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Canale Mussolini

(382 articoli)
  1. zaphod

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    Fondatore

    Di Canale Mussolini ne parla Goffredo Fofi su Internazionale, adesso vado a nanna, ma domani ve la scansiono e la posto, se qualcuno non riesce a trovarla prima (occhio che vi svela il finale). Inoltre oggi ne parlano anche La stampa, Latina Oggi e La gazzetta di Parma con una bella recensione a tutta pagina. Ma domattina la mia sveglia suona alle 4 quindi, cari amici, dovrete aspettare.

    Pubblicato 15 anni fa #
  2. E' iniziata la battaglia per il Premio Strega.

    Rizzoli dà fuoco ai cannoni del Corriere della Sera: stroncatura di "Canale Mussolini"

    (recensione sul Corriere della Sera del 6 Aprile 2010)

    PENNACCHI S'INCAGLIA NELL'AGRO PONTINO
    di Franco Cordelli

    Canale Mussolini di Antonio Pennacchi è un libro difficile da maneggiare. A tratti ispira simpatia e perfino solidarietà. Nell'insieme un senso di saturazione, quando abbiamo finito di leggere si vuole dimenticare e passare ad altro. Di ciò, un annuncio (un sospetto) nelle prime due righe (in corsivo).
    Dice Pennacchi: «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo. Fin da bambino ho sempre saputo di dover ermare questa storia e raccontarla prima che svanisse». Ma qui non è questione di bello o brutto. La questione è il sottofondo ultimativo, il tono messianico, quell'oncia di ricatto implicito nella premessa. Poi, per fortuna, il tono del racconto è tutt'altro. Per fortuna? Be', il tono del corsivo sarebbe stato insopportabile. Ma quello che poi Pennacchi si ritrova (di sicuro, per suo merito, non se lo costruisce) è anch'esso discutibile, e alla fine imbarazzante. Parlo infatti di tono, non di stile. Mi viene in mente Ursus, l'uomo che ride di Victor Hugo. Ha egli uno stile o non, piuttosto, una smorfia? A tale deformità Canale Mussolini (Mondadori, pp. 460, euro 20) non perviene, è anzi accattivante, benevolo, perfino conciliante. Non è, questo racconto, sempre in cerca di conciliazione? La sua parola d'ordine, mille volte ripetuta è: «Ognuno gà le sò razòn». Ma la sua insistenza su questo punto, il suo ribattere le ragioni degli uni, i fascisti, e degli altri, gli antifascisti, gli americani; e i «marocchini» dell'Agro Pontino rispetti ai «cispadani» dal Veneto emigrati laggiù, a colonizzare, proprio la sua incessante sottolineatura del fatto che in un racconto epico tutti sono mossi da intenzioni che possono essere convalidate, risulta infine sfibrante. Anzi, prima che sfibrante è troppo inattuale perché lo si prenda per buono.
    Si possono scrivere a cuor leggero romanzi epici nel XXI secolo come Pennacchi crede e intende dimostrare? C'è anche questa ineffabile domanda. Egli dice che tutto è natura, se non dono degli dèi. Ma poi, s'intende, l'uomo ci mette del suo. L'Agro Pontino lo bonifica lui, e lui il romanzo lo scrive davvero, dalla prima all'ultima riga. Lui, nella fattispecie, chi? Questo non lo riveleremo. Pennacchi ce lo dice solo in extremis. Ciò che presto sappiamo è che l'instancabile narratore, colui che da più alti destini fu chiamato a ri-raccontare la storia d'Italia, dalla fine del XIX secolo al 1945 e, in particolare, la storia della parte di bonifica dell'Agro Pontino toccata alla famiglia Peruzzi, quell'uomo, o quella voce, appartiene, per l'appunto, a uno di quelli che fecero l'impresa. Ma egli ha una voce, occorre notarlo, che somiglia ad altre della storia della nostra lingua: dalla voce di Pirandello che nei monologhi si rivolge a innominata persona fino a quella di Ascanio Celestini, che nella sua travolgente oralità non dimentica mai d'avere un interlocutore. E poi. Narrando vicende di una famiglia contadina, sarebbe strano Pennacchi non pensasse così: che, perso un amore, «chissà quanto piangerà l'Ivana e per quanto tempo. Poi riderà di nuovo. Perché è giovane l'Ivana. E si rinnamorerà».
    Il naturalismo di Canale Mussolini è nudo e crudo, tutto trascina via con sé, nel tempo e nella fatale ripetizione. Ripetizioni a oltranza, ridondanze, riprese del discorso che s'era interrotto, una, due, tre volte. Ma il chiodo fisso del fasciocomunista Pennacchi (lo era, sostiene, anche Ezra Pound) è la fideistica convinzione che nella commedia all'italiana una tramatura di luoghi comuni addirittura leggendari sia una base legittima per certificare le buone ragioni di quella che fu la militanza della famiglia Peruzzi: «Come dice lei? Che (agli abissini) gli abbiamo buttato i gas? Li abibamo conquistati con l'iprite? E che ragionamenti sono? Io ti vengo a liberare e tu mi opponi resistenza? Mi spari addosso? La guerra è guerra, se permette». Oppure: «Quello sarà stato pure Mussolini e avrà fatto la dittatura, il totalitarismo, le leggi speciali, le guerre, le persecuzioni contro gli ebrei - ci ha portato al disastro insomma - ma da giovane era stato socialista».
    Il meglio di sé Pennacchi lo dà quando dimentica tutto ciò e s'immerge nell'amara o benefica routine della sua famiglia. Penso alle pagine (lo racconta due volte) che narrano la morte quasi simultanea dei nonni, marito e moglie; o quelle dello strazio della zia Armida, vedova di guerra e bramosa di un uomo nuovo. Qui Pennacchi è indiscutibile ma, per citare Hemingway che citava Melville che Pennacchi con tutte le sue digressioni teniche non è, è come un po' di zibibbo in un sovrabbondante panettone.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • Faust Cornelius Mob

