – gli impiegati – facevano avanti e indietro Littoria-Roma. Pendolari in sede disagiata. Pigliavano la littorina la mattina e se ne tornavano il pomeriggio a casa. Con gli appartamenti nuovi nuovi di Littoria vuoti. Fu il prefetto Giacone – un’altra specie di Cencelli, l’eroe nostro, il Pater Patriae fondatore della città e proconsole in Agro – che alla fine si fece girare i coglioni.
    Lui vedeva tutti i giorni – di giorno – la città piena e la sera però, se gli veniva voglia di uscire dalla prefettura e farsi una passeggiata, trovava sempre Littoria spopolata, neanche un cane in giro, una faccia conosciuta: “Ma che fine hanno fatto tutti quanti?”. Poi alzava la testa a guardare i palazzi e non vedeva neanche una finestra aperta, una luce accesa. Manco in bagno od in cucina. “Eccheccazzo”, ha detto allora Giacone e ha mangiato la foglia. “E che le abbiamo fatte a fare ste città?”. Così s’è informato meglio tramite l’Ovra ed il questore, e una mattina presto, quando la littorina è arrivata a Littoria Scalo e tutti gli impiegati sono scesi come una fiumana per venire a lavorare, invece della corriera fuori della stazione hanno trovato i camion della milizia e il prefetto Giacone che li ha fatti schedare uno ad uno con le baionette puntate, li ha imbarcati e gli ha detto: “Da oggi in poi, chi non risiede stabilmente a Littoria sono cazzi suoi”. Ed è così che sono venute pure le mogli e tutti i figli e s’è popolata pure la città. Parlando romanesco.
    In campagna invece abbiamo continuato a parlare i dialetti nostri settentrionali, anche se non sono rimasti dei dialetti puri. Man mano si sono contaminati. Prima tra di loro – tra veneto, friulano e ferrarese – poi con l’osco-lepino e il romanesco latinese.
    Dice: “E il terracinese? A Terracina-città che lingua parlano?”
    Terracina? Terracina è una storia lunga. La vediamo la prossima volta.

    (continua)

    Pubblicato 13 anni fa #
  16. La miopia dei nostri politici: la polemica su Scienze della Comunicazione

    Nei giorni scorsi abbiamo appreso, non senza stupore, che, secondo certi nostri ministri, lauree come Scienze della comunicazione, tra le preferite dei giovani, sono poi sostanzialmente inutili per trovare lavoro.Del resto di cosa vogliamo meravigliarci? Quando un Tremonti spara che “con la cultura non si mangia”, cioè una frecciata al curaro contro un intero sistema educativo-valoriale, è chiaro che siamo alla frutta. E meno male che viviamo in Italia, terra d’Arte infinita e poeti che tutto il mondo ci invidia; fossimo in America cosa ci toccherebbe sentire?

    In questo tentativo di imporre nella mente dei giovani (gli stessi che manifestavano in piazza contro la riforma Gelmini, guarda caso) la diabolica e riduttiva equazione laurea = posto di lavoro si colgono i germi di un progressivo sfacelo socioculturale che va prevenuto, a parere dello scrivente, attraverso un buon uso dello strumento voto.

    ESPERIENZA PERSONALE - Io ho frequentato L’Ateneo romano “La Sapienza” negli anni ’90, che, devo ammetterlo, erano obiettivamente migliori di questi. Sono stato iscritto a Sociologia, e ne sono ben felice: lì ho conosciuto le migliori persone di questo mondo, che ancora rimpiango, poi sono passato a Giurisprudenza, ma avevo la fidanzata a Ingegneria e quando dovevo studiare andavo nella biglioteca di Lingue dell’ex Magistero (Piazza della Repubblica) perché c’era meno casino. Per ripassare con un amico, mi sistemavo nelle aule di Scienze politiche, spesso vuote. Di più: se avevo un bisogno fisiologico urgente, andavo nei bagni di Farmacia, che erano più comodi e puliti… Ecco, questo, secondo me, significa vivere l’università a 360 gradi, maturando esperienze in ogni occasione di confronto. Devo invece prendere atto che le persone con responsabilità di governo, mica pizza e fichi, sembrano avere una visione elementare sulla spendibilità del diploma di laurea e più in generale dello studio, di questo tipo: studente di legge = futuro avvocato; studente di matematica = futuro insegnante; studente di filosofia = futuro filosofo e via di questo passo. Come si fa, ad esempio, a non comprendere l’importanza dello studio delle lingue straniere in una società multietnica? Oggi conoscere l’arabo o il russo può rivelarsi molto più utile della Matematica o della Fisica: questa è la nuda verità. Quanti ingegneri conoscete che sono a spasso?

