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LA MASCHERA DELLA MORTE

(267 articoli)
  • Avviato 15 anni fa da maw
  • Ultima replica da parte di FernandoBassoli
  1. rindindin

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    nn c'è bisogno della parolaccia...:)

    Pubblicato 14 anni fa #
  2. A

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    Rindinin ti devi decidere: Vuoi il bar latina littoria?, vuoi la sublime poesia di De gregori?, critichi A perchè "dopo esser rientrato bene, non è arrivato alla ciccia" (quasi sic ! BOH...) e ora ti scandalizza un predicatore di Terracina? Guarda che al Bar ci so stare anche io, però allora inizio a fare seriamente. Poi vediamo...
    (Comunque, con buona pace di tutti, devo tornare sennò Maw non scrive più. )
    Un cordiale "vaffanculo" (simpatico, s'intende) (sic![?]) a tutti gli avventori del Bar anonima scrittori.

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    Pubblicato 14 anni fa #
  3. tataka

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    Credo che Maw sia un genio. Non tanto della letteratura ma della provocazione. E' incredibile come, con le sue sparate abbia concentrato tutta l'attenzione del forum su di se e le sue opere mentre il racconto di (r)esistenza in home page -pur essendo un mezzo capolavoro- non se l'è cacato nessuno.

    Pubblicato 14 anni fa #
  4. sensi da trento

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    Credo che Maw sia un genio. Non tanto della letteratura ma della provocazione.

    in effetti ricorda molto fernando bassoli

    Pubblicato 14 anni fa #
  5. zanoni

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    genio (della letteratua o della provocazione) non proprio. il suo vero obiettivo era di piazzare la commedia (a 40 euro): ma non credo che se la sia comprata qualcuno...

    Z

    Pubblicato 14 anni fa #
  6. cameriere

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    non credo sia così

    Pubblicato 14 anni fa #
  7. sensi da trento

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    non credo sia così

    apperò !!
    l'hai comprato?? com'è?

    Pubblicato 14 anni fa #
  8. maw

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    ma la canzone di De Gregori è piena di parolacce...!
    "e poi ti dicono... tutti sono uguali
    tutti rubano nella stessa maniera
    ma è solo un modo per convincerti..."
    oppure:
    "e poi la gente, perchè è la gente che fa la storia!
    quando si tratta di scegliere e di andare
    te la trovi tutta con gli occhi aperti
    che sanno benissimo cosa fare"

    Pubblicato 14 anni fa #
  9. A

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    "
    0 vero c'era il falòtico
    mutarsi della mia vita,
    lo schiudersi d'un'ignita
    zolla che mai vedrò.

    "

    Sensi, senza guardare su internet,
    mi diresti se questa ti sembra poesia
    cioè se ti comunica sentimento?

    Ps. Torquemada taci!

    pps. Ci vediamo sabato per pizza.

    Pubblicato 14 anni fa #
  10. sensi da trento

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    così a naso mi pare foscolo (considerato che parla di zolle).

    la tua domanda invero è scorretta, perchè tu estrai un verso un po' più oscuro degli altri da un contesto molto più ampio.
    nel caso di Maw, invece, è oscuro TUTTO il contesto in cui si muove.

    se vado a fare l perifrasi, mi pare di capire che lo scrittore dice (più o meno)
    in verità c'era il mutare della mia vita/ simile al fuoco di un falò/ lo schiudersi di una zolla di terra bruciata/ che io mai vedrò.

    adesso io non voglio svicolare dalla tua domanda: il pezzo così come estrapolato non mi comunica nulla; però devo riconoscere che è ben costruito e ha una sua logica.
    tutto questo non lo ho riscontrato nella poesia di maw, benchè questa fosse invece presa per intero.

    adesso mi hai incuriosito e vado a controllare su internet.

    per la pizza preferisco parlare con serena: lei è una che se prende un impegno non cambia idea

    Pubblicato 14 anni fa #
  11. sensi da trento

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    montale.
    sigh !!
    decisamente la letteratura non è il mio mestiere

