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I Lunedì dell’Arcipelago - Distacco

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, I lunedì dell'Arcipelago
Postato da: Faust Cornelius Mob

finestrino

Noi di Anonima Scrittori amiamo leggere, specie gli autori di talento. Come Stefano Carbini, che vi proponiamo per la seconda volta di seguito. Sì, perchè proprio un paio di giorni fa Stefano ci ha regalato un racconto molto bello, uno dei migliori di Arcipelago Anonima. cover iphone 6 plus custodia Che senso avrebbe, dunque, non riproporlo qui? Sulla scia di una serie di racconti ispirati a Canale Mussolini, godetevi “Distacco”

Il naso di Mattia era schiacciato contro il finestrino come se volesse attraversarlo. Il vetro, incassato in profondità nella fiancata, non permetteva una buona visuale verso l’esterno, ma lui non voleva perdersi nemmeno un particolare di quello che succedeva. Aveva appena compiuto sette anni e quel giorno avrebbe volato per la prima volta.

Un addetto passò sotto di lui manovrando un cavo di ancoraggio, poi, in fondo, si accesero i lampeggianti arancioni e il suono di una sirena arrivò attenuata fin dentro la cabina passeggeri.

– Papà, partiamo!

Il padre gli sorrise e si chinò per guardare anche lui fuori dal finestrino. custodia outlet samsung s8 In fondo, le grandi porte dell’hangar si stavano aprendo alla luce del sole con una lentezza che però era solo apparente.

– Sì, ci siamo quasi. Devono solo portarci fuori.

– Mamma! – chiamò Mattia piegandosi in avanti per riuscire a vedere la madre seduta con sua sorella più piccola dall’altra parte dello stretto corridoio. – Stiamo per partire – annunciò quando lei si volse al richiamo. La madre, cercando di nascondere la tensione, rispose con un sorriso tirato: quello era il primo e forse ultimo volo per tutti lì dentro. Mattia non aveva colto il nervosismo della madre ed era subito tornato a spalmare il viso contro il finestrino.

Finalmente si muovevano. L’apertura in fondo all’hangar si avvicinava e Mattia già riusciva a scorgere le persone che si trovavano sul piazzale esterno. Un movimento verso l’alto richiamò la sua attenzione e lui si contorse per cercare di vedere meglio, ma riuscì a scorgere solo una macchia luminosa che pareva galleggiare sopra di loro.

Il personale di terra aveva terminato le operazioni di preparazione al lancio nei tempi stabiliti e dopo aver imbarcato i passeggeri e finito di pompare elio, aveva trainato la navicella fuori dall’hangar fino alla piattaforma di distacco, facendo attenzione a non danneggiare la sottile pellicola del pallone stratosferico. Adesso l’involucro, immenso e ancora quasi del tutto sgonfio, si librava nell’aria per almeno un centinaio metri e teneva sollevata la navetta cercando di strapparla dai cavi di ormeggio. A guardarla da lontano, sembrava una gigantesca medusa che afferrata la preda con i lunghi tentacoli cercasse di allontanarsi ondeggiando, spinta dalle correnti. Solo durante la salita, per effetto dei raggi del sole e della differenza di pressione, il pallone si sarebbe gonfiato fino a diventare un’enorme zucca splendente con attaccata una minuscola appendice. Una volta raggiunta la massima altitudine, una miriade di micro cariche disseminate sull’involucro sarebbe esplosa facendo scomparire il pallone come una bolla di sapone, e i razzi della navetta si sarebbero finalmente accesi.

Il direttore di volo controllò per l’ultima volta direzione e forza del vento, poi diede l’ordine di allentare i cavi. La navicella, con almeno due occhi dietro ogni finestrino, prese a salire lentamente fin quando, giunta a distanza di sicurezza, i cavi vennero sganciati.

– Distacco avvenuto – li avvertì la voce del comandante; loro però se ne erano già accorti sentendo quella specie di risucchio verso l’alto e di lato quando il pallone, finalmente libero, si era lanciato all’inseguimento di una leggera brezza.

Mattia vide il personale a terra, tutti col naso all’insù, piano piano rimpicciolire e scivolare via, mentre la navicella prendeva velocità e poi stabilizzava la sua salita. Adesso il campo di lancio con l’hangar ancora aperto si poteva vedere per intero, appollaiato in cima a un grande edificio, appena un po’ più alto di quelli disseminati tutt’intorno. Man mano che salivano l’orizzonte si allargava e verso prua già si scorgeva il mare.