    L’INCAPACITA’ DI FARE AUTOCRITICA - Perché non dicono, i padroni del vapore, che non sono capaci di rilanciare l’economia e di creare nuovi posti di lavoro, da più parti invocati, in una fase storica nella quale la disoccupazione sta vertiginosamente aumentando e non si vede la fine del tunnel? Non credo siano questi i politici che un Paese ricco di storia e cultura merita. Del resto i fatti di cronaca (giudiziaria) ce lo confermano quasi ogni giorno, vedi la telenovela sulle Lolite di passaggio a casa di questo o quell’uomo di potere, che ci hanno francamente stufato. E non ci vengano a raccontare che quelle Lolite hanno in tasca una laurea in Scienze della Comunicazione…

    (Fer, by Reset Italia)

    Pubblicato 13 anni fa #
  17. zanoni

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    Nei giorni scorsi abbiamo appreso, non senza stupore, che, secondo certi nostri ministri, lauree come Scienze della comunicazione, tra le preferite dei giovani, sono poi sostanzialmente inutili per trovare lavoro.

    beh, scienze della comunicazione non e' inutile per trovare lavoro, e' inutile tout court: molte chiacchiere senza troppa sostanza (chesso', come fai ad occuparti di esteri senza aver studiato seriamente relazioni internazionali a scienze politiche?)

