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(1417 articoli)
  • Avviato 15 anni fa da Faust Cornelius Mob
  • Ultima replica da parte di big one
  1. Perché la domanda così specifica che include l'oggi? Mo non è che uno ha fatto l'esame e vuol fare il capiscione, però c'è un bel testo 'Il Breviario di estetica del Croce' - non tanto lungo, con un preciso linguaggio filosofico che però si comprende - che definisce bene cos'è l'arte e, di conseguenza, cos'è l'artista. Sempre, non solo oggi.

    ARTISTA E ARTIGIANO

    Quando andavo al conservatorio - suonavo il violoncello - la mia professoressa di solfeggio era rumena, la Ungureanu. Era tosta, tostissima, praticamente se non fosse stato per gli occhi, sarebbe sembrata un mocassino (cit. "Scappo dalla città"). Il primo anno a frequentare il suo corso eravamo in 28, ne bocciò 24 (io venni promosso). Non regalava nulla. Pretendeva il massimo. Diceva che non ce l'aveva ordinato il dottore di fare i musicisti, se uno non reggeva il ritmo, poteva fare altro.
    Ancora mi ricordo il nome a distanza di 16-17 anni. E se lo ricordano tutti quelli che hanno frequentato i suoi corsi. Parecchi di quelli che allora studiavano musica, tendevano a lasciare le scuole superiori o a non fare l'università perché sostenere i ritmi di tutte e due le cose era esagerato. Un giorno, invece di fare il classico dettato musicale o insegnarci le diverse chiavi di lettura della musica, ci fece un discorsetto. «Non dovete smettere di studiare. Diplomandovi solo al conservatorio, non diventerete mai degli artisti. Anche se doveste diventare, un giorno, i più bravi nel vostro strumento. Perché vi limiterete a suonare, e non interpreterete. Perché vi limiterete a comporre, e non scriverete musica».

    Me lo ricordo sempre, anche se ho smesso di suonare (mi cacciò un certo Macrì, insieme a Fujano. Entrambi avevano le cattedre di violoncello).

    A proposito del copiare e della produzione industriale.

    A mio avviso sono due cose ben differenti e non strettamente collegate.

    Pubblicato 15 anni fa #
  2. k

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    Pure il violoncellista avevi fatto? E questo mica ce lo avevi mai detto.

    Pubblicato 15 anni fa #
  3. big one

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    ma non sei il tastierista degli ANONYMOUS WRITERS

    Pubblicato 15 anni fa #
  4. Si, K, pure il violoncellista. Alle medie, sezione strumentale della Giovanni Cena, e poi al conservatorio, con tanto di audizione superata. L'Ungureanu, dopo la bocciatura, voleva portarmi a Roma, al Santa Cecilia, che diceva che questi di Latina non ci capivano niente. "Ha l'orecchio da direttore d'orchestra" disse una volta ai miei e credo non si riferisse alla conformazione fisica. E' una cosa che avevo sempre dato per assodata quando, recentemente, mi sono scontrato con la lettura dei versi latini. Dice che pure lì devi avere orecchio. E non ci sono riuscito così tanto facilmente. Magari l'Ungureanu m'aveva sopravvalutato. Quello che mi schifò - per cui ho sempre voluto reprimere il ricordo - fu la telefonata dell'allora direttore del conservatorio che mi accennava la possibilità di essere ripreso - al conservatorio se ti cacciano non è che puoi ridare l'esame, te ne vai e morta lì - per andare a suonare il clarinetto. Da uno strumento a corda ad uno strumento a fiato.

    Dissi di no e vendetti il violoncello. Ciò ancora il pianoforte a casa, ma non lo suono da circa 15 anni.

    Pubblicato 15 anni fa #
  5. cameriere

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    quello si riferiva al suo
    clarinetto

    Pubblicato 15 anni fa #
  6. rindindin

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    anche io ho avuto un'esperienza simile. dopo 3 anni di medie al conservatorio, pianoforte, andai a sostenere l'esame per entrare al liceo ( a Milano il liceo è parte integrante del conservatorio). mi fu detto dall'insegnate cicciona e soprano che se venivo presa era per fare una carriera in discesa, che mai avrei avuto le basi per essere una vera artista, perchè quel liceo era una burla. come
    al Torque

    Non dovete smettere di studiare. Diplomandovi solo al conservatorio, non diventerete mai degli artisti. Anche se doveste diventare, un giorno, i più bravi nel vostro strumento. Perché vi limiterete a suonare, e non interpreterete. Perché vi limiterete a comporre, e non scriverete musica».

    a questo punto la domanda sorge spontanea... è un depistaggio o io e Torque ci siamo giocati una carriera ?