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    Incontenibile, il nostro, quei cinque minuti gli erano stretti. Ha fatto bene il conduttore a farlo parlare a briglia sciolta (aveva voglia di fare altrimenti, quello...)

    Pubblicato 15 anni fa #
  • RC

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    Finito.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • tataka

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    Membro

    A Cisterna "Canale Mussolini" è in testa alle vendite, le copie si esauriscono in un giorno. E sopratutto (cosa che, caro k, le farà certamente piacere) ha stracciato Travaglio.

    Mo daje a di male dei cisternesi.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • zaphod

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    Paginone centrale e prima pagina de Il secolo d'Italia oggi per il canale:

    Questa è la recensione di Annalisa Terranova (l'intervista di Miro Renzaglia la posto sul topic 2.0 perché racconta tutto il libro):

    In quelle terre affiora l'epica del nostro '900

    Romanzo storico, più che romanzo epico, l'opera più appagante di Antonio Pennacchi, Canale Mussolini (Mondadori, pp. 460, € 20,00), in corsa per il Premio Strega, è soprattutto una saga familiare. Quella dei Peruzzi, trasportati dagli eventi e dalla fame dal Veneto alle terre della bonifica, come altre famiglie chiamate a redimere le paludi pontine dal fascismo caparbio e modernizzatore. Un'impresa che meritava il suo racconto, se non agiografico, almeno onesto. E quello di Pennacchi è un bel racconto, a volte ironico, a volte commovente, comunque sempre partecipe di quella sostanza "mitica" che sta dietro l'opera demiurgica della creazione di terra nuova. Proprio così, Terra nuova, si chiama infatti la prima cronaca dell'Agro Pontino di Corrado Alvaro, che non a caso parla a proposito della bonifica dei "giorni della creazione", avvenuta tramite la separazione della terra dalle acque: cominciava la vita.
    Una vita diversa da quella che lì avevano fatto fino a quel momento gli eterni pastori locali, costretti a sopravvivere ai margini dell'Agro. Scrive infatti Corrado Alvaro: «Il canale corre come un vecchio fiume, opaco e verde; ma là dall'argine erboso le case azzurre dei coloni avanzano come un esercito ordinato, e sulle soglie di esse i contadini lavorano alle opere di cinta e all'aiuole dei giardinetti… l'uomo, metro per metro, metterà un ordine familiare e umano, stabilendo le sue consuetudini di vita, il geranio e la margherita davanti alla casa, e l'aiuola su cui disegna con la ghiaia bianca le sue scritte di Evviva, la Stella e il Fascio». Il canale è lo stesso Canale Mussolini attorno a cui ruota il romanzo di Antonio Pennacchi: acqua ribelle alla fine domata e ridotta alla ragione, ricondotta negli argini, sottomessa. «È il Canale Mussolini che dà vita a tutto l'Agro e se non ci fosse lui, staremmo di nuovo tutti sott'acqua». La terra che emerge dall'acqua è il risultato di un evento mitico, che necessita di attori, di testimoni, di protagonisti. Pennacchi ce li presenta con il loro dialetto da "cisapadani", grazie al filo delle memorie della voce narrante, e il lettore non se li dimenticherà più. «Noi arrivammo in trentamila - leggiamo nel romanzo - a popolare come birilli inermi questo tappeto di biliardo, un vuoto senza fine tutto asciutto e terra vergine. Sembrava il deserto e la nonna dei Toson appena la sbarcarono dal camion disse proprio: "Ma qui ghe xè il deserto" e scoppiò a piangere ed urlare». Quel deserto col passare delle settimane e degli anni diventerà terra irrigata dove ricominciare da capo.
    Per la coralità dell'azione Canale Mussolini è stato giustamente paragonato al Mulino del Po di Riccardo Bacchelli, ma la storia dei Peruzzi fa venire in mente anche altre famiglie care alla storia letteraria italiana, famiglie in cerca di riscatto sociale, famiglie che lottano con la fame e per la sopravvivenza. Il romanzo dei Peruzzi, anche per questo, può essere considerato un po' come I Malavoglia di Giovanni Verga. Verista resta lo stile e l'ispirazione di fondo dell'autore, ma diverso è il finale: la sorte riserva ai nuovi nuclei dell'Agro Pontino un insperato benessere, nonostante la guerra, e non c'è la condanna del fato per il tentativo di disincagliare l'ostrica dallo scoglio, bensì il plauso dei posteri per un'impresa riuscita che sembrava impossibile. Ci sono gli umili in quel romanzo e in questo: solo che da una parte rimangono sconfitti, qui invece risultano vittoriosi.
    Poi c'è il fascismo. Visto come lo può vedere Antonio Pennacchi, come lo può considerare l'autore del romanzo autografico Il fasciocomunista (Mondadori, 2003): come la trasformazione e la lenta degradazione di un impeto rivoluzionario e di originaria matrice socialista, come il tentativo di dare risposte agli ultimi, di non lasciare indietro i diseredati. Una tesi che ha disturbato Franco Cordelli (che sul Corriere l'ha utilizzata come arma demolitoria del romanzo) ma che invece possiede una sua dignità. C'è il Duce che è una specie di Mosè del Novecento (e tutti sanno che i paragoni, più sono iperbolici meno sono apologetici…). «Mosè le aveva solo divise le sue acque e temporaneamente: giusto il tempo di far passare la sua gente e poi richiuderle. Il Duce e il Rossoni le hanno prosciugate invece per sempre queste terre dalle acque loro. Hanno preso di petto il Mar Rosso e gli hanno detto: "Và in malora. Qui faremo un etterno giardino"». Ma c'è anche il Duce che si lascia stranire dalle donne, che è geloso di Balbo e di Cencelli, che si lascia soggiogare da Hitler. C'è anche, a disturbare il ritmo, l'annotazione politicamente corretta sui guai che il fascismo ha portato all'Italia: interpolazioni che appaiono posticce perché nascono dalla preoccupazione dell'equidistanza. Nelle terre della bonifica questa ansia non si avvertiva e non si avverte. Senza il fascismo quella terra nuova semplicemente non sarebbe venuta alla luce. Per questo l'antifascismo a Latina-Littoria e dintorni è poco più di un vezzo. Lo stesso Pennacchi ne prende atto quando racconta nel romanzo: «Nessuno difatti a Littoria toccò niente il 25 luglio, neanche un fascio di marmo sopra i muri, neanche un busto del Duce - fummo gli unici in tutta Italia, sempre probabilmente per la storia del debito e della terra - dalle altri parti invece già dalla mattina alle sei la gente stava con gli scalpelli in mano…».