    Pubblicato 13 anni fa #
  18. la lavandaia

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    [b]LA REALTA’ NON SUPERA LA FANTASIA: L’ABBASSA SOLO DI LIVELLO

    Un giorno come un altro, una strada come tante di un paese “normale”, una persona in mezzo a tante.
    Questa è la storia vera con riferimenti a fatti e persone non puramente casuale di chi lavora nella grande distribuzione. Cassieri, magazzinieri, addetti alle vendite, caporeparti etc etc.
    Per tutta una serie di coincidenze mi sono trovata in mezzo ad un mondo di cui sconoscevo l’esistenza : il mondo delle cooperative della grande distribuzione.
    La maggioranza degli italiani al giorno d’oggi, vuoi per motivi di comodità d’orari o per mera questione di risparmio, va a fare la spesa nei centri commerciali o nei semplici supermercati della grande distribuzione. Ma quanti di noi si sono chiesti cosa vi è dietro il risparmio pubblicizzato e paventato dei supermercati del Lazio? Le risposte potrebbero essere molteplici ma oggi vorrei soffermarmi sulla forza lavoro e cercherò di spiegare in assoluta semplicità come vanno realmente le cose.
    La grande distribuzione del Lazio e per l’esattezza la catena riferita alla Pewex, ha dislocati sul territorio parecchi punti vendita, con una mirata campagna pubblicitaria pagata a fior di centinaia di mila euro informa i cittadini che vi è un notevole risparmio. Addirittura ogni settimana promuove la campagna “risparmio per i pensionati” ovvero un risparmio sui prodotti acquistati a chi si presenta con il libretto della pensione. In tutte le vetrine dei punti vendita nonché sui volantini pubblicitari vi è la coccarda del premio “L’altro Consumo” – rivista nazionale per i consumatori – come miglior catena di supermercati.
    Fin qui nulla di strano. Il mondo della comunicazione funziona così : più pubblicizzi e maggiore valore acquisisci anche se il rapporto qualità/prezzo è scarso ed anche se a farne le spese sono i lavoratori.
    La vera stranezza consiste nella forza lavoro ovvero tutti i lavoratori della Pewex non sono dipendenti della società bensì “soci” di diverse cooperative di servizi.
    Giuridicamente nulla da eccepire, la norma esiste e la grande distribuzione la applica.
    Ma pochi sanno che differenza c’è tra socio di cooperativa e lavoratore dipendente.
    Il socio della cooperativa ha una retribuzione netta di 5 euro per ogni ora di lavoro effettivo e le ore vengono spezzate in turni diversi con pause anche di 4 ore ( non retribuite). Es: inizio turno dalle 7 alle 10 – pausa – ripresa lavoro dalle 18 alle 20. Facendo un breve calcolo la retribuzione è di 25 euro per ogni giornata lavorativa, ed è doveroso che si sappia che le giornate lavorative sono circa 18 in un mese ed una tantum anche nei festivi. Ammontare totale della retribuzione media di un lavoratore alla Pewex è di 450 euro mensili, senza diritto alla malattia, senza diritto alla pausa retribuita, e sopra ogni cosa senza diritto di replica o di ribellione ad un sistema che rasenta la schiavitù cinese!
    Fino a poco tempo fa TUTTI i lavoratori del gruppo Pewex erano dipendenti dello stesso avendo così diritto a tutto ciò che prevede il contratto nazionale collettivo per il terziario. Adesso si ritrovano con lo status di ex dipendenti e soci di cooperativa!
    Dietro ogni banco frigo vi è qualcuno che mette a posto, dietro ogni prodotto ben visibile e pulito vi è qualcuno che tutte le mattine affronta la jungla della città per poter arrivare sul posto di lavoro; e per tutta questa gente non c’è rispetto, non c’è ammirazione e cordialità. Sono solo dei numeri e non “numeri primi” ma estensioni decimali dove grazie alla loro abnegazione vi è qualcuno che si arricchisce cambiando SUV ogni qualvolta ne abbia voglia.
    Ecco, questa è la vera vergogna!
    Non è possibile parlare di crisi e di risparmio senza soffermarsi, anche per pochi attimi, a questo settore così bistrattato.
    Il nostro paese non è solo Metalmeccanici, non è solo impiegati, non è solo insegnanti, l’Italia è formata soprattutto dalla grande distribuzione e da chi ci lavora dentro.
    Non si può parlare di gestione della crisi quando chi è deputato a risolvere il problema agisce in maniera scriteriata a discapito dei lavoratori.
    Basterebbe attuare un pizzico di buon senso, come recita il codice civile, avere il “ senno del padre di famiglia”. Ma quale padre tratterebbe i propri figli come schiavi, negando loro ogni forma di dignità personale e lavorativa? Quale padre toglierebbe il cibo dalla bocca dei figli per acquistare un nuovo SUV? Forse un padre che non è abituato a sporcarsi le mani, forse un padre che pensa di essere il padrone della vita degli altri, forse un padre che come unico dio ha il DENARO.
    Il concetto del rispetto della dignità dell’essere umano ha radici che si perdono nella notte dei tempi ed anche i ns padri della Costituzione hanno sentito l’obbligo morale e civile di scrivere un articolo della Costituzione che così recita “ ART. 36 – IL LAVORATORE HA DIRITTO AD UNA RETRIBUZIONE PROPORZIONATA ALLA QUANTITA’ ED ALLA QUALITA’ DEL SUO LAVORO E IN OGNI CASO SUFFICIENTE AD ASSICURARE A SE E ALLA FAMIGLIA UNA ESISTENZA LIBERA E DIGNITOSA”.
    Sì! Una esistenza libera e dignitosa che, sicuramente, con 450 euro mensili non si è in grado di fornire!
    Ho avuto modo di parlare con alcuni padri di famiglia che lavorano presso la grande distribuzione e nei loro occhi ho visto l’inferno. Un inferno fatto di umiliazioni, ricatti morali, terrore psicologico. Già, terrore!
    Le minacce che subiscono sono subdole, a volte silenti ma efficaci, basta proporre un cambio sede per mettere il lavoratore nella condizione di dover rifiutare. Dirigenti che si trincerano dietro la fatidica formula “ ostandovi esigenze lavorative, da domani verrà spostato ad altra sede”. Ed in tutto questo non vi è nessuno strumento giuridico o sindacale a tutela dei lavoratori. Magna tu che magno io e magnamo solo noi! Pecunia non olet, come dicevano i latini!
    Ho visto donne alle casse in evidente stato influenzale, nel periodo di Natale, con gli occhi stanchi ma con un grande coraggio. Stavano sul posto di lavoro nonostante la febbre pur di portare due soldi a casa.
    Ho visto uomini che a malapena si reggevano in piedi, forse per delle ernie dovute all’eccessivo spostamento di pesi durante le ore lavorative; ho visto ragazzi con lo sguardo spento e con le mani attive mettere a posto gli scaffali; ho visto sorrisi che celavano lacrime. Ed ho anche percepito la paura nei loro atteggiamenti, timorosi di perdere quel poco se solo avessero parlato del loro malessere.
    Ecco cosa c’è dietro ogni prodotto che acquistiamo nella grande distribuzione. Se solo ci soffermassimo a pensare che l’unico risparmio che vi è in tutto questo è quello che ha il datore di lavoro nel pagare la giusta retribuzione ai suoi collaboratori!
    Gian Maria Volontè nel 1971 fu interprete di uno dei film più belli sulla giustizia sociale: La classe operaia va in paradiso.
    In quegli anni era normale e comprensibile la lotta di classe.
    A distanza di 40 anni la situazione è peggiorata poiché non si sente più l’obbligo morale di intervenire in situazioni lesive per la dignità dell’essere umano.
    Ad oggi, forse, sarebbe il caso di dire che “la classe operaia è già in Paradiso”, quel paradiso fatto di sacrifici e libertà mentale.
    I veri eroi di questa Italia sono tutte quelle donne e tutti quegli uomini che ad ogni sorgere del sole, armati della sola cosa che gli è rimasta ovvero la dignità, muovono l’intera economia … senza cambiare SUV ad ogni luna nuova.