    Pubblicato 15 anni fa #
  7. urbano

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    Quando uno va nel tempio Obaku a Kyoto, vede scolpite sulla porta le parole «Il Primo Principio». Le lettere sono eccezionalmente grandi, e quelli che apprezzano la calligrafia non mancano mai di ammirarle come un capolavoro. Furono tracciate da Kosen duecento anni or sono.
    Il maestro le disegnò sulla carta, e poi gli operai ne fecero la scultura ingrandita in legno. Mentre Kosen disegnava le lettere, con lui c'era un allievo impertinente che aveva preparato parecchi galloni di inchiostro per il lavoro calligrafico e che non si peritava di criticare l'opera del suo maestro.
    «Questo non va» disse a Kosen dopo il primo tentativo.
    «Come va questo?».
    «Brutto. Peggio dell'altro» sentenziò l'allievo.
    Pazientemente Kosen riempì fogli e fogli sino a mettere insieme ottantaquattro Primi Princìpi, senza peraltro ottenere l'approvazione dell'allievo.
    Poi, quando il giovanotto uscì per qualche minuto, Kosen pensò: «Ora mi si offre la possibilità di sfuggire al suo occhio acuto», e in tutta fretta, con la mente libera da altri pensieri, scrisse: «Il Primo Principio».
    «Un capolavoro» sentenziò l'allievo.

    101 storie Zen
    Adelphi

    Pubblicato 15 anni fa #
  8. limysylco

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    Consiglerei "Coraggio Don Abbondio" di Pier Luigi Celli. Esilarante raccolta di brevi storielle ed opinioni sul mondo dei managers dei giorni d'oggi.
    Tra l'altro sto guardando anche altri volumi dello stesso autore, per ora presi dalla biblioteca. Celli è straordinario: è da una vita che fa il top-manager e sembra sempre sputtanare la classe dirigente di cui lui stesso fa parte... che sia obiettività ai massimi livelli?

    Ciao.

    Pubblicato 15 anni fa #
  9. urbano

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    La storia del Panino Del Lazio
    Per una lira
    io vendo tutti i sogni miei.
    Per una lira
    ci metto sopra pure lei.
    E' un affare sai
    era il 1969

    Get the Flash Videos

    Pubblicato 15 anni fa #
  10. limysylco

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    Membro

    Seduto in giardino,
    tra il sole
    e i tuoi fiori,
    vedo occhi smeraldi
    e sorrisi rosati.
    Quando un petalo cade
    e mi sfiora la guancia,
    fermo il tempo e ti vedo
    che accarezzi il mio viso.

    Mi piaceva.
    L'ho letta.

    Pubblicato 15 anni fa #
  11. k

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    A me invece me sembra na cazzata.

    Pubblicato 15 anni fa #
  12. rindindin

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    non è Darcy...troppo ingenuo

    Pubblicato 15 anni fa #
  13. limysylco

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    Ma si, dai, certo che sono Darcy.

    azz, mi avete sgamato.

    Pubblicato 15 anni fa #
  14. rindindin

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    c'è cascato. è Darcy!

    Pubblicato 15 anni fa #
  15. urbano

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    la domanda
    come fare a scrivere senza essere denunciato
    sta in altro posto
    il posto giusto per la risposta mi pare questo:

    para subir al cielo
    se necesitan
    dos alas
    un violin
    y cuantas cosas
    sin numerar, sin que hayan nombrado,
    certificados del ojo largo y lento,
    inscription en las unas del almendro,
    titulos del la hierba en la manana.

    per salire al cielo
    occorrono
    due ali
    un violino
    e tante cose
    infinite, ancora non nominate,
    certificati d'occhio lungo e lento,
    iscrizioni sulle unghie del mandorlo,
    titoli dell'erba nel mattino.

    Il consiglio è di Pablo Neruda nel suo estravagario del 1958.

    Pubblicato 15 anni fa #
  16. urbano

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    Membro

    Cligès
    Chrétien de Troyes
    uno dei cinque volumetti della raccolta
    i romanzi cortesi
    mondadori 1994
    Le donne i cavalieri l'arme e gli amori
    come li racconta un chierico vagante del 1176.

    Quello che ci vuole in questo mondo abusivo.

    Pubblicato 15 anni fa #
  17. zaphod

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    Fondatore

    Ritengo John Le Carré un ottimo scrittore, per quel poco che conosco della sua opera. Uno che usa un genere - la spy story - per raccontare una visione del mondo e del lavoro. Ho letto quest'estate il suo Yssa il buono. Dà conto, secondo me, dell'acqua che è passata sotto i ponti durante questi anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino più di mille saggi di geopolitica. In un libro come La talpa si raccontava della grigia esistenza di questo funzionario dei servizi segreti britannici che conduce la sua battaglia contro il fantomatico Karla del Kgb raccontando il lavoro della spia per quello che è. Un lavoro, appunto. In gran parte burocratico e ripetitivo. Una specie di partita a scacchi in cui le parti sono ben delineate. C'è la cortina di ferro. C'è chi sta di qua e chi sta di là. Al massimo c'è qualche doppiogiochista. In quest'ultimo romanzo invece non si capisce chi sta da quale parte. I protagonisti non sanno per chi lavorano e per (ri)stabilire quale ordine. Musulmani, americani, tedeschi, russi, mafiosi, banchieri, tutti contro tutti per fare le scarpe agli altri. tanto che alla fine quelli che appaiono più dotati di una bussola etica a guidare le scelte sono proprio mafiosi e banchieri che si appoggiano a un codice morale sedimentato.

    Pubblicato 15 anni fa #
  18. zaphod

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    Fondatore

    Tutto nasce da questo racconto uscito oggi su Repubblica.