    I Peruzzi sono fascisti: ben sei fratelli partecipano alla marcia su Roma: «Mi sa che ce ne sono state poche di famiglie in Italia con tutti questi figli sciarpalittorio e marciasuroma e zio Turati non aveva nemmeno sedici anni ed era il più armato, tutto pieno di pugnali e bombe a mano legate alla cintura...». Ma prima di essere fascisti sono mezzadri, sanno trattare con la terra e con le bestie («I miei parenti hanno sempre parlato con gli animali e ci si sono sempre intesi quasi meglio che con i cristiani...»), si fanno scandire il tempo e le giornate dai riti contadini, ai quali sovrintende la femmina più importante, la nonna: «Appena nascevi, mia nonna ti assegnava il tuo lavoro - "A tì questo, a tì quelo, a tì quel'altro. E l'albio (l'abbeveratoio) toccava ai ragazzi». Ed è ancora la nonna che accende il primo fuoco e cucina la prima polenta nel podere 517 appena assegnato ai Peruzzi. È un matriarcato quello che si instaura nel podere dei Peruzzi: la nonna che comanda, che sovrintende alle nascite e ai matrimoni e alle morti, il nonno all'osteria. Un vero e proprio matriarcato dove le donne possono trovarsi anche le une contro le altre, a contendersi l'unico vero bene che per la famiglia contadina conta più di tutto, più della terra e più del Duce: i figli. E le donne sono le figure più originali della storia: dall'Armida che parla con le api fino alla zia Santapace che spara assieme ai tedeschi contro gli alleati che arrivano a bombardare le terre strappare alla palude, passando per i capricci di zia Bissolata, un vero caratteraccio, una di quelle che ti fa passare i guai. Gli uomini fanno la guerra, con coraggio o con rassegnazione. Vanno incontro al destino che a volte li sovrasta. Le donne invece il destino se lo costruiscono, con lo stesso coraggio e con meno rassegnazione.
    Ma non c'è solo la grande storia, quella del fascismo, nel romanzo di Pennacchi, c'è anche la storia materiale, quella che secondo molti storiografi documenta meglio di ogni altro reperto la "vita collettiva" di un'epoca: il modo di vestire, il cibo, l'acqua, il bagno, l'igiene, i racconti serali, i fienili, il pagliaio, il gabinetto, l'uccisione del maiale. Non c'è particolare della vita del podere che venga risparmiato al lettore. A cominciare dalla strenua lotta contro la zanzara anofele, quella che trasmetteva la malaria, debellata alla fine solo grazie al Ddt degli americani. E forse proprio in queste pagine, che sono più documentative e a volte frenano il ritmo della narrazione, emerge da parte dell'autore la passione investigatrice che l'ha portato a coccolarsi per decenni l'idea di scrivere un libro del genere, un libro scritto per amore e per dovere, dove c'è l'acqua finalmente domata dalla terra arata e c'è la casa appena costruita, il podere che accoglierà le generazioni a venire: «I poderi - ossia i casali - erano tutti celesti. A due piani, col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell'acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso - tondo - in cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all'esterno, zanzariere, poi i vetri e dietro, all'interno, gli scuri i legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce... Era un podere nuovo di zecca. Un sacco di camere. I muri odoravano ancora di calce, le porte di vernice e un podere così bello e spazioso non l'avevamo mai visto prima...».
    La terra, la casa, i legami familiari, più forti di ogni altra relazione, quelli che determinano il posto di ciascuno, come sa appunto la nonna che per ciascuno, come un direttore d'orchestra, pensa a un luogo da occupare, a una mansione da svolgere, perché nessuno può permettersi, in un microcosmo del genere, di starsene con le mani in mano. E ognuno ha un preciso dovere. Un mondo enormemente distante dal nostro, non lontanissimo nel tempo ma davvero antico rispetto all'oggi, alla dimensione in cui conta solo l'individuo, con i suoi strazi e con i suoi sogni, coni suoi diritti e con il suo piccolo insignificante benessere. Nel mondo dei Peruzzi è il gruppo, la somma di tante energie, a dare il tono e il peso alle vicende. Vicende di una comunità e non di singoli, singoli che non vengono mai dimenticati, mai messi da parte, o per essere esaltati grazie alla loro condotta o per essere condannati in virtù delle loro umanissime colpe. Il fascismo è solo lo sfondo, con il suo Duce che parla in dialetto, anche lui percepito al di fuori della tragedia di cui è stato protagonista, riconsegnato anche lui alle relazioni familiari che nel romanzo si intrecciano, anche lui comparsa di un filò, l'abitudine di riunirsi tutti insieme, la tradizione che i coloni si portarono dietro dal Veneto e che li induceva a ritrovarsi tutti a sera, dopo cena, ora in un podere ora in un altro «a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio». «D'inverno ci mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva più caldo. Lei doveva vedere la gente che si portava da casa la sedia o uno sgabello, per paura di restare in piedi...».
    Il romanzo è appunto un lungo filò, sui Peruzzi, sui coloni, sulla redenzione dell'Agro, sulla vita e sulle vite di persone che senza rendersene conto hanno compiuto un'impresa epica. La storia che aleggiava da decenni sulla palude redenta in cerca di un autore e che, finalmente, l'ha trovato.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • FernandoBassoli