    Pubblicato 14 anni fa #
  12. maw

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    Membro

    è rimasto solo sensi-da-trento a sostenere l'assoluta oscurità dei miei versi... essi in effetti sono un po' oscuri, in primo luogo perchè intendono preservare l'identificazione dell'io narrante, e rimetterla alla fantasia del lettore, il quale vorrei spingere a capire chi è o cosa è MAW! ...poi perchè essi sono surreali: credo insomma che l'immaginazioni più suggestive siano quelle del sogno, e per questo nelle mie poesie adopero meccanismi di rimozione, condensazione, ed altri, tipici del processo onirico.
    Detto questo però, senza insistere con la spiegazione delle mie poesie - esercizio in effetti un poco avvilente... - ricordo soltanto che, anche negli esperimenti più complessi da un punto di vista logico, comunque la prima persona, l'io narrante, traini bene tutto il gioco delle varie consecuzioni temporali e delle varie predicazioni...
    E' un IO quello che, in "letalia", vuole dire del "rischio"...
    E' "il signor Tremoto" quello che vuole che il "male" - forse un terremoto? - colpisca lui - frani sul suo...
    E' un signore, quello che beve un tè seguito dai suoi vecchi servitori, quello che poi, in un moto di panico, o per via di un dejavù, viene ad identificarsi con la teiera - fatto poetico, quest'ultimo, di tipo simbolico, il quale vuole rimandare ad una surreale comprensione dell'attimo, dell'eterno, di un orizzonte fuori dal tempo che precede forse un pianto liberatorio.
    Altro discorso è quello de "il gatto con gli stivali", la quale non è una poesia surreale... Nessuno ha commentato questi versi chiarissimi da ogni punto di vista.
    Io comunque accetto il vostro giudizio, il quale vuole difficili i miei versi, e non cerco polemiche che hanno per fine se stesse.
    Spero soltanto, con tutto il cuore, che la mia poesia possa infine convincervi.

    Pubblicato 14 anni fa #
  13. zanoni

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    Membro

    è rimasto solo sensi-da-trento a sostenere l'assoluta oscurità dei miei versi...

    beh, no: ci sono anche io

    credo insomma che l'immaginazioni più suggestive siano quelle del sogno, e per questo nelle mie poesie adopero meccanismi di rimozione, condensazione, ed altri, tipici del processo onirico.

    no, no, no. anzi, per essere piu' esplicito: un par di palle! il processo onirico e' fatto di immagini e di partecipazione emotiva agli scenari che queste immagini rappresentano: ma nei versi di maw ci sono solo parole, non ci sono ne' immagini ne' contenuto emotivo (o almeno non sono in grado di trasmetterlo).

    non perche' sia una cosa facile: ma un poeta degno di questo nome dovrebbe essere in grado di farlo, no?

    Pubblicato 14 anni fa #
  14. maw

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  • big one

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    anche del video non si scorgono immagini...

    Pubblicato 14 anni fa #
  • Torquemada

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    Fondatore

    [Avevo citato la polemica del Croce sulla poesia di Mallarmé e sull'esegesi che ne fece il Noulet. Il pezzo è lungo, ma val la pena di leggerlo. Per chi volesse saltare. Il pezzo che avevo in mente, quando citavo il commento del Croce, è in grassetto.]

    IL 'SEGRETO' DI MALLARME'
    di Benedetto Croce
    dal libro 'Letture di poeti', Laterza, 1950.