Mattia, tutto eccitato, non riusciva a stare fermo e indicava al padre ogni cosa nuova che vedeva, poi chiamava la madre per dirlo anche a lei. Era lo stesso per tutti gli altri bambini a bordo; gli adulti, invece, per lo più avevano già distolto lo sguardo e voltate le spalle.

Quando, più tardi, vennero spente le luci che indicavano di tenere le cinture allacciate, l’eccitazione infantile si era assopita già da un po’, forse vinta dal dondolio del pallone. Mattia, invece, stava sempre attaccato al finestrino e anzi da qualche minuto era tutto impegnato a osservare una grande area scura che era apparsa verso sud. Suo padre aveva gli occhi chiusi, ma forse non dormiva, pensò scuotendolo per il braccio.

– Papà, cos’è quella?

L’uomo aprì subito gli occhi e sulle prime guardò il figlio senza capire, finché non mise a fuoco il piccolo indice che puntava fuori. Si avvicinò al finestrino e guardò a lungo quello che indicava.

Non aveva proprio idea di cosa potesse essere. Nemmeno lui aveva mai volato prima e non ricordava quando era stata l’ultima volta che gli era capitato di vedere un’immagine dell’Italia ripresa dallo spazio. iphone cover original Avvicinò ancora di più il viso al finestrino sperando di riuscire a orientarsi e di poter rispondere alla curiosità di suo figlio con qualcosa di diverso da un banale ‘non lo so’.

Il mare da una parte e le montagne dall’altra; ovunque il grigio luccicante del cemento e del vetracciaio di quella che ormai era un’unica ininterrotta metropoli, con appena qualche spruzzata di verde qui e lì. Poi, proprio in mezzo, come il buco di un tarlo, quell’enorme macchia nera. Non una sfumatura né un riflesso. Nero e basta. Anzi no, c’era come un capello bianco che la attraversava; si vedeva appena.

Stava per arrendersi e confessare al figlio la propria ignoranza, quando all’improvviso si rese conto di sapere cosa fosse quell’area, anzi, di conoscerne tutta la storia. Gli era tornato alla mente di quando, poco più grande di Mattia, l’aveva studiata a scuola e anche quello che poi gli aveva raccontato suo padre. Sì, non poteva essere altro.

– Vuoi conoscere la storia di quella zona scura?

Mattia, che si era stancato di guardare dal finestrino, sorrise e fece segno di sì con la testa.

– Molti anni fa, prima ancora che nascesse tuo nonno – Mattia collocò immediatamente l’inizio della storia nella sua scala temporale: suppergiù all’epoca dei dinosauri – in quella terra laggiù non ci viveva nessuno. Tutt’intorno sì, ma lì no perché era tutta una palude ed era pericoloso viverci.

– Perché c’erano i dinosauri?

– No, c’erano le zanzare. Erano dei piccoli insetti che ti pungevano e trasmettevano una brutta malattia.

Mattia fece una smorfia di delusione.

– Per rendere vivibile quel posto bisognava prosciugarlo, pompare l’acqua, spingerla in un canale e farla arrivare fino al mare. Però il canale non c’era, bisognava costruirlo. Così l’uomo che in quegli anni comandava tutti quanti, decise che il canale l’avrebbe costruito lui, o meglio, avrebbe fatto andare lì gente da mezza Italia e loro avrebbero costruito il canale e bonificato la palude, poi gli avrebbe lasciato quella terra per viverci.

– Ma non era pericoloso? Non c’erano le zanzare?

– Sì, ma ancora per poco.

Stava per raccontargli dei giganti che costruirono il canale, ma poi si ricordò di quanto ci avesse messo lui, all’età di Mattia, a capire che quella che gli aveva raccontato suo padre era solo una metafora. E poi vedeva che suo figlio cominciava a distrarsi, forse era partito da troppo lontano.