    Così incontrai la mia spia venuta dal freddo di John Le Carré

    In un primo momento si pensa di sapere esattamente da dove vengano. Gente incontrata magari a un ricevimento, intrattenuta per qualche istante di conversazione e mai più rivista. Ma quei pochi minuti sono bastati: hai preso il via. O almeno credi. Oppure ti arriva all'orecchio qualche parola a una fermata dell'autobus o davanti al banco di gastronomia. Hai percepito qualcosa. Nella faccia, nel modo di camminare e di vestire, nella voce, in quel piccolo grumo di parole. Un'emanazione di dolore o di felicità, di rassegnazione o anche semplicemente di inadeguatezza. O magari qualcosa di paterno. O di materno. Un senso di orgoglio o di sconfitta. E quel qualcosa ti dice: "Eccomi, sono io quello che cercavi. Prendimi. Portami in giro a giocare con te. Dammi la forma che vuoi per i tuoi propositi, e io sarò il tuo sodale segreto". Ma forse alla fin fine tutto questo, in quel dato momento, sta nella mente dello scrittore uscito a caccia di una preda, affamato, occhi e orecchie spalancati, animato dall'unico desiderio di veder emergere la persona giusta. Come quando hai bisogno di qualcuno di cui innamorarti, e all'improvviso - sorpresa! - lo hai trovato. Questione di un attimo. Bingo!

    Solo che non è mai bingo, come ogni scrittore sa bene. È l'inizio di un lungo viaggio nell'ignoto, e l'unico sodale segreto che ti viene dato è una piccola parte di te, percepita solo a metà e infilata in un guscio altrui per lavorarci sopra a lungo, cincischiarla con insistenza, con puntiglio. Finché alla fine, se hai fortuna, prendi il volo; e allora il personaggio diventa qualcosa come una remota ma credibile parte di te. Certo non quello che vedi nello specchio, ma qualcosa di intimo, profondamente sepolto da qualche parte, e magari neanche lo sapevi prima che avesse annunciato la sua presenza. Ma tutte le sue necessità, le sue aspirazioni, le sue debolezze sono le tue, per quanto diverso possa essere per nascita, origine, età, classe o sesso.

    * * *

    Se la memoria è una puttana, quella di un vecchio romanziere è una cocotte di lusso. Di fatto però, nel caso de La spia che venne dal freddo, scritto mezzo secolo fa, sono stato abbastanza coerente su chi fosse il mio sodale segreto, quello che mi ha fatto saltare il fosso. Ero seduto al bar nella hall delle partenze all'aeroporto di Londra; i voli erano in ritardo. A un certo punto apparve accanto a me un inglese sulla quarantina, viso asciutto da viaggiatore incallito, che ordinò un doppio scotch liscio senza ghiaccio. Impermeabile marroncino imbrattato, scarpe consunte, faccia abbronzata e sbattuta dall'aria esausta, scuri occhi celtici. Classe da ufficiale, come usavamo dire a quei tempi, e schiena da soldato, malgrado le spalle curve. Ma solo nel momento in cui pagò il suo scotch seppi di averlo trovato. Affondò la mano nella tasca dell'impermeabile e gettò sul banco una manciata di monete delle più diverse valute europee - franchi francesi, lire, marchi tedeschi e così via, sicuramente troppe - borbottando al barista: "Si paghi!" con tono quasi di sfida. Quello stava per dargli una rispostaccia, ma poi cambiò idea - saggiamente, a mio parere - e incominciò a scegliere con calma le monete fino a raggranellare l'importo che gli serviva. Nel frattempo il mio sodale, che in pochi attimi aveva finito il suo scotch, si eclissò senza una parola, lasciando sul banco le monete residue. Per quanto mi era dato sapere, avrebbe potuto essere un commesso viaggiatore stanco e in cattive acque. Ma per me era Alec Leamas, agente bruciato dell'Intelligence britannica, che poco prima aveva visto ammazzare l'ultima delle sue spie nella Germania Est davanti al Muro di Berlino appena costruito.

    Ma perché mai ha rappresentato per me, in quel preciso momento, quel particolare personaggio? Perché per alcuni secondi quello ero io. Avevo visto sorgere il Muro di Berlino, ero in piena crisi coniugale e incominciavo a sentirmi deluso del mio ruolo tutt'altro che drammatico nel gigantesco retrobottega della guerra fredda. Ero alla ricerca di un sodale segreto che mi aiutasse a dire qualcosa del tipo: versione adulta di me stesso in un momento fatidico, a un punto emotivamente cruciale.

    I nostri genitori, insegnanti e amici d'infanzia ovviamente non sono i sodali segreti che più tardi scegliamo, apparentemente a caso, anche se poi sono proprio loro a influenzare le nostre scelte più di quanto pensiamo. Sono lo strumentario di base che ci viene consegnato il giorno in cui montiamo i nostri baracchini da romanzieri. Eppure sono convinto che se ho impiegato ben diciassette anni a produrre il personaggio letterario di Dima, lo devo alla buonanima di mio padre. Avevo incontrato Dima in un night di Mosca nel 1993, con l'aiuto di alcuni intermediari del Kgb; ma soltanto ora questo boss, a suo tempo uno dei grossi calibri della mafia russa, ha trovato posto al centro del romanzo che ho finito di scrivere qualche settimana fa.