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    Per il sor K: dica al suo amico Pennacchi di farsi crescere il pizzo oltre ai baffi, secondo me starebbe benissimo.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • k

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    Glielo venga a dire lei, no? E' una vita che l'aspetta.
    So' buoni tutti a fa' gli eroi da lontano.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    Franco Cordelli va giù duro ma mi sembra più un atteggiamento che altro, la volontà di farsi notare generando contrasto gratuito. la critica che ci propina fa schifo di per se, non motivata, gratuita, vuota e striminzita. ha letto solo quello che voleva leggere. ponesse serie basi di critica per favore, che sono ben accette, (anche solo per il gusto di poterlo rinfacciare a k ! :)) intanto ha citato Pirandello ed Hemingway per poter parlare di lui...io sarei più che soddisfatta

    Pubblicato 15 anni fa #
  • zaphod

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    Goffredo Fofi su Il Sole 24 Ore parla di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi e di Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini (il fatto che entrambi gli autori siano parte del progetto Anonimo de Il bit dell'avvenire ancora non è stato segnalato da nessun critico, probabilmente a causa di una cospirazione Fandango/Mondadori per tenere l'Anonima lontana dallo Strega).

    Camicie nere di famiglia.

    Sono due romanzi, «Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini» (Fandango) e «Canale Mussolini» di Antonio Pennacchi (Mondadori)? Il primo è un percorso individuale, l'interrogazione di un quarantacinquenne sulla figura centrale nella storia della sua famiglia, il nonno Alessandro che fu intellettuale di punta e poi ministro della Cultura popolare al tempo del fascismo, e che seguì Mussolini nell'avventura della Repubblica di Salò, finendo come lui ammazzato dai partigiani nell'aprile del 1945. Il secondo (probabilmente candidato allo Strega) è la ricostruzione di una storia corale, di famiglia e di massa, dentro la storia del fascismo: l'esodo di migliaia di contadini dal Veneto e dalla Bassa padana "trasferiti" dal regime a popolare le terre bonificate e bonificande delle Paludi Pontine, nel Lazio meridionale.

    Il primo è piuttosto un memoir, che confronta passato e presente, nonno e nipote, non per un impossibile dialogo attraverso il tempo ma per un'interrogazione sul presente, su ciò che resta del passato e su ciò che invece ne è radicalmente separato e diverso. Comincia così: «Non sapevo che mio nonno fosse un gerarca fascista fucilato a Dongo e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, fino a quando non mi sono imbattuto in una fotografia sul libro di storia della seconda media...», ed è il confronto con un nonno che, quando è morto, era più giovane del nipote che lo racconta. Ma la rievocazione e la «storia di famiglia» sono inestricabilmente intrecciate alla descrizione del presente, in un luogo preciso che è la Roma dell'Esquilino in cui convivono, intorno a piazza Vittorio, gruppi numerosi di immigrati da varie parti del pianeta e la famosa Casa Pound sede di neofascisti che intendono ridar forza a una cultura fascista ripensata sull'oggi. In un fitto dialogo con gli echi del passato e le novità del presente, con la famiglia e gli amici, con i documenti e i ricordi, e soprattutto con una propria personale necessità di chiarezza, Pavolini s'interroga sul romanzo e sulla storia, ma lo fa a partire da una necessità, da una domanda che non è soltanto sua.