    Il Noulet, devoto al Mallarmé e all'arte di lui, dice di aver scoperto il suo 'segreto', che per ben dieci anni ha gelosamente custodito e solo ora mette fuori. Veramente anche io ho sempre tenuto che il Mallarmé avesse un segreto, ma non nel senso che potesse mai rivelarmi tal cosa che avrebbe mutato il giudizio che facevo di quella sua che egli chiamava poesia, la quale avrebbe dovuto parlarmi da sé stessa con voce poetica, ma nell'altro senso che mi spiegasse o mi rendesse comprensibile il processo delle sue aberrazioni, che non era semplice come di tante altre che vediamo presto in qual modo siano nate.
    In un fascicolo di una rivistina, l'Artiste del 15 Novembre 1862, alla quale il Mallarmé collaborava, il Noulet ha trovato un articolo col doppio titolo: Héresies artistiques, l'Art pour tous. Il concetto fondamentale di questo articolo è che tutte le arti, sacre come sono al pari delle religioni, si avvolgono nel mistero, salvo la maggiore di tutte, la poesia, che non è protetta contro le «curiosità ipocrite, contro le empietà, e il sorriso o la smorfia dell'ignorante e del nemico». Pensare - egli dice - che Les fleurs du mal di Baudelaire sono stampate nei caratteri e nell'aspetto tipografico di cui gode anche Ponson du Terrail; laddove avrebbero bisogno dei «fermagli d'oro dei vecchi messali» o dei «rotoli di papiro coi logo geroglifici inviolati». La musica, invece, dignitosa e accorta, presenta Macart, Beethoven o Wagner con «processioni macabre di segni severi, casti, ignoti». Donde verso la poesia l’ammirazione imbecille della folla; e l’idea assurda e ridicola di insegnarla nelle scuole, abbassandola al grado di una scienza. La poesia, sciaguratamente, non è riservata, come si dovrebbe, alla gente del mestiere al pari della musica, della pittura, della scultura, ma fa parte dell’educazione dell’uomo completo; e questo è il male, un male di cui hanno colpa gli stessi poeti che «ambiscono alla popolarità, la quale è naturale che sia ricercata dai filosofi, che hanno nelle mani pugni di verità da spargere»; ma il poeta, «adoratore del bello inaccessibile al volgo», dovrebbe contentarsi dei voti del sanhédrin dell’arte.
    E questo che il Noulet ha scoperto e chiama «testo prezioso» e vuole ora comunicare anche a noi, è nient’altro che un cumulo delle storture che in riferimento alla poesia riempivano la mente del ventenne Mallarmé. La musica è protetta dalle carte musicali; ma non passa forse, senza quelle carte, nell’anima e nella mente di coloro che la ricantano per udita? E, per contrario, la poesia non ha simili protezioni, ossia impedimenti, nella ignoranza dell’alfabeto o anche, senza questa salutare ignoranza, della lingua in cui è composta? E la pittura e la scultura non è abbandonata ai profani, specie nei giorni in cui le pinacoteche e i musei sono visitati da gruppi familiari di buona gente, che vi fanno intorno i loro ingenui commenti? E che cosa importa che la poesia sia letta in libercoli poveramente stampati se essa è poesia solo quando è ricevuta nell’animo che la ricrea in sé, e l’uscio d’entrata non fa differenza, e anzi certamente è più adatto quello umile che non il grandioso, e le belle edizioni dei poeti non ne accrescono in nulla la poesia né ne accrescono l’ammirazione, la quale, in quelle edizioni, va all’artista tipografo e non all’artista poeta? E perché non si deve o non si può insegnare la poesia? Si insegna come tutte le altre cose, come la filosofia, le scienze, la morale, cioè sempre col presupposto della spontanea disposizione del discepolo a venire incontro e a unificarsi col discente. E il non intendere o il fraintendere la poesia non è forse il medesimo che accade non solo in tutte le arti, ma nella filosofia e nelle scienze e nella educazione morale: pure, un raggio di queste cose penetra nella società umana, un verso, un’immagine, una nota, un pensiero, un dubbio, un esempio, o, per lo meno, si avverte in qualche modo l’esistenza di una sfera superiore al comune conversare e si prova la riverenza verso di essa e sorge l’aspirazione di avvicinarlesi e di farne esperienza. Né è da credere che la poesia la intendano appieno i componenti dei sinedri, cioè i competenti, se appieno non l’intende di solito neppure l’autore, dal quale l’opera, compiuta che sia, si distacca come il frutto dalla pianta, e l’intendimento è un processo di acquisizione che va all’infinito. E mi arresto qui, giacché, innanzi a spropositi che si prendono con le molle, cioè col buon senso, ho già ragionato troppo sul serio.