    Mi spiego meglio: mio padre, personaggio imperscrutabile, esagerato, adorante, era un truffatore che imbrogliava anche se stesso, e aveva subito pene detentive severe, in Gran Bretagna e altrove. Ho aspettato metà della mia vita di scrittore prima di tracciare il suo ritratto in Una spia perfetta, ma non sono mai riuscito a esorcizzarlo: come avrei potuto? Ora, volgendo lo sguardo indietro, ho la certezza che quella notte a Mosca, quando attraversai la pista da ballo per mettermi in ginocchio davanti a Dima con la più seria intenzione di scandagliare il fondo della sua anima criminale, in realtà al tempo stesso tentavo di investigare l'anima di Ronnie, mio padre.

    Come mai in ginocchio? Ero accompagnato dal mio interprete e da una guardia del corpo, un certo Pusya, campione di lotta nazionale dell'Abkhazia. In quei giorni la Russia era il selvaggio Est. Di fatto lo è tuttora, ma nei ruggenti anni Novanta si notava di più. Il night era sorvegliato da un plotone di forze speciali dell'Afganistan, con tanto di bombe a mano infilate nei cinturoni. Le hostess erano ragazze di campagna traballanti sugli altissimi tacchi che non erano abituate a portare. Dima fece la sua apparizione alle due di notte, circondato da uomini dai capelli cortissimi, tutti vestiti di nero, e da un paio di belle donne coperte di diamanti. Era calvo e portava tatuaggi sulla prima falange di ognuno dei suoi enormi pollici. Provate a fare un misto di Kojak e dell'uomo Michelin, e avrete un'idea di Dima.

    Il night era disposto come un teatrino, con le poltrone allineate di fronte alla pista da ballo. Uno del seguito si avvicinò per dirmi che Mister Dima avrebbe gradito parlare con noi. Ma parlare come? Si poneva un problema logistico, dato che il boss occupava una poltrona della prima fila, con gli uomini del suo seguito seduti ai due lati; e per di più la musica era assordante. Il mio interprete trovò la soluzione: mettersi in ginocchio. Fu così che ci inginocchiammo come due comunicandi davanti all'altare di Dima.

    Lo pregai arditamente di togliersi i Ray ban, cosa che fece, con mia sorpresa. Poi gli chiesi quale fosse la sua consistenza patrimoniale al netto - una domanda che mio padre avrebbe eluso, dato che la risposta sarebbe stata invariabilmente zero. Ci attestammo su una cifra di 50 milioni di dollari e rotti. Quando gli domandai se pagava le tasse si mise a ridere e disse che lo Stato era merda. Aveva figli - come me, ad esempio? Sì. E nipotini, come i miei, ad esempio? Sì. A questo punto tirai fuori la mia golden bullet, la domanda che avevo tenuto in serbo fin dall'inizio di quella conversazione urlata per coprire il fragore della band: "Ovviamente - gli dissi - per lei non è molto difficile far soldi in una Russia in mano al crimine". Lui assentì: "Difatti, non è molto difficile".

    Sempre in ginocchio, gli impartii un predicozzo. Anche i grandi feudatari dell'America moderna, dissi, i vari Rockefeller, Carnegie o J. P. Morgan erano dediti alla rapina. Ma invecchiando e guardando ai loro figli e nipoti, e quindi anche alla società che avevano depredato, avevano incominciato a sentire il bisogno di rimettere qualcosa nel piatto, in favore della posterità; e si erano messi a costruire università e ospedali, scuole e chiese e ospizi per i poveri. "Non crede, Dima, che un giorno anche lei deciderà di costruire qualche ospedale?" dissi, ricordando forse tutte le volte che avrei voluto chiedere a mio padre se non avesse mai pensato di rimettersi sulla retta via.
    Dima mi rispose alzando la voce, con un accento che al mio orecchio speranzoso sembrava lirico. Parlò senza una sola pausa. Il mio interprete non si azzardò a interromperlo, limitandosi ad assentire in attesa che dicesse tutto quanto aveva da dire; e quando alla fine si rivolse nuovamente a me, notai sul suo viso un leggero pallore, un'aria quasi di reverenza. "Mister David - mi confessò in un sussurro - sono spiacente, ma Mister Dima ha detto vaffanculo".

    Anche se aveva un suo lato ruvido, mio padre buonanima non avrebbe mai detto una cosa del genere. Si sarebbe messo una mano sul cuore, alla Tony Blair, spiegando con la sua voce più melodiosa, che sembrava scendere direttamente da un pulpito, come l'unico scopo della sua vita, figliolo, fosse quello di costruire ospedali per i poverelli figli di Dio. Poi avrebbe sospirato abbassando lo sguardo e scuotendo la testa, come a dire che il mondo non gli avrebbe mai reso giustizia - ma pazienza. Dopo di che avrebbe ordinato una bottiglia di champagne, chiedendomi se per caso mi avanzassero un po' di royalty da investire, dato che era venuto a sapere di un simpatico ospedaletto, in vendita a un prezzo stracciato. Forse per questo mi ci son voluti diciassette anni per scavalcare l'ombra di Ronnie e trovare un sentiero verso il cuore di Dima.

    (©2010 John leCarré / Agenzia Santachiara. I libri di John leCarré sono pubblicati in Italia da Mondadori
    Traduzione di Elisabetta Horvat)

    Pubblicato 15 anni fa #
  19. L'ho letto ieri, mentre aspettavo Tiziana. Molto, molto bello.