    Quanto del fascismo ci tiriamo dietro, nel l'Italia di oggi, nonostante i mille sommovimenti che sono intercorsi tra il 1945 e il 2010? Quanto degli «usi e costumi» della dittatura è rimasto nella nostra antropologia e nella nostra democrazia, nel l'Italia in cui stiamo vivendo, così confusa, arrogante, abulica, ignava, amorale? Cosa possono ancora significare per Lorenzo le idee e i riti del passato, visto che esse gli vengono ricordate da molte, persino da troppe cose? Cosa ha significato per il nonno «cavalcare la tigre»; la sua tigre, ma anche la tigre della Storia? Come è possibile parlarne, per un nipote che non ha mai avuto occasione di cavalcarne una, ma che può trovarsela ancora vicina, inquietante e rischiosa?

    Se non mancano certo i libri – memorie saggi romanzi – in cui sono state le vittime del fascismo a parlare, e se nella cultura ufficiale quelli scritti dall'altra parte (qualche volta non meno dolorosi) sono stati censurati o trascurati, un libro come questo è anche espressione del necessario rifiuto, a distanza di tanti anni, di non rimuovere ancora un problema che, di tutta evidenza, non riguarda solo il suo autore. Per fortuna tanti anni sono passati anche se certe ferite hanno tardato e tardano a rimarginare del tutto, perché di «guerra civile» si è trattato, come anche i più conservatori e i più ideologici degli storici della sinistra sono stati obbligati a riconoscere, e Lorenzo Pavolini non fatica a mantenere le giuste distanze, a ragionare sulla sua famiglia con la sincerità e l'onestà di uno venuto dopo (dispiace semmai che dedichi poco spazio alle reazioni degli altri membri della famiglia, e alle loro scelte post-fasciste, che portarono alcuni ad assumere ruoli importanti nel Partito comunista e altri al silenzio politico, ma senza preservarli da un'umana inquietudine dagli esiti amari; penso a Francesco Savio, pseudonimo di Pavolini, grande studioso di cinema e in particolare del cinema del ventennio).

    «L'incubo di mio padre», figlio di Alessandro, «era sentirsi chiamare dal padre in un autobus affollato e non riuscire a raggiungerlo». Lorenzo non ha questo tipo di incubi, ma vuole capire, la figura del nonno è in agguato anche nei suoi incubi. Perché alcuni amici del nonno, per esempio Bilenchi, sono passati dal fascismo all'antifascismo già al tempo della guerra di Spagna, mentre Alessandro si è accanito inaspettatamente nella fedeltà al fascismo e al suo duce, fino a diventare famoso nell'immaginario collettivo del dopoguerra come «l'ultima raffica di Salò»? Come si diventa ciò che si diventa? Che peso ha il carattere nelle scelte politiche? Ragionare sul fascismo è anche ragionare sul carattere nazionale? Le domande si infittiscono, nella testa del lettore, e non sempre hanno risposte razionali e coerenti, perché è questo, in definitiva, il labirinto in cui il paese si aggira, la sua non-chiarezza di oggi e di sempre sul proprio passato e sulle proprie colpe o vergogne. Accanto alla tigre ci permette di accostarci a molti dilemmi con un misto un po' paradossale di serenità e di inquietudine, da un lodevole grado di distanza o vicinanza. Da «accanto alla tigre», per l'appunto.

    Canale Mussolini di Antonio Pennacchi ha un altro registro e una diversa ambizione: è la ricostruzione di una storia di famiglia e collettiva, sotto il pretesto dell'intervista orale a un vecchio della famiglia Peruzzi, contadini delle parti di Rovigo e fascisti convinti, passati con Mussolini dal socialismo al fascismo anzi allo squadrismo (e alcuni responsabili dell'omicidio di un prete antifascista, sul modello di don Minzoni). Ma contadini, comunque, e costretti dal bisogno ad accettare di lasciare il Nord per il Centro, che era per loro un Sud, e la grande pianura aperta all'Adriatico per la modesta pianura malsana e malarica ai margini del Tirreno, dove il regime ha progettato e avviato, nel suo sforzo di modernizzazione, un'impresa di bonifica comparabile, nel piccolo, a quelle sovietiche o americane (come la Tva). Pennacchi si è molto documentato, non solo raccogliendo memorie famigliari e d'altri nuclei ma interrogando documenti e frequentando storici.

