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Altai di Wu Ming: la solita avventurosa minestra

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture
Postato da: Torquemada

[recensione di Nicola Villa]

Appartengo a quei molti lettori che si sono entusiasmati per Q (Einaudi, come i successivi, 1999) di Luther Blisset, ma appartengo anche a quei pochi lettori che sono rimasti delusi da 54 (2002) di Wu Ming. La delusione provocata dal secondo romanzo del famoso collettivo di scrittori bolognesi, collettivo che nel frattempo aveva cambiato nome e era passato a cinque membri, ha gettato un’ombra di attenzione critica anche sul primo romanzo, accantonando il precoce entusiasmo in favore di un più obbiettivo giudizio sulla qualità di quell’opera. Insomma si può cambiare idea e quella che mi sono fatto della scrittura dei Wu Ming è stata rafforzata dalle opere successive come Manituana (2007). Così il recente Altai, chiusura del cerchio partito da Q, mi dà anche lo stimolo per scrivere le mie critiche e le mie maggiori perplessità su una ricetta già assaggiata.
I Wu Ming tornano al Cinquecento, quindici anni dopo la fine della precedente vicenda, e mettono sul fuoco del loro giallo storico gli intrighi e i conflitti tra oriente e occidente, la rivalità di due città, due centri di potere, Venezia e Costantinopoli, e due battaglie storiche e significative per le ambizioni turche nel Mediterraneo, quella di Famagosta e quella di Lepanto. Punto di vista e narratore della vicenda è una spia, Emanuele de Zante poi Manuel Cardoso, prima al soldo dei veneziani e poi a quello del Sultano, una conversione che coincide con la scoperta delle sue origini ebraiche e con la conseguente adesione al progetto utopico e fallimentare di Giuseppe Nasi, consigliere ebreo del Sultano Selim II, di voler fondare la nuova Sion sull’isola di Cipro.
Senza aggiungere altro a una trama, ben più complicata e con legami a Q, va detto che la storia è avvincente e il thriller storico accattivante, anche se, nel finale, la successione degli eventi assomiglia troppo a un elenco sbrigativo. Questo non è l’unico limite di un’opera che fa largo uso di citazioni, di metafore banali e di tesi storiche-politiche un po’ scontate (come l’anti-macchiavellismo). La cosa che balza più agli occhi è il punto di vista adottato: la mia teoria è che i Wu Ming tentino di far calare completamente il lettore nella narrazione, una soggettiva alla Doom (un videogioco che introdusse la soggettiva per i giocatori) che coinvolge ma che è anche analitica e sempre distaccata. Lo sguardo di un testimone che abbia sempre un certo grado di coinvolgimento, ma anche di perfetta visione generale come nella descrizione di una città, Costantinopoli, durante un inseguimento (pag. 195). Anche i riferimenti al cibo, si mangia e beve di frequente, sono dei continui richiami sensoriali per il lettore che si deve immergere maggiormente nell’atmosfera. Questa tecnica ha, a mio parere, alcuni esiti che toccano il grottesco quando, a esempio, il lettore scopre, all’inizio (pag. 27), le origini ebraiche del protagonista quando questi abbassa gli occhi sul proprio pene privo di prepuzio. Ecco il protagonista, e anche gli altri personaggi, sembrano spesso privi di anima, dei vettori vuoti condannati a comportarsi in un certo modo e a vedere in uno definito e a volte troppo moderno. Un altro problema stilistico è il tentativo di restituire immagini liriche nelle descrizioni attraverso metafore banali e inefficaci, come avviene a pagina 69 nella descrizione di Salonicco: “La striscia variopinta delle case si ingrandì a ogni colpo di remo, fino a riempire gli occhi. La città era splendida come una sposa, distesa su alture verdi chiazzate di colori sgargianti, rosso, giallo, indaco, sotto un cielo che il vento di nordovest rendeva terso e blu profondo”: un brano incolore, povero e superficiale sia per gli aggettivi che per i participi e le variazioni. Ma c’è anche di peggio come le descrizioni di scene di sesso, una utile “prova del nove” per verificare le capacità descrittive di una scrittura, molto ispirate e, ancora una volta, involontariamente grottesche, in un romanzo, tra l’altro, in cui le donne sono sempre e solo subordinate agli uomini.
Altai è una grande caccia vana di un individuo che si trova a conoscere le due sponde opposte di un conflitto, che proprio da questi attraversamenti ambigui capisce meglio gli intrighi: sembra un The Bourne identity del sedicesimo secolo. Eppure la dualità del protagonista appare come una occasione sprecata perché non si capiscono le vere motivazioni, o meglio la conversione è troppo immediata e poco approfondita. Il protagonista di Altai è, in sostanza, un ubbidiente, il braccio destro di potenti che devono conseguire i loro piani, un mezzo del potere. Le sue scelte morali sono sempre dettate dall’ubbidienza al padrone e poco importa che la seconda causa sia più nobile e coincida con la personale riscoperta identitaria. In questo senso la morale del protagonista è più reazionaria di quanto si voglia far credere e di quanto si voglia nobilitare con la metafora del falco da caccia che dà il titolo al libro. Che sia cane o falco sempre di un servo si tratta.

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