    Pubblicato 15 anni fa #
  20. rindindin

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    Mi dispiace molto per i Wu Ming, ma non ce l’ho fatta a continuare Manituana. È la prima volta che mollo un libro dopo neanche 170 pagine (su 600), perché ho quella vena masochista che mi porta a pensare che in un libro, salvo rare eccezioni, ci sia sempre qualcosa di buono, quindi mi forzo sempre ad arrivare alla fine. Lo faccio pure con gli spettacoli teatrali, per una sorta di rispetto nei confronti di chi cià messo, se non il talento, almeno l’anima nel proprio lavoro. Questo, sempre per me, vale anche nei confronti di uno scrittore. Potrete capire adesso la mortificazione nel vedere la mia mano abbandonare lentamente quel librone con un ottima idea grafica e un lavoro collettivo di 3 anni alle spalle, notevole e approfondito. Il romanzo storico è già impegnativo di per sè perché ti costringe a fare i conti con la tua ignoranza, anche laddove pensavi di non aver lacune ( non è il mio caso, io normalmente mi cospargo il capo di cenere prima ancora di iniziarlo un romanzo storico), ma anche con le tue curiosità storiche. Io odiavo mio fratello quando prendevo le bambole e lui non voleva giocare con me perché si perdeva in scenografie spettacolari solo per posizionare quegli stupidi soldatini raffiguranti indiani e cow boy, o indiani e giubbe blu, dipendeva dalla scatola. Non capivo il senso di rivivere quelle battaglie in miniatura e non ne subivo il fascino. Da allora non è cambiato molto. Quando ho cominciato Manituana mi sono sentita subito stordita da quella moltitudine di nomi incomprensibili e impronunciabili di grandi capi guerrieri e grandi condottieri, dalle situazioni complesse che si presentavano, che sarebbero sfociate in battaglie sanguinose, preludio della grande rivoluzione che darà vita agli Stati Uniti d’America. Sapevo che andando avanti avrei sbrogliato la matassa e collegato nomi a personaggi, ma l’impatto è stato duro. Lealisti contro ribelli, che si contendono l’alleanza delle sei nazioni, coloni e indiani che vivono in perfetta sintonia, che vogliono difendere il loro status quo, ma è un genere di miscuglio mal visto dai soldati della corona, i quali risponderanno alla loro offerta d’aiuto con un rutto. Neanche dopo aver vinto un’eroica e infuocata battaglia sul fiume. Quando nella battaglia sembra abbiano la meglio i ribelli perché tirano fuori l’arma segreta, un mortaio, che comincia a far saltare in mille pezzi i poveri corpi, ecco apparire finalmente il guerriero soprannominato “le Diable”, che potrà dare finalmente dimostrazione del perché del suo nome, cosa che il lettore distratto non aveva ancora intuito. Saltando da una sponda all’altra come un furetto, tagliando gole, sventrando budella e recidendo aorte, arriva alla postazione e annulla il mortaio. La vittoria c’è, ma al Forte il loro valore non è considerato, perché ci sono con loro quei puzzoni, alcolizzati degli indiani. Questi delusi e amareggiati, dopo essersi visti già all’inizio squoiare vivo il povero messaggero, dopo aver assistito in viaggio alla morte della moglie e del figlio del grande condottiero, squartati da un parto, i superstiti torneranno a casa dove hanno lasciato le restanti famiglie e guarda un po’? Saranno massacrati dai ribelli. Io intanto mi sono vista scorrere davanti agli occhi “l’ultimo dei mohicani”. Dal punto di vista storico Manituana si descrive e si rappresenta attraverso un modello preciso: le vicende di una minoranza accerchiata da due forze più potenti di loro, il nuovo mondo degli Stati Uniti, contrapposto al vecchio mondo della monarchia britannica e la cosa interessante è che l’autore, gli autori in questo caso, ci regalano il punto di vista dei perdenti. Nonostante però lo stile eccellente della narrazione, l’ottima regia, gli ottimi spunti, sarà l’argomento, saranno i clichè o le storie che s’intersecano, che per quanto si sforzino di farle apparire originali in realtà non lo sono, il libro come lettore non mi ha preso. Lo trovo poco personale. La storia va sentita sottopelle e vissuta con i personaggi, il centro deve essere la passionalità, non lo studio a tavolino. Il lavoro corale a volte toglie anima e cuore ai personaggi. Il laboratorio che sto frequentando con le “Cronache di un pianeta abbandonato” me lo conferma. Insomma tutta questa sperimentazione letteraria sorprendente non ce l’ho trovata. Sicuramente questa valutazione non troverà l’accordo della maggioranza, ma come dice il grande capo “Estiqaatsi”, ho voluto dire la mai.
    Ho preso poi in mano “Canale Mussolini, stesso peso, stesso numero di pagine più o meno, anch’esso romanzo storico, o così mi azzardo a definirlo io. Ho fatto i miei consueti e rituali “mea culpa” e ho cominciato a lettere. Beh? I personaggi mi hanno subito preso, parlano il mio stesso linguaggio (in senso metaforico) incredibile, sono veri, vivi, con carattere non descritto ma vissuto, ben diversi dai miei amici indiani. Anche quella una storia che si conosce bene, vista e rivista attraverso i film, i libri sul Duce, sul fascio, sui contadini, la bonifica, la miseria, la malaria. Il signor K l’ha raccontata, in maniera differente, in quasi tutti i suoi libri, tanto da andare sulle balle anche alla sua stessa città. E’ vero è diverso, Il Canale lo ha scritto da solo, ma qui io sono solo alle prime 60 pagine, eppure posso già dire che una storia raccontata così…è un’altra storia.