    Pubblicato 13 anni fa #
  19. la lavandaia

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    Dalla Chiesa della ragione alla Chiesa del denaro il passo è breve.[b]

    Questa è la storia vera di una delle scuole più note ed accreditate dei Castelli Romani.
    Dall’alto della collina romana si erge il comprensorio scolastico Angelo Braschi, appartenente ai “collegi” fondati da San Giovanni Battista La Salle.
    Un triste gioco del destino, ironia della più becera sorte, proprio in questo istituto che dovrebbe Insegnare sul serio e non per mero interesse economico, che si svolge l’intera vicenda.
    Protagonista è una famiglia, un bambino dislessico l’attore principale.
    Ma in che cosa consiste la dislessia?
    Secondo la definizione più recente, approvata dall’International Dyslexia Association – IDA- “ la dislessia è una disabilità dell’apprendimento di origine neurobiologica. Essa è caratterizzata dalla difficoltà a effettuare una lettura accurata e/o fluente e da scarse abilità nella scrittura. Queste difficoltà derivano tipicamente da un deficit nella componente fonologica del linguaggio, che è spesso inatteso in rapporto alle altre abilità cognitive e alla garanzia di UNA ADEGUATA ISTRUZIONE SCOLASTICA. Conseguenze secondarie possono includere i problemi di comprensione nella lettura e una ridotta pratica nella lettura che può impedire una crescita del vocabolario e della conoscenza generale”.
    Persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica la dislessia e gli altri disturbi di apprendimento come disabilità, per cui non è possibile apprendere la lettura, la scrittura o il calcolo nei normali tempi e con I NORMALI METODI DI INSEGNAMENTO.
    Se accreditati e competenti luminari della scienza osano definire così “il problema” ed addirittura ne indicano le linee guida per l’insegnamento, come mai gli Istituti fondati da La Salle non applicano tali regole?
    Forse bisognerebbe fare un passo indietro fino alla fondazione degli Istituti.
    Giovanni Battista de La Salle un bel giorno della fine del 1600, girando per diverse scuole, si rese conto che il problema non erano gli alunni bensì i maestri. Sì! Scuole gestite da insegnanti ignoranti e senza stimoli.
    Così, animato da tanta fede e fervore intellettuale, decise di rimboccarsi le maniche e creare delle strutture per insegnare ai maestri. Andavano educati, abituati, istruiti, poiché non vi è peccato peggiore dell’ignoranza – come spesso sosteneva San Giovanni de La Salle, patrono degli insegnanti-
    In effetti lo spirito dell’ordine è impeccabile, oserei dire perfetto. Gli insegnanti si formano e soltanto dopo possono insegnare ad altri. Teoricamente è così che dovrebbe funzionare.
    Ma in pratica come stanno le cose all’Istituto Braschi?
    Senza mezzi termini direi che proprio in questo istituto lo spirito del Santo è stato rivoluzionato in peggio; una situazione deficitaria che porta gli allievi a non avere punti di riferimento soprattutto quando si tratta di alunni con disabilità nell’apprendimento.
    Questa è una delle tante aberrazioni , ma adesso andiamo ad analizzare nello specifico.
    Il piccolo principe – così chiameremo il protagonista dell’intera vicenda – è dislessico ed ha bisogno di aiuto.
    Così i genitori decidono di iscrivere il bambino all’Istituto Angelo Braschi, convinti di dare il meglio al loro figlio.
    Con tanti sacrifici e non solo economici, ogni giorno accompagnano il piccolo principe a scuola; ogni mattina lo salutano con amore e lo affidano agli insegnanti.
    Quasi ogni giorno il bambino arriva all’orario d’uscita carico di noia -che si sa è la madre di tutti i vizi- senza aver imparato nulla anzi peggiorando l'assimilazione del vocabolario.
    Notando tutto ciò, la madre decide di parlarne con la coordinatrice la quale con inutili e sterili raccomandazioni tenta di tranquillizzare.
    Ma come può una madre tranquillizzarsi quando vede il proprio figlio in balia degli eventi? Come può una madre dormire sonni tranquilli quando si rende conto che il metodo d’insegnamento è inadeguato ? (peraltro l’inadeguatezza del metodo è stata certificata anche dall’Asl di competenza!)
    Tante domande, poche risposte.
    L’unica risposta che l’Istituto ha saputo fornire è : la retta da pagare trimestralmente è pari a 545 euro da aggiungere altri 250 euro per le “divise”. Pecunia non olet!
    Le divise? Sì, avete capito bene.
    L’istituto Angelo Braschi vuol diventare la novella Oxford dei Castelli.
    Probabilmente alla direzione scolastica sfugge che non è importante la forma, ma quanto la sostanza.
    Se i bambini non ricevono un adeguato insegnamento, anzi peggiorano giorno dopo giorno, non potranno mai definirsi “novelli studenti oxfordiani”, per il semplice fatto che ad Oxford l’imperativo unico è STUDIARE BENE CON COMPETENZA.