– Così, in poco tempo, quella che era sempre stata una palude inospitale divenne una pianura fertile in cui andarono a vivere in tanti. Passarono gli anni, con le città che diventavano sempre più grandi, e il mondo sempre più piccolo. Tutti ormai viaggiavano in automobile e sempre più gente anche in aereo, così che si poteva arrivare, come se niente fosse, in ogni angolo della Terra. Quando costruirono i primi razzi riempirono il cielo di satelliti, poi piano piano anche di persone. All’inizio ogni paese faceva per conto suo: costruiva i propri centri spaziali, i cosmodromi, i razzi, le navette e mandava in orbita i propri astronauti. Poi capirono che conveniva mettersi insieme. Fu così che, a un certo punto, decine di governi si misero d’accordo per costruire un nuovo astroporto, ma uno grande, immenso, il più grande del mondo. Doveva essere utilizzato da tutta l’Europa e da molti altri stati di Africa e Asia, avrebbe ospitato migliaia di astronavi, razzi, navette passeggeri e cargo per le merci. Cominciarono a cercare un posto adatto; serviva una grande pianura che fosse ben collegata, sicura, meglio se vicino al mare. Diversi paesi si offrirono di ospitare quello che sarebbe dovuto diventare lo scalo internazionale più all’avanguardia, il vero trampolino di lancio verso gli altri pianeti. Gestire una struttura così portava un sacco di vantaggi, anche economici, però non tutti erano d’accordo. C’era chi pensava ai problemi che avrebbe portato, a tutta la terra fertile che si sarebbe persa; gente che diceva che quello che volevano costruire era un astromostro. In quel fermento, pure quella pianura che una volta era palude entrò nella lista dei possibili siti; anche perché un comitato di abitanti del luogo, al grido di ‘ciannamo noi sule stelle’, s’era dato parecchio da fare per raggiungere quell’obiettivo. Erano discendenti di coloni e si vede che gli era rimasto qualcosa nel sangue: adesso pure loro volevano diventare colonizzatori, ma di nuovi mondi.

A quelle parole Mattia si riscosse dal torpore che lo aveva preso e mormorò: – Come noi…

L’uomo guardò il figlio, poi volse lo sguardo alle file di teste degli altri viaggiatori seduti di fronte a loro, e infine a sua moglie e sua figlia addormentate l’una accanto all’altra.

– Sì, come noi – confermò piano.

– E poi?

– Veramente ti va di sentire il resto della storia? – gli chiese scompigliandogli i capelli. Mattia rispose facendo spallucce; aveva capito che a suo padre piaceva raccontarla e a lui piaceva sentire la sua voce.

– Insomma, non si sa perché, fatto sta che scelsero proprio quel posto per costruirci il nuovo astroporto. Ricoprirono tutto, dal mare fin quasi alle montagne, con uno spesso strato di cemento. Anche il canale: lo mandarono a scorrere in una galleria sotterranea, come avevano già fatto con i fiumi che attraversavano le grandi città. In pochi anni terminarono di realizzare il basamento dell’intera struttura e si apprestarono a proseguire con le altre costruzioni. Poi, una notte, la terra tremò e si aprirono delle crepe nella piattaforma di cemento. Le crepe si allargarono e quando andarono a controllare, trovarono che la copertura sopra un tratto del canale era crollata. Pur non capendo come poteva essere successo, sgomberarono le macerie e richiusero la voragine, ma passarono solo pochi giorni che successe di nuovo, più a valle, sempre sopra il canale. La cosa andò avanti per mesi: appena riparavano un crollo ne avveniva un altro, ogni volta per un tratto più lungo. I vecchi dei paesi intorno dicevano che i fantasmi dei coloni che avevano bonificato la palude erano tornati per riprendersi il canale, e scavavano per riportarlo alla luce. Naturalmente c’era pure qualcuno che giurava di aver sentito i colpi di piccone e le voci degli operai al lavoro.

Si volse per controllare la reazione di suo figlio alla storia dei fantasmi, ma Mattia si era addormentato con il mento appoggiato sul petto. Lo prese delicatamente per le spalle e lo sistemò in una posizione più comoda.

L’uomo tornò a guardare fuori dal finestrino, giù verso i luoghi del suo racconto. Nel frattempo si erano sollevati parecchio e la macchia scura si era rimpicciolita, ma il filo di argento che la attraversava si vedeva ancora, oppure era solo un’impressione.