    Pubblicato 15 anni fa #
  21. Semplicemente in Manituana l'aspetto romanzo è letteralmente stritolato dall'aspetto storico.

    Pubblicato 15 anni fa #
  22. Bella recensione Daniè

    Pubblicato 15 anni fa #
  23. k

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    Membro

    Sì, è bello, Rindi. Meriterebbe una risposta più articolata. Purtroppo ciò da lavorà, per cui mi debbo limitare a due o tre brevissime cose, fermo restando che il mio è un giudizio personale e nulla più, fanne quello che vuoi.
    Partiamo però dalla fine:

    3°) - Il Canale e la Colonia non sono paragonabili, e non solo perché Canale è stato scritto da una sola persona e la Colonia da tante, ma soprattutto perchè - in forza di questo fatto - Canale è un libro di pancia e la Colonia invece è un libro di testa. Bello o brutto che sia, in Canale l'autore non s'è messo a fare la scaletta prima di cominciare a scrivere, non ha dovuto costruirsi in testa o a tavolino tutti gli intrecci e i sincronismi. La storia gli si è sedimentata in automatico dentro le viscere - nella pancia letteralmente dice Lucilio: "Ex praecordiis ecfero versum", dalle budella caccio fuori i miei versi - e quando è ora esce da sola, o pressappoco. Il libro di testa invece lo devi costruire tutto in testa e - se sei bravo - dopo averlo costruito in testa puoi cercare di infonderci pure un po' di cuore. Però è difficile. Non sempre è facile. Noi per questo in Colonia abbiamo pensato a una struttura in short stories, proprio nella speranza che su ognuna delle microstorie si riuscisse ad infilarci almeno un pezzetto di cuore di qualcuno di noi. Poi il resto ovviamente non può farsi che in testa.

    2°) - Fermo restando che io non ho letto Manituana (e neanche Canale peraltro, avendolo solo scritto, e come tu sai il giudizio di un libro spetta solo ai lettori, non agli autori), non posso che prendere per buono e a mo' d'esempio - per il momento - ciò che dici tu. Mi pare quindi di capire che a un certo punto - pur riconoscendo l'accuratezza ed accettandone l'ambientazione e le ricostruzioni più o meno storiche o storiografiche - tu ti sei semplicemente stufata d'andare avanti: non essendo scattata l'immedesimazione in determinati personaggi e l'interesse ad andare a vedere ad ogni costo come andava a finire per loro, pure a costo appunto di doverti sorbire l’apparato storico-descrittivo, per te è finito pure l'interesse di stare appresso al resto degli intrecci e delle ambientazioni. Anche perché nel romanzo storico - ma non solo in quello storico - più è accurata la verosimiglianza o la veridicità dei fatti e dei contesti, e più si fa complesso l'intreccio, con l'accumulo e l'affastellamento di personaggi pure secondari e di situazioni per cui, a un certo punto, anche al lettore più accorto capita di non ricordarsi più chi è quello e chi è quell'altro. E' per questo però - almeno nelle intenzioni, poi bisognerà vedere le riuscite effettive - che Canale Mussolini è di 460 pagine mentre la Colonia non dovrebbe superare le 150, perchè in Colonia appunto ci sono meno viscere e c'è un intreccio più cerebrale per cui il lettore, se fosse più lungo, non potrebbe non perdersi. Poi, Rindi, fa' come te pare. Non ci vuoi più stare? Ci dispiace, ma non te potémo mena'.

    1°) - E veniamo al dunque, alla nota forse più spinosa ma che per onestà debbo pure dire, anche perchè non è personale ma riguarda molti, ed in passato la stessa questione s'è posta anche e soprattutto con il Fer. Allora, Rindi, questo pezzo qua è bello. Io ti ripeto che non ho letto né Manituana e né il Canale, e quindi non lo so se quello che tu dici è vero. Però lo scrivi bene e lo scrivi facendomi davvero credere che è vero, o che almeno è stato assolutamente vero per te. E’ un pezzo autentico. Lo stesso, Rindi, m'era già capitato quando avevo letto per caso sul Pontiniano quella cosa sugli uccellacci della stazione di Campoleone. E lo stesso mi capitava e mi capita tuttora quando leggo alcune cose del Fer scritte in stile piano o stile redazionale. O quando leggo alcune cose di tanti amici e compagni qui sul forum, cose in senso di "interventi" senza pretesa letteraria, anche cazzeggi, a volte. Be', Rindi, spesso in questi interventi sul forum senza preventiva pretesa di letterarietà, c'è molta più letteratura dei testi cosiddetti creativi. E' il linguaggio piano - piano, non sciatto - che rende l'autenticità delle cose. Sono anni che dico al Fer di scrivere le sue cose in stile piano, le storie o storielle vere, non i dialetti improbabili o i registri che non sono i suoi. Parla per quello che sei e scrivi quello che hai da dire con le parole esatte che servono per dirle, non una sola di più. Qui, Rindi, tu ci sei riuscita benissimo. Avevi delle cose da dire e le hai dette senza pensarci sopra - le hai tirate fuori dalla pancia, ex praecordiis - senza stare a pensare se erano scritte bene o male o se ci convincevi o meno: "A me m'è successo questo, e adesso io questo penso e questo vi dico, e poi voi fate come cazzo vi pare". Ecco, Rindi, è così che si deve scrivere: "Rem tene, verba sequentur". Scrivici così pure tutto quanto il resto. A partire dalla Colonia. Ciao. k.