    Cresciuto in ambiente "nostalgico" e fascista, ha aderito transitoriamente al fascismo e poi al comunismo, deluso in qualche modo da entrambi, ed è ossessivamente segnato nei precedenti lavori come in questo da una appartenenza, geografica e culturale anzitutto, ma anche politica. Egli ha costruito il suo romanzo – ché di romanzo si tratta, anzi di romanzo storico e che aspira all'epica – tra rielaborazione di memorie e invenzione, però sempre a partire dai documenti, dai ricordi, dal reale; il paragone che andrebbe fatto è forse con Il mulino del Po di Bacchelli, e forse ancor più del film che ne trasse Lattuada che non dello stesso fluviale romanzo. L'impresa era enorme e in sostanza è riuscita, con il prima dell'esodo e l'esodo, con l'insediamento e le nuove contraddizioni, per esempio il conflitto con gli abitanti della montagna, i "vecchi" del posto, che sostituiscono i conflitti precedenti tra contadini e agrari e tra socialisti e fascisti, con la costruzione dal nulla delle città e di Littoria (Latina) in particolare, e poi con la guerra e il dopoguerra, e con l'arrivo degli americani e del Ddt che sconfigge definitivamente la malaria e introduce a una nuova storia, tuttavia segnata dalle origini. In questo quadro molto mosso, che lascia poco spazio al singolo personaggio e alle sue psicologie ma che rifiuta giustamente le suggestioni del realismo magico alla Garcìa Màrquez e l'epica pubblicitaria, assumono un peso particolare le figure delle donne, chiave di volta d'ogni costruzione. Se qua e là l'epica si sfibra e i personaggi diventano silhouettes, è allora la Storia a sorreggere il romanzo, a dargli il suo interesse e il suo peso.

    (È una curiosa epoca questa, in cui un fascismo di tipo nuovo affascina gli italiani, ma in cui lo sforzo di capire chi siamo e da dove veniamo senza subire i ricatti delle ideologie è forse più grande di quanto non sia mai stato. Tra le ultime uscite, mi pare fondamentale in questo senso, con il manuale di Guido Crainz sull'Autobiografia di una repubblica, Donzelli, il bel saggio dello storico Leonardo Paggi edito dal Mulino su Il "popolo dei morti" e la memoria degli anni 1940-1946. E per capire la "zona grigia" degli stessi anni, può tornare utile anche la raccolta dei sorprendenti albi a fumetti di Jacovitti proposta da Stampa Alternativa con il titolo molto jacovittiano di Eja eja baccalà: elaborazioni in presa diretta e "lezioni di storia" e di sfiducia nella storia – per i ragazzi di allora – sugli umori della "zona grigia" che possono essere, oggi, molto istruttive).

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

    offline
    Membro

    dedicata ad Armida:

    Strega comanda…

    Strega che annega
    Strega che ride
    Strega che vive e se ne frega

    Strega che ammalia
    Strega che fugge
    Strega che sembra soffi nell’aria

    Strega che ascolta
    Strega che finge
    Strega che conta uno alla volta

    Strega che vince
    Strega che perde
    Strega che possiede veramente

    Strega che tace
    Strega che parla
    Strega che fa quel che più le piace

    Strega che mente
    Strega che punge
    Strega che sfida e si diverte

    Strega che balla
    Strega che pensa
    Strega che prende e perde la palla

    Strega che danza
    Strega che corre
    Strega tutt’attorno alla stanza

    Strega che trama
    Strega che odia
    Strega che sempre e comunque ama

    Pubblicato 15 anni fa #
  • k

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    Membro

    Bello. Ma da lavorare ancora.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • A

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    Membro

    L'incipit del canale è fulminante.
    per la fame.

    mi ricorda, dicevo ieri al sensi, un altro incipit famoso,
    quello della Stella della redenzione di Rosenzweig.

    grazie maestro

    Pubblicato 15 anni fa #
  • zaphod

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    Fondatore

    non c'è di che... [k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parliamo in sua vece...]

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    Membro

    rindindin sei grande! (k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parlo in sua vece...)

    Pubblicato 15 anni fa #
  • Torquemada

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    Fondatore

    annatevene affanculo [k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parlo in sua vece...]

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    Membro

    grande torque! è per questo che t'ho fatto studià![k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parlo in sua vece...]

    Pubblicato 15 anni fa #
  • big one

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    Membro

    ve ne state a aprofittà 'n po' troppo. che ciavete bisogno che ve ridica 'ndove dovete d'annà? [k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parlo in sua vece...]

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

    offline
    Membro

    'ndove? ma ...:)

    Get the Video Player
    [k in questi giorni ha seri problemi di connessione, abbiate pazienza se parlo in sua vece...]

    Pubblicato 15 anni fa #
  • Woltaired

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    siete pazzi! son al II tra un po' potrò migrar al 2.0 e non leggervi più e fuggirvi!

    Pubblicato 15 anni fa #
  • zaphod

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    Giovanni Di Martino su Il fondo di Miro Renzaglia.

    Ancora su Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. L’epopea…

    «Lei pensi che è stato pure lui a inventarsi il pentitismo e battè la camorra arruolando i camorristi, ha inventato tutto lui e fosse stato per lui avrebbe inventato anche il centrosinistra. Più di cent’anni fa. Sono stati i riformisti che non hanno voluto e così lui si è inventato la Democrazia cristiana.»

    Come chiamare uno che in cinque righe riesce a sintetizzare la biografia politica di Giolitti? Si dirà che le cose sono sicuramente più complesse ed articolate? Nemmeno per sogno. Giolitti era proprio quello che Antonio Pennacchi ha incidentalmente descritto nelle prime pagine di Canale Mussolini, né più, né meno. Ha fatto proprio centro, di Giolitti me ne intendo e posso giurare che le cose sono andate proprio così.