    Questo è in sintesi quello che succede.

    Pubblicato 13 anni fa #
  20. rindindin

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    post molto accorati a cui c'è ben poco da aggiungere se non la tristezza...

    Pubblicato 13 anni fa #
  21. la lavandaia

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    ... già! è la vera tristezza consiste nella realtà dei fatti.
    e nessuno ne parla poichè tutti impegnati - da destra a sinistra passando per il centro con intersecazione obliqua su piattaforma programmatica - a parlare delle chiappe di Berlusconi e di 4 troiette.
    questa per me è la vera tristezza che ormai tutta l'informazione è galvanizzata sulla mancanza di decenza del presidente del consiglio.
    ... però nel frattempo nel mondo, nel nostro Paese, nella nostra città, succede ben altro... tanto altro che và ben oltre la normale decenza!

    Pubblicato 13 anni fa #
  22. rindindin

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    hai perfettamente ragione, si fanno vivisezioni accurate in politichese e poi si vive tutti come merde e ci si comporta peggio...siamo ben lontani dal risolvere il problema più grande:la decente sopravvivenza. la presa di coscienza diventa sempre più un' utopia. io sinceramente mi vergogno di tutto quello che sta succedendo e quel che è peggio non so cosa fare...sono spiazzata e mi sento sempre più a disagio...

    Pubblicato 13 anni fa #
  23. rindindin

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    comunque una cosa posso dirla a difesa di questo circo mediatico...come per al capone è bastata poi la semplice denuncia di evasione fiscale per incastrarlo, per berlusconi alla fine basterà la condanna per prostituzione e abuso di minori

    Pubblicato 13 anni fa #
  24. la lavandaia

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    per la cronaca...
    un giornalista de IL RIFORMISTA ha deciso di approfondire la questione riguardante l'Istituto Braschi di Grottaferrata.