    Ma se il documento che oggi ci è fatto conoscere è curioso, mostrandoci quanto, a vent’anni, poco sviluppato e molto confuso fosse l’intelletto del Mallarmé, concorre altresì a spiegarci come mai egli, da quelle deplorazioni della cattiva avventura che la divulgazione della poesia procura alla poesia, pervenisse al proposito di fare, sotto nome di poesia, tal cosa che differisse da tutto ciò che fin allora si era chiamato con questo nome, e cioè incomunicabile ad altro uomo, che avrebbe potuto, tutt’al più, valersi delle sue suggestioni per farne per proprio conto un’altra, diversa, e concorre altresì a spiegare come egli ponesse il suo ideale nel comporre tale unico e mirabile libro o poema o singolarmente condensata parola da risolvere in un sol atto tutti i problemi del mondo, facendo morire il mondo, e che queste cose lasciasse intravedere ai suoi uditori del martedì, per molti e molti anni; e sempre più si facesse ermetico e sempre più si vuotasse di ogni partecipazione alla vita umana, che ha pur dato materia e stimolo alle opere degli altri poeti che si chiamano grandi; e perdesse via via anche quelle fulgurazioni che ebbe nelle sue poesie della prima o delle prime epoche, e si inaridisse a segno che la raccolta delle sue opere (vedere l’edizione della Pléiade), paragonata a quelle, non dico di un gigante come il Goethe, ma di un Baudelaire o di un De Vigny, dà l’impressione di miseria, perché ai pochi e deboli conati di poesia si accompagnano e li soverchiano grammatichette e compendiucci scolastici o cose frivole come gl’indirizzi di casa dei suoi amici messi in verso e in rima. Le parole che vengono sul labbro a questo spettacolo sono state pronunziate da coloro stessi che gli stettero attorno: due parole che accennano a un che di patologico, «impotenza» e «fissazione», e con ciò si potrebbe anche rinunziare a intendere a pieno il suo caso morboso, perché quello che è minato dal fine a cui si mira e che si raggiunge e che perciò si ripercorre e s’intende, ma una mancanza di fine e una effettiva stasi.
    In conseguenza della grande importanza che egli attribuisce all’articolo mallarmiano del 1862, il Noulet è preso da scrupoli nell’accingersi a commentare i dieci poemi che ha scelti, perché con simile lavoro che allarga pericolosamente la cerchia dei lettori del Mallarmé, si viene ad operare in senso contrario alla fede professata e raccomandata dall’autore. Ma egli risponde a sé stesso che le esegesi del Mallarmé sono lette meno della sua poesia, sicchè il pericolo non c’è, e che al sua esegesi non vuole conquistare nuove anime, ma «ha di mira soltanto di rafforzare la fede di coloro che la posseggono già, e moltiplicare le ragioni dell’ammirare in coloro che già le hanno»; e, quanto tutt’altro manchi, «si può forse impedire al fanciullo d’inventare e all’occhio dell’uomo di frugare il cielo che egli contempla?». La risposta è un po’ stupidina. Ma tutta questa illogica è, per un altro verso, a suo modo, perfettamente logica, perché se quella che il Mallarmé chiamava poesia non ha nessuno dei caratteri della poesia di tutti i secoli precedenti ed è diversa da tutto ciò che risponde all’idea della poesia elaborata dal pensiero di almeno due millenni e mezzo, e se essa non vuol essere l’espressione armonica della vita spirituale negli infiniti suoi modi di gioia e dolore, ma invece è direttamente vita essa stessa, avvolgendosi in sé e di sé eccitandosi, ed esce in suoni che non creano immagini, ma occasionano un oscuro, un cieco movimento in chi l’ascolta, è evidente che nessun commento se ne può fare che non sia arbitrario, e che si deve, in ultimo, domandar perdono per aver osato ciò che chi lo fa sa e stima anche lui che sia proibito. Il lettore non addomesticato a cotesta logica-illogica e non domato dalle martellate di codeste frasi senza senso, si domanda, da povero uomo qual è: - O che si canzona? – Ma il sublime iniziato tira superbo e raccolto in sé per la sua strada. Tuttavia recherò qualche esempio di quel che fa il critico e che egli è incerto come definire, perché non vuol sapere di trattare quella che chiama «opera strana» mercé di una «semplice parafrasi prosaica» o congiungendola alle correlative teorie nuvolose, e dichiara che limiterà il «sacrilegio della sostanza stessa del pensiero mallarmiano» col rifiutare di ricavarne il «valore figurato» e col dare di esso una «spiegazione letterale e letteraria». Come che sia, tolgo a saggio di quanto ci si offre intorno all’opera di Mallarmé scegliendo tra i dieci poemi il nono, che il Noulet stesso afferma appartenente a un’epoca nella quale il Mallarmé, venuto in possesso di tutti i suoi mezzi tecnici, non pubblicava se non in versi «definitivi e senza punteggiature», e che perciò esso «si situa al culmine del suo svolgimento».
    Le due quartine del sonetto sono queste:

