Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d'orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto simbolicamente numerato 451 sulla solida testa, con gli occhi tutta una fiamma arancione al pensiero di quanto sarebbe accaduto la prossima volta, l'uomo premette il bottone dell'accensione, e la casa sussultò in una fiammata divorante che prese ad arroventare il cielo vespertino, poi a ingiallirlo e infine ad annerirlo.
Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.
Ho diciassette anni e sono pazza. Mio zio dice che queste due cose vanno sempre insieme.
«Come si spiega», le disse una volta, presso l'ingresso della sotterranea, «che mi sembra di conoscervi da tanti anni?»
«Perché io vi voglio bene», ella disse, «e non voglio nulla da voi. E poiché ci conosciamo bene tutt'e due.»
Ci deve essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!
La chiusura lampo ha spodestato i bottoni e un uomo ha perduto quel po' di tempo che aveva per pensare, al mattino, vestendosi per andare al lavoro, ha perso un'ora meditativa, filosofica, perciò malinconica.
Riempi i loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto sono pieni, ma sicuri di essere "veramente bene informati". Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione di movimento, quando in realtà son fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.
Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.
Noi non siamo che copertine di libri, il cui solo significato è proteggerli dalla polvere.
Montag guardò il fiume. Noi andremo sul fiume. Guardò le antiche rotaie della ferrovia. Oppure andremo in quella direzione. O percorreremo le grandi autostrade ora, e avremo tempo di mettere tante cose dentro di noi. E un giorno, dopo che la sapienza sarà stata a lungo in noi comparirà sulle nostre mani e sulle nostre bocche. E gran parte di essa sarà errata, ma una parte sufficiente sarà giusta. Cominceremo a camminare oggi e a vedere il mondo come il mondo cammina e parla, come realmente appare. Voglio vedere ogni cosa, ormai. E anche se niente di esso sarà e quando entrerà in me, dopo qualche tempo si raccoglierà tutto insieme dentro di me e sarà me stesso. Guarda il mondo qua intorno, Signore, Signore, guardalo, qua intorno a me, al di là della mia faccia, e il solo modo di toccarlo veramente è di metterlo dove sia finalmente me stesso, dove è nel sangue, dove è spinto a correre in circolo mille volte per diecimila ogni giorno. Ho già un dito sul mondo, adesso; questo è un principio.
I buoni scrittori toccano spesso la vita. I mediocri la sfiorano con una mano fuggevole. I cattivi scrittori la sforzano e l'abbandonano.
C'era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l'altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra. Ad ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda.
«...sapete cosa ho scoperto?»
«Che cosa?»
«Che la gente non dice nulla»
«Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!»
«No, vi assicuro. Parla di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli altri...»
«Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso.»
[...]
E quando fosse venuta la sua volta, che cosa avrebbe potuto dire, che cosa avrebbe potuto offrire in un giorno come quello, per rendere il viaggio un po' più agevole? Per ogni cosa c'è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa...
E sull'una e sull'altra riva del fiume v'era l'albero della vita che dava dodici specie di frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell'albero erano per la guarigione delle genti.
Sì, pensò Montag, ecco ciò che voglio mettere da parte per mezzodì. Per mezzogiorno...
Quando saremo giunti alla Città.
[Ray Bradbury, Fahrenheit 451, traduzione di Giorgio Monicelli, Mondadori]