    Quando facevo l’ultimo anno di liceo avevo un professore di italiano atipico, molto colto, ma avulso dai programmi e dai metodi didattici. Era ultrastalinista, e pertanto magnificava la critica alla letteratura latina di Concetto Marchesi e la critica al Leopardi di Cesare Luporini (dalla quale tentava di dedurre che Leopardi era marxista). Figurarsi che definiva Checov un “autore sovietico“. Comunque, all’inizio dell’ultimo anno questo professore ha passato un mese e mezzo a spiegarci Giolitti nelle ore di Dante. Forse riteneva il Paradiso troppo palloso (anche Pennacchi, in fin dei conti, lo ha definito “sovrastrutturato” ne Il fasciocomunista), ma lì per lì non abbiamo dato troppo peso alla cosa. Passano nove mesi, e il giorno prima del tema di maturità mi sono reso conto di non essere minimamente in grado di affrontare una traccia di letteratura e ho ben pensato che avrei fatto quella storica. Ma siccome mancavano meno di ventiquattr’ore all’apertura delle buste e il programma non lo potevo ripassare tutto (e soprattutto c’erano i mondiali di calcio in Francia da vedere in televisione), ho pensato: ripasso un solo argomento andando a fondo, e vaffanculo. Apro il libro e trovo Giolitti. Avanti con Giolitti. E il giorno dopo, all’apertura delle buste ministeriali, non ti va a capitare un bel tema storico su Giolitti? In quel caso il suddetto culo mi ha assistito (ma il massimo lo ha dato pochi giorni dopo, quando all’orale mi hanno chiesto il fascismo), e giù fiumi di inchiostro su Giolitti, spiegando tutto nei dettagli, anche la conversione della rendita, che si rivelò un azzardo riuscito.

    Questo per dire che quando scrivo che Pennacchi non solo ha compreso Giolitti, ma è riuscito a sintetizzarlo mirabilmente, c’è da fidarsi che non mi sono lasciato scappare troppi complimenti. Altro che Premio Strega, questa è roba da Premio Nobel per la capacità di sintesi storico – politica. Non esiste quella categoria? Hanno solo da crearla e al più presto, magari abolendo qualche categoria che non serve a niente, tipo il Premio Nobel per la pace, che ogni volta che lo assegnano a qualcuno spunta fuori (doverosamente) la lista dei massacri da imputarsi al neo premiato (prevalentemente afghani, da Gorbaciov a Mister Obama). Ed è sempre una lista lunghissima, tipo quella delle scopate di Don Giovanni srotolata da Leporello.

    Ma a Pennacchi dopo il Nobel per la capacità di sintesi storico – politica, gli va anche dato quello per la letteratura, che poi è il suo campo. Il veneto – pontino dei suoi personaggi è più comprensibile del lombardo astruso di Dario Fo, e al contempo stufa meno del molisano di Gadda.

    Canale Mussolini è il canto di un’epopea nella quale non ci sono comparse, ma solo protagonisti. A mio sommesso avviso è molto più epico che storico, o, meglio, entrambe le cose insieme, mytos e logos. Come Pennacchi stesso spiega nell’introduzione, è ciò che lui era destinato a scrivere e tutto il resto (i primi romanzi, i racconti, il romanzo autobiografico e le due edizioni del libro sulle città di fondazione) è stato in qualche modo propedeutico a questo romanzo (aspetto, quest’ultimo, che chi ha letto tutto il resto penso abbia colto prima ancora di aprirlo).

    Pennacchi ha studiato la storia dei coloni pontini, le dinamiche che li hanno portati ed essere coloni pontini, le ragioni per le quali proprio loro sono stati i coloni pontini, le differenze con gli altri coloni e più in generale con tutti gli altri migranti, narrando il proprio contatto trascendentale con le radici. Altro che coloni pontini considerati come “i senzastoria”: ora la storia ce l’hanno e glie l’ha data Pennacchi. Gli ha dato prima la storia, poi la storiografia, e con questo c’hanno pure loro un’Eneide. Ce l’avessimo a Torino uno scrittore non noioso (ho detto non noioso, quindi è inutile che vi sforziate a dire: ma c’avete questo, c’avete quell’altro…) a rinfrescarci le idee sulla nostra storia, che poi non è neanche da scrivere ex novo, perché in oltre due millenni hai voglia a rinverdire mytos e logos. E invece nessuno sa più niente di niente (il “più” è un piemontesismo volutamente inserito): niente più Juvarra, Pietro Micca, Gramsci, Erasmo, neanche più lo stadio! Chissà Nietzsche che crisi avrebbe nella Torino di oggi, altro che abbracciare il cavallo! E le celebrazioni per i 150 anni di Italia unita non invertiranno certo la tendenza: saranno l’ennesima occasione per distribuire un po’ di appalti e niente più. È come se da noi il tappo che chiude tutto (la palla di piazza del Popolo a Littoria/Latina) l’avessero già tolta da almeno venti anni, ma devo ancora capire dove e come sia avvenuto. Magari rimettendolo l’incantesimo finirà.