    A la nue accablante tu
    Basse de basalthe et de laves
    A même les échos escalves
    Par une trombe sans vertu
    Quel sépulchral naufrage (tu
    Le sais, écume, mais y baves)
    Supréme une entre les épaves
    Abolit le mât devêtu :

    le quali – dice il critico – formano una «frase sola, sinuosa, in arabesco, i cui movimenti ben convengono alla figurazione di un naufragio», con la congiunta dispersione delle funzioni grammaticali, che è «disordine intenzionale e rispondente a una visione imitatrice». C’è, invero, già nel primo verso un incaglio, quel «tu», che sconcerta il lettore, il quale va dritto al «tu» pronome, laddove quello è il participio passato del verbo «taire», e il Mallarmé, per costringere a non attaccarsi indebitamente ad «accablante», e per introdurre una pausa, ha qui moltiplicato le difficoltà e ha reso, come egli voleva, quasi impossibile la pronuncia del verso con la penosa successione delle dentali e con altri avvedimenti. Ma a che si riferisce il tu, il taciuto? Al «naufrage» del primo verso della seconda strofa, che è il «soggetto delle due quartine e la base dell’allegoria»; naufragio, cioè taciuto alla nuvola, la quale, «con l’opposizione di bassa, di basalto e di lave, imita il peso nero di una nuvola bassa»; alla nuvola la cui tromba era «senza virtù», e perfino priva degli echi suoi schiavi. Viene un secondo «tu», che questa volta è il pronome, posto fra parentesi in vista, si direbbe, per rendere più ermetico ancora il primo o per creare l’equivoco mercé estravaganti associazioni d’idee. «Mallarmé aime ces sortes de pièges», dice il Noulet in altra occasione; né il senso di questa avvertenza si lega all’idea o simbolo del poema, ma allude alla necessità dovuta alle difficili rime in «aves», e tuttavia ci dà la «descrizione completa e morale della schiuma, che è il solo effetto e il solo testimone del disastro». Il «supréme entre le épaves» ci avverte che tale doveva dirsi tra i rottami l’albero maestro della nave, e l’«abolir», è un bel retaggio che il Mallarmé ricevé da Gerard de Nerval e che perciò ebbe sempre cara.
    Le due terzine suonano:

    Ou cela que furibond faute
    De quelque perdition haute
    Tout l’abîme vain eployé.
    Dans le si blanc cheveu qui traine
    Avarement aoura noyé
    Le blanc enfant d’une sirène.