    Pubblicato 15 anni fa #
  24. cameriere

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    Membro

    "Ex praecordiis ecfero versum"
    "Rem tene, verba sequentur"

    ma dove le vai a prendere?

    Pubblicato 15 anni fa #
  25. M'è piaciuta la recensione della Rindi. Adesso sta in home page, pronta per essere commentata e discussa. E' una tesi interessante, quella che parte dalla penultima fatica collettiva dei Wu Ming e s'allarga fino a trattare della scrittura collettiva e, più in generale, degli esperimenti letterari. E' anche scritta bene e, cosa di maggior pregio, 'sentita'. Le tesi finali le condivido solo in parte ed è per questo che ho deciso di intervenire.

    Dei Wu Ming ho letto molti libri, anche quelli che quattro di loro avevano firmato come 'Luther Blisset', tra saggi e romanzi. Ho letto alcuni di quelli che hanno scritto come singoli (Wu Ming 1 e Wu Ming 2) e debbo dire che i livelli del primo libro, Q, non sono più stati toccati. Quali livelli? In Q si raccontava una storia inserita all'interno della Storia. C'era un personaggio che si muoveva all'interno di cose più grandi di lui. E forse c'era una storia che, anche in Italia, è stata vissuta e sentita, su cui è possibile reperire fonti dirette: le persecuzioni ai protestanti. Soprattutto in Emilia Romagna dove, tra Ferrara e Modena, per decenni si sono incontrati e scontrati protestanti e nicodemisti.

    In Manituana e in Altai, invece, questa spontaneità non l'ho riscontrata. Non c'è la storia nella Storia, se non in totale funzione della seconda. Voler raccontare il presente narrando eventi passati non è di per sé sbagliato. Come tutte le cose, dipende come lo fai. Bisogna sempre tener presente che si tratta di due realtà diverse, con condizioni storiche, sociali ed economiche completamente differenti. Corsi e ricorsi storici, insomma. Anche se Giovanni Battista Vico, probabilmente, s'è spesso trovato a rivoltarsi nella tomba. Nel caso specifico mi sembra che, sulla struttura, sia intervenuta anche la volontà di rispettare una teoria della letteratura (il New Italian Epic) che rischia di inficiare su tutto il meccanismo. Non voglio qui entrare nel merito del NIE. Ritengo però che la volontà di rientrare nelle indicazioni fornite - da loro stessi, peraltro - rischi di far diventare un'opera letteraria poco più di un compitino ben scritto e ben svolto. Si pensa solo a spuntare le voci per un nominalismo che da crociano si trasforma in wuminghiano. Prima c'era la poesia e la non poesia. Oggi c'è NIE o non NIE. La differenza tra i due è che quella di Croce era una teoria, prima estetica e poi letteraria, che arrivava ex post facto, cioè dopo l'opera. Quella dei Wu Ming, invece, mi sembra un'operazione di natura profondamente diversa.

    Sull'esperimento letterario: non è di per sé quello a togliere l'anima. Un romanzo può essere di pancia o di testa, senza perdere di un millimetro la sua bellezza e il suo fascino sul lettore. Un romanzo o anche una poesia possono essere scritte a 100 mani ma non è questo a pregiudicare la 'bellezza' e la 'forza' del romanzo stesso. Nel caso specifico, quindi, credo si tratti di un'influenza nefasta sull'opera della teoria, del pensato, dell'entomologia applicata alla letteratura. «Ci è il teorico, non ci è più lo scrittore (uno o trino)» direbbe il buon De Sanctis.

    Pubblicato 15 anni fa #
  26. Nella rindicensione: un'ottima vuole l'apostrofo, grazie. *
    P.s.: giubbe blu o giubbe rosse?

    Per K: può essere che lei abbia ragione sul linguaggio piano. C'è sempre tanto da lavorare-migliorare.

    *: colpirne cento per educarne cento.

    Pubblicato 15 anni fa #
  27. rindindin

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    Membro

    beh Torque la tua posizione non è molto distante dalla mia a ben vedere, perchè anch'io sostengo che non ci sia stata spontaneità. "Q" non l'ho letto perchè avevo comprato Altai, ma dalle prime pagine ho visto che seguiva l'onda di Manituana e quindi non l'ho proprio iniziato. Ringrazio k per la sua critica positiva, ma volevo precisare che il paragone maggiore a livello letterario non era tanto tra il Canale e la Colonia, ma tra Canale- Manituana e Manituana-Colonia. Una discussione interessante infatti potrebbe essere quella sul romanzo storico, uno scritto da un singolo e l'altro un lavoro collettivo, quindi un piano di analisi prettamente letterario,(come dice k approfondire la differenza tra romanzo di testa e di cuore), poi un confronto tra la Colonia e Manituana sarebbe interessante come analisi di 2 lavori collettivi, anche se di generi differenti. k grazie cercherò di fare del mio meglio, il colonia e sempre amen.:)

    Pubblicato 15 anni fa #
  28. Daje Daniè

    Magari dai anche un'occhiata alla NIE, se vuoi fare quest'approfondimento. Perché rimane sempre una chiave di lettura della loro poetica. Sulla Colonia, invece, magari produciamo qualcosa anche noi, ma a lavoro terminato.