    Sono d’accordo anche con chi parla di neoverismo e mi spingerei anche più in là: il Pennacchi scrittore e il suo neoverismo vanno inscritti in un più ampio, ma ancora troppo piccolo, tentativo di resuscitare la letteratura italiana. Non ho letto la recensione citata nell’intervista di Miro Renzaglia all’autore (Il Fondo, inserto, giovedì 8 aprile 2010), ma se Franco Cordelli ha parlato di “digressioni tecniche” come di un limite ha sbagliato veramente tanto. Primo perché quelle che lui chiama “digressioni tecniche”, sono impostate in modo tale da rendere la struttura del romanzo estremamente equilibrata. E secondo perché sono interessanti…io la frase su Giolitti l’ho riletta dieci volte prima di andare avanti. Le digressioni tecniche fanno sì che quando Pennacchi scrive sulla bonifica dell’Agro Pontino, ci metta i cavalli al posto delle astronavi: sono lo sfondo storico (e non solo) del romanzo epico. E sono, permettetemi, uno dei pezzi forti, visto che non c’è mezza cosa al posto sbagliato. Sono la differenza tra Canale Mussolini e le miniserie della RAI degli ultimi venti anni (nelle quali manca poco che la milizia abbia le Nike al posto degli stivali, e dove si sente sempre dire la frase “arrivano i nazisti“, quando settant’anni fa nessuno chiamava in questo modo i tedeschi – dettaglio per il quale basterebbe aver parlato con i propri nonni).

    Ora, siccome la letteratura non è il mio campo, non sono in grado di scrivere una recensione organica che risponda, anche poco, ad una impostazione critica. Fosse un film potrei – come si suole dire – salire in cattedra, ma su un romanzo non ci provo nemmeno. E mi limito a ammucchiare in modo disordinato alcune brevi considerazioni. E con tre di esse concludo.

    Primo. Quella dei padri che chiamano i figli “Firmato” perché credono che sia il nome di Armando Diaz è stupenda. Con il narratore che si appresta a chiarire con autocompiacimento che i Peruzzi, almeno quella, se l’erano risparmiata. Non la conoscevo, o meglio conoscevo molti aneddoti simili (da Tomo Secondo fino a Condoleeza Rice), ma quella del “Firmato” le batte proprio tutte.

    Secondo. Pennacchi ha ragione da vendere quando fa la “digressione” sulle strade. Sarà un discorso che mi farà passare per un vecchietto che vota la Lega Nord, ma il problema c’è e me lo sono sempre posto anche io. Come è che i Romani erano in grado di fare una strada, mentre oggi nessuno più ci riesce e con due gocce di pioggia si allaga tutto (anche da noi a Torino, dove i quattro fiumi ce li siamo trovati belli e pronti, e anzi proprio per questo ci abbiamo fatto attorno la città)?

    Infine Mussolini. Mussolini personaggio di un romanzo (come anche il Rossoni, il cui destino sembra quello di essere salvato dai Peruzzi). Non è la prima volta che Pennacchi lo rende un personaggio della sua letteratura, con il coraggio che purtroppo è sempre mancato al cinema (e le occasioni non sono mancate). Il Mussolini di Pennacchi non è una trasposizione letteraria un po’ vicina e un po’ lontana dall’originale. È invece qualche cosa di estremamente vicino all’originale che denota che l’autore/creatore ne ha sì studiato la storia (De Felice eccetera), ma ne ha anche compreso la psicologia. Il Mussolini di Pennacchi è umanissimo, e questa è la sua forza: ce lo racconta come nessuno ha mai fatto. Convinto di saper fare tutto, da quello che realmente sa fare, fino a quello che proprio non gli riesce. Dal riparare l’erpice e dare la terra ai contadini, fino a fare il condottiero delle legioni del suo nuovo malconcio impero. E sempre sensibile alle bellezze femminili, ma mai molesto. Se no era Vittorio Enanuele II. O Bill Clinton.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • zaphod

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    Canale Mussolini citato nel forum di Fantasmitalia - L'Italia dei fantasmi.

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    perchè il forum qui è diventato così largo?

    Pubblicato 15 anni fa #
  • urbano

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    Me so fatto 'nforum così!
    Lo si esclama, formando due semicerchi con i pollici e gli indici delle due mani, quando si vuole sottolineare la faticaccia subita.
    Un lavoraccio.
    Nun poi capì
    Guarda, 'nforum così!

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    Membro

    non è da nulla essere istrione mica scherzo, magari esserlo...io avere un libro che passerà alla storia, che leggeranno le mie figlie e potranno dire: mia mammma era una cogliona! magari avere questa prospettiva, magari averlo scritto...magari farlo leggere...a tutti... allora ...vaffanculo!
    p.s sono a pag 150 tengo registro e prendo appunti alla fine arriverà mio commento...
    p.s poi sul fatto che ti pubblicano perchè sei pennacchi, è un altro paio di maniche (nere,o rosse nn si sa).io non rientro nel gioco dei potenti e allora mi gusto il gusto della scelta...

    Pubblicato 15 anni fa #
  • rindindin

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    rindindin chi ti capisce è bravo...ma che cavolo hai scritto? scusatela stava delirando

    Pubblicato 15 anni fa #
  • Woltaired

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    sono avanti!! (di 25 pg...)

    Pubblicato 15 anni fa #
  • k

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    e menomale che voi siete amici miei e pure scrittori. Figuratevi gli altri che non sono nè scrittori nè, tanto meno, amici miei, con che voglia e che velocità si posssono mettero a leggerlo. E vaffanculovà, pare che state ai lavori forzati! A pala e picco in miniera! ve pigliasse un colpo, e che ho scritto, na rottura de cojoni? Ditemelo papale papale e la facciamo finita.

    Pubblicato 15 anni fa #

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