    Anche queste due terzine compongono una sola frase tumultuosa. Quell’«ou» è un dubbio o un’interrogazione, e vuol dire che l’abisso che, in mancanza di una preda di valore, ha annegato qualcosa di poco pregio e di scarsa consistenza, in un verso singolarmente e fortemente tagliato, in cui domina il «furibond», come se si sentissero e si attendessero i colpi della massa dell’acqua sul guscio della nave in pericolo; e l’ultimo verso della prima terzina e il primo della seconda compongono la descrizione del mare sfrenato, la cui ira non riesce ad altro che alla frangia bianca di schiuma sulla cima delle sue onde. Che cosa, infatti, ha divorato l’avido mare? Nient’altro che una creatura chimerica, e neppure questa, ma il semplice suo «fianco». Tutto il peso del cielo (prima strofe), tutta la violenza del mare (seconda e terza), tutte le forze unite del vento e dell’acqua non si sono indirizzate ad altro che ad annientare ciò che esiste appena, la forma intraveduto di un mito nascente. E’ ancora, nel Mallarmé, quel poema di disperazione che simoleggia l’ingoiamento di ciò che non è mai stato. Somiglia alla caduta di Icaro del Breughel, dove un punto rosa sparisce, una disperazione isolata sprofonda nei flutti e nel tempo.
    Confesso che, nel leggere queste intenzioni del Mallarmé e queste spiegazioni del suo esegeta, mi girava insistente nel ricordo la battuta di una commedia cinquecentesca (l’Ortensio, attribuito al Piccolomini), nella quale un napoletano, vantatore della sua ingegnosità in amore, mostra una medaglia da lui fatta incidere per una corteggiata signora Leonida, e ne spiega le figure e le allegorie: «Chisto è no vosco, chesta è una sepe, chiste songo lazze pi pegliare l’anemale, chiste doi leoni che, iettatome nterra, devorano lo mio core, e vo’ dicere: Leoneda, chesto è lo meo cor devorato»: al che il suo servitore, che ascolta, commenta tra sé con un altro «chisto», definendo acconciamente il suo padrone. Mi si perdoni l’associazione d’idee, che non vuol offendere nessuno, ma accusare un procedimento poetico o esegetico che sia. Certo, a quel modo quella medaglia non parlava da sé con l’evidenza della sua bellezza.
    Ecco determinato alfine – conclude da sua parte il Noulet – il tema proprio del poema, «che si può gonfiare di tutte le interpretazioni personali e di tutti i simboli più lontani. Ma a questi secondi significati esso opporrà ormai la sua propria resistenza, le sue proprie prospettive, perché dietro di esso si vede profilare il sogno immenso del poeta, l’opera-sintesi, che avrebbe potuto dare scacco matto all’accidente, il libro unico, espressione totale del mondo. Qui, cosa ancora più commovente, si sente sorgere il lamento, che si rinnovella, dell’impotenza creatrice».
    Il critico, dunque, ammette (non senza contradizione con la sua professata impossibilità d’interpretazione) che vi sia differenza tra un poema, che in quanto tale ha il suo senso, e le estranee personali interpretazioni che apportano i lettori del poema. Ma come dimostra che il significato da lui affermato sia, non diciamo voluto dal Mallarmé (perché in poesia il «voglio» non vale), ma intrinseco alla poesia, che non sia allegoria, ma fantasia che parla da sé e a cui l’allegorizzazione rimane sempre aggiunta estranea? Perché di questo si tratta: egli potrà possedere un documento di pugno del Mallarmé e non proverà nulla, se la poesia non esprime direttamente l’impressione di un sogno che si va spegnendo senza che sia stato raggiunto e la disperazione dell’incapacità a più raggiungerlo. Ma il complesso di parole e di rime che il Mallarmé ci ha messo innanzi, nonostante i concimi ermeneutici del Noulet e le indulgenze per le necessità della rima o per l’assenza (con un’unica eccezione) di punteggiatura, manca della profonda chiarezza ed univocità che è della poesia, e resta muta se dall’esterno non gli si mette sulla bocca un qualche sentimento o pensiero, per stravagante o insulso che sia.
    Mi astengo dalla facile ironia su codesti sforzi del Mallarmé e dei suoi commentatori per farci sapere ancora una volta che egli dinanzi all’ideale pazzesco del «Libro unico e definitivo» da dare al mondo, era un «impotente», o conferire un che di tragico e di sublime a questa condizione, se non ridicola, certamente mortificante. E voglio anche escludere che il Mallarmé e i suoi devoti siano, come è stato talvolta sospettato, consapevolmente ciarlataneschi, ingannatori di altrui; ma non posso escludere che ingannassero o che ingannino sé stessi, come accade nelle fedi che l’intelletto non ha generate e che non può convalidare, e che pure quaerunt intellectum, e finiscono col lavorare, verso loro medesime, di simulazione e più ancora di dissimulazione. La realtà che rimane in tutto ciò non è la poesia, ma il fatto che, nell’ultimo mezzo secolo e ancora nel presente, molti accolsero questa fede; il che appartiene, senza dubbio, alla storia dell’età e dei suoi travagli e delle sue manie, ma non alla storia della poesia.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • A

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    Mi verrebbe voglia di dare ragione a Sensi, comunque. Non si può estrapolare una manciata di versi, fossero anche di Montale, e dire se abbiano senso.
    Il problema della poesia contemporanea, poi, è che spesso non vuole avere un senso naturalistico, ma significare proprio attraverso una destrutturazione , sia semantica che referenziale. Che poi non si capisca più niente, per noi comuni fruitori, è un altro discorso. Qualcuno parla di morte dell'arte.
    Ad esempio l'estetica implicita ed esplicita dei romanzi di K ha per intento la comunicazione, come da bocca a orecchio, e la tradizione di un epos vissuto, in cui ognuno possa virtualmente ritrovarsi.
    Maw mi ricorda più i poeti maledetti: si fanno le canne, assenzio, e credono che il Dio (l'assoluto, etc) parli nel delirio. (C'è già tutto detto in Platone, basta leggersi lo Ione) Ciò presuppone una rottura con il senso comune, ed una concezione oracolare del poeta.
    In fondo, rindindin porta una forma di poesia tradizionale, anzi la vera lirica. La lirica nasce così: parole e musica. De Gregori, poi ti dicono, e lui stesso te lo dice, non essere un poeta ma un cantautore. Perchè se prendi solo le parole, e le leggi, significherebbero meno che con la musica. Come se L'Iliade e l'Odissea fossero state scritte prima di essere state cantate da generazioni di molteplici aedi.
    Comunque, spero che tutto sto casino fatto sia almeno servito a farvi conoscere Maw.
    E' la prima e l'ultima volta che mi sbatto così. Mo', come dice il maestro, so cazzi vostri.
    Io ritorno a vedere, a scrivere di quel cacchio che voglio, a mangiare la pizza con Lorenzo M., e litigare qui con Sensi da Trento.
    E aprendere le pillole, chè non s'incazzi il signor padron Zaphod.
    Leila tov