    Pubblicato 13 anni fa #
  25. k

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    M'hanno cercato dalla scuola di giornalismo della Luiss per una piccola intervista sull'architettura fascista. M'hanno mandato le domande e gli ho rispedito le risposte. Ecco qua:

    DOMANDA - Il ventennio fascista ha lasciato delle tracce evidenti sul volto di Roma. Cosa significa per una città così importante conservare i segni tangibili di un periodo storico così controverso, e qual è il rapporto della città eterna con il ricordo materiale del ventennio?

    RISPOSTA - Ah, non lo so. Considerato che Roma è oramai una megalopoli di non so quanti milioni di abitanti, a me pare che i segni più tangibili – e più tangibilmente negativi soprattutto per quei poveri milioni che ci abitano, soprattutto quelli delle sterminate periferie – siano quelli dell’edilizia e della speculazione ad essa correlata che si è dipanata dalla fine degli anni Cinquanta in poi. Se la si rapporta a questa, la costruzione dei quartieri sia impiegatizi che popolari in epoca fascista è un campionario mai più raggiunto di architettura ed urbanistica “a misura d’uomo”.

    D. - In altre città europee i segni di regimi autoritari e dittatoriali sono stati rimossi. Perché a Roma non è successo?

    R. - Scusi, eh? Non è per essere pignolo, ma pure il regime della Chiesa, quando a Roma comandava il Papa Re e il boia Mastro Titta faceva avanti e indietro con la ghigliottina, pure quel regime a me pare che fosse tutto sommato un tantinello più autoritario e dittatoriale del fascismo. Non è che il Papa si eleggesse a suffragio universale. Eppure non mi pare che – arrivate la democrazia e la libertà – a qualcuno sia venuto in mente di andare a buttare giù tutte le chiese di Roma. Stanno ancora là. Anzi, ci sta pure quasi in ogni città del nostro Paese una targa con il nome d’una “Via Umberto I”, e Umberto I – lei ricorderà – è quello che mandò le truppe di Bava-Beccaris a sparare sulla folla a Milano che chiedeva pane. Ma pure a Parigi – se lei ci va – lei ci trova ancora la roba non tanto di Napoleone I, ma pure di Napoleone III.

    D. - Cosa passa per la testa di un giovane, oggi, quando legge l´aforisma di Mussolini inciso sulla facciata del "Colosseo quadrato", o le incisioni inneggianti al duce sul marmo del Foro Italico?

    R. - E che ne so io? Mica sono giovane io. Io credo però – sinceramente – che al giovane, o quanto meno al giovane in genere e non a quel particolare tipo di giovane fighetto che si suole definire alla Holden, non gliene strafreghi un cazzo. Per lui è roba del passato, del più remoto passato. Mussolini e Cicerone per lui stanno sulla stessa linea temporale. Che cosa vuole che gliene freghi? Il problema si porrà, eventualmente, fra qualche anno, quando qualcuno verrà a dirgli che bisogna intitolare una Via pure a Berlusconi. Venga allora – se si ricorda – a rifarmi la domanda.

    Pubblicato 13 anni fa #
  26. rindindin

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    bella!!

