Anonima scrittori


Intervista a David Grossman - parte I

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture
Postato da: Torquemada

Sono stato a vedere David Grossman a Orvieto, domenica pomeriggio. Un vero e proprio spettacolo di un’ora e mezza in cui l’autore non si è limitato a parlare del suo ultimo libro – ‘Ad un cerbiatto somiglia il mio amore’ – ma è andato ben oltre, regalando importanti aneddoti sul suo modo di scrivere, sul fondamentale ruolo che hanno i personaggi che crea, sul suo modo di intendere la scrittura e su tante e tante altre cose. Intorno alle 20, al termine della presentazione, la sensazione che rimane è quella di aver assistito ad un evento, di aver ascoltato un grandissimo della letteratura mondiale, unico effetto collaterale: per uno che scrive, o che vuole provarci a farlo sul serio – mi capita la stessa cosa nell’assistere alla fase creativa di Pennacchi –, c’è solo la tentazione di lasciar stare. E’ come mettersi a contemplare l’Everest dal campo base dopo essere riuscito a scalare, al massimo delle tue possibilità, la Semprevisa. Senza perdere altro tempo, vi riporto quanto segnato nei miei appunti.

L’intervista è stata fatta dagli organizzatori dell’incontro, in particolare dai responsabili della Libreria dei Sette a Orvieto che, pare, siano di Formia.


L’ultimo romanzo, ‘A un cerbiatto somiglia il mio amore’, è il frutto di cinque anni di viaggio, di scoperta interiore, oltre che di duro lavoro. Come è arrivata a trasformarsi l’idea iniziale?

Capisco che c’è una storia quando c’è qualcosa che mi lavora dentro. All’improvviso non riesco a dormire e mi metto a camminare in continuazione. Per l’ultimo libro ho percorso in totale circa 500 chilometri. E’ la sensazione fisica diversa a indicarmi che è in arrivo una storia, devo solo cercare di mettermi seduto e capire di quale storia si tratti. Perché, all’inizio, c’è solo una vaga idea di fondo. Devo lavorare tanto affinché l’idea prenda corpo e diventi una storia. Scrivo, riscrivo e continuo a scrivere. E ogni volta che rivedo la storia è come se mi levassi un velo da dosso. Il finale, però, non lo voglio sapere, voglio che si scriva da solo. Così come, durante la fase di scrittura, arriva a scriversi da sola la storia. Mi piace, quando i miei libri mi sorprendono, quando arrivano addirittura a tradirmi. Provo una grande soddisfazione, quando arrivo a scrivere qualcosa che mi porta in un posto in cui ho il terrore di andare, dove non ho mai nemmeno osato avvicinarmi. Perché un buon libro, a mio avviso, deve essere molto più intelligente e generoso dello scrittore che lo scrive.

Perché ha scelto di rendere protagonista del suo ultimo libro una donna?

Ci sono due ragioni per cui ho scelto di rendere una donna protagonista. In primis perché all’interno di una donna qualsiasi, israeliana in particolare, c’è un meccanismo sofisticato che si evidenzia in storie di guerra. Per natura la donna è più fedele alla maternità che alla Patria. Questo la rende più sovversiva di un qualsiasi uomo. Se più persone riuscissero ad avere lo stesso istinto, forse il mondo sarebbe migliore. E pare che l’istinto di cui parlo abbia anche delle basi scientifiche. Sembra, infatti, che le donne, anche dopo aver partorito, conservino dentro di se alcune cellule dell’embrione. Ma c’è anche un’altra ragione, di carattere più generale. Ho scelto una donna perché, in tutta la mia opera, la scrittura diventa anche un importante esercizio per capire gli altri, non in maniera superficiale, ma dal ‘di dentro’. Quando ho scritto il romanzo che stiamo presentando, ero Orah (la protagonista, ndcA). Dovevo sapere dal di dentro cosa voleva dire essere lei. Immaginare come può cammiare, muoversi, interagire con gli altri, fare l’amore. E’ un privilegio che abbiamo solo noi scrittori, entrare in così stretta sintonia con i personaggi, anche se sono così diversi da noi. Nella vita reale non vi riusciamo così spesso, perché manteniamo sempre una certa distanza dagli altri. Nei miei libri ho cercato di mettere sempre al centro di un mio romanzo il cosidetto ‘altro’: un vecchio nazista, un palestinese, una donna. Per me è stato molto difficile in alcuni frangenti, basti pensare all’esempio del palestinese o del nazista. Persone che più distanti da me non posso immaginare. E’ la maniera per entrare nel flusso della vita, perché dobbiamo iniziare a smettere di creare barriere. Basti pensare a quanti soldi spendiamo per rimanere sempre uguali a noi stessi, vista l’attenzione che abbiamo per le frontiere, quando la vera ricchezza nasce dal confronto, dalla contaminazione.

Dal libro passiamo all’attualità. Che opinione si è fatto dell’incontro tra Obama e il primo ministro Netanyahu?

L’unica soluzione per la questione israelo-palestinese, tant’è che la definisco inevitabile, è la creazione di due Stati, uno accanto all’altro. Ed è necessario che tutte e due le parti abbiano delle garanzie ben precise. Il signor Netanyahu forse, in fondo al cuore, desidera che Obama gli imponga di procedere con la creazione dei due stati. La vicenda è molto complessa ed è difficile sentenziare vivendo a migliaia di chilometri di distanza. Per quanto desideri che i palestinesi abbiano uno Stato e possano riuscire a vivere una vita dignitosa, desidero anche per noi israeliani un futuro di serenità in Medio Oriente. Credo che questo ci permetterebbe di rivolgere le notre potenzialità altrove. Questa della pace è una grande opportunità, una strada nuova. Con la forza e la potenza che ha raggiunto Israele, possiamo permetterci di chiudere questo conflitto. Per voi è difficile capire, sono 60 anni che vivete in pace. Noi non sappiamo più com’è una vita normale, siamo vittime di questa condizione da tanto, troppo tempo. Lo Stato di Israele, paradossalmente, è stato istituito per permettere a tutti gli ebrei di evitare ogni tipo di persecuzione, ma oggi sembra non essere ancora possibile. Eppure avremmo molto da regalare ad una regione martoriata come il Medio Oriente. Credo che dovremmo lottare con più forza per conquistare quella serenità che sogniamo da generazioni.

Come definisce il suo rapporto con due altri grandi scrittori israeliani, Amos Oz e Abraham Yehoshua?

Siamo amici. Scherzosamente ci chiamiamo i tre tenori. Tra noi c’è un rapporto molto stretto, sia a livello umano che a livello artistico. Ad esempio ci fidiamo a tal punto l’uno dell’altro da leggere i manoscritti in anteprima, per cercare un confronto, critiche, consigli. Certo, questo non vuol dire che siamo uguali. Ci sono una miriade di sfumature tra noi. Io, ad esempio, vengo considerato quello più di sinistra. Non abbiamo mai nascosto, in passato, la nostra condanna per alcuni atteggiamenti del governo israeliani, come non nascondiamo mai la condanna nemmeno per il comportamento delle frange estreme palestinesi. Cerchiamo, più semplicemente, di vedere la realtà dal nostro punto di vista. Anche se, per amor della verità, le conversazioni più interessanti non riguardano la politica, ma la letteratura.

[CONTINUA]


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