    (Ciao a Rut S... :*)

    Pubblicato 14 anni fa #
  • maw

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    Membro

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    Pubblicato 14 anni fa #
  • Torquemada

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    Fondatore

    Credo che Maw sia un genio. Non tanto della letteratura ma della provocazione. E' incredibile come, con le sue sparate abbia concentrato tutta l'attenzione del forum su di se e le sue opere mentre il racconto di (r)esistenza in home page -pur essendo un mezzo capolavoro- non se l'è cacato nessuno

    Sono convinto pero' che non sia lui un genio ma noi dei....

    Pubblicato 14 anni fa #
  • Torquemada

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    Fondatore

    A, ma ti sei letto quello che dice Croce?

    Se uno scrive una poesia talmente strana che viola tutte le regole della poesia, e' molto probabile che non abbia scritto una poesia.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • A

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    Membro

    Torque, l'estetica (come filosofia dell'arte) è andata un po' più avanti di Croce, francamente. Che ha avuto pure un ruolo negli anni 50, ma basta là. Ma questo è un bar, non parlo di lavoro.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • cameriere

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    Membro

    invece dici,
    dici pure.
    basta essere riassuntivi
    e chiari.

    n.b.: la metafora del bar è una metafora.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • A

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    Membro

    NB. E no compà, il bar è un bar. Serio, ma bar.
    Comunque

    Riassuntivamente e chiaramente: Croce pensava che l'arte fosse intuizione ed espressione del particolare. E il poeta- artista fosse veramente tale quando fosse riuscito ad esprimerlo, altrimenti sarebbe restato solo un poeta potenziale, parlante solo per lui, come uno sfogo egolatrico

    per brevità cito da wikipedia <<La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità dell'intuizione-espressione.Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in espressione.>>

    Da questo pdv se l'arte non riesce a tradursi in espressione non è vera arte.

    In pratica, se questa è l'estetica dominante gran parte dell'ermetismo, del surrealismo, dell'arte informale, delle avanguardie, sarebbero spazzatura. poi magari le si apprezza, a posteriori, se entrano nel mercato, se vendono. es le tele di fontana, se le faccio io non sono arte, se le faceva lui si.
    Così, avrei potuto prendere un testo di Maw , firmarlo Bellezza o Panella, Luzi o chissà chi altro più noto, e d'improvviso sarebbe stato considerato arte, poesia etc.

    Maw credo sia laureato in estetica, e credo che Croce lo conosca bene. Non so se si riferisca a lui comunque.

    Il punto è: l'arte, la poesia deve imitare la bellezza o esibire il sovrasensibile, deve cioè dire il senso?
    Oppure il senso non si dà, e dunque, non esiste che il puro segno senza possibilità di significato?
    Per tutto questo rimando ai libri di Garroni, visto che siete a Roma. Soprattutto senso e paradosso e Estetica.<<Secondo Garroni l'estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello"), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del senso che comunque, per Garroni, continua ad avere nelle arti la sua manifestazione esemplare.>>
    DUNQUE ESEMPLARITA'.
    Le "regole della poesia" non possono valere in qualsiasi tempo, perchè ogni tempo ha una sua esemplarità.
    A meno che non si assuma una concezione essenzialista tanto dell'arte quanto dell'essere umano.

    L'esemplarità della poesia di Maw è da chiedere a lui. Egli si pone da un punto di vista post-nichilista. Per lui il senso è morto, con Dio e tutti i suoi avatara.
    la sua estetica fateva dire da lui

    Io non sono il suo tutore.

    Anzi, a pensarci bene, volevo solo introdurlo qui. Vi fa schifo? E vabbè. Liberissimi.

    Io non me lo sono sposato.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • A

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    Membro

    Ps. Torque, puoi chiude sta visualizzazione larga, per favore?