    Pubblicato 13 anni fa #
  27. la lavandaia

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    Membro

    “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo”… la prima strofa di una nota canzone di Gino Paoli accompagna questa mia giornata; come una colonna sonora mi ispira e mi fa sognare ad occhi aperti.
    In fondo tutti abbiamo bisogno di sognare, di sperare, di credere.
    Tutte le Storie così come tutte le Rivoluzioni cominciano con pochi amici che credono in un progetto, in un modus operandi che li accomuna sotto il segno immutabile dell’Amicizia.
    Così è stato nel passato e così sarà nel futuro ed è proprio con lo sguardo rivolto al domani che i “4” amici, in una sera come tante altre, si sono riuniti attorno ad un vassoio di pizzette al pomodoro ed una bottiglia di coca cola al posto del rum di Neruda.
    L’accostamento potrebbe sembrare non casuale, chi non ha mai bevuto rum e coca?
    Beh, in effetti, mai nulla accade per caso!
    Eravamo tutti stanchi, con gli occhi lucidi, con le membra indolenzite ma con il cuore in fermento.
    La giornata era cominciata presto e non priva di intoppi e casini professionali; le poche ore di sonno della notte passata avevano contribuito ad attivare l’interruttore della sezione “ sogno o son desto?”. Proprio sulla linea sottile, quasi impercettibile, tra realtà e immaginario, c’eravamo noi.
    Ognuno con la sua individualità, ognuno con il proprio passato, ma tutti con un grande futuro: cambiare il mondo.
    Ma come si fa a cambiare il mondo? Forse il mondo è un po’ troppo e magari sarebbe meglio limitarsi a Roma nella misura in cui è Caput Mundi.
    Attorno al tavolo di legno massiccio, senza nessuno a capotavola, ma uno di fronte all’altro, c’eravamo noi: Renzo con la barbetta color nuvola e gli occhi incisivi come laser ; Norberto con la sua” divisa”, sempre impeccabile anche alle due di notte (sfido chiunque ad aver sempre in ordine il nodo della cravatta); Federico con la sua aria sorniona ascolta e rilancia con battute “tra il sacro ed il profano”; ed infine ci sono io. Donna sull’orlo della sacra soglia ( o sogliola come direbbe mia madre) dei 40 anni, attenta ma non troppo, lesionata nei punti essenziali della mente e rivoluzionaria q.b ( l’elemento rivoluzionario deve essere come il sale- quanto basta- altrimenti si rischia di rovinare tutto).
    Invito Federico a prendere qualche pizzetta e mi limito a versarmi qualcosa da bere.
    - Sei a dieta eh? questa benedetta linea- commenta Renzo.
    - Ma quale dieta? Mai fatta una dieta in vita mia, almeno volontariamente, forse qualche volta ma a causa di forza maggiore – ho pensato tra me.

    Così tra una battuta e l’altra comincia il “nostro sogno”.
    Ci ritroviamo a parlare di giustizia sociale, ma ci “galvanizziamo” quando si parla di ingiustizia sociale.
    Quante parole e quanti pochi fatti sono stati spesi in merito alla giustizia sociale, per cui proprio come in una novella Scuola Pitagorica è preferibile adottare il termine “ingiusto”.
    È ingiusto pagare per un posto di lavoro – ma si fa-
    È ingiusto comprare un titolo di studio- ma si fa-
    È ingiusto pagare sottobanco un intervento chirurgico per ottenere la priorità- ma si fa-
    È ingiusto attendere 7 mesi per una tac- ma si fa-
    È ingiusto piangere da soli- ma si fa-
    È ingiusto non provare ribrezzo e dissenso dinnanzi al malaffare- ma si fa-
    È ingiusto sorridere quando, invece, si vorrebbe piangere- ma si fa-
    È ingiusto chiudere il cervello ed aprire le gambe per un posto in parlamento- ma si fa-
    È ingiusto saltare la cena poiché si hanno i soldi soltanto per un pasto al giorno- ma si fa-
    È ingiusto non avere una casa e vivere sotto i ponti di lungotevere- ma si fa-
    È ingiusto pagare 12 mila euro al mese, come spese di segreteria, ai parlamentari che percepiscono già un loro stipendio ( 22 mila euro)- ma si fa-
    È ingiusto non far valere i propri diritti costituzionali- ma si fa-
    È ingiusto scrivere quando in pochi leggono- ma si fa-

    Basta! Smettiamola di fare se questo vuol dire “fare”.
    Trasformiamo l’ingiusto in giusto.
    Come tutti i processi di trasformazione è necessario partire dal “principio”… magari da una tavola con quattro amici.

    da Il Tinello della Lavandaia

    Pubblicato 13 anni fa #
  28. A.

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    Moderatore

    Non è giusto drogarsi... "ma si fa".

    "C'hai la coca? "
    "No cucino da solo."

    Pubblicato 13 anni fa #
  29. A proposito di parlamentari...
    Abbiamo 630 deputati.
    Li paghiamo 15mila euro al mese.
    Ieri almeno 620 (fonte Il Tempo) non si sono presentati.
    E' tempo di pagarli solo in base alle presenze!
    Questi non lavorano, fanno come gli pare!
    Devono essere pagati in base a quello che producono.

    Pubblicato 13 anni fa #
  30. Woltaired

    offline
    Membro

    sai Fer, credo sia difficile bonificare letame su un c/c...

    Pubblicato 13 anni fa #

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