Che strano – pensò – proprio oggi stare lì ad osservare quella che avrebbe dovuto essere la porta verso le stelle; un’opera di cui non si ricordava più nessuno; il risultato di un’impresa titanica fallita miseramente per colpa di uno stupido canale che non erano riusciti a imbrigliare. Alla fine il cemento era crollato lungo tutto il suo corso e gli ingegneri avevano dovuto gettare la spugna: non era possibile costruire lì l’astroporto. Rimaneva una pianura di cemento tagliata in due da un rivolo d’acqua, migliaia di ettari di terra strappati alla palude sacrificati per niente. Non era pensabile smantellare quanto era già stato costruito, si poteva solo cercare di riutilizzarlo; e fu così che quella divenne un’immensa centrale solare ad alto assorbimento. Di nuovo coprirono tutto, ma questa volta di sottili pannelli che catturavano gran parte della luce che li colpiva: un manto di oscurità quasi assoluta, un deserto per ogni forma di vita.

Che poi quella distesa di cemento non serviva nemmeno, e a nessuno era mai più venuto in mente di costruirne un’altra. Adesso si poteva partire quasi da ogni luogo, anche dai tetti.

Il padre di Mattia alzò lo sguardo verso l’orizzonte curvo della Terra dove l’azzurro elettrico dell’atmosfera sfumava nell’oscurità dello spazio esterno. cover custodia samsung D’un tratto divenne totalmente cosciente del vuoto tutt’intorno, del niente che li separava dalla superficie laggiù in basso distante chilometri e, preso dal panico, si aggrappò con forza al sedile per non precipitare. Gli mancava l’aria, il gelo gli penetrava nella schiena e stringeva spalle e stomaco in una morsa. Stava per morire?

Distolse lo sguardo dal vuoto volgendolo all’interno della cabina, al suo orizzonte di pochi metri illuminato da luci soffuse. Aveva fatto la scelta sbagliata?

Lentamente l’aria smise di sibilargli in gola e con cautela le mani allentarono la presa sul sedile. Era stato da pazzi pensare di poter abbandonare il loro mondo? Aveva condannato i suoi figli a una vita da esuli, senza più radici, in un ambiente artificiale, ostile? Manuela no, lei era la più determinata, non sembrava avere dubbi a riguardo, solo il viaggio la preoccupava. samsung custodia outlet Si voltò verso la compagna pensando di ritrovare sicurezza nel suo sonno tranquillo. Invece lei era sveglia e lo guardava.

– Cos’hai? – gli chiese sottovoce.

– Mi sono sentito morire – rispose, anche lui a voce bassa, – ma adesso è passata.

– Abbiamo fatto la scelta giusta, vedrai – disse lei come se gli avesse letto nella mente. Allungandosi gli prese una mano, e il tepore e la morbidezza della sua pelle scacciarono gli ultimi brandelli d’ansia.

– Ci aspetta una nuova vita, una vita migliore – continuò decisa.

– Lo so, ne abbiamo parlato tante volte. Non farci caso.

Avrebbero continuato a rassicurarsi l’un l’altra se all’improvviso non si fosse diffuso in cabina il suono intermittente e acuto di un segnale di allarme. Le luci lungo il corridoio aumentarono d’intensità e gli indicatori di cinture allacciate presero a lampeggiare. La cabina riprese vita mentre gli adulti bloccavano le proprie cinture e poi si occupavano dei bambini più piccoli, gli passavano le fasce imbottite sopra le spalle e gliele fissavano sul davanti con un clic. Quando finirono gli scatti metallici si spense anche l’allarme.

– Abbiamo raggiunto l’altitudine di lancio – comunicò una voce dagli altoparlanti. – Un minuto all’accensione. Siete pregati di rimanere con le cinture allacciate.

Mattia non aveva sentito niente e continuava a dormire con la testa appoggiata di lato; adesso, mentre i sedili ruotavano all’indietro per portarsi in posizione orizzontale, il padre lo scosse piano e lo chiamò più volte finché non aprì gli occhi. – Mattia stanno per accendere i razzi – annunciò con un sorriso. Gli prese la mano in una stretta calda e rassicurante poi, voltandosi, afferrò anche quella di Manuela con sua figlia.

Disteso con lo sguardo al soffitto grigio e piatto, in attesa di sentire il rombo dei motori, chissà come, gli tornò alla mente quella pianura perduta, laggiù sulla Terra.

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