    Pubblicato 14 anni fa #
  • zanoni

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    se l'arte non riesce a tradursi in espressione non è vera arte.
    In pratica, se questa è l'estetica dominante gran parte dell'ermetismo, del surrealismo, dell'arte informale, delle avanguardie, sarebbero spazzatura. poi magari le si apprezza, a posteriori, se entrano nel mercato, se vendono. es le tele di fontana, se le faccio io non sono arte, se le faceva lui si.
    Così, avrei potuto prendere un testo di Maw , firmarlo Bellezza o Panella, Luzi o chissà chi altro più noto, e d'improvviso sarebbe stato considerato arte, poesia etc.

    beh, no: 'gran parte dell'ermetismo, del surrealismo, dell'arte informale, delle avanguardie' dei significati li trasmettono ed esprimono eccome!!!

    sono le poesie di maw che, anche se in calce ci puoi mettere la firma di chi ti pare, non trasmettono niente e sono del tutto incomprensibili (anzi, nella loro totale vacuita', secondo me non c'e' proprio nulla da comprendere)

    Z

    Pubblicato 14 anni fa #
  • cameriere

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    Io non sono il suo tutore.

    Anzi, a pensarci bene, volevo solo introdurlo qui. Vi fa schifo? E vabbè. Liberissimi.

    Io non me lo sono sposato.

    non c'è bisogno che prendi sempre le distanze.
    non mi pare che qualcuno ti abbia rimproverato qualcosa.

    maw s'è presentato.
    cià le gambe sue per camminare.

    a qualcuno farà schifo ma non è tua responsabilità,
    e non capisco perché ci tieni tanto a sottolinearlo.

    a te piace?
    bene, nessuno pensa che te lo scopi.
    tranquillo quindi.

    quanto a me
    faccio fatica a seguire discorsi tecnici.
    non ho fatto le scuole giuste.
    per me la narrativa è evasione o riflessione,
    quando è sforzo non leggo. chiudo la pagina.

    sarà che sono pigro
    e che ciò un bel po' di casi miei da badare,
    ma non capisco quello che scrive maw.
    però, in fondo mi diverte,
    lui e quello che scrive.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • A

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    Membro

    cameriè,
    i casini ce li abbiamo tutti, ... ti capisco
    Io per esempio ultimamente ... meglio non parlarne.
    per questo ogni tanto cazzeggio in internet.
    Comunque non credere che esistano le scuole giuste,
    in fondo il mio mito
    da sempre è stato Martin Eden.
    Un romanzo stupendo.
    E poi,
    se uno ha qualcosa da raccontare
    lo deve fare.
    E basta.

    ciao

    Pubblicato 14 anni fa #
  • Torquemada

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    Fondatore

    Beh, A. Montale diceva che tutta l'estetica dipenda dal Croce. Non negli anni 30, ma molto dopo. Magari ha dei limiti, ma è una pietra miliare dell'estetica, in generale, e della poesia in particolare.

    Siamo al bar ma, mi raccomando, non affronti l'argomento calcio. Le ricordo che è laziale.

    Pubblicato 14 anni fa #
  • maw

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    Pubblicato 14 anni fa #
  • k

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    Membro

    No A, il problema qui non è Maw, che è dotato della più che sufficiente autoironia per farsi accettare a braccia aperte in questo bar anche quando gioca o posa da supergenio.
    Il problemo vero è lei, e la sua totalizzante e supponentissima arroganza che la porta a liquidare Benedetto Croce (55 volumi 55) con una citazione da wikipedia e con la definitva epigrafe che "l'estetica (come filosofia dell'arte) è andata un po' più avanti di Croce, francamente. Che ha avuto pure un ruolo negli anni 50, ma basta là". Lei, se mi consente, è un ignorante, almeno in termini di estetica e di Benedetto Croce. Sappia soltanto che restano profondissimamente crociane le estetiche non solo di Gramsci, di Marcuse, di Jauss, di Mao e di Lukcàcs, ma sostanzialmente anche di Garroni, con cui seguii personalmente dei seminari. Ma poichè giustamente stiamo al bar e io al bar lavoro pure e volentieri ed anche aggratis, ma solo con i miei amici o con chi mi sta simpatico, mi fermo qui e non le dico più niente: se lo vada a studiare da solo se ci tiene, perchè a me m'è andato proprio sui coglioni.

    "Le "regole della poesia" non possono valere in qualsiasi tempo, perchè ogni tempo ha una sua esemplarità"?
    Ma vaffanculovà, la poesia non è che una tèkne, e l'essenza e lo statuto d'una tèkne restano valide finché resta in campo - in qualunque dimensione del tempo e dello spazio - l'universale psichico che quella tèkne ha primariamente prodotto. Stop. L'arte se deve capi'. Se non si capisce, non è arte: o è imbroglio o è follia.

    Pubblicato 14 anni fa #

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