    Pubblicato 15 anni fa #
  29. zaphod

    offline
    Fondatore

    Non credo che possano essere accostati Colonia e Manituana (o qualsiasi altro lavoro dei WuMing) sotto l'etichetta "scrittura collettiva". Prima o poi ci scrivo qualcosa di più articolato, ma adesso abbiamo molte altre priorità.
    Ormai l'etichetta "scrittura collettiva" è un ombrello che copre realtà estremamente differenti tanto da perdere significato analitico e rimanere più come suggestivo termine giornalistico. Ad alcuni fa comodo pure così possono etichettare facilmente la loro produzione e inserirla in un filone "trendy". Così come - a mio parere - si è verificato con la famigerata "New Italian Epic", abbozzo di teoria che ha avuto un fuoco di paglia scoppiettante, un ombrello dove si è corsi a cercar riparo (narratori e critici in cerca di notorietà a braccetto per cavalcare la moda del momento) e che è ben presto sfumata in uno (spesso sterile) dibattito per iniziati, stanno bene adesso i Wuminghi a riprenderne le fila, manco se gli portano la soluzione sull'ultima pagina della Settimana enigmistica. Ma anche questa è un'altra storia.
    Torniamo alle differenze. Perché non possiamo accomunare Manituana alla Colonia in base al metodo di scrittura? Perché i Wu MIng sono un collettivo "chiuso" di scrittori, la loro produzione collettiva esce come se fosse scritta da uno solo. Non c'è permeabilità con l'esterno. Non ti puoi proporre come WuMing 6 e entrare nel collettivo. Lo so, ne sono certo, gliel'ho chiesto. In uno dei primi incontri che abbiamo avuto - eravamo all' Heaven Pub, c'erano il 2 e il 3 - mi dissero che una delle critiche che gli avevano fatto, e su cui in parte concordavano, era che i personaggi femminili dei loro romanzi avessero poco spessore. Allora gli ho chiesto se avevano mai pensato di chiedere a una donna di entrare nel gruppo come sesto membro (allora erano ancora in 5, adesso sono in quattro, wumingtre ha lasciato un paio d'anni fa, era simpatico e cazzuto, peccato). Insomma io gli ho fatto sta domanda e loro hanno sgranato tanto d'occhi. La possibilità di ammettere un'altra persona nel gruppo non era proprio prevista.
    La colonia no. La Colonia nasce come progetto aperto. Così come l'Anonima Scrittori. E' nel nostro Dna. A volte questa apertura ha creato pure un sacco di imbarazzi. Pareva che l'Anonima fosse di tutti, la famosa "orizzontalità", una specie di chimera che veniva sbandierata ora come pregio ora come limite. Adesso la struttura organizzativo-decisionale è più definita, istituzionalizzata, i responsabili di questa struttura siamo Torquemada e io, punto. Ma i progetti rimangono aperti. L'Anonima Scrittori nasce per creare il confronto, solo quello può generare crescita collettiva e individuale. Gli stessi che hanno abbandonato l'Anonima Scrittori hanno trovato in questo terreno humus vitale che gli ha dato la spinta necessaria al distacco.
    Certo, col passare degli anni abbiamo definito sempre di più le regole di ingaggio. Proprio per evitare incomprensioni e false illusioni. Chi ci sta, bene, gli altri bene uguale, però da un'altra parte.
    La Colonia nasce come prodotto collettivo. Non c'era un piano preordinato. Niente scaletta, niente personaggi, solo una suggestione di ambientazione (il racconto Il circo) e i soliti vincoli di lunghezza. E'stata un'esplosione. C'eravamo dati settembre per produrre i primi materiali. Non ricordo bene, ma ancora doveva iniziare luglio e già ci eravamo messi a scrivere. Fervore creativo allo stato puro. Tentativi ed errori, certo. Ma un lavoro pazzesco, con K a capofitto nella lettura e nei suggerimenti. Ben piantato coi piedi sulla tolda di questa nave a dispensare lodi, strigliate, vaffanculi e pronto a cogliere ogni refolo di vento favorevole per portare questa nave fuori dal porto. Nessuno di noi avrebbe mai potuto scrivere da solo quel primo capitolo, ma fosse mancato anche solo uno di noi il capitolo sarebbe stato un'altra cosa e il libro avrebbe preso un'altra direzione.

    Suggerimenti di lettura per la Colonia: l'Antologia di Spoon River (Edgar Lee Masters) e Cronache Marziane (Ray Bradbury).

    Pubblicato 15 anni fa #
  30. Sapete qual è stato il primo libro che mi ha rapito e mi ha fatto isolare dal mondo completamente facendomi capire il piacere della lettura? "Il pianeta delle scimmie". E il nome dell'autore non lo ricordo mai. E voi? Qual è stato il primo?

    Pubblicato 15 